Giustizia: troppo lento il cammino contro la pena di morte di Tiziano Resca Avvenire, 15 marzo 2014 Due episodi accaduti negli ultimi giorni dovrebbero risvegliare qualche coscienza su una piaga che una parte del nostro mondo cosiddetto civile continua ad alimentare e che un’altra parte continua a condannare quasi solo a parole, come se non ci fossero alternative a quella "spiacevole necessità". È una delle più orribili strade che una società moderna possa intraprendere: la condanna a morte. L’uccisione di un uomo in nome della legge". Il primo caso arriva dagli Stati Uniti. Un nero oggi sessantaquattrenne è stato scarcerato dopo aver trascorso 26 anni nel braccio della morte. Era stato condannato alla pena capitale nel 1984, riconosciuto colpevole di omicidio. Una storia mai chiarita a fondo, nella quale - dice oggi qualcuno - spuntarono anche elementi dai contorni razzisti. Sbattuto nel braccio della morte nel 1988, ha trascorso gran parte della vita attendendo che si stagliasse davanti a lui la sagoma del boia. Martedì scorso un giudice ha ribaltato tutto e l’ha scagionato. Niente iniezione letale e ritorno a casa, dove l’uomo ha trovato ad attenderlo un adulto: suo figlio, quello che aveva lasciato ancora bambino. Pare che ora abbia diritto a 300mila dollari di rimborso per i trent’anni che gli sono stati rubati. Mille dollari per ogni mese passato faccia a faccia con la morte. Il suo caso non è l’unico: negli Stati Uniti negli ultimi 40 anni sono stati 144 i condannati alla pena capitale riconosciuti innocenti dopo aver convissuto a lungo in una cella col fantasma del boia. La seconda notizia è simbolizzata da una fotografia che arriva dall’Iran e che rappresenta il terrore sui volti di due ventenni mandati a morte per una rapina da pochi euro. In quel Paese - dice un rapporto diffuso da un’organizzazione umanitaria-lo scorso anno il boia ha colpito 687 volte, quasi il 20 per cento in più del 2012. Ciò che più fa riflettere è che la maggior parte di queste esecuzioni sono avvenute dopo l’elezione di Hassan Rohani, il presidente nel quale si confida per una riapertura al dialogo con l’Occidente. Sono due episodi di questi giorni che potrebbero perdersi tra moltissimi altri simili. Perché nei 21 Paesi che ancora praticano la pena di morte ci sono - secondo Amnesty International - circa 680 esecuzioni l’anno. Con l’incognita della Cina, dove il ricorso al boia è tristemente facile ma per la quale non esistono dati attendibili. Unico elemento che apre alla speranza: anche se a piccoli passi, sono sempre meno numerosi i Paesi che ritengono di far giustizia uccidendo uomini. I ripensamenti ci sono, ma il cammino è ancora troppo lento. Ha scritto un condannato a morte alla Comunità di Sant’Egidio, in prima linea anche nella battaglia per la vita - qualunque vita - e i diritti umani: "Grazie per essere stato mio amico. Grazie per il tempo della tua vita che mi hai dedicato. Sappi che è stata la tua amicizia a fare la differenza". Se anche gli Stati vogliono lare la differenza, non possono più permettersi un cammino troppo lento. Giustizia: Radicali inviano documento all’Onu "Italia inadempiente su fronte diritti umani" Adnkronos, 15 marzo 2014 Carceri sovraffollate, Cie, reato di clandestinità, reato di tortura, durata dei processi. È lungo, secondo i Radicali, l'elenco delle inadempienze dell'Italia sul fronte dei diritti negati o non riconosciuti. Al punto che il Partito Radicale si è rivolto alle Nazioni unite per "chiedere conto della patente e permanente illegalità costituzionale. Il Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito ha inviato oggi alle Nazioni unite di Ginevra un documento contenente 19 domande per il Consiglio dei diritti umani in vista della cosiddetta Revisione Periodica Universale (Upr) che interesserà l'Italia per la seconda volta ottobre prossimo (la prima era quattro anni fa)". Il Partito Radicale, si legge in un comunicato, "ha corredato le proprie domande con informazioni per gli Stati Membri delle Nazioni unite per dimostrare come le varie informazioni e rassicurazioni elaborate del governo negli anni per giustificare la propria inazione di fronte alla sistematica e strutturale violazione dei propri obblighi internazionali derivanti dall'aver ratificato decine di documenti in materia di diritti umani". Il documento, spiegano i Radicali, "parte dalla paralisi istituzionale di fronte alla sentenza pilota della Corte europea sui diritti umani e affronta per temi questioni relative ai trattamenti inumani e degradanti nella carceri, l'irragionevole durata dei processi, la mancanza di legislazione o applicazione di leggi esistenti relativamente al reato di tortura, il permanere del regime di 41 bis, l'ergastolo e l'ergastolo ostativo, l'istituzione di un'istituzione indipendente sui diritti umani, le detenute madri, la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, il reato di clandestinità, la conversione dei centri di identificazione ed espulsione in certe regioni in centri di prima accoglienza". Il Partito Radicale, concluse il comunicato, ha poi chiesto che venga chiesto all'Italia chiarimenti relativi alla mancanza di una legge quadro che elimini le discriminazioni per le persone Lgbti, i disabili e i Rom, tutte questioni sulle quali le promesse hanno sempre concluso l'impegno italiano di rispetto pei diritti umani di milioni di persone". Giustizia: riforme e magistratura, gli allarmi di Pigliatone e Santacroce di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2014 La giustizia ritrova un’anima comune nella presentazione in Cassazione del libro "L’onere della toga" di Lionello Mancini. Giovedì scorso ne hanno parlato il presidente della Corte Suprema, Giorgio Santacroce, il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il vicepresidente del Csm Michele Vietti. Si accenna all’attesa per la riforma della giustizia annunciata dal premier Matteo Renzi. Dice Michele Vietti: "Sono pronto a concedere anche luglio (Renzi aveva parlato di giugno prossimo, n.d.r.). Prendiamoci le vacanze e il tempo per studiarla, se nel frattempo viene fatta". E il vicepresidente del Csm interviene anche sul tema della separazione delle carriere dicendosi favorevole "a mantenere l’unità tra giudici e pubblici ministeri. Della polemica sulla separazione delle carriere non ne sento più parlare. Vedremo se a giugno ce la ritroveremo". Ma nel dibattito risaltano anche le vere e quotidiane priorità, di politica e di amministrazione giudiziaria. La corruzione, innanzitutto. "Molto oculata" secondo il presidente della Cassazione è la scelta di Raffaele Cantone a capo dell’autorità anticorruzione. Ma poi Santacroce sottolinea che non basta: la corruzione è senza dubbi "il problema più pressante posto dall’Europa". E indispensabile, rimarca, intervenire "sul calcolo della prescrizione". Serve anche "una nuova disciplina del falso in bilancio e l’introduzione dell’auto riciclaggio. Ci aspettiamo che il governo Renzi venga incontro a queste esigenze". Giuseppe Pignatone non si fa sfuggire l’occasione per rappresentare, cifre alla mano, l’emergenza del lavoro degli uffici inquirenti romani. I procedimenti accusatori in attesa di un’udienza al tribunale della capitale "sono 34.434, una situazione inaccettabile". Certo, ci sono anche casi come "una denuncia per truffa da 18 euro". Ma il punto è che si è rivelato inevitabile, secondo il procuratore capo di Roma, "stabilire delle cosiddette file intelligenti" per "trattare le cause in ordine di importanza". Stante la mole mostruosa di arretrati, Pignatone ha inviato nei giorni scorsi una circolare proprio per definire criteri di priorità nella definizione delle cause davanti al giudice monocratico. La verità brutale, una causa fondamentale di questa situazione - e dei rimedi che il capo di una procura come quella di Roma è costretto a prendere - sta in realtà in un fatto banale. Ma definito da Pignatone "un vero scandalo: dal 1999 non si assume in nessun ufficio giudiziario una unità di personale amministrativo". A Roma, va aggiunto, come in ogni altra procura d’Italia. Il blocco del turn over nella procura capitolina ha ridotto il personale, i circa 500 addetti sono