Giustizia: l’impresa di trasformare le "carceri della vergogna" in "carceri della speranza" www.nelpaese.it, 13 marzo 2014 Pietro Grasso non usa mezzi termini per la situazione carceraria. La conferma dai dati e dalle analisi, mentre si provano alternative "Il giorno dell’approvazione in Senato della legge sul voto di scambio politico-mafioso, essenziale per combattere la criminalità organizzata e i suoi rapporti con la politica, è stato per me davvero emozionante. Dobbiamo però fare di più. Spero si chiuda presto, in commissione Giustizia, la discussione sul ddl che ho presentato nel mio primo giorno da senatore che contiene norme contro la corruzione, il riciclaggio, l’auto-riciclaggio e il falso in bilancio. Penso infine alla disumana condizione dei detenuti: occorrono soluzioni di sistema per trasformare le "carceri della vergogna" in "carceri della speranza". Credo si debba insistere sulla depenalizzazione dei reati minori, sulla promozione di misure alternative al carcere, sulla lentezza dei processi". Lo ha scritto su Facebook il presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha iniziato un dialogo con chi lo segue sui social network per tracciare un bilancio del suo primo anno alla presidenza di Palazzo Madama. La seconda carica dello Stato ha confermato la situazione che da anni è denunciata dalle associazioni per i diritti dei detenuti. La fotografia è quella ormai insostenibile per il nostro Paese. Su Micro Mega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ha scritto: "L’Italia è al trentacinquesimo posto in Europa per l’efficienza del sistema giudiziario. Se si considera che i Paesi complessivamente monitorati sono quarantadue si può ricavare che non siamo proprio messi bene. Lo studio è il frutto di una elaborazione dell’Ufficio Statistico del Ministero della Giustizia che usa quali parametri di riferimento il Rapporto Doing Business della Banca Mondiale e il rapporto European Judicial Systems, realizzato dalla commissione del Consiglio d’Europa specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari". I dati Si allunga la lista delle morti in carcere: in 48 ore sono stati in tre a togliersi la vita. Due erano detenuti, nelle carceri di Lecce e di Biella, e il terzo era un poliziotto penitenziario in servizio nel carcere di Volterra. L’aggiornamento viene dall’Osservatorio permanente delle morti in carcere, che riunisce diverse associazioni, secondo cui dall’inizio del 2014 sono undici i detenuti e due gli agenti di polizia penitenziaria che si sono suicidati: Daniele Piroddi, 47enne, e Mario Ferrara, 46enne di Novara, entrambi assistenti capo. Stilando un bilancio degli ultimi tre anni la lista delle persone morte in carcere conta 188 detenuti e 26 poliziotti suicidi. I casi registrati nel 2014 di detenuti suicidi riguardano tutti italiani (con una sola eccezione), in larga parte deceduti per impiccagione. Il più giovane aveva 33 anni, si chiamava Angelo Amuso, era detenuto a Poggioreale ed è morto in seguito ad asfissia il 19 febbraio. Il più anziano, Francesco di Francesco, aveva 53 anni, era detenuto a Rebibbia e si è impiccato il 5 gennaio. Scorrendo la lista con i nomi riportati dall’Osservatorio si leggono i nomi di moltissimi istituti penitenziari, da Nord a Sud. Tra gli istituti maggiori, Napoli conta 13 decessi di detenuti (tra Poggioreale e Secondigliano), 7 Roma (di cui 5 a Rebibbia), Firenze e Torino, 6 Padova (tutti eccetto uno nella casa di reclusione), 5 a Palermo, 4 a Milano nel carcere di Opera. L’impiccagione è il metodo in assoluto più adottato: in 132 si sono tolti la vita così. Alternative Dal prossimo anno accademico, l’università di Milano-Bicocca avrà degli studenti speciali: i reclusi del carcere di Opera e di Bollate. I professori dell’ateneo milanese hanno presentato oggi i corsi ad un centinaio di detenuti della media sicurezza della struttura di Opera. Da ottobre si potranno iscrivere a qualunque corso pagando 480 euro di tassa regionale da versare all’iscrizione. "Tra loro 18 lo scorso anno si sono iscritti privatamente all’università", spiega il direttore della casa di reclusione Giacinto Siciliano. "Tra due-tre anni spero che si arrivi ad averne anche trenta. Ora l’importante era cominciare", aggiunge. Il diritto allo studio sancito dall’articolo 34 della Costituzione è garantito anche per chi sta dietro le sbarre. "È un modo importante per far pensare i detenuti in modo differente. Quello che scatta è un diverso meccanismo culturale", continua Siciliano. Insieme ad Opera, parteciperà anche il carcere di Bollate alla sperimentazione. I reclusi potranno assistere alle lezioni dei loro corsi via Skype e a volte potranno partecipare a lezioni frontali di professori che si recano nella struttura. Come fa da un anno Alberto Giasanti, che insegna a 25 reclusi al corso "Le forme della mediazione dei conflitti". Insieme a loro, partecipano 33 studenti dell’università. "Mi colpisce che gli studenti mi abbiano detto che non si sentono dentro un carcere, è un dato importante", spiega il professore. Non un caso la scelta della materia: imparare a gestire i conflitti è il primo passaggio per la rieducazione all’interno del carcere. Alla base della convenzione ateneo-carcere c’è l’accordo stretto il 28 giugno scorso dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e l’università Bicocca. Aldo Fabozzi, provveditore regionale, sostiene che "potrebbero arrivare studenti-detenuti anche da fuori regione per partecipare alle lezioni". In tutta Italia sono poche le realtà che stanno percorrendo questa strada di convenzioni con le università. Già in corso c’è solo a Torino, dove gli studenti universitari del carcere, a febbraio 2014, sono 28. Dal ‘98 ad oggi a Torino si sono laureati in 30 e altri 10 arriveranno al capolinea quest’anno. Dal 2000 un’esperienza simile esiste anche al carcere Dozza di Bologna. Giustizia: la riforma è un ordigno, il premier resta sul chi vive… ma sa che deve farla di Cesare Maffi Italia Oggi, 13 marzo 2014 Sono altre le riforme messe in moto o imminenti, quasi ad horas, stando alle promesse e agli impegni del frenetico Matteo Renzi: legge elettorale, cuneo fiscale, piano casa, trasformazione (non si sa ancora come) del Senato. Tuttavia, pur se annunciata per giugno, è stata più di una volta messa in conto la riforma della giustizia. Si sa bene che, quando se ne parla, si dà l’avvio a un assalto mediatico e politico da sinistra, come se riformare la giustizia significasse approvare leggi ad personam a tutela passata o presente o futura di Silvio Berlusconi. Anche all’interno del Pd si sono avvertiti brividi quando Renzi ne ha fatto bisbigliato. Non sono mancati accenti critici al semplice accenno di riforma della giustizia, individuata come merce di scambio nel patto del Nazareno. Insomma: come l’intesa Renzi-Berlusconi prevede l’italicum, la riscrittura del titolo V della Costituzionale e la ristrutturazione di palazzo Madama, così, si sussurra, contemplerebbe altresì una riforma che a Fi sta a cuore più di ogni altra, essendo centrale nel programma elettorale e ripetuta dal Cav quasi in ogni sua apparizione pubblica. Addirittura si è interpretata la nomina del viceministro Enrico Costa, del Ncd, alla Giustizia, soprattutto se letta insieme con il permanere del "sottosegretario tecnico" Cosimo Ferri, come un gentile omaggio di Renzi a B. Sarà, ma il presidente del Consiglio, il quale di solito riesce a captare gli umori della gente (non soltanto dei propri seguaci o degli elettori del Pd, bensì in generale dei cittadini, compresi quei tanti milioni che oggi propendono per la protesta, esprimendola in vari modi, in primis col sostegno al grillismo), capisce bene che né le condizioni colabrodo della giustizia civile, né i disonoranti e avvilenti limiti della giustizia penale, sono tollerati dai cittadini. Urgono risposte concrete ed efficaci, che nulla hanno che vedere con la grazia al Cav o con l’annullamento di qualche suo processo. Renzi, quindi, giustamente inserisce nella propria agenda la giustizia, sicuro di ottenere un pieno appoggio dall’alleato Angelino Alfano e di trovare almeno neutro l’avversario (ma sodale dichiarato sulle riforme) Berlusconi. Semmai, il problema consiste sia nelle molte pagine dell’agenda, sia nell’essere, per ora, il rinnovamento della giustizia una semplice indicazione, priva di contenuti presto (?) tramutabili in leggi vigenti. Giustizia: custodia cautelare da cambiare, la Cassazione annulla solo il 2,3% dei casi di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2014 "Stop alle manette facili" è la filosofia della riforma della custodia cautelare in attesa, proprio in questi giorni, del sì definitivo del Senato. Una riforma "condivisa" perché ha messo d’accordo maggioranza e opposizione, non solo nella prospettiva di alleggerire la popolazione carceraria (il 36% dei 60.500 detenuti è in attesa di sentenza definitiva) ma soprattutto nella convinzione che vi sia un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, come avrebbero testimoniato anche alcuni casi "eclatanti" di cronaca (per esempio quello di Silvio Scaglia, ex Ad di Fastweb, assolto nel 2013 dalle accuse di truffa nell’ambito del processo Telecom Sparkle dopo tre mesi di carcere e nove di domiciliari). Appelli ad un self restraint dei magistrati erano venuti anche dai vertici della Cassazione, sebbene proprio i dati della suprema Corte sembrerebbero smentire un uso troppo disinvolto delle manette, che al contrario superano indenni il controllo finale della Cassazione nella maggior parte dei casi. Nel 2013, infatti, solo il 2,3% dei provvedimenti cautelari è stato annullato senza rinvio con conseguente scarcerazione degli imputati, mentre il 37% (a cui andrebbe aggiunto il 43% dei ricorsi dichiarati inammissibili) è stato