diminuiti di circa 90 unità andate in pensione "e il nuovo organico è stato definito su questa base, con una riduzione di quasi il 20 percento" dal 2008 al 2013. Senza dimenticare che "il lavoro giudiziario non è diminuito, anzi è in crescita - osserva il procuratore -per la tendenza a introdurre nuovi reati". E Santacroce ha aggiunto che spesso i tanto sbandierati interventi normativi di depenalizzazione "cancellano reati di cui si è persa del tutto la memoria". L’effetto di queste norme, insomma, è quasi risibile. Nel dibattito Pignatone e Santacroce conservano toni pacati. Sullo sfondo c’è sempre il segno di una passione che resta in loro inconfondibile e si specchia, di riflesso, nelle storie di cinque pubblici ministeri coraggiosi raccontate da Lionello Mancini. Ma nei due alti magistrati traspare anche, discreta ma riconoscibile, la sottile amarezza di una condizione di lavoro sempre più difficile, quasi sfibrante. Giustizia: Clemenza e Dignità; tempi stretti impediscono soluzioni alternative a indulto www.imgpress.it, 15 marzo 2014 "Se non interverranno delle riforme importanti sul piano normativo, delle riforme in grado di restringere l’area del penale e di ridimensionare il ruolo dominante del carcere quale punizione, in seguito e nello spazio di pochi anni, si presenteranno delle ulteriori emergenze come questa, in cui si dovrà fare ricorso nuovamente all’amnistia o all’indulto. Detto questo, è chiaro che le misure finora prese dal nostro Paese contro il sovraffollamento delle carceri, sono insufficienti, ed è chiaro, anzi è ictu oculi, che a questo punto, a poco più di 60 giorni dal termine ultimo imposto dall’Europa, solo i provvedimenti clemenziali sarebbero in grado di normalizzare molto velocemente la situazione dei nostri penitenziari." È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, responsabile di Clemenza e Dignità. Giustizia: ma perché solo in Italia gli evasori fiscali non vanno in carcere? di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2014 Se vuole evitare che il suo secondo incontro a tu per tu (il primo da premier) con Angela Merkel diventi la solita passerella inutile e provinciale di un politico italiano in gita premio, Matteo Renzi dovrebbe chiedere alla Cancelliera qualche dettaglio sul caso di Uli Hoeness: l’ex campione del mondo di calcio e presidente del Bayern Monaco che si è appena dimesso da ogni incarico dopo la condanna in primo grado a 3 anni e mezzo di carcere per una frode fiscale da 27,2 milioni. Condanna che ha deciso di non appellare ("in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità personale"), ammettendo in lacrime la sua colpa, evitando di intasare la Giustizia con ricorsi pretestuosi e preparandosi ad andare in galera, dove dalla prossima settimana sconterà la pena per intero (lì si usa così). Confrontando il caso Hoeness con il caso Berlusconi - condannato sette mesi fa per lo stesso reato in tre i gradi di giudizio a 4 anni, di cui 3 indultati, ancora a piede libero, anzi padre ricostituente e prossimo candidato alle elezioni europee - il premier potrebbe trarre utili spunti per le riforme del fisco e della giustizia, da lui annunciate per maggio e giugno (del 2014, pare). Se Hoeness fosse italiano, griderebbe al complotto ordito dagli avversari del Borussia e del Leverkusen, invocherebbe la presunzione d’innocenza fino alla Cassazione, si imbullonerebbe alla poltrona, ricorrerebbe in appello in attesa della sicura prescrizione e/o condono, che poi gabellerebbe per assoluzione, e si butterebbe in politica. Invece è tedesco e va in galera, anche perché condono, indulto, amnistia, concordato e scudo fiscale sono termini intraducibili nella sua lingua. Così come la parola prescrizione (almeno nella demenziale versione italiana, che non parte quando viene scoperto il delitto, ma quando viene commesso, e continua a galoppare per tutto il processo, anche dopo due condanne). Chissà se è un caso che la Germania sia la locomotiva d’Europa e l’Italia il fanalino di coda. Due mesi fa, come ha rivelato Gian Antonio Stella sul Corriere , è uscito il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit penal, curato da due docenti dell’Università di Losanna, sulle carceri d’Europa e dintorni. I dati del 2011 dicono che nelle carceri italiane risiedono solo 156 detenuti per crimini economici e fiscali: un decimo della media europea (0,4 contro 4,1%) e un cinquantacinquesimo della Germania, che ne ha 8.601, più dei reclusi per rapina e per percosse, quasi quanti quelli per traffico o spaccio di droga. Nessun paese ne ha meno di noi, anche se noi abbiamo il record europeo dell’evasione, anzi proprio per questo. "I colletti bianchi incarcerati in Italia - scrive Stella - sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi". Ci umiliano persino paradisi fiscali come Montecarlo e Liechtenstein, rispettivamente col 23 e il 38,6% di detenuti per delitti finanziari. In Italia, com’è noto, un evasore fiscale non riesce a varcare il portone di un penitenziario neppure se insiste: evadere paga, infatti evadono circa 10 milioni di contribuenti su 40. Renzi è a caccia di coperture per le sue mirabolanti promesse. E ha appena ottenuto dalle Camere la Delega fiscale, praticamente una delega in bianco al governo. Per riempirla di cose utili, a cominciare dalle manette (vere) agli evasori, chieda alla Merkel come si fa. E magari si faccia raccontare di Klaus Zumwinkel, il top manager che aveva portato le Poste tedesche al successo mondiale: accusato di evasione aggravata, fu prelevato in manette all’alba di un mattino del 2008 da decine di agenti speciali della tributaria che avevano cinto d’assedio il suo villone a Colonia. Se lo spread fra Bund e Bot è calato, quello fra giustizia tedesca e impunità italiota rimane scandalosamente invariato. Prima di "sbattere i pugni in Europa", ammesso che lo faccia davvero, Renzi trovi il modo di sbattere in galera qualche migliaio di evasori. Poi ne riparliamo. Giustizia: la donna che vuole creare l’inferno in terra (usando le biotecnologie) di Fabio Deotto Panorama, 15 marzo 2014 Un gruppo di filosofi sta esplorando la possibilità di sfruttare le biotecnologie per prolungare la pena reale e percepita per i criminali più violenti. Ma le soluzioni proposte sfiorano la fantascienza, e la tortura. Facciamo una conta: alzi la mano chi crede nell’esistenza di un inferno. E non parlo necessariamente di un labirinto di gironi danteschi con fiamme vive e dannati gementi, quanto di una sorta di punizione eterna che possa in qualche modo riportare in asse la bilancia della giustizia a fronte dei crimini più imperdonabili. Io non ci ho mai creduto, ma del resto non credo nemmeno nel paradiso, nel perdono divino e nella gloria dei cieli, ma credo che anche i più acritici tra i baciapile nutrano forti dubbi sull’esistenza di una vera e incontrovertibile penitenza divina. Ebbene, c’è chi sta pensando a come realizzare un inferno in terra che convinca anche i miscredenti come noi che una punizione eterna è possibile, oltre che auspicabile. Nello specifico, Rebecca Roache, filosofa dell’Università di Oxford, sta esplorando, insieme a una squadra di accademici, la possibilità di sfruttare le biotecnologie per infliggere ai peggiori criminali una pena veramente adeguata. "Alcuni crimini sono così efferati che richiedono un lungo periodo di pena, e molte persone sembrano sottrarsi a questa punizione attraverso la morte" spiega Roache al magazine online Aeon "Perciò ho pensato, perché non rendere le condanne a vita ancora peggiori per detenuti particolarmente odiosi, prolungando la loro vita?" Ora, a parte il fatto che ancora non siamo in possesso della tecnologia che ci consenta di prolungare la nostra vita per decine d’anni, se non secoli (parliamo di un orizzonte molto lontano, in realtà), la questione mostra il fianco a una serie di perplessità. Ad esempio: è proprio vero che allungando la vita a un ergastolano rendiamo la sua pena peggiore? Che utilità sociale può avere, a fronte del costo necessario, chiudere un individuo in una cella per decenni e decenni? Ma soprattutto: se lo scopo di una pena è davvero infliggere una punizione il più pesante possibile, tanto varrebbe trasformare l’ergastolo in 20 o 30 anni di tortura continua, no? Quest’ultima è una provocazione, naturalmente, ma non fatevi sentire troppo che Roache e colleghi potrebbero prendervi sul serio. Scartata - per ovvie ragioni - la possibilità di infiggere pene eterne ai detenuti, il team si sta concentrando sulla possibilità di prolungare la pena "percepita" dei detenuti, utilizzando farmaci che alterino la percezione del tempo. "Esistono una serie di sostanze psicotrope che distorcono nelle persone il senso del tempo, perciò possiamo immaginare di sviluppare una pillola o un liquido che faccia sentire un individuo come se stesse scontando una pena di 1000 anni" continua Roache "Naturalmente, è opinione comune che qualsiasi intromissione nelle funzioni cerebrali di una persona sia inaccettabilmente invasiva. Ma non è detto che bisogni per forza interferire direttamente con l’attività cerebrale". Roache suggerisce una serie di soluzioni, come ad esempio trasformare ogni cella in un ambiente volutamente inospitale, utilizzando l’illuminazione e la musica per rendere inaccettabile passare del tempo in un simile ambiente (in una parola, ancora una volta: tortura). Anche se, parole sue, secondo Roache un’opzione efficace sarebbe sviluppare dei farmaci che amplifichino la sensibilità e la percezione emozionale, in modo da costringere chimicamente i galeotti a confrontarsi con il rimorso e l’autocommiserazione (sempre che ne abbiano un minimo). Giustizia: la storia di Dante, detenuto senza reato… salvato dalla musica di Cinzia Marongiu www.spettacoli.tiscali.it, 15 marzo 2014 "La mia è una storia di musica e giustizia, perché io, la musica ce l’ho nel sangue. E la giustizia anche". Così si legge nell’incipit del suo libro Storia ordinaria di un uomo ordinario (Volo Libero ed.). Così viene anche riportato nel suo album, Via Gleno. E in effetti riuscire a parlare con Dante Brancatisano, in arte Dante, di musica senza parlare di carcere e di una vicenda giudiziaria che ha dell’incredibile è un’impresa impossibile. Tanto vale raccontarla subito, anche perché lui, Dante, che ora vive a Lugano, ha urgenza di gridarla a tutti: "Vivo a Lugano perché avevo bisogno di allontanarmi da un Paese dove ho subito una serie incredibile di persecuzioni. Il detenuto senza reato: così mi chiamavano i miei compagni di carcere. Tre anni e 25 giorni senza aver commesso nessun reato, da quando la notte dell’8 aprile 2003 sono stato svegliato dai poliziotti che mi hanno arrestato". L’accusa era quella di essere il nuovo capo emergente della ‘ndrangheta a Milano. "Un’accusa folle nella quale mi sono trovato dentro solo per aver accettato nella mia scuola di musica in Calabria un ragazzino che era figlio di uno indicato come boss. Ma che vuol dire? Nella mia scuola c’erano anche figli di poliziotti. La mia era una struttura pubblica". E invece da allora è iniziato una lunga vicenda giudiziaria che tra condanne in primo e secondo grado, sentenze della Corte di Cassazione che invece annullano tutto per incompetenza territoriale, non è ancora finita. Nuovi pm e nuovi giudici ma in altri tribunali. Non più Milano, ma Reggio Calabria. "Vivo sospeso. L’ultima udienza c’è stata due anni fa. La prossima? E chi lo sa? Nel frattempo la mia vita è stata distrutta. Avevo 39 anni quando mi hanno arrestato, oggi ne ho quasi 50. Chi mi restituisce quello che non ho più, quello che non ho avuto? Una famiglia, ad esempio. A quale donna potrei chiedere di condividere una vita del genere?". Sono domande amare che Dante pronuncia con molta rabbia: "Il nostro sistema giudiziario fa acqua da tutte le parti. Finché non ci sarà la separazione delle carriere tra pm e giudici non ci potrà essere giustizia. E poi vogliamo parlare del sovraffollamento? In una cella di 1,50x1,80 metri stavamo in tre, nel carcere di massima sicurezza di Bergamo. Ma come si può vivere in quel modo? È ovvio che la lite ci scappa. La presunzione di innocenza da noi è lettera morta". Voglio tornare in Italia - La serenità che ha il sapore della salvezza per Dante è sempre passata attraverso il mondo della musica che ora si manifesta attraverso questo disco rock, via Gleno, dal nome della strada, manco a dirlo, dove si trovava il carcere in cui ha vissuto per oltre tre anni. Pezzi graffianti, ma anche divertissement che solo chi è stato privato della libertà può davvero apprezzare: "Nel brano Dove si va racconto del gioco che facevamo io e Umberto, un altro detenuto, durante l’ora d’aria: ci chiedevamo che cosa avremmo fatto quella sera. "Guardo la tv e tu?"; "no, io mi sa che vado al bar". Un gioco innocuo che attraverso l’immaginazione ci ha permesso tante volte di uscire oltre le sbarre". E ora? "A Lugano ho aperto una scuola, Il villaggio della musica. Qui vicino vivono mia sorella, mio cognato, i miei tre nipoti. Ma mi manca l’Italia e il mare. E il nostro casino. Qui a Lugano dopo le 22,00 non c’è vita. La musica la puoi suonare solo sottovoce, se esci con una chitarra quasi ti arrestano. Sono 7 anni che non vado in Calabria e che non vedo i miei genitori: loro stessi non vogliono, preferiscono che stia lontano piuttosto che ritrovarmi impigliato in qualche storia allucinante. A breve però tornerò in Italia per lavorare al mio nuovo disco. Ho già il singolo pronto: Sono ancora qui". Lombardia "Articolo ventisette", Agenzia per la promozione del lavoro penitenziario di Cristina Coglitore www.linkiesta.it, 15 marzo L’agenzia dal 2009 promuove i progetti e l’osservatorio. Oggi l’opera del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria lombarda si avvale anche del sito del lavoro penitenziario della Regione che nel 2013 ha avviato al lavoro 9152 persone. Suo obiettivo è garantire quanti più posti di lavoro possibile dentro le carceri per rispettare il mandato dell’art.20 della legge 354/1975 che determina la garanzia di lavoro alle persone in esecuzione penale detentiva. L’Agenzia è costituita dal personale dell’ufficio dei detenuti e trattamento del Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Lombardia. Il sito espone con grande chiarezza le cooperative che operano in Lombardia, i servizi che ognuna è in grado di fornire, i progetti con diverse aziende, Expo, l’acceleratore d’impresa del Comune di Milano. Il sito www.lavoropenitenziario.lombardia.it è stato creato per sensibilizzare sui temi del recupero sociale attraverso il lavoro e poter promuovere servizi e prodotti al fine di generare un terreno fertile per le produzioni carcerarie. L’articolo 27 della Costituzione ricorda che lo Stato ha il dovere di attuare l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in modo da tendere alla rieducazione della persona. Firenze: Consiglio provinciale approva Mozione su carcere Sollicciano e Opg Montelupo www.provincia.fi.it, 15 marzo 2014 Il Consiglio provinciale ha approvato una Mozione della Commissione Politiche sociali "sulla situazione degli istituti penitenziari della Provincia di Firenze e sull’Opg di Montelupo Fiorentino", che recepisce anche alcuni emendamenti proposti da Massimo Lensi (radicale, nel Gruppo Misto) e Caterina Conti (Pd) e invita il Comune di Firenze ad avviare con urgenza la procedura per la nomina del nuovo garante comunale dei diritti dei detenuti. Nel documento, richiamate le modifiche legislative con la finalità di affrontare le questione connesse al sovraffollamento carcerario contenute nel Decreto cancellieri, la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Fini-Giovanardi, la mozione sulle carceri messa a punto dalla Commissione giustizia e votata dall’aula della Camera a seguito del messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si sostiene la riduzione dell’applicazione delle pene detentive in carcere e l’estensione dell’utilizzo delle pene non detentive, il ricorso all’espiazione delle pene nei Paesi di origine per i condannati di nazionalità non italiana, senza escludere il ricorso a provvedimenti di clemenza eccezionali quali amnistia e indulto. Circa l’Opg si chiede di superare senza altri indugi l’attuale situazione di incertezza derivante dalla mancata applicazione della legge circa il definitivo superamento dell’Opg di Montelupo, senza