confermato e il 15,7% è stato annullato con rinvio (quindi senza scarcerazione). Delle due, l’una: o la Cassazione è troppo cauta nel censurare il ricorso alla custodia cautelare oppure le motivazioni dei giudici sul quadro indiziario che fa scattare le manette sono "rigorose". Certo è che se dalla Cassazione fosse arrivata una linea più restrittiva sul carcere preventivo, forse i giudici si sarebbero adeguati, senza bisogno di una riforma legislativa. Che ora introduce parametri più stringenti per arrestare, facendo della custodia cautelare un rimedio residuale, quando, cioè, "risultino inadeguate" le altre misure coercitive e interdittive previste dall’ordinamento. In particolare, per evitare "abusi", la stretta più significativa riguarda il "pericolo di fuga" e di "reiterazione del reato" dell’indagato: il rischio non dovrà essere solo concreto - com’è oggi - ma anche "attuale". Inoltre, si riduce il margine di valutazione del giudice, che non potrà basarsi solo sulla gravità del reato, ma dovrà tener conto delle modalità e circostanze in cui il delitto ha avuto luogo nonché dei precedenti e del comportamento dell’imputato, motivando il provvedimento in modo "rigoroso". In realtà, già oggi i criteri previsti dal Codice sarebbero stringenti, anche se la giurisprudenza è tollerante. In Cassazione, infatti, le misure cautelari tendenzialmente tengono e, anche là dove non tengono, non sfociano nella scarcerazione (proprio perché l’annullamento con rinvio rimette la palla al giudice di merito senza incidere sullo stato di detenzione). Ovviamente, nel far scattare le manette è fondamentale la motivazione del giudice. Se in un processo per associazione di stampo mafioso la Corte si trova davanti una motivazione zoppa sulla custodia cautelare, è più probabile che annulli con rinvio, per far adeguare la motivazione al quadro indiziario, piuttosto che annulli senza rinvio, escludendo la sussistenza degli indizi dell’associazione mafiosa e scarcerando gli imputati. Nel 2013, le scarcerazioni sono state in totale 60, tenendo anche conto di quelle a seguito di mandati di arresto europeo. E 60 scarcerazioni in un anno, rispetto a circa 4000 ricorsi, è considerato un dato "rassicurante". Scorrendo i dati si nota, tra l’altro, che il 7,8% del totale dei processi definiti si chiude con un annullamento senza rinvio, mentre nel cautelare la percentuale scende al 2,3; e se il 9,9% dei processi viene annullato con rinvio, nel cautelare la percentuale sale a 15,7. Infine, il 15,9% dei processi si chiude con il rigetto dei ricorsi mentre nel cautelare il rigetto sale al 37,5%. Con riferimento ai reati contestati, inoltre, i processi per associazione di stampo mafioso (solo il 3,2% del totale) hanno un’alta percentuale di misure cautelari (22,8%). Per i reati di corruzione, i processi sono il 3,6% del totale e le misure cautelari il 4,5%. Da notare, infine, il picco di misure cautelari, nel 2013, per i reati di riciclaggio (+238,5%), fallimentari (+39,7), immigrazione (+51,7) e anche di corruzione, con un +27,1%. Giustizia: Società Italiana di Psichiatria; in carcere 10 mila detenuti con disturbi psichici Ansa, 13 marzo 2014 Il 16% dei detenuti nelle carceri italiane soffre di disturbi psichici gravi, una quota che rappresenta circa 10 mila detenuti su un totale di 64 mila. Il dato è stato reso noto dal presidente della Società Italiana di Psichiatria (Sip), Claudio Mencacci, durante una conferenza stampa alla Camera per fare il punto sulla questione del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. "Per quanto riguarda i disturbi psichici gravi - ha detto Mencacci - la situazione nelle nostre carceri è drammatica". In particolare, ha spiegato il presidente Sip, "soffre di disturbi psicotici l’1-9% dei detenuti, di depressione il 10-15%, di disturbi di personalità il 35-45%". Mencacci ha quindi citato l’esempio della Regione Lombardia, dove su 8.650 detenuti il 10,56, pari a 911 detenuti, è affetto da disturbi psichiatrici: "Questa - ha sottolineato - è quindi la patologia più diffusa nelle carceri insieme all’uso di sostanze". Ma nonostante tali numeri, ha inoltre rilevato il presidente eletto della Sip, Emilio Sacchetti, "non abbiamo ancora un censimento vero della presenza di soggetti con problemi psichiatrici nelle carceri e questo crea dei problemi al fine della pianificazione dell’assistenza". Altra questione, hanno denunciato gli psichiatri, è che nelle carceri lavorano di solito giovani psichiatri mentre sarebbero necessari specialisti con percorsi professionali più specifici. Il punto, ha commentato lo psichiatra Massimo Di Giannantonio dell’Università di Chieti, "è che non c’è una formazione specifica per gli psichiatri che operano in carcere". Nel 2014 cresce numero suicidi, 40% decessi I primi tre mesi del 2014 fanno registrare un nuovo aumento dei suicidi tra i detenuti delle carceri italiane, con una percentuale pari al 40% del totale dei decessi. A lanciare l’allarme sono i medici della Società italiana di psichiatria (Sip) che questa mattina hanno convocato una conferenza stampa per discutere della situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari. "Dopo il dato positivo del 2013, anno nel quale avevamo registrato una diminuzione dei suicidi, passati dal 40% del 2012 al 30% - ha spiegato il presidente della Sip, Claudio Mencacci - nel 2014 siamo già tornati alle cifre di due anni fa e non vorremmo eguagliare l’annus horribilis 2009, quando si registrarono 72 suicidi nei penitenziari italiani". Proprio per far fronte a questo problema e a quello del disagio psichico dei detenuti e per superare la realtà degli Opg, gli psichiatri della Sip hanno presentato un documento in sette punti che si fonda sulla possibilità e la necessità di "chiudere gli Opg - ha ricordato Mencacci - insieme a una riforma profonda delle misure di sicurezza e alla cancellazione della sociale pericolosità psichiatrica". Giustizia: dalla Società Italiana di Psichiatria una "road map" per superare gli Opg Adnkronos, 13 marzo 2014 Non lasciare nessun detenuto senza cura ma chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani, una categoria di istituti che a metà degli anni 70 ha sostituito i vecchi manicomi criminali, con una road map che garantisca tempi certi. È la proposta lanciata oggi dalla Società italiana di psichiatria (Sip) in una conferenza stampa alla Camera. Le linee guida da seguire per raggiungere l’obiettivo sono - secondo la Sip - il monitoraggio dei percorsi di cura, lo ‘stop’ all’invio di pazienti alle strutture ancora operative, la realizzazione nelle carceri di sezioni dedicate ai malati, l’aumento dell’assistenza ambulatoriale dei dipartimenti di salute mentale nelle carceri. Così da chiudere un Opg ogni sei mesi. Secondo gli psichiatri, in prima linea nell’assistenza sanitaria in carcere, per gli oltre 1.000 detenuti con malattie psichiche che si trovano sottoposti a regime carcerario negli ospedali psichiatrici giudiziari italiani servono tempi brevi e maggiori certezze, ma senza rischi sociali. Esattamente un anno fa il Parlamento votava la chiusura degli Opg entro un anno, ma ad oggi le Regioni ancora non sono pronte e molto probabilmente dovrà essere valutata dal Parlamento una proroga allo stop. "Il superamento culturale e reale dell’Opg - spiega Claudio Mencacci, presidente della Sip e direttore del Dipartimento di salute mentale e neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano - parte proprio con la cancellazione del concetto di sociale pericolosità psichiatrica e quindi con l’abolizione delle misure di sicurezza psichiatriche cosi’ come sono concepite oggi, con gli Opg aperti". "È bene chiarire - continua il presidente Mencacci - che l’intervento dello psichiatra e dei servizi sanitari in generale non è sociale ma diagnostico e terapeutico, cioè rivolto alla difesa e al trattamento delle persone con patologie e solo con risvolti indiretti di difesa sociale, compito del sistema giudiziario. È indispensabile il confronto e il dialogo tra gli operatori dei due ambiti per la realizzazione concreta di questi programmi terapeutici che garantiscano la sicurezza della cura". "Uno dei punti rilevanti dell’attribuzione alla sanità della funzione di esecuzione delle misure di sicurezza - aggiunge Enrico Zanalda, segretario della Sip e direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3 - è che rimangano percorsi di cura. Sosteniamo che si passa dalla misura di sicurezza alla sicurezza della cura, ovvero un percorso di cura vincolato che può iniziare in carcere, proseguire nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), nelle strutture territoriali della salute mentale fino al domicilio, in rapporto alla salute del soggetto e alla sua collaborazione". Infine, secondo Emilio Sacchetti, presidente eletto della Sip e ordinario di Psichiatria dell’Università di Brescia "c’è anche un problema di formazione e omogeneità di valutazione da parte dei consulenti tecnici d’Ufficio (o periti) che dovrebbero conoscere e collaborare con i dipartimenti di salute mentale - conclude - per l’individuazione dei programmi residenziali o domiciliari di trattamento più adeguati da proporre al giudice". Giustizia: De Biasi (Pd): vergognosa proroga di chiusura Ospedali psichiatrici giudiziari Ansa, 13 marzo 2014 "È vergognosa la richiesta di una proroga al 2017 per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), perché questo pone un problema di credibilità delle istituzioni". Lo ha affermato la presidente della Commissione Sanità del Senato, Emilia De Biasi, intervenendo ad una conferenza stampa alla Camera promossa dalla Società italiana di psichiatria per fare il punto sul superamento di tali strutture. "C’è un reato di tortura negli Opg segnalato dall’Europa - ha detto De Biasi - perché le condizioni di vita in tali luoghi sono oltre la civiltà di un Paese. Penso - ha aggiunto - che le Regioni avrebbero potuto muoversi con più celerità ed efficienza". Il 2017, ha rilevato, "è troppo avanti, ma se non si mette mano ai problemi, viaggeremo di proroga in proroga e questo è un grande danno per le persone e la civiltà del Paese". Va poi considerato, ha avvertito De Biasi, che "non si può pensare ad un superamento degli Opg avendo poi a che fare con la miseria dei finanziamenti avuti fino ad oggi per la salute mentale". Il punto, ha aggiunto, è che "bisogna puntare sulla riabilitazione dei soggetti e non sulla loro segregazione". La senatrice ha quindi paventato un rischio: "Il pericolo oggi è quello di ricostruire dei mini Opg attraverso la previste residenze sostitutive; è quindi necessario che la spesa delle Regioni abbia maggiore flessibilità anche verso il rapporto con l’assistenza sul territorio". De Biasi ha infine chiarito che se le Regioni confermeranno la richiesta della proroga al 2017 per la chiusura degli Opg, "penso che si dovrà tornare ad un voto in Parlamento, dato che la precedente data di chiusura al 2014 era stata votata appunto in Parlamento, ma prima - ha concluso - dovrà pronunciarsi il Ministero della Salute". Un processo che deve mettere urgentemente intorno ad u tavolo in una sorta di cabina di pilotaggio tutti i soggetti istituzionali coinvolti: le Regioni, il Governo con i tre ministeri interessati (Ministero della salute, Ministero dell’economia, Ministero della giustizia) e la Magistratura. Domani - ha concluso Lusenti - affronteremo il tema anche nel corso della Conferenza delle Regioni e nelle prossime ore invieremo alla Commissione la documentazione che renderà evidenti gli sforzi finora fatti e le difficoltà procedurali e normative che possono essere affrontare solo in un’ottica di sistema e di concertazione istituzionale". Giustizia: superamento Opg, in Senato audizione delegazione Conferenza delle Regioni Italpress, 13 marzo 2014 "Per raggiungere il traguardo dell’effettivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, occorre lavorare per un profondo cambiamento culturale, basato anche su tempi realistici e scadenze che possano essere davvero essere rispettate". Lo ha detto l’assessore della Regione Emilia-Romagna, Carlo Lusenti, intervenuto oggi, in rappresentanza della Conferenza delle Regioni, nel corso di un’audizione davanti alla Commissione Igiene e Sanità del Senato sullo stato di esecuzione e sulle problematiche attuative della normativa per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, alla quale hanno partecipato anche l’assessore della Regione Piemonte, Ugo Cavallera, e l’assessore della Regione Siciliana, Lucia Borsellino. La legge 9/2012 sancisce la definitiva chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e la istituzione di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, Rems, a totale gestione sanitaria e "tutte le Regioni - ha ricordato Lusenti - hanno presentato al Ministero della salute un proprio programma per la realizzazione delle Rems. Ciò che le Regioni vogliono realizzare non è però un semplice cambiamento di nome con strutture che fanno le stesse cose e con le stesse modalità, ma un modello ed un approccio nuovo di gestione della malattia psichica in determinate condizioni come quelle stabilite dall’autorità giudiziaria. Va infatti ricordato che le previsioni della legge 9/2012 riguardano solamente le persone cui si applica la misura di sicurezza detentiva in Opg. Siamo di fronte ad un processo delicato che dovrà essere opportunamente implementato attraverso il riparto delle risorse di spesa corrente, che prevedono la deroga alle disposizioni di contenimento della spesa del personale". Giustizia: Moretti (Ugl); Dap avvia ricerca su benessere personale di Polizia Penitenziaria Agenparl, 13 marzo 2014 "Finalmente un segnale di attenzione verso il difficile lavoro portato avanti ogni giorno dagli agenti della Polizia Penitenziaria: il Dap, infatti, ha avviato una prima procedura di verifica sul benessere del personale". Lo rende noto il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, ricordando che "il nostro sindacato con l’iniziativa "L’Ugl dà voce agli eroi silenziosi. Effetti dello stress da lavoro correlato sul servizio della Polizia Penitenziaria", con prossima tappa a Viterbo il 17 marzo dopo gli incontri di Torino e Milano, ha voluto evidenziare le problematiche lavorative e gli aspetti socio-economici del personale di Polizia operante nelle carceri e che quotidianamente affronta i disagi derivanti dal persistente sovraffollamento, dalla fatiscenza delle strutture detentive e dalla carenza organica". "Purtroppo - aggiunge - questa prima procedura di verifica, che dimostra l’attenzione del Dipartimento a questo grave problema, prende avvio dopo l’ennesima tragedia avvenuta nel carcere di Siena. Per questo riteniamo necessario che all’esito dell’indagine vengano prese misure concrete, per evitare il ripetersi di questi gesti disperati, e che dovranno necessariamente essere accompagnate da un adeguamento del personale, visto anche l’aumento esponenziale dei posti detentivi dovuti alla continua apertura di nuove sedi che rischia di creare ulteriori condizioni di sovraccarico di lavoro e stress". "Senza dimenticare - conclude - la necessità di garantire agli agenti degli alloggi che siano alternativi alle caserme, per permettergli di poter far fronte alle tante tensioni accumulate in servizio in un ambiente il più rilassante possibile". Giustizia: martedì prossimo la Simpse Onlus organizza convegno "Salute in carcere oggi" Asca, 13 marzo 2014 Esporre ad un pubblico di politici, esperti, competenti e decisori il quadro attuale della salute in carcere, come emerge oggi da numerosi studi e come appare agli occhi di chi opera "sul campo". È questo - spiega una nota - l’obiettivo del convegno "Salute in carcere oggi" che la Società Italiana di Medicina e di Sanità penitenziaria (Simpse Onlus) terrà martedì prossimo presso il Senato della Repubblica, istituzione che patrocina l’iniziativa. Dopo il trasferimento delle funzioni sanitarie dal sistema centralizzato ed autonomo dell’Amministrazione penitenziaria al Ssn, le Regioni - sottolinea la Simpse - ancora stentano ad entrare nella cultura e nelle attività sanitarie del carcere, luogo unico per la particolarità del contesto operativo e le specificità degli utenti. In tale ambito - proseguono gli operatori di sanità penitenziaria - le stesse parole "salute" e "malattia" hanno connotazione e significati spesso differenti, dove spesso le malattie tendono esponenzialmente a crescere con, ad esempio, prevalenze significative delle epatopatie Hcv e Hbv correlate e delle pluripatologie internistiche. Curare le Persone detenute è necessario, ma può essere difficile; qui l’aiuto che viene dalla ricerca più avanzata è essenziale, per migliorare l’adesione alle cure e la loro efficacia. Dopo l’udizione tenuta lo scorso novembre presso la commissione Igiene e sanità del Senato, con il convegno Simpse intende proseguire il lavoro sottolineando come la tutela della salute in carcere necessiti del confronto senza pregiudizi fra le professionalità sanitarie e le istituzioni che hanno competenza sul "pianeta carcere". Appare necessario ed urgente - sostengono i medici che operano in carcere - che le voci dall’interno possano avviare una fase culturale nuova che faccia realmente aprire il Ssn a questo universo nascosto. Qui i bisogni di salute sono amplificati dalla restrizione e le possibilità operative spesso si scontrano con prassi e normative che ancora non hanno recepito questo cambiamento epocale e straordinario: è compito della politica attualizzarlo ed armonizzarlo. Giustizia: il pm antimafia Nicola Gratteri "sono pronto a collaborare con il governo…" di Paolo Pollichieni Corriere della Calabria, 13 marzo 2014 L’ultima "rivelazione" è firmata da Anna La Rosa, la conduttrice di Telecamere ospite della trasmissione "Agorà" (sempre su Rai3) non ha dubbi: Nicola Gratteri ("la notizia è sfuggita ai giornali") sta per accomodarsi sulla poltrona di presidente di una speciale Commissione voluta dal Governo Renzi per la riforma dei codici. "Non ne so nulla perché nulla dovrei sapere - replica a distanza Nicola Gratteri - nel senso che non c’è nessuna poltrona e nessun incarico. Me ne sono state offerte, e me ne vengono quotidianamente offerte, tantissime ma sfugge un particolare: non sono interessato a coprire ruoli, e poltrone, diverse da quelli che occupo. Capisco che in questi tempi di carrierismo smodato e sfrenato la cosa possa sembrare singolare ma è proprio così". Insistiamo: possibile che siano solo invenzioni dei media? "Oddio - Gratteri accompagna la battuta con un sorriso malizioso e accattivante al tempo stesso - a voi non fa difetto certo la fantasia… Mettiamola così, avere notizia che sia stata offerta una poltrona non significa poter sostenere che Gratteri si andrà a sedere su quella poltrona. Io non sono alla ricerca di incarichi, sono invece interessato a fare bene il mio lavoro e a farlo in condizioni migliori e se qualcuno mi chiede quali sono le condizioni per fare meglio il lavoro che la Costituzione ci assegna, io sono pronto a collaborare perché si realizzino". Ci torniamo tra poco, ma chiudiamo prima l’argomento delle poltrone…. "Non banalizziamo, diciamo che mi sono stati offerti incarichi prestigiosi dal vertice del Dap (il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, ndr) a quello dell’ufficio legislativo (ufficio chiave all’interno del Ministero della Giustizia, ndr). Si tratta però di incarichi che non rispondono alle prescrizioni che mi sono dato". Possiamo conoscerle queste "prescrizioni"? "Ecco, stavolta banalizzo io ma