attendere ulteriori proroghe, anche attraverso la creazione di piccole strtuture terapeutiche territoriali. Il Consiglio provinciale di Firenze invita la Presidenza del Senato della Repubblica, organo competente, di operare il dissequestro, così come richiesto dal garante regionale e dalla direzione dell’Opg, della sezione collocata al piano terra, "completamente rinnovata e assurdamente non resa disponibile per le esigenze di una più equilibrata distribuzione delle persone internate". A favore della mozione si sono espressi Pd, Sel, Progetto Toscana-Idv, Rifondazione comunista e Lensi (radicale, nel Gruppo Misto). Contraria la Lega Nord. Astenuto il Pdl. Col documento, pensando alla riforma delle Province, si esprime preoccupazione per l’allocazione delle competenze in materia assegnate finora dalla Provincia di Firenze. Viterbo: continua il tour dell’Ugl Polizia Penitenziaria per dare voce agli "eroi silenziosi" www.viterbonews24.it, 15 marzo 2014 Iniziativa della Ugl Polizia Penitenziaria denominata "L’Ugl dà voce agli eroi silenziosi - Effetti dello stress da lavoro correlato sul servizio della Polizia Penitenziaria" dopo le tappe di Torino e Milano, arriverà alla Casa Circondariale di Viterbo. Una delegazione della federazione, guidata dal segretario nazionale Giuseppe Moretti, incontrerà il personale, gli esponenti dell’amministrazione e delle istituzioni locali per verificare ed analizzare le problematiche lavorative e gli aspetti socio-economici degli operatori di Polizia operanti nelle carceri, costretti ad espletare il proprio difficile mandato istituzionale in condizioni di evidente criticità organizzativo-gestionale, dovute all’endemico e persistente sovraffollamento, alla fatiscenza delle strutture detentive e alla carenza organica. "La campagna di sensibilizzazione intrapresa dalla nostra organizzazione - spiega Moretti - dimostra chiaramente la necessità, specie dopo gli ennesimi tragici eventi, di porre in essere concrete iniziative progettuali con l’obiettivo di offrire al personale, anche attraverso la costruzione di appositi spazi al riparo dalla frenetica quotidianità penitenziaria, opportunità di confronto ed occasioni di riflessione sui gravi danni psico-fisici prodotti dallo stress da lavoro". "Crediamo infatti - conclude il sindacalista - che la realizzazione di un diverso approccio organizzativo e gestionale orientato a garantire il benessere del personale non solo favorirebbe l’operatività quotidiana, ma consentirebbe di abbattere quei disagi che, inducendo negli operatori penitenziari tensioni e conflitti, sfociano troppo spesso in situazioni problematiche sotto il profilo sanitario, operativo e professionale". Sassari: "giallo" di San Sebastiano, a breve le risposte sulla coperta della morte di Erittu La Nuova Sardegna, 15 marzo 2014 Entro il 15 aprile il perito Francesco Maria Avato e i consulenti della difesa dovranno depositare le note scritte in replica alla consulenza (che aveva chiesto il pm Giovanni Porcheddu) di Roberto Demontis, del Dipartimento di Medicina legale di Cagliari. Si è conclusa con questa disposizione del presidente della corte d’assise Pietro Fanile l’udienza di ieri nel processo per la morte sospetta di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. La corte si è ritirata in camera di consiglio per sciogliere la riserva su alcune richieste della difesa, tra cui una perizia psichiatrica su Bigella (il reo confesso del delitto che ha indicato Pino Vandi come mandante), un sopralluogo nella cella di Erittu, una perizia sulle lettere minatorie che Bigella avrebbe ricevuto. Tutte rigettate. Fanile, in merito alla relazione depositata da Demontis (successiva alla perizia di Avato che avvalorava nella sua analisi tecnica l’ipotesi del suicidio), ha chiesto alle parti di rinunciare al contradditorio considerato che Avato potrebbe tornare a Sassari solo a maggio e i tempi si allungherebbero eccessivamente e ha invece proposto ai periti di presentare eventuali controdeduzioni in forma scritta. Intanto l’avvocato Agostinangelo Marras (che difende l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna) ha preannunciato alla corte che all’esito della perizia di Armando Badiani (l’esperto che dovrà stabilire se la striscia di tessuto che Marco Erittu avrebbe utilizzato per uccidersi provenga o meno dalla coperta sequestrata nella sua cella) presenterà un’istanza in base all’ex articolo 507 (integrazione probatoria). Catanzaro: libri in dono ai ragazzi dell’Ipm, iniziativa dell’Associazione Universo Minori www.catanzaroinforma.it, 15 marzo 2014 Tra le tante iniziative svolte dall’ Associazione " Universo Minori", la presidente Rita Tulelli ed il vice- presidente Vittorio Miceli, hanno donato nel pomeriggio di ieri, al Direttore delle Carceri Minorili di Catanzaro Francesco Pellegrino molti libri, di vario genere per i giovani detenuti. Presente all’ incontro anche il Nunzio Lacquaniti, persona molto attenta alle tematiche sociali. L’Associazione ci tiene ad affermare che i ragazzi vengono arrestati perché hanno commesso azioni criminali e punibili dalla legge, ma ascoltandoli è facile capire che hanno alle spalle situazioni difficili, di abbandono, di violenza fisica e psicologica, di sfruttamento e soprattutto provengono da ambienti in cui regna la microcriminalità. Nelle carceri minorili i ragazzi reclusi studiano," per questo - si legge in una nota - la nostra volontà di donare libri, che spaziano dalla storia, alla geografia, alla Bibbia per ragazzi, ai romanzi, alla letteratura, ai pensieri di Fabio Volo autore che i giovani apprezzano in particolar modo. Siamo dell’ opinione che entrare in un libro vuol dire intraprendere un viaggio nella memoria proiettata al futuro, dove la realtà diviene meno vivida e concreta, ma più soffusa e particolareggiata, tanto da stimolare l’attenzione del lettore e permettergli di uscire dai suoi luoghi comuni e conosciuti e di liberarsi verso altri pensieri. Ci auguriamo che una volta scontata la pena i ragazzi vengano reintegrati nel tessuto sociale e che abbiano dei valori in cui credere". Modena: "Il teatro entra in carcere", progetto di Emilia Romagna Teatro Fondazione www.modena2000.it, 15 marzo 2014 La situazione carceraria in Italia pone con forza all’attenzione dell’opinione pubblica, un tema alquanto spinoso e rispetto al quale non si può restare indifferenti: il sovraffollamento dei detenuti e le generali condizioni di vita all’interno degli istituti non permettono, nella maggioranza dei casi, il processo di recupero al quale deve essere finalizzata la pena. Il teatro, in quanto strumento che può contribuire alla formazione del cittadino, può svolgere un ruolo importante anche come elemento del trattamento penitenziario. Da queste semplici premesse nasce, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale "Sant’Anna" di Modena, il progetto "Teatro entra in carcere" che si propone di offrire ai detenuti occasioni di incontro con il teatro e i suoi protagonisti. Alcuni importanti interpreti della scena teatrale italiana, ospiti in questa stagione al Teatro Storchi ed al Teatro delle Passioni, fra cui Sandro Lombardi, Fausto Russo Alesi e la Compagnia di Teatro dell’Elfo per lo spettacolo La discesa di Orfeo, hanno infatti accolto l’invito ad entrare in carcere per parlare di teatro e per presentare gli spettacoli che li vedranno protagonisti nelle due sale modenesi ed ai quali avranno modo di assistere alcuni detenuti. Inoltre, la Prof.ssa Cristina Valenti, Docente di teatro all’Università di Bologna e Direttore Scientifico dell’Associazione Teatro Carcere dell’Emilia-Romagna, illustrerà ai detenuti, anche attraverso l’uso di filmati, le esperienze più significative dei laboratori teatrali tenuti in alcune carceri della nostra Regione (Castelfranco Emilia, Ferrara, Bologna), oltre che nel carcere di Volterra, dove è stata fatta, a livello nazionale, l’esperienza più significativa in questo ambito. Si tratta di esperienze che hanno visto la partecipazione attiva dei detenuti nel ruolo di attori ed hanno portato alla realizzazione di spettacoli alcuni dei quali, oltre che all’interno delle carceri sono stati rappresentati per il pubblico in alcuni Teatri. Il progetto prevede anche, da marzo a giugno, presso la sala teatro del carcere di Sant’Anna, una rassegna teatrale composta da quattro titoli per permettere ad un maggior numero di detenuti il contatto diretto con lo spettacolo e gli artisti. La rassegna ha avuto inizio sabato 8 marzo con Don Giovanni in carne e legno: sul palco l’esito di un’interessante ricerca scenica che fonde il linguaggio delle "guattarelle", burattini tipici della tradizione napoletana, alle maschere della commedia dell’arte. Secondo appuntamento martedì 8 aprile con Overture des saponettes, spettacolo di clownerie, pantomima e musica, un ‘concerto’ fatto non di note bensì di bolle di sapone. Si prosegue martedì 6 maggio con Le avventure dei musicanti di Brema, la cui trama parte da interrogativi quasi paradossali che rovesciano la nota fiaba dei Fratelli Grimm: e se gli animali uscissero dalla loro favola, o se la continuassero fino ai nostri giorni, se si perdessero nelle nostre città che storia racconterebbero? Conclude la rassegna, martedì 3 giugno, "Working in the sky with diamonds", il gruppo teatrale "Bassa Manovalanza" proporrà una lettura sui Beatles muovendosi fra celebri canzoni, biografia, saggistica e storia dei fab four. Al termine del progetto verranno raccolte le impressioni dei detenuti su questa prima esperienza al fine di valutarne, assieme alla Direzione del carcere, la prosecuzione nell’autunno prossimo. Rimini: a piedi da Loreto al Vaticano… il viaggio di due finanzieri a sostegno dei marò www.altarimini.it, 15 marzo 2014 Mercoledì 19 marzo è la data di partenza di una manifestazione benefica, organizzata a sostegno dei due marò attualmente detenuti in India e ancora in attesa di giudizio, che dovrebbe concludersi domenica 30 marzo a Roma al cospetto di Papa Francesco. Per dare un forte segnale di solidarietà ai due marò e alle loro famiglie è stato infatti organizzato un cammino particolare di ben 290 km a piedi all’insegna della fede: il percorso che attraverserà l’Appennino Marchigiano, Umbro e Laziale, avrà infatti origine dal Santuario della Madonna di Loreto, toccherà la Basilica di Santa Rita da Cascia per terminare nella Città del Vaticano, dove gli organizzatori della maratona, Nicola Antonio Cinquepalmi e Domenico Gallo, dovrebbero venire accolti da Papa Francesco. Obiettivo prioritario di questa maratona benefica, e di tutti coloro che la sosterranno, è la speranza che l’iniziativa possa in qualche modo sensibilizzare la bontà del popolo indiano e delle sue Istituzioni, affinché nel giudicare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone possano essere indulgenti. L’idea di andare a fare visita al Santo Papa è di Antonio Cinquepalmi e del suo amico e collega Domenico Gallo, entrambi marescialli della Guardia di Finanza, che percorreranno a piedi in pochi giorni il lungo cammino insieme a tutti coloro che vorranno unirsi a loro. È probabile che altri rappresentanti delle forze dell’ordine decidano di prendere parte all’iniziativa. Grazie al prezioso contributo di Pino Palmieri, maresciallo della Guardia di Finanza in servizio a Roma presso il Comando Interregionale per l’Italia Centrale, è già stata inoltrata alle autorità ecclesiastiche del Vaticano una missiva per far giungere la notizia di questa iniziativa al Santo Padre. In vista dell’evento Antonio Cinquepalmi è riuscito inoltre a prendere contatti con Vania Ardito, moglie di Salvatore, e Paola Moschetti, compagna di Massimiliano Latorre, che hanno apprezzato l’iniziativa tanto da condividerla e sostenerla. Anche le due donne sperano di essere accolte dal Santo Papa insieme ad Antonio e Domenico quando giungeranno nella Città del Vaticano al termine del loro cammino religioso. L’iniziativa è sostenuta dai Lions di Novafeltria al quale Antonio si è associato in seguito alla sua prima esperienza podistica lungo la dorsale Adriatica della scorsa estate. In occasione di questo evento il Lions Club "Montefeltro" metterà a disposizione un camper che seguirà i due podisti. La manifestazione non ha carattere agonistico, non ha scopo di lucro, né finalità politiche. Savona: al Museo di Garlenda Fiat 500 di sapone realizzata da detenuto www.rsvn.it, 15 marzo 2014 Martedì prossimo avverrà la consegna di un dono speciale al Museo della 500 "Dante Giacosa" di Garlenda. Si tratta di un modellino di 500 unico, fatto interamente di sapone e realizzato da Giosuè Di Gregorio. Cosa rende così speciale questo oggetto? Oltre all'ottima fattura e all'inconsueto materiale utilizzato per la sua realizzazione, questo oggetto racconta la storia di una persona che ha un trascorso difficile. Si tratta di Giosuè, un detenuto alcamese di 44 anni, ex commerciante molto conosciuto nel circondario di Trapani, che per quelle strane e tortuose vie della vita, si è trovato in un brutto giro che lo ha portato a dover scontare una lunga pena carceraria. 500 sapone 2Giosuè però è una persona ingegnosa e paziente e nelle lunghe giornate passate in carcere, scopre di avere una passione, quella di costruire oggetti usando solo il sapone, la farina, l’acqua e materiale di recupero. Tempo fa creò un crocefisso di sapone che poi ha donato a Mons. Fragnelli, Vescovo di Trapani. Ed è così che viene notato da due fratelli, entrambi poliziotti penitenziari, entrambi appassionati della Fiat 500. Scatta qualcosa nella mente del Fiduciario di Trapani del Club 500, Salvatore Grignano che chiede il permesso di fare realizzare un modellino di nuova Fiat 500 degli anni ’60 al detenuto, per donarla al Museo Multimediale della 500 di Garlenda. Ed è così che inizia la costruzione della piccola opera d’arte, con il fratello Giacomo Grignano, sottufficiale della Polizia Penitenziaria, che porta il sapone, i colori e le foto della 500 in ogni suo particolare. Il detenuto Di Gregorio, pazientemente e giorno dopo giorno, curando nei minimi particolari il modellino, riesce a creare qualcosa di bello, degno di essere esposto in un Museo. Prima di imbarcare il modellino per Savona, la 500 è stata esposta alla Sala Teatro della Casa Circondariale di Trapani, in occasione di due incontri dibattito tenutisi tra detenuti e alunni delle scuole trapanesi di ogni ordine e grado, suscitando grande entusiasmo tra alunni e docenti. La 500 di sapone è ora in viaggio verso la Liguria, dove giungerà, accompagnata dai fratelli Grignano, martedì 18 marzo per la consegna ufficiale nelle mani di Ugo Giacobbe, conservatore del Museo della 500 "Dante Giacosa" alla presenza del presidente fondatore Domenico Romano e del vicepresidente Alessandro Scarpa. Un plauso va ai due fratelli Grignano, amanti delle 500 che hanno saputo coniugare la loro passione per la mitica automobile con l’impegno profuso nel lavoro, valorizzando il detenuto e nel contempo mettendo in atto quanto previsto dai regolamenti in materia di attività risocializzanti. Droghe: cannabis e detenuti, il Governo rimanda la questione al Parlamento di Laura Eduati L’Huffington Post, 15 marzo 2014 Sulla cannabis e le conseguenze dell’abrogazione della Fini-Giovanardi il governo alla fine decide di non decidere, e l’unica novità è il ripristino delle tabelle ministeriali che includono le cinquecento sostanze stupefacenti che rischiavano di tornare legali dopo la cancellazione della legge contro le droghe: molto poco rispetto alle aspettative della vigilia. Al termine del Consiglio dei ministri di questa mattina Beatrice Lorenzin (Ncd) ha ripetuto più volte che le nuove tabelle non costituiscono un ritorno alla legge in parte smantellata dalla sentenza della Corte costituzionale, come invece paventato nelle scorse ore dai fautori della legalizzazione come Luigi Manconi. Dunque le droghe leggere e le droghe pesanti rimangono separate, nessun colpo di mano del centrodestra che avrebbe voluto mantenere la Fini-Giovanardi. Allo stesso tempo sul tavolo di Palazzo Chigi i democratici hanno preferito non sciogliere i nodi giuridici creati dalla cancellazione di alcuni articoli della legge anti-droga, in primo luogo il problema dei condannati in via definitiva per possesso e spaccio di droghe leggere che ora si trovano a scontare una pena considerata illegittima. Il ministro