giusto per semplificare il concetto ed evitare equivoci. Io ho detto a tutti i miei autorevoli interlocutori che non intendo lasciare Reggio Calabria e non intendo lasciare il mio lavoro di magistrato inquirente. Non voglio lasciare le mie indagini e non voglio lasciare incomplete le tante inchieste alle quali ho lavorato e sto lavorando. Così come non intendo dire ai miei validissimi collaboratori, soprattutto agli ottimi uomini delle forze di polizia di questo nostro Paese, sapete che c’è? Ora continuate voi che io devo andare in un bel palazzo a fare il grande burocrate. Il mio lavoro è tutto. Me lo sono scelto, mi piace e mi regala ancora emozioni e adrenalina". Tuttavia non nega la sua disponibilità e incontra quasi quotidianamente pezzi del potere politico di questo Paese…. "Non esattamente. Io incontro autorevoli rappresentanti dello Stato che questo Stato sono chiamati a governare. Oltre che magistrato sono servitore dello Stato e se posso dire la mia per farlo funzionare meglio, nel settore che conosco e sulla scorta delle esperienze che ho fatto, accetto il confronto e il dialogo con chiunque lo rappresenti. Sarò idealista, ma per me quando si è al Governo si rappresenta la Nazione intera e se ne tutelano gli interessi. Non si è più uomini di destra, di centro, di sinistra, di sopra o di sotto. Ho sempre offerto la mia collaborazione a chiunque abbia dimostrato interesse ad averla. Non incontro Letta o Renzi o Alfano o chi vuole lei in quanto interessato al loro progetto politico ma in quanto rappresentanti di quello Stato che io vorrei funzionasse meglio e amministrasse giustizia in maniera più funzionante e certa". Difficile non condividere un simile ragionamento, ma potrà mai funzionare? "Intanto dobbiamo fare in modo che chiunque di noi, se richiesto, faccia la sua parte. Certo, mettiamo delle condizioni, poniamo dei paletti ma non possiamo arroccarci pregiudizialmente ritenendo che è tutta una presa in giro. Io pongo le mie condizioni: voglio collaborare gratis, non voglio rimborsi o prebende e non voglio lasciare il mio lavoro. Detto questo sono pronto a mettermi a disposizione per realizzare cose concrete che aiutino il raggiungimento di un obiettivo chiaro, ovviamente nel mio caso mi riferisco all’amministrazione della Giustizia". Ci aiuta a spiegarlo bene questo suo obiettivo? "È semplice: da una parte dimostrare ai cittadini italiani che delinquere non è più conveniente; dall’altra snellire tecniche e procedure, informatizzare servizi dare trasparenza massima alle attività tecniche d’investigazione e ottimizzare, riducendole pesantemente, le attuali spese". Oggi, la mia è ovviamente una provocazione, non è così? "Oggi spesso ci troviamo davanti a un contraddittorio complesso di norme, leggi, procedure che in qualche caso non solo non fanno da deterrente ma addirittura spingono il cittadino a delinquere. Insomma rispettare le leggi non può essere un obbligo che si lascia solo alla libera coscienza del singolo che magari poi si vede pure beffato da chi le infrange quotidianamente". E lei pensa che ci sia l’interesse reale da parte di chi incarna le istituzioni di procedere su questa via? "Non sono così ingenuo da pensarla proprio così. Le faccio un esempio: fin quando si è alle prese con un malanno di stagione molti trascurano di prendere le medicine perché magari hanno un brutto sapore. Se però si accorgono di avere una malattia seria, corrono dal medico e si sottopongono anche alle terapie più dolorose. Ritengo che oggi in molti stiano percependo che questo nostro Paese è alle prese con malattie mortali: corruzione, riciclaggio, illegalità diffusa, criminalità organizzata che occupa spazi nell’economia e nelle istituzioni. Non c’è tempo da perdere nell’attuare una sana cura disintossicante. La prima cosa da fare, però, è mettere mano a norme, procedure e fatti concreti che facciano capire che i rischi per chi sceglie di delinquere sono reali e che delinquere non conviene. Se questo è il percorso che si vuole intraprendere a che servono le poltrone? Non servono a nulla, servono concreti atti di buona volontà, serve rimboccarsi le maniche e fare subito il lavoro che va fatto". Giustizia: morte di Giuseppe Uva, la nuova verità sul massacro in caserma di Sandro De Riccardis La Repubblica, 13 marzo 2014 È una notte infinita, quella tra il 13 e il 14 giugno del 2008, lunga cinque anni e nove mesi, piena di racconti contrastanti, ricostruzioni di comodo, interrogativi senza risposta, prove scomparse. Ma anche di pezzi di verità che hanno resistito fino a oggi nei ricordi dei testimoni e negli audio di qualche telefonata. Tutto sarà rivissuto nel processo che cercherà di far luce sulla fine del "Pino", come amici e parenti chiamavano Giuseppe Uva, l’operaio di 43 anni morto in ospedale dopo due ore trascorse nella caserma dei carabinieri di Varese, in via Saffi, "trattenuto senza i presupposti di legge" da due carabinieri e sei poliziotti. Due giorni fa, il Gip Giuseppe Battarino ha ordinato per loro l’imputazione coatta con accuse gravissime (omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso di autorità, violenza privata), come chiedeva l’avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, e respingendo la richiesta di archiviazione della procura. Quella notte Uva e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi, vengono intercettati da due carabinieri (Paolo Righetto e Stefano Del Bosco), mentre spostano transenne in mezzo alla strada. "Sono scesi due carabinieri - ha denunciato Biggiogero - il più grosso si avvicinava a noi con uno sguardo stravolto e terrificante, inseguendo Giuseppe e dicendogli: "Uva, proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare". Uva viene raggiunto. "Il carabiniere grosso scaraventa per terra Giuseppe, poi con estrema violenza in macchina". Poi ancora "pugni, calci e ginocchiate. Io urlavo di smetterla, in preda al panico". Arrivati in caserma, Biggiogero ricorda "un via vai di carabinieri e di poliziotti, mentre udivo le urla di Pino che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo". Alberto chiama il 118. "Stanno massacrando un ragazzo". Uva, scrive ora il gip Battarino, "è stato privato della libertà illecitamente dai due carabinieri ed è stato trattenuto per circa due ore senza necessità operative. E i poliziotti (Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Vito Capuano) pur avendo l’obbligo di interrompere l’arresto illegale, hanno omesso deliberatamente di farlo". Di fronte "alle evidenti necessità di tutela dell’integrità fisica di Uva", manifestatasi in strada e "in forma grave in caserma, omettevano di affidarlo al 118", e di nuovo "hanno collaborato a ritardare i soccorsi" togliendo il cellulare a Biggiogero. Ed ecco i tanti misteri dell’indagine. Perché i carabinieri portano i due in caserma? Perché lì confluiscono una gazzella e tre volanti, lasciando l’intera città senza pattuglie? Perché i soccorsi sono stati ritardati, se i militari hanno dichiarato che Uva era "in continuo stato di agitazione, si buttava giù dalla sedia, si divincolava, resisteva, dava calci provocandosi lesioni lievi ed escoriazioni"? Agli atti dell’indagine anche le registrazioni delle telefonate tra caserma e 118. "Sono due ubriachi che abbiamo qui, ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno, vi chiamiamo noi". E due carabinieri che scherzano al telefono, non sembrano ricordare atti di autolesionismo: "Paolo era impegnato con Uva, stanotte. Uva fisicamente lo puoi tenere, è debole". Solo alle 5 di mattina parte la richiesta di un Tso per Uva, che viene trasferito al reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, dove i medici - gli unici andati a processo finora, poi assolti - lo sedano. Per il gip "è ipotizzabile la connessione casuale dell’illecito trattamento in caserma e di quanto ivi accaduto, con la morte di Uva, sopraggiunta per un evento aritmico terminale scatenato dall’estremo stress emotivo derivante dal contenimento fisico, da traumi auto o etero prodotti, da intossicazione alcolica". Eppure, su quelle ore misteriose, Biggiogero è chiamato dal pm Agostino Abate solo il 26 novembre 2013, interrogato "con ostilità", "ridotto - scrive il gip - a relitto improduttivo". Un esame che "persegue la sparizione della morte di Uva dall’orizzonte cognitivo del fragile testimone" a cui il pm dice, tra l’altro: "Lei ha detto una bugia dietro l’altra". Era stata la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, a notare i lividi sul cadavere del fratello, e a farsi quelle domande a cui forse il processo darà una risposta. Chi ha provocato i segni sul corpo? Che fino hanno fatto gli slip che per il dirigente del posto di polizia dell’ospedale "erano intrisi di sangue"? Come si è formata la "vistosa macchia di liquido rossastro tra il cavallo e la zona anale"? C’è stata quella "estenuante difesa a oltranza effettuata anche con calci" in quelle ore trascorse senza motivo in caserma? Giustizia: togliergli la toga…, così la sorella di Giuseppe Uva accusa il pubblico ministero di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 marzo 2014 Martedì sera. Mancano venti minuti alle otto quando il gip del Tribunale di Varese esce dalla camera di consiglio e legge l’ordinanza che ha appena firmato: i poliziotti e i carabinieri che il 14 giugno del 2008 hanno arrestato Giuseppe Uva adesso sono accusati di omicidio preterintenzionale. Lo hanno ucciso loro, questa la tesi del giudice, che, dopo aver respinto la seconda richiesta di archiviazione presentata dalla procura, ha ordinato per gli indagati l’imputazione coatta. Quando sente queste parole, Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, quasi scoppia in lacrime. Guarda il suo avvocato, Fabio Anselmo, che le fa cenno di mantenere la calma. Non è