alla Giustizia Andrea Orlando (Pd) sarebbe molto favorevole a una interpretazione benevola, dando la possibilità a migliaia di detenuti - circa diecimila secondo i calcoli delle associazioni - di uscire presto dal carcere con un ricalcolo della pena. Per i tecnici di via Arenula si tratta di semplice "buon senso", soprattutto tenendo conto che la Corte europea di Strasburgo si attende una soluzione del sovraffollamento dei penitenziari entro maggio e la misura andrebbe nella stessa direzione dello svuotacarceri. Nonostante si desse quasi per certo che in queste ore Renzi e Orlando avrebbero spinto per risolvere il caos delle sentenze emesse durante la Fini-Giovanardi, o anche l’incongruità delle pene sulla lieve entità, all’ultimo l’anima dem del governo ha preferito lasciar perdere. "Si tratta di una questione delicata" ha spiegato Beatrice Lorenzin (Pd) al termine del consiglio dei ministri, negando l’esistenza di scontri con il ministro Orlando. Di fatto le fondamentali "questioni penali" legate alle droghe vengono rimpallate al Parlamento, così come l’eventuale decisione di riunire nella stessa categoria le sostanze leggere e quelle pesanti. A meno che la questione - spinosissima - non venga definitivamente affrontata attraverso un confronto interministeriale nei prossimi due mesi. Rimane dunque una profondissima spaccatura tra democratici e Nuovo Centro Destra, che molto probabilmente porterà a una difficile battaglia parlamentare durante la riconversione del decreto legge emanato oggi. Al varco coloro che reputano la cannabis meritevole di tornare nella categoria delle droghe pesanti: l’alfaniano Giovanardi in primis, ma anche una buona parte di Forza Italia. Droghe: nuove tabelle sugli stupefacenti, intervento per decreto del governo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2014 Il Governo ha messo mano per decreto alla normativa antidroga, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato parte delle legge Fini-Giovanardi. Il Consiglio dei ministri di ieri ha cosi rimodulato le tabelle, come ha sottolineato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, per reintrodurre le 500 nuove sostanze inserite negli ultimi anni e cancellate per effetto della sentenza della Consulta (tutte quelle sottoposte a controllo in attuazione di convenzioni internazionali ed anche le nuove sostanze psicoattive introdotte sulla base delle nuove acquisizioni scientifiche negli ultimi anni, precisa il comunicato del Governo). Intanto, operatori delle tossicodipendenze e associazioni non si sbilanciano, mentre sul fronte politico Sei grida al "tentativo di sabotare la sentenza della Consulta e reintrodurre la Fini-Giovanardi". Lorenzin, in conferenza stampa, ha spiegato la ratio del decreto. Un provvedimento la cui gestazione parrebbe non essere stata proprio tranquilla: nel Governo si sarebbero confrontate le posizioni di chi avrebbe voluto rimettere la cannabis tra le droghe cosiddette pesanti, come era con la legge del 2006 dichiarata incostituzionale dalla Consulta, e di chi invece, sulla scia della precedente legge rientrata in vigore dopo la sentenza, la Iervolino-Vassalli, voleva la marijuana distinta da cocaina ed eroina. Lorenzin non si è sbilanciata, limitandosi a dire che il Governo è intervenuto "solo per il ripristino delle tabelle riferite alla disciplina amministrativa, perché si era creato un vuoto dopo la sentenza della Corte Costituzionale". "Per la parte penale e per una riconfigurazione dei reati, rinviamo a un approfondimento sia in sede interministeriale che parlamentare", ha aggiunto. Al momento, quindi, nulla cambia sotto il profilo penale, che resta inalterato, come spiegano anche dal ministero della Giustizia: l’assetto delle sanzioni resta quello definito dalla legge Iervolino-Vassalli, con pene comprese tra i 2 e i 6 anni di carcere per le droghe leggere e tra 8 a 20 anni per le pesanti. Resta anche il reato di lieve entità cosi come previsto dal decreto Cancellieri cosiddetto "svuota-carceri", con pene da 1 a 5 anni di reclusione, ma senza distinzione tra tipologie di droghe. Caute le reazioni degli operatori del settore. Federserd che riunisce gli operatori dei Sert (i servizi pubblici per le dipendenze), si dice "in preoccupata attesa del testo del decreto e delle tabelle" e chiede "una legge moderna che divida il diritto alla cura dalle sanzioni" e che tenga conto del fatto che non tutte le sostanze hanno la stessa pericolosità sulla salute. Sul fronte politico, se Carlo Giovanardi plaude alla "decisione saggia" del Governo, Sei e il suo leader, Nichi Vendola, contestano l’intervento per il fatto di avere voluto intervenire su tabelle che in realtà erano già previste dalla Fini-Giovanardi e non sulle 4 allegate alla legge precedente. Droghe: Antigone; distinguere tra "leggere" e "pesanti", o carceri continuano a riempirsi Ansa, 15 marzo 2014 "È necessario un intervento legislativo che distingua in modo netto droghe leggere da droghe pesanti cosa che oggi ancora non è". Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti dei detenuti, dopo le misure decise dal Consiglio dei ministri. "Circa il 40% dei detenuti - spiega Gonnella - è dentro per una imputazione o condanna relativa alla violazione delle norme sulle droghe. Il fatto che Carlo Giovanardi sia un pezzo della maggioranza non deve condizionare un percorso di riforme che guardi in avanti. A maggio la Corte europea ci condannerà centinaia di volte per tortura, qualora ricominciassimo a riempire le galere di consumatori". Gonnella ricorda inoltre che "il 27 marzo verrà in visita in Italia Barack Obama" e suggerisce: "si riascoltino le sue parole ragionevoli sulle droghe leggere. Si guardi a come il Colorado ha deciso di legalizzarle. Si sottragga il tema all’ideologismo penale. Invitiamo tutti i parlamentari, gli uomini e le donne dello spettacolo, delle professioni, della cultura a fare outing, a dire che anche loro da giovani o non da giovani hanno consumato marijuana o hashish. Invitiamo tutti a distinguere tali sostanze dall’eroina, dalla cocaina, dalle droghe sintetiche. Altrimenti tratteremo milioni di ragazzi innocenti come criminali". "Infine si ascoltino le parole di quei giudici che ci dicono come la proibizione sia un regalo alla criminalità organizzata" conclude Gonnella. Stati Uniti: perché il Paese sta scivolando sul piano inclinato della "giustizia vendicativa"? di Mattia Ferraresi Il Foglio, 15 marzo 2014 Gli americani inorridiscono all’idea del trattamento dei prigionieri nella Russia di Vladimir Putin o nella Cina del Politburo. Sono pronti a scendere in piazza per difendere i diritti umani violati dei carcerati altrui, simbolo definitivo dell’orrore di regimi levantini e di crudeli satrapie basate sulla repressione e su primitive punizioni corporali. Negli anni della guerra al terrore il carcere speciale di Guantánamo, con le sue tute arancioni e le sue leggende nere, si è trasformato nella prova, agli occhi dei custodi dell’ortodossia in fatto di diritti civili, che l’America non era diversa dai nemici che demonizzava. Non era eccezionale né moralmente superiore: era come tutte le altre, e come tale doveva pagare ed emendarsi, chiedere scusa al mondo per le oscenità morali perpetrate e rimettersi alle convenzioni internazionali che tracciano la soglia fra l’umano e il disumano. Quando i detenuti della base cubana hanno iniziato un massiccio sciopero della fame, quel sentimento di empatia e bisogno di giustizia è affiorato una volta ancora. Ma questo era il caso isolato ed eclatante, lo scandalo internazionale delle anime belle, di quelli che riempiono le piazze e muovono la coscienza degli editorialisti per un tempo inevitabilmente limitato. Poi perfino un giurista nero di Harvard cresciuto alla scuola politica di Chicago può trovarsi a razionalizzare l’orrore in nome della ragion di stato. Difficilmente l’aspetto quotidiano del sistema carcerario americano scatena un simile vibrare di passioni civili, eppure la realtà è piuttosto pervasiva. In America il sistema penale è una gigantesca macchina che contiene 2,4 milioni di persone, circa il 25 per cento dei detenuti di tutto il mondo. Nella classifica dei carcerati in