facile. Poco dopo, fuori dal palazzo dì giustizia, in una Varese umida e buia, ancora lontanissima dalla primavera, però, è proprio lui il primo a cedere all’emozione: "Ci vediamo in corte d’Assise", e il suo volto barbuto si illumina in un sorriso larghissimo. Lucia quasi non crede a quello che è appena accaduto. Ci sono voluti sei anni per arrivare a questo primo passo verso la verità. E sono stati sei anni lunghissimi: "Per me il processo comincia adesso", dice. Il giorno dopo Lucia ha perso quasi completamente la voce, ma non la voglia di parlare. Quando il cronista le fa la prima domanda, interrompe e attacca a parlare. L’abusata metafora del "fiume in piena" raramente risulta azzeccata come in questa occasione. Il gip ha abbattuto te tesi del pm Agostino Abate-Sì, abbattuto è il termine esatto. È un’ordinanza spettacolare, l’abbiamo attesa sei anni. È stata una soddisfazione immensa, non sa quello che ho dovuto passare: sono partita da sola in queste aule di tribunale. Poi è arrivato Fabio (Anselmo, ndr), i giornalisti, tante persone stupende che mi sono state vicine nei momenti difficili. Non è stato facile arrivare fino a questo punto, ma sono contenta. Molto contenta. Abate ha sempre indagato su quello che è successo a Giuseppe dopo il suo arrivo al pronto soccorso e non si è mai curato di quello che può essere accaduto dentro la caserma dei carabinieri. Abate ci ha umiliati. Già qualche mese fa Battarino gli aveva ordinato di indagare sui carabinieri e i poliziotti. E lui che ha fatto? Ha continuato a insistere sui medici. Ha "torturato" Biggiogero (l’amico di Giuseppe, arrestato anche lui quella notte del 2008, nda) durante l’interrogatorio. Spero che adesso gli tolgano questa inchiesta. Mi ha fatto tanto male quest’uomo: se gli uomini delle forze dell’ordine che hanno ucciso mio fratello dovranno togliersi la divisa, lui dovrà togliersi la toga. Magistrati del genere fanno male alla giustizia. Pensa che adesso si possa arrivare alia verità su quello che è successo in caserma la notte del 14 giugno? Devo essere sincera, non credevo nemmeno che si sarebbe arrivati ad accusare di omicidio gli agenti. Visto il modo in cui sono stata trattata in tribunale, ho temuto che non ce l’avremmo fatta. Ma ho lottato tanti anni per arrivare a questo punto, non mi fermerò certo adesso. Ho visto cose vergognose, sono caduta tante volte ma mi sono sempre rialzata. La verità verrà fuori alla fine. Ne sono convinta. Continuerete a costituirvi parte civile? Assolutamente sì. Io non posso perdonare nulla ai pm, mi ha fatto passare sei anni di inferno. Mi ha cacciato dall’aula, mi ha dato della bugiarda, mi ha accusato di aver manipolato il cadavere di mio fratello. Ho subito le umiliazioni peggiori che possa subire una donna come me: ho 54 anni, sono madre di quattro figli e mi hanno ammazzato un fratello. Arrivare in fondo a questa storia è un mio diritto: devono venire a galla tutte le verità nascoste. Nei giorni scorsi in Parlamento si è discusso del reato di tortura. Hai seguito la vicenda? Onestamente l’ho fatto poco, ero molto concentrata su questa udienza. Credo semplicemente che sia ora di dire basta con la violenza in divisa, basta con le licenze di uccidere. Io sono distrutta. Sono uscita ferita anche ieri (martedì scorso, per chi legge, nda). Abate mi ha anche accusato perché sono andata a parlare con il ministro Cancellieri e con papa Francesco. Stava facendo un processo a me, come ha sempre fatto, d’altra parte. Avrebbe dovuto fare solo il suo lavoro, lui. Ci sono stati tanti tentativi di nascondere la verità, di fermarci in ogni modo possibile. Ma non ce l’hanno fatta". Giustizia: istituzioni violente, un decalogo per difendersi di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 13 marzo 2014 C’è un giudice a Varese. Si chiama Giuseppe Battarino e ha disposto che si proceda all’imputazione dì due carabinieri e sei agenti di polizia per omicidio preterintenzionale e arresto illegale per la morte di Giuseppe Uva, I fatti risalgono all’oramai lontano 2008. Un altro giudice, Agostino Abate, nella sua veste di pubblico ministero aveva invece chiesto l’archiviazione del caso. Contro di lui l’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare per come erano state condotte le indagini. Non era più chiaro infatti chi era la vittima, chi l’accusato, chi i testimoni. Era stata prodotta una confusione di ruoli a difesa di una verità preesistente alla giustizia. Probabilmente anche nel caso Uva si riuscirà ad andare a processo per le violenze avvenute in una camera di sicurezza delle forze dell’ordine. C’è un altro giudice, questa volta a Bari. Si chiama Giovanni Anglana. Ha riaperto le indagini sulla morte di Carlo Saturno nel carcere di Bari avvenuta più o meno tre anni fa. Anche in questo caso c’era stato un pm che aveva chiesto l’archiviazione. Nel caso del giovane Carlo la storia era ancora più complessa. Qualche anno prima, quando da ragazzino era finito nel carcere minorile di Lecce, aveva denunciato alcuni poliziotti penitenziari per le violenze efferate subite. In quel caso il pubblico ministero aveva proceduto. Si era arrivati al dibattimento. Saturno si era costituito coraggiosamente parte civile. Tornato in carcere da maggiorenne a Bari pare si sia suicidato in una cella di isolamento. In quegli stesi giorni il processo per le violenze subite a Lecce si estingue per prescrizione. Ora il giudice chiede che si indaghi ancora. Alcune ferite al viso, al capo e all’orecchio destro non lo hanno convinto. La causa della morte torna in discussione. Queste sono due storie diverse dove chi deve indagare sceglie la via burocratica dell’archiviazione e chi deve giudicare chiede che si indaghi meglio. Viene da dire che qualcosa non torna nella giustizia italiana. Allora proviamo a redigere un decalogo a cui affidarsi affinché nei casi di violenza istituzionale ci si possa quanto meno approssimare alla verità storica. 1) Si introduca subito il delitto di tortura nel codice penale in modo che fatti gravi non siano trattati giudizialmente come minimali o secondari. 2) Si prevedano tempi non brevi di prescrizione. I processi per casi di questo genere sono difficili, lunghi. Richiedono dunque indagini meticolose che rompano il muro dell’omertà. 3) I Ministeri competenti avviino procedimenti disciplinari nei confronti dei presunti responsabili senza attendere gli esiti lunghi dei processi penali. 4) La prescrizione giudiziaria non deve mai essere valutata in sede disciplinare quale causa giustificativa di una decisione di assoluzione e di permanenza in servizio. 5) Si approvi un codice etico di condotta come quello suggerito dall’Onu per chiunque operi nei settori dell’ordine pubblico e della sicurezza. 6) Presso le Procure si istituiscano sezioni specializzate in fatti di questo genere che usino nelle indagini personale inter-forza di polizia il quale a sua volta sia adeguatamente esperto e formato. 7) Non si unifichino i processi per le violenze con quello per calunnia nei confronti della persona che ha sporto denuncia. L’unificazione dei procedimenti rende indistinguibili vittime e carnefici. 8) Una volta arrivati a dibattimento lo Stato si costituisca parte civile in modo da sottrarre le mele marce alla difesa pregiudiziale del corpo di appartenenza. 9) Si proteggano i testimoni che hanno il coraggio dì raccontare quanto visto. Se i testimoni sono a loro volta detenuti li si trattenga in luoghi del tutto sicuri dove non entrino mai in contatto con le persone sotto accusa. 10) Lo Stato interrompa le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che offrono tutela legale a coloro i quali si macchiano di delitti di questo genere. 11) Si preveda un obbligo di visita medica. Lettere: il detenuto che oggi "bisogna far tacere a tutti i costi" è il "procedurista"… di Adriano Sofri Il Foglio, 13 marzo 2014 Il Monde ha pubblicato martedì un’intervista con Jean-Marie Delarue, "controllore generale dei luoghi di privazione della libertà", carica istituita in Francia nel 2008 (in Italia un garante nazionale dei detenuti non esiste ancora). Illustrandone il sesto rapporto, all’ultimo anno del suo mandato, Delarue spiega che il detenuto che oggi "bisogna far tacere a tutti i costi" è il "procedurista", quello deciso a far uso di tutte le procedure consentite dalla legge, quello che presenta esposti e denunce contro tutto ciò che nella condizione del carcere viola i suoi diritti. È lui, più che il ribelle indisciplinato o violento, a disturbare soprattutto la macchina penitenziaria. Ed è dunque anche il bersaglio principale delle vessazioni, intimidazioni, punizioni: dai reclami cestinati all’impedimento del sonno, ai trasferimenti lontano dalla famiglia, alla provocazione tesa a farlo reagire per escluderlo dai benefici eccetera. La constatazione vale altrettanto per l’Italia, dove molti detenuti (anche grazie alla buona scuola radicale e cattolica) hanno imparato a valersi della nonviolenza, e a rivendicare per via legale i propri diritti. Benché una parte molto grande dei detenuti non sia in grado, per l’ignoranza delle leggi, della lingua e appunto delle procedure, di farsi valere, cresce il numero e la qualità dei ricorsi. Sull’Italia, come tutti sanno tranne i parlamentari che hanno allegramente disertato o bellamente ignorato i problemi esposti nel messaggio di Napolitano, grava una scadenza europea che qualcuno spera dilazionabile benché sia stata già dilazionata. Un detenuto consapevole dei propri diritti che ne chiede il rispetto è più pericoloso di uno violento o di uno autolesionista perché fa male all’amministrazione della giustizia e dello stato nel suo punto più sensibile: i soldi. Liguria: protesta della Lega Nord; Regione immobile su trasloco del carcere di Marassi Ansa, 13 marzo 2014 Il gruppo della Lega Nord in consiglio regionale ha abbandonato i lavori della Commissione sul trasferimento del carcere di Genova Marassi in polemica con l’assessore all’Urbanistica Gabriele Cascino. "Parole, parole, parole. Solo di questo si è resa capace la giunta regionale, dimostratasi assente, inesistente e incapace su questo tema molto sentito dalla popolazione e dal territorio - denuncia il capogruppo Francesco Bruzzone. A luglio, l’assemblea aveva approvato all’unanimità la nostra mozione che impegnava la giunta regionale a intraprendere iniziative per lo spostamento della struttura carceraria dal quartiere di Marassi: dovevano relazionare entro sessanta giorni. Cascino ci ha detto che bisogna concordare il trasferimento con il Comune di Genova, e secondo le linee del Puc. Ovvero, due cose scontate e risapute. Non hanno fatto nessun passo in avanti". Napoli: Vincenzo Di Sarno scarcerato per ragioni di salute, si era appellato a Napolitano Il Mattino, 13 marzo 2014 La certezza della pena e la cognizione del dolore. E il diritto a essere curati. Nella vicenda di Vincenzo Di Sarno i tre fili si sono intrecciati rischiando di diventare un nodo scorsoio. Ma il gomitolo si dipanato, almeno provvisoriamente. Il tribunale di Sorveglianza ha sancito la necessità del "differimento dell’esecuzione della pena detentiva". E si è guadagnato l’apprezzamento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. La vicenda è rimbalzata agli onori della cronaca lo scorso settembre, quando l’inquilino del Quirinale visitò il carcere di Poggioreale e notò "direttamente" la sofferenza del detenuto. Di Sarno sta scontando una pena a 16 anni per omicidio ed malato di cancro osseo. Bari: accordo tra Comune e carcere, tre detenuti puliranno giardini e strade Corriere del Mezzogiorno, 13 marzo 2014 Si tratta di un progetto sperimentale. Sono stati scelte tre persone che stanno terminando di scontare la pena. Tre detenuti si occuperanno delle pulizie dei giardini e delle strade. È quanto è stato previsto da un protocollo di intesa firmato questa mattina tra il Comune e il carcere di Bari. "È un progetto che abbiamo portato avanti - spiega l’assessora all’Ambiente Maria Maugeri - e che oggi si concretizza con la firma dell’intesa". I detenuti sono stati individuati tra coloro che si trovano alla fine della pena detentiva. "Lanciamo un modello di giustizia riparativa - spiega Tommaso Minervini, responsabile area educativa del carcere - grazie alla collaborazione con le istituzioni del territorio tre detenuti svolgeranno lavori di pubblica utilità". Il progetto parte in via sperimentale, ma non si esclude nei prossimi mesi l’incremento del numero di detenuti che saranno interessati da questo protocollo di intesa. "Oggi avviamo una sperimentazione - spiega il sindaco Michele Emiliano - e siamo pronti ad ampliarla, ad esempio creando un nuovo modello di carcere. Togliendo persone che alla fine dietro le sbarre vengono reclutate dalle varie forme di camorra. Sto pensando ad esempio a riqualificare le caserme dismesse, creando un nuovo modello dove chi ha commesso un reato sconti la sua pena, con lavori di pubblica utilità". I tre detenuti sono stati già selezionati: hanno un’età media di 35 anni. Nel corso dell’incontro è stato affrontato anche il problema del sovraffollamento delle carceri: a Bari ci sono 97 detenuti oltre il limite, in Puglia 1.333, in Italia 12.864. "Con questo progetto - aggiunge Piero Rossi, garante regionale dei diritti dei detenuti - coloro che hanno contribuito a togliere la sicurezza ai cittadini, restituiscono la stessa sicurezza con interventi di decoro urbano". Avellino: progetto per un mini-Opg a San Nicola Baronia, si apre il dibattito in Comune Corriere dell’Irpinia, 13 marzo 2014 Apprendiamo dal vostro giornale tramite l’articolo di ieri 11 marzo che l’Ing. Florio, Direttore Generale dell’Asl di Avellino, sarà ospite del nostro comune per tranquillizzare la comunità circa l’ormai non velata realizzazione di un mini-Opg in San Nicola Baronia. Avremmo preferito che l’ing. Florio avesse avuto la sensibilità di ascoltare il parere dei cittadini sannicolesi prima di questa sciagurata decisione e non a cose fatte". Così Antonio Capodilupo, capogruppo di opposizione, che incalza anche l’amministrazione comunale. Capodilupo si spiega: "Noi combattiamo contro una sostanziale modifica degli accordi che sono intercorsi con l’ex direttore generale dell’Asl dott. Granata, il quale aveva avviato i lavori di adeguamento dell’edificio di Via Vittorio Veneto proprio perchè quella struttura fosse adibita ad Rsa (Residenza Sanitari Assistita). Non vogliamo espedienti che facendo finta di dirimere il problema del sovraffollamento nelle carceri, portano ad un altro forse più grave. No quindi all’Opg conseguenza di una bidonata. Tutti gli altri neo-Opg verranno inseriti in ex manicomi, mentre nel nostro paese sarà ubicato in adiacenza alla scuola materna ed elementare trasformando quella zona in un penitenziario criminale. Cosa devono fare ancora questi amministratori per perdere ulteriormente fiducia? Quali ricadute facilmente immaginabili sulle sorti future del nostro paese? Quella struttura diventerebbe isolata, come tutte quelle che hanno questa natura, sbarre alle finestre, inferriate e presidio serrato delle entrate per impedire contatti con i detenuti. L’ing Florio ci assicurerà che non scapperanno, ci dirà che i malati saranno quelli a bassa pericolosità, che dovremmo dormire tranquilli". Capodilupo continua a spiegare che i pazienti con scarsa o nulla pericolosità saranno direttamente dimessi, senza entrare nelle nuove strutture "quindi, i malati che verranno a San Nicola Baronia sono quelli ritenuti pericolosi. Magari saranno gli internati prosciolti per infermità mentale sottoposti a ricovero in Opg perché pericolosi per la società". Per il principio della territorialità i malati di mente, che verranno nel nostro comune, continua Capodilupo, proverranno da Aversa e Napoli, pazienti che verosimilmente richiedono una intensa attività di cura, affetti da patologie mentali gravi che hanno compiuto reati contro la persona. E ancora:?"Una riflessione vorremmo fare circa la fase relativa al reinserimento dei pazienti nella società, come verrà organizzato? Con i servizi territoriali mai esistiti in Baronia? Con badanti mentalmente instabili che fanno assistenza ai nostri anziani o magari, vista la vicinanza, aiuteranno i nostri figli ad attraversare la strada davanti alla scuola? Non ci si dica che siamo privi di umanità, non accettiamo lezioni da nessuno, siamo solo consapevoli che questa nostra comunità non può reggere il peso che altri avrebbero dovuto portare e che ci è stato propinato, approfittando di una colpevole complicità dell’amministrazione comunale. L’unico risultato che questa gente ha raggiunto è quello di aver tolto qualsiasi ipotesi di un’eventuale riconversione migliorativa della struttura di Via Vittorio Veneto, eliminando così anche la futura possibilità di ospitare posti letto per altre specialità mediche". Così Antonio Capodilupo, capogruppo di opposizione a San Nicola Baronia. Firenze: oggi Mozione e confronto in Consiglio provinciale su carcere Sollicciano e su Opg Ristretti Orizzonti, 13 marzo 2014 Assemblea di Palazzo Medici Riccardi giovedì 13 marzo 2014. Il programma dei lavori in Sala IV Stagioni. In apertura del Consiglio provinciale di Firenze, convocato giovedì 13 marzo 2014 alle ore 15 nella Sala IV Stagioni di Palazzo Medici Riccardi (via Cavour 1-3), il Presidente della Provincia Andrea Barducci svolgerà una comunicazione sugli esiti della vertenza Shelbox. L’assessore alle Infrastrutture Marco Gamannossi proporrà poi due delibere: l’una su modifiche al "Regolamento per la disciplina dei contratti per l’attività contrattuale dei lavori, delle forniture e dei servizi della Provincia di Firenze"; l’altra per il riconoscimento di debiti fuori bilancio in seguito a sentenza della Corte d’Appello. Le mozioni: della Commissione Politiche sociali "sulla situazione degli istituti penitenziari della Provincia di Firenze e sull’Opg di Montelupo Fiorentino"; di Rifondazione per escludere ogni ipotesi di discarica nel comune di Vaglia; del Pd sull’introduzione del pedaggiamento sul raccordo autostradale Siena-Firenze; del Pdl per intitolare un plesso sportivo al grande ciclista fiorentino Gino Bartali. Nelle domande d’attualità il problema cave nel comune di Vaglia in località Paterno (Rifondazione comunista), la frana sulla strada provinciale 16 Greve-Figline (Rifondazione), la messa in sicurezza dell’Autopalio (Lega Nord), l’ex convento di Sant’Orsola a Firenze (Rifondazione, Lega), la situazione della Shelbox (Rifondazione, Pd). Milano: il fratello di Fabrizio Corona… il carcere? gli sta facendo bene Ansa, 13 marzo 2014 Ammesso che Fabrizio Corona abbia rappresentato un certo mondo, "quello del berlusconismo e delle copertine patinate, ora il carcere gli sta facendo anche bene, lo sta plasmando, perché sta imparando ad ascoltare gli altri, mentre prima era concentrato esclusivamente su se stesso". A dirlo è il fratello Federico, in occasione della presentazione del libro dell’ex agente fotografico Mea Culpa (Mondadori), scritto insieme con il filosofo Franco Bolelli durante la detenzione per la condanna a cinque anni per estorsione al calciatore Trezeguet. Secondo Federico, gli sbagli di Fabrizio hanno un unico vero colpevole, il denaro: "Tutte le stupidate che ha fatto, le ha fatte per i soldi - ha detto - così è stato risucchiato da questo mondo di carta, ma ha sempre agito senza voler dimostrare qualcos’altro rispetto a quello che pensava". Tra qualche mese Corona potrebbe uscire, e a quel punto il consiglio del fratello minore è "conservare, della sua vecchia vita, l’intraprendenza e il carattere forte, e veicolarli in qualcosa di più alto, come ha fatto con il libro", oltre che con il progetto lanciato nel penitenziario di Busto Arsizio (dal quale è stato poi trasferito ad Opera), un web magazine che dà voce ai detenuti, e che ora è curato da Federico. Libri: "I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato", di L. Piras La Nuova Sardegna, 13 marzo 2014 Il vescovo di Nuoro, Mosè Marcia, ha inviato una copia del libro del giornalista della Nuova Sardegna Luciano Piras "I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato" a tutti i cappellani delle carceri d’Italia (sono circa duecento). In questo modo la diocesi nuorese ripropone la riflessione su carcere, terrorismo e sistema penitenziario trent’anni dopo i fatti di Badu ‘e Carros raccontati dal libro. Don Bussu, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene, oltre che cappellano, si autosospese dal mandato sacerdotale e si schierò apertamente dalla parte dei brigatisti rossi della prima ora (Franceschini, Bonisoli... ) che nel supercarcere di Nuoro stavano attuando lo sciopero della fame, la prima rivolta pacifica nei penitenziari d’Italia, per denunciare le condizioni disumane cui erano sottoposti. Il cappellano parlò di "terrorismo di Stato", una provocazione talmente pungente che fece scoppiare un vespaio di polemiche che costrinsero l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli a intervenire, prima per attenuare il cosiddetto "regime di massima sicurezza", poi addirittura per smantellare i "braccetti della morte", com’erano chiamati dai detenuti i reparti di massima sicurezza. Subito dopo, il parlamento accelerò la discussione sulla riforma del sistema penitenziario e nel giro di poco tempo si arrivò alla legge Gozzini. Fu una grande conquista di civiltà, una grande battaglia sociale vinta da don Bussu e dalla diocesi di Nuoro. in prima fila, a sostenere il cappellano, infatti, c’era l’allora vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non esitò ad alzare la voce contro quel groviglio di norme e regole "inutilmente brutali" che lo stato aveva messo in piedi negli anni più oscuri della lotta alle Br. "Leggendo il libro - sottolinea oggi Mosè Marcia - ho capito ancora di più che i miei gesti di prete, di vescovo, dentro il carcere non mirano a un risultato di Chiesa, ma di umanità. Quello che devo cercare di ricordare è che ognuno, fosse pure un assassino, è sempre un essere umano". Eppure, trent’anni dopo, l’Italia è ancora "fuori norma" sulle carceri e per questo è stata ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il sovraffollamento degli istituti di pena e le condizioni in cui vivono i detenuti sono tali da aver costretto la Corte di Strasburgo a intervenire a più riprese. Immigrazione: sui Cie non si deve abbassare la guardia di Luigi Manconi, Valentina Brinis e Valentina Calderone L’Unità, 13 marzo 2014 È stata approvata un paio di settimane fa, dal consiglio comunale di Roma, la mozione che propone la chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si tratta di un’azione che riprende quella del Consiglio comunale di Torino che aveva approvato una mozione simile con la quale impegnava "il sindaco e la giunta comunale a chiedere ufficialmente al Governo di chiudere nel più breve tempo possibile il Cie di Corso Brunelleschi". La stessa proposta è stata presentata da Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, che auspica che la discussione avvenga il prima possibile. Non si sa che esito avranno tali mozioni ma sicuramente rappresentano un altro tentativo, l’ennesimo, di far passare il messaggio che i Cie ormai hanno dimostrato la loro inefficienza. A dimostrazione di ciò, basta citare un dato, reso noto di recente dal Rapporto di Medici per i Diritti Umani: ovvero che appena il 47% delle persone trattenute nei Cie nel 2013 sono state rimpatriate. Ciò equivale allo 0,9% del totale delle persone straniere irregolari presenti in Italia. Attualmente i trattenuti sono circa 450 a fronte di costi davvero ingenti. E a rendere tutto ciò ancora più grave è la condizione di precarietà in cui vivono le persone lì dentro. Il Cie è un carcere che non è un carcere, un orribile non luogo, immerso nel non tempo: una sorta di oscena e feroce matrioska, dove una gabbia contiene un’altra gabbia al cui interno si trova una successione di gabbie, cancelli, serrature. Il risultato è uno solo: si tratta di "strutture sempre più inutili e afflittive". Da una settimana, inoltre, è online la petizione promossa da change.org in cui vengono proposti quattro motivi per il superamento del sistema dei Cie. La chiusura di questi posti è, tutt’oggi, lontana e pare sia molto difficile che ci si possa arrivare con un atto normativo. Intanto, però, otto di essi sono già stati chiusi a causa delle precarie condizioni in cui versavano, e non tutti verranno riaperti. È importante, quindi, che azioni come quella dei consigli comunali di Torino e di Roma continuino ad essere portate avanti, anche se la loro valenza rimarrà solo simbolica. Lo stesso vale per le iniziative di concessione della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia portate avanti da molte amministrazioni comunali. Si tratta di cittadinanza onoraria che ha un doppio significato: riconoscere che la cittadinanza non è solo una procedura burocratica in cui l unico criterio valido è quello della permanenza regolare ininterrotta dalla nascita alla richiesta; dimostrare che l’attuale normativa che regola la materia, la 91 del 1992 è da riformare. Essa, infatti, esclude dal riconoscimento della cittadinanza numerose persone che in Italia sono nate e cresciute e che si sentono più vicine alla cultura italiana che a quella di origine. Immigrazione: storia di Said, in nove anni undici volte nei Cie di Alessandra Ballerini Corriere delle Migrazioni, 13 marzo 2014 Aspetta. Aspetta è la risposta a tutte le domande. Aspetta è un invito. A volte un ordine. Aspetta è una condanna. O meglio, una parte di questa condanna senza reato che sono i Cie. Oggi, 3 marzo, a Ponte Galeria sono 72 uomini e 15 donne (tra loro anche una somala, quindi in diritto di ricevere asilo) ad aspettare. Aspettano di uscire. Di tornare alle proprie famiglie, al proprio lavoro, alla propria casa. O di essere espulsi. Aspettano notizie dall’avvocato, la decisione del giudice o della commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Aspettano di essere visitati dal medico, di essere ascoltati dal magistrato, di ricevere visite o lettere dai familiari. Said (nome di fantasia di un recluso reale come il suo sorriso e la stretta di mano), aspetta che il vento cambi e la ruota della fortuna inizi a girare senza schiacciarlo. Ha tra le mani una plico di documenti. Come tutti gli altri reclusi. Ma la sua pila di carte è più alta. Le raccoglie da più tempo. Quando lo incontro nei corridoi, tutti lo salutano chiamandolo per nome. All’inizio penso che sia un dipendente dell’ente gestore. È un bel ragazzo, parla un perfetto italiano colorato da un misto di accenti del nostro sud. Ha festeggiato da poco il suo compleanno. Tra queste sbarre. Tra le sue carte ci sono diplomi e attestati. È pescatore, marinaio, bagnino. È loquace e ha mantenuto intatte eroicamente speranza e ironia. Ileana Piazzoni, deputata di Sel che mi accompagna in questa visita, gli parla a lungo e mi dice che le ricorda qualcuno. È vero, Said ha un viso assolutamente familiare. Mi domando se le nostre strade si siano già incontrate in altri Cie o all’aria aperta. Said ha "accumulato" undici Cie in neanche nove anni. "Gli operatori mi dicono che all’inizio sospettavano che fossi Fabrizio Gatti in incognita, sa, il giornalista dell’Espresso che entra nei centri e poi li fa chiudere". Invece è "solo" un lavoratore tunisino che ha perso il permesso a causa di uno dei tanti tranelli burocratici della normativa sull’immigrazione, è tornato nel suo paese, ha aspettato un decreto flussi e la formale assunzione da parte del suo datore di lavoro, ha diligentemente chiesto e ottenuto il visto di ingresso dall’ambasciata italiana ed è tornato in Italia. È andato in questura, ha lasciato nuovamente le sue impronte digitali, ha intascato la ricevuta di permesso di soggiorno. E ha iniziato ad aspettare. Ma in questura hanno stabilito che il suo visto di ingresso era falso, gli hanno ritirato la ricevuta e il passaporto e gli hanno contestato un po’ di reati. Dopo tre anni di processi e irregolarità forzata, è stato assolto. Ma il visto (vero!) era ormai scaduto. E così ha continuato a lavorare, in nero, per lo più sulle barche. Ma ogni volta che ci sono controlli gli notificano decreti di espulsione e trattenimento, e lo rinchiudono. Ogni volta in un Cie diverso. Il suo ultimo datore di lavoro continua a chiamarlo e lui si è inventato la scusa di una malattia per giustificare l’improvvisa e prolungata assenza, perché non vuole dire che sta dietro le sbarre come un criminale. Ma dato che è coscienzioso, ha trovato un sostituto perché lo rimpiazzasse. Una vita, undici Cie. Leggo che nei giorni scorsi è stata approvata una mozione che impegna il sindaco e la giunta capitolina… ad esprimere formalmente al governo nella sua interezza il proprio giudizio fortemente critico nei confronti della struttura ospitata all’interno del territorio, ritenendolo soprattutto un luogo sospensivo dei diritti fondamentali… ne chiede la chiusura e l’elaborazione di altre forme di accoglienza di carattere non reclusivo. Bene! I diritti fondamentali di Said oggi sono sospesi per l’undicesima volta. Sarebbe davvero l’ora di smetterla. Parliamo con gli altri trattenuti. Oggi sembra di stare in un ospedale da campo. C’è un signore senza un occhio, un ragazzo con la spalla rotta, il profugo libico che la settimana scorsa era quasi riuscito ad uccidersi impiccandosi ben imbottito di tranquillanti che vaga incerto e un altro giovanissimo appena trasferito dal Cie di Torino che deve essere operato per delle cisti dolorose e intime. Nessuna bocca cucita oggi. Oggi si parla e tutti chiedono quando potranno uscire. E a tutti viene risposto di aspettare. Aspettare che i diritti nel nostro bel Paese smettano di essere sospesi. Mentre scrivo, il più affezionato dei reclusi di Ponte Galeria mi chiama quasi piangendo dalla gioia. Il gruppo di profughi sbarcati a Lampedusa a dicembre e rinchiusi nel Cie romano da oltre tre mesi è stato finalmente liberato. Gli chiedo di lui: ha ottenuto finalmente la sospensiva dal giudice. "Forse". Non osiamo finire la frase per scaramanzia. Oggi è stata una buona giornata per chi è uscito ma non per chi è entrato e ha davanti a se 18 mesi di incubo. Lassad mi chiede di fare qualcosa per un suo amico algerino rinchiuso insieme a lui e portato via dalla moglie e da due bambini piccoli, uno dei quali malato. Dico che posso solo scriverne. E allora scrivi, mi ordina. Il giorno più bello per me, mi confida, sarà quando il mio amico uscirà e potrà riabbracciare la sua famiglia. Confidenza per confidenza, gli svelo che il giorno più bello per me sarà quando i Cie verranno definitivamente chiusi. Intanto perché l’esperienza di Said come collaudatore di Cie non vada perduta lo nominerei subito sottosegretario al Ministero degli Interni. Oppure costringerei ministri e sottosegretari a farsi rinchiudere almeno undici volte nei Cie. Solo per capire. Perché chiunque li visiti, se ancora conserva buona fede, onesta e lucida coscienza e rispetto dei diritti, non può che volerli chiudere. Droghe: cannabis… i benefici per tutti di Stefano Allievi Il Centro, 13 marzo 2014 Della prima decisione beneficeranno i malati, soprattutto cronici, che non dovranno essere più costretti a imbarazzanti e costosi sotterfugi e a un’illiceità sostanziale. Della necessaria riforma che la Consulta impone, beneficeremo invece tutti quanti. La legge Fini-Giovanardi, infatti, ha avuto per effetto di criminalizzare un comportamento e una generazione, di fatto trasformando il possesso e lo spaccio di piccole quantità di droghe leggere in un crimine penale grave, che ha portato in carcere decine di migliaia di giovani, rovinandoli assai più di quanto avrebbe potuto fare la droga stessa, intasando i tribunali - in un paese dalla giustizia cronicamente lenta - di processi inutili, e occupando una percentuale cospicua di posti nelle carceri, rendendole invivibili e portando l’Italia sul banco degli imputati della Corte Europea, al prezzo di costose sanzioni e di un’inciviltà giuridica sostanziale. Non c’è dubbio che il consumo di droghe, leggere o pesanti che siano, sia un comportamento da combattere. Le dipendenze, tutte, incluse quelle legali - dal tabacco all’alcol, al gioco d’azzardo, che hanno spesso costi ed effetti più gravi, anche se non sono considerate reato e producono buoni ritorni nelle casse dello Stato - sono moralmente problematiche e socialmente costose. Ma non c’è dubbio nemmeno che punire chi spaccia marijuana o hashish con una pena da sei a venti anni (mentre prima, per le droghe leggere, era fino a sei anni) sia un’offesa al buon senso prima ancora che alla giustizia. Si calcolano intorno ai diecimila i detenuti che potrebbero beneficiare della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, nel senso indicato dalla Corte: un provvedimento che, da solo, svuoterebbe le carceri più di qualunque indulto, e con maggiore sensatezza, visto che il 40% dei detenuti e la metà degli stranieri sono in carcere per reati legati alla droga, e oltre il 20% dei detenuti è tossicodipendente, e potrebbe verosimilmente curarsi meglio altrove. La Fini-Giovanardi, del resto, approvata nel 2006, andava in controtendenza con le riflessioni avviate a livello di Nazioni Unite, sull’inefficacia delle politiche di mera repressione, e con le legislazioni introdotte da vari paesi: indirizzatesi verso una depenalizzazione sostanziale di quanto gira intorno al consumo di droghe leggere, e sperimentando talvolta forme di legalizzazione. Si rende quindi necessario un ripensamento della normativa, e più in generale delle politiche sulle droghe, della penalizzazione e della detenzione come rimedio ai danni che provocano, sia in termini di efficacia individuale e sociale, che come strumento di lotta al crimine organizzato: coinvolgendo la pubblica opinione, poiché è un tema molto sentito dagli individui e dalle famiglie, prima ancora che dalle istituzioni. In maniera laica, senza crociate culturali, nell’uno e nell’altro senso: pensando a un’idea alta di giustizia, e anche di società, di comportamenti accettabili o meno. Non si può tuttavia evitare un bilancio dell’attuale impianto legislativo e culturale, pesato su troppi ragazzi: minacciati gravemente per un "reato senza vittime" che nella consapevolezza dei più è inesistente, sottoposti talvolta all’inutile pesantezza della legge e dei suoi esecutori (che avrebbero potuto essere impiegati più utilmente in altro modo, con maggiore beneficio per la sicurezza pubblica), troppo spesso finiti in carcere, e qualche volta finiti peggio, per un comportamento deviante certamente minore (in un paese che legalizza l’azzardo e penalizza molto meno tutti i reati fiscali, ad esempio), producendo una visione iniqua della giustizia, e il sospetto gravissimo di adottare, in materia penale, due pesi e due misure. Partire dall’uso della cannabis per fini terapeutici può essere un modo soft di aprire un dibattito non più procrastinabile. India: Pistelli (Pd); elevate possibilità che i due marò tornino in Italia entro l’anno Il Velino, 13 marzo 2014 "I marò sono un impegno prioritario, solo che il sistema indiano non è la cosa facile, accessibile e trasparente che noi sogneremmo. Sono un po’ lenti. Ma le percentuali che tornino in Italia entro l’anno sono elevate". Lo dice Lapo Pistelli, Viceministro agli Esteri, che oggi è stato ospite di "Un Giorno da Pecora", su Radio2, condotto da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro. Gasparri: a casa entro l’anno?... a casa subito! "I marò a casa entro l’anno? Non scherziamo. Latorre e Girone devono tornare in Italia subito. Dal vice ministro agli Esteri Pistelli ci saremmo aspettati maggiori garanzie sui tempi di rientro dei nostri marò. Un anno è un tempo infinito per chi è detenuto in India già da due senza un processo e per ragioni infondate. Il governo si svegli. Affronti questo problema con determinazione e pretenda il sostegno della comunità internazionale. Finora quanto fatto in sostegno dei nostri fucilieri di Marina è molto poco e molto deludente". Lo dichiara in una nota Maurizio Gasparri, FI, vicepresidente del Senato. Stati Uniti: la vita rubata di un innocente, i 30 anni di Glenn in attesa del boia di Vittorio Zucconi La Repubblica, 13 marzo 2014 Condannato nel 1984, ha aspettato undicimila giorni l’esecuzione per un omicidio che sapeva di non aver commesso La sua colpa: essere nero. È stato finalmente scagionato: entrato in cella da neo-padre, ne esce ora nonno 64enne. C’era soltanto il buio lungo undicimila giorni - e undicimila notti - oltre la cella del penitenziario della Louisiana dalla quale Glenn Ford contemplò per trent’anni da innocente la propria morte. Per il tempo di una generazione, entrato in carcere da padre e ora, a 64 anni, nonno, attese che il direttore del carcere lo svegliasse annunciandogli l’esecuzione per un delitto che lui sapeva di non avere commesso, ma per il quale avrebbe pagato con la vita. Trent’anni e due mesi per sentirsi finalmente dire, ieri, che giustizia era stata fatta e il giudice si era dovuto rassegnare a riconoscere la sua innocenza e a liberarlo. Ma di qualcosa, quest’uomo con il nome di una superstar di Hollywood adorato dalla madre che volle aggiungere Glenn al cognome Ford, era colpevole, nell’anno 1984, quando fu condannato alla sedia elettrica, allora il metodo usato prima della siringa. Era, e ancora è, nero di pelle, molto nero e - come il 75% dei condannati a morte e giustiziati - quella pigmentazione della pelle è già una mezza sentenza. Almeno in Alabama, nella terra dove Harper Lee ambientò il suo To Kill a Mockingbird, Il Buio Oltre la Siepe, il romanzo dell’ingiustizia razziale più letto dopo la Capanna dello Zio Tom. Ford era stato incriminato e processato per l’omicidio di Isadore Rozeman, un gioielliere e rigattiere, anche un po’ ricettatore, di Shreveport, in Louisiana. C’era una faccenda di revolver, che lui aveva ritirato nel negozio di Rozeman e che risultò essere l’arma del delitto e su questa circostanza il giovane, ambizioso prosecutor, Charles Scott, il pubblico ministero della Contea, aveva costruito il suo caso. Per assicurarsi una sentenza di colpevolezza, il magistrato aveva utilizzato il più classico degli espedienti: era riuscito a manovrare, con ricusazioni e obiezioni, per ottenere una giuria di soli uomini e donne bianchi. Se le prove e gli indizi sono deboli, il pregiudizio razziale è la polizza di assicurazione che non tradisce. Ma dal momento della sentenza di colpevolezza e poi della condanna al patibolo agli inizi del 1984 - quando Ronald Reagan era ancora Presidente e la Guerra Fredda soffiava ancora gelida - il caso del "Popolo dell’Alabama contro Glenn Ford" cominciò a perdere pezzi. Testimoni d’accusa, i presunti complici che avevano deposto per salvarsi il collo dopo avere patteggiato con l’Accusa, si ritrassero. I due avvocati difensori d’ufficio, due ragazzi appena sfornati dalle facoltà di Giurisprudenza privi di qualsiasi esperienza processuale e pagati 20 dollari all’allora più un buono pasto dalla Contea, ammisero di non averci capito niente. Uno dei due fu radiato dal "Bar