rapporto alla popolazione gli Stati Uniti sono stabilmente primi con 716 detenuti ogni 100 mila abitanti. Per rendere l’idea, la Russia ne ha 484, l’Iran 284, l’Italia 108, la Germania 80. Un impiegato statale su nove lavora in una prigione, e ci sono parti degli Stati Uniti in cui la Pubblica amministrazione investe più fondi nel sistema carcerario che in quello educativo. Esiste una vasta letteratura intorno alle carceri americane, alla genesi del sistema e al loro utilizzo, di solito animate da tesi che dovrebbero spiegare perché a un certo punto della storia americana il numero dei detenuti è esploso e la popolazione carceraria ha preso a crescere secondo un trend apparentemente irreversibile. "Prison Nation", volume di Tara Herivel e Paul Wright apparso ormai più di dieci anni fa, propende per la spiegazione socioeconomica, sostenendo che il carcere in America è diventato lo sgabuzzino dove sbattere i poveri per toglierli dalle strade. Altri studiosi del sistema criminale dicono che la tendenza è iniziata quando hanno cominciato a mettere al fresco persone disturbate che avrebbero bisogno di essere curate, non di essere punite. C’è chi legge il fenomeno attraverso la lente della discriminazione razziale (il caso di scuola è quello del crack, che costa poco ed è molto popolare fra gli afroamericani, il cui consumo per decenni è stato punito con sentenze enormemente più severe rispetto alla più borghese e bianca cocaina) e chi s’appella alla rigida etica puritana e ai roghi di Salem. Altri ancora fanno risalire tutto alla stretta di Nelson Rockefeller, governatore dello stato di New York che per mostrarsi inflessibile agli occhi dei repubblicani più puri che lo consideravano un semi-traditore introdusse leggi severissime sulla droga. È stato allora, negli anni Settanta, che l’America ha iniziato a punire con dosi massicce di carcere anche i criminali non violenti. Il libro "Inferno: An Anatomy of American Punishment" di Robert Ferguson, da poco uscito in America, cerca di fare un passo in più rispetto alle migliaia di analisi condotte con metodo sociologico, alle considerazioni strettamente legali e alle osservazioni fatte di numeri e tabelle alle quali tende a sfuggire sempre qualcosa alla radice. Si tratta di un’anatomia non del sistema carcerario, ma del concetto di punizione, faccenda a tal punto connotata da sporgenze filosofiche da indurre una considerazione molto più generale: "Il modo in cui puniamo i criminali dice molto riguardo al modo in cui concepiamo noi stessi". Non un giudizio particolarmente lusinghiero sul modo in cui l’America concepisce se stessa. Ferguson, professore alla Columbia di una disciplina crossover intitolata Law, Literature, and Criticism ha il vantaggio di essere un ibrido accademico. La sua analisi dialoga con i teorici classici della punizione, con il codice penale, con i dati intorno alla riabilitazione dei prigionieri e agli effetti di lungo periodo di certe pratiche punitive, ma anche con Kafka, Dostoevskij, Dante, Hugo, Aristotele e Bentham, mettendo in piedi un’indagine con dichiarate ambizioni antropologiche: "La punizione, dopo tutto, è dettata tanto dal carattere di chi punisce quanto dal quello di chi è punito". È impossibile, per Ferguson, afferrare fino in fondo le strutture e i meccanismi racchiusi nel sistema carcerario senza porsi una domanda fondamentale: "Chi siamo? La domanda è particolarmente pertinente in un momento in cui definizioni innovative di ‘sé’ e della ‘gentè hanno preso a dominare il dibattito psicologico e politico in un paese che cambia. Nuove possibilità potrebbero essere considerate, non fosse altro perché il castigo dipende da concezioni relativamente incompiute circa la natura umana e i suoi bisogni". In gioco, scrive Ferguson, c’è la possibilità per gli americani di ritrovare i "better angels of our nature" a cui si appellava Abraham Lincoln nel suo discorso inaugurale per evitare la guerra con gli stati secessionisti del sud. Guardando il sistema carcerario americano oggi di quegli angeli non si trova traccia, e non è soltanto un fatto che riguarda i legislatori, gli avvocati o i professori di diritto penale, ma un intero popolo che interiormente si ribella al maltrattamento di prigionieri lontani mentre è assuefatto agli analoghi trattamenti praticati sotto casa. "Perché il cittadino americano medio mostra pochissima preoccupazione riguardo a un sistema carcerario che nella pratica è più duro di quello di qualunque altro stato, esclusi i regimi totalitari?", si chiede Ferguson. Occorre un viaggio negli abissi reconditi della coscienza personale e di un intero popolo per abbozzare una risposta, e non a caso il titolo fa riferimento alla discesa dantesca, itinerario necessario per accedere al cielo della beatitudine. In fondo alla coscienza americana per la punizione è radicata un’idea di giustizia "vendicativa", scrive Ferguson, ordinata allo scopo di diminuire lo status umano dei prigionieri, di disumanizzarli, di passare dal "hai sbagliato, dunque meriti di essere punito" a "sei intrinsecamente malvagio". Non c’è un nesso logico cogente in questo passaggio, nota l’autore, ma esiste una deriva psicologica che trasforma l’oggetto della punizione in un criminale irredimibile. Il perverso piacere psicologico che il carceriere prova nei confronti del carcerato - e vale in qualunque livello della vita in cui si eserciti un minimo di potere sull’altro, non solo nelle prigioni con le sbarre e il filo spinato - s’innesta su questo processo di disumanizzazione di chi è meritevole di castigo. Dal delitto inteso come caduta e accidente, agostiniana mancanza di bene, si scivola nell’ambito dei giudizi antropologici irreversibili: è il "piano inclinato della giustizia vendicativa", come lo chiama Ferguson, e la prima conseguenza del meccanismo è che in America i detenuti sono tendenzialmente irrecuperabili. La condizione di criminale rimane impressa a vita come una lettera scarlatta. Strano: in una società che rifugge in qualunque ambito della vita privata e pubblica le decisioni irreversibili - sul matrimonio, i figli, l’educazione, il lavoro, l’identità sessuale: tutto deve essere sempre rivedibile, liquido, mai definitivo - i carcerati spiccano come un’eccezione alla regola. "I prigionieri in questo paese sono stati messi da parte, azzittiti, picchiati, tormentati in modo sadico, e soprattutto dimenticati spesso per tutta la loro vita. Sono stati relegati a condizioni, circostanze e a un degrado fisico che li ha umiliati e che dovrebbe umiliare anche noi; e nessuno vuole ammettere questo fatto, anche se l’incapacità di ammetterlo è a sua volta un tratto che ci definisce". Se il quadro dipinto da Ferguson appare sbilanciato su tonalità troppo scure conviene riprendere l’esperimento condotto da Rick Raemish, direttore esecutivo delle carceri del Colorado, che si è fatto rinchiudere per venti ore in una cella d’isolamento. Per venti ore ha sperimentato quello che 82 mila carcerati in tutta America sperimentano ogni giorno. In Colorado un detenuto in regime di isolamento ci passa in media 23 mesi. Per venti ore Raemish è diventato un prigioniero "R.F.P.", removed from population, nascosto alla vista e alla coscienza del mondo, e una volta uscito ha raccontato la sua esperienza in un editoriale apparso sul New York Times. Ha toccato con mano quello che una pletora di studi teorici e su base empirica confermano: l’isolamento aumenta la recidiva, esacerba, incattivisce, realizza il contrario della correzione e del reinserimento che sulla carta propone. Il direttore del carcere queste cose le sapeva anche prima di farsi rinchiudere in una cella d’isolamento. Il suo predecessore, che ha avviato la riforma delle prigioni dello stato, è stato ucciso da una gang criminale da poco scarcerata dopo anni di isolamento. La segregazione, la recisione dei legami sociali è parte integrante del processo di demonizzazione di cui parla Ferguson. È l’ultimo, forse più feroce stadio della giustizia vendicativa, ed è socialmente presentabile in una cultura che non tollererebbe mai, ad esempio, che i prigionieri venissero frustati, picchiati, flagellati o lapidati a scopo correttivo. "Proibiamo la punizione fisica e permettiamo l’isolamento - ha scritto di recente David Brooks, editorialista del New York Times - perché distinguiamo il dolore fisico e quello sociale. Ma a livello della mente, dove il dolore effettivamente risiede, è una distinzione senza una vera differenza". Lo psicologo di Ucla Matthew Lieberman ha dimostrato nei suoi studi - precipitati in un libro divulgativo intitolato "Social" - che il dolore per la mancanza di legami è perfettamente paragonabile al dolore fisico e, anzi, è persino più grave se l’isolamento muove da circostanza punitiva occasionale a pratica sistematica. I detenuti che passano anni in isolamento perdono progressivamente la capacità di relazionarsi con il mondo. Certo, soltanto una piccola percentuale dei prigionieri americani sperimenta il regime d’isolamento, ma il pervasivo sistema della giustizia criminale ha elaborato modi creativi per punire, dallo strapotere concesso ai procuratori ai potenti sindacati dei secondini, passando per l’incapacità della società civile di accogliere chi ha scontato la pena, fino alla proliferazione delle carceri private, che costano meno di quelle pubbliche e funzionano meglio, ma per essere profittevoli devono essere sempre piene. Rosa Brooks, professore di Legge alla Georgetown University, ha fatto un interessante esperimento mentale per valutare la situazione delle prigioni in America. Parte da un’ipotesi: se la galassia carceraria fosse una nazione a parte, separata dagli Stati Uniti (cosa che in un certo senso corrisponde alla realtà) che tipo di paese sarebbe? Come lo classificheremmo? Rispetterebbe standard di vita che consideriamo accettabili per una democrazia occidentale? Sarebbe uno stato con una popolazione simile a quella della Namibia ma con un tasso di crescita demografica pari al doppio di quello dell’India; sarebbe densamente popolato e con un’alta incidenza di malattie croniche, a maggioranza decisamente maschile, e con un altissimo tasso di immigrati, visto che il 70 per cento dei detenuti americani è in carceri che sono a oltre cento miglia dal luogo in cui vivevano prima della condanna. La "incarceration nation" costa ai contribuenti 74 miliardi di dollari l’anno e impiega oltre 800 mila persone, ma per i detenuti ai quali è concesso di lavorare lo stipendio è paragonabile, nel peggiore dei casi, a quello di un operaio tessile del Bangladesh (23 centesimi all’ora), e nel migliore a quello di un omologo cinese (1,35 dollari l’ora). Il sistema educativo di questo paese immaginario è tendenzialmente inesistente, cosa che complica ulteriormente la vita dei suoi abitanti una volta ritornati nel paese d’origine. Sono numeri che descrivono quel processo di disumanizzazione dei prigionieri sviscerato nelle sue implicazioni antropologiche e culturali da Ferguson, il quale s’avventura anche in una pars construens. "La vita di chi viene punito deve continuare a essere percepita come degna di essere vissuta". Per realizzare questa riforma d’impostazione culturale suggerisce alcuni criteri pratici: "Evitare la sofferenza non necessaria e la degradazione per ricordare a tutti che chi è imprigionato è una persona. Occorre recuperare un basilare riconoscimento reciproco: il legame umano fra chi punisce e chi è punito". Appunti per un’ipotesi di risalita dall’inferno. Svizzera: carceri piene, si pensa di spostare i detenuti in prigioni nel sud della Germania www.cdt.ch, 15 marzo 2014 Aggirare il problema del sovraffollamento carcerario esportando i detenuti svizzeri oltre confine: è l’idea emersa all’interno della Conferenza dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia (Cddgp). In particolare viene considerato il sud della Germania. "Perché non approfittare di prigioni mezze vuote situate nei Paesi circostanti?", ha detto questa sera Charles Juillard, il presidente della conferenza latina dei direttori di giustizia e polizia all’edizione principale del telegiornale della televisione svizzero romanda Rts. Il ministro giurassiano ha precisato che la Ccdgp sta esaminando gli aspetti legali di un tale passo. Chiamato a commentare l’idea della Cddgp, il consigliere di stato ginevrino Pierre Maudet ha indicato, nel corso della stessa trasmissione, di trovarla "seducente". Il problema del sovraffollamento concerne in particolare la prigione ginevrina di Champ-Dollon dove si contano circa 850 detenuti per 376 posti. L’Ufficio federale di giustizia non ha al momento ricevuto alcuna domanda formale da parte della Ccdgp, secondo la Rts. Siria: ribelli chiedono liberazione 2mila detenuti, per rilascio 94 alawiti rapiti sette mesi fa Nova, 15 marzo 2014 I miliziani ribelli chiedono la liberazione di 2 mila detenuti per rilasciare 94 alawiti rapiti sette mesi fa a Latakia. Secondo quanto riporta il giornale "al Quds al Arabi", per la liberazione di 94 tra donne e bambini appartenenti alla comunità alwaita, la stessa del presidente siriano Bashar al Assad, i ribelli islamisti hanno chiesto il rilascio di 2 mila detenuti dell’opposizione dalle carceri del regime siriano. La richiesta è avvenuta dopo lo scambio dei giorni scorsi tra il Fronte al Nusra e il regime per la liberazione delle suore rapite a Maalula in cambio di decine di detenuti a Damasco. Intanto, un esponente dell’Esercito siriano libero (Esl) ha rivelato ieri che circa 3 mila combattenti delle milizie qaediste dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis) si sono rifugiati nelle montagne nel centro della Siria. Questa area sarebbe stata scelta dai combattenti jihadisti per via della conformazione del territorio simile all’Afghanistan, conflitto dal quale sono reduci diversi miliziani dell’Isis. Nigeria: Boko Haram attacca carcere, fuggono decine di detenuti Agi, 15 marzo 2014 Membri del gruppo islamico Boko Haram hanno attaccato stamani una caserma di Maiduguri, nel nordest della Nigeria, e hanno liberato "decine" di detenuti. Lo ha detto una fonte militare all’Afp. I ribelli "hanno avuto accesso alla caserma" di Giwa che, ospita una prigione, e "hanno liberato numerosi decine di membri" di Boko Haram. Il portavoce delle forze armate Chris Olukolade ha confermato che "numerosi insorti sono fuggiti" ma non ha saputo dire se si trattasse di "prigionieri o degli assalitori". L’attacco è stato lanciato la mattina presto: testimoni oculari hanno parlato di miliziani, pesantemente armati e con esplosivi, che, dopo essere penetrati in città arrivando dal fiume, hanno attraversato i quartieri residenziali, sparando ai civili e appiccando il fuoco a diverse abitazioni. Al momento, non ci sono conosce ancora il numero delle vittime. I guerriglieri hanno quindi usato l’esplosivo per penetrare nel compound militare e far evadere i detenuti dal carcere. Dalla vicina università, gli studenti hanno sentito diverse esplosioni e il continuo crepitare di armi da fuoco. Proprio stamane, Human Rights Watch aveva lanciato l’allarme, sottolineando che nel 2014 Boko Haram ha già lanciato oltre 40 attacchi che hanno fatto quasi 700 morti. La regione nord-orientale del Paese è quella più pesantemente colpita, in stato d’emergenza dal maggio scorso, da quando le forze armate hanno lanciato una vasta offensiva per eliminare i miliziani. Circa 300mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case. L’organizzazione internazionale ha chiesto al governo un maggior impegno per sostenere quelli maggiormente colpiti dalle violenze. La maggior parte degli attacchi, infatti, avviene in villaggi in zone remote. Algeria: tre detenuti in gravi condizioni di salute, dopo 11 giorni di sciopero della fame Nova, 15 marzo 2014 Tre detenuti della prigione di Serkadji, in Algeria, versano in gravi condizioni di salute a causa dello sciopero della fame degli ultimi undici giorni. A riferirlo sono i familiari dei tre detenuti, fra cui figura Belalma Abdulaziz che soffre di diverse patologie croniche. Abdulaziz di recente ha inviato una lettera al ministro della Giustizia algerino, Tayeb Belaiz, per fare presente che si trova in galera dal 16 febbraio 2010 pur essendo solamente accusato e non condannato, insistendo sul principio della presunzione di innocenza di un imputato sino a che il tribunale non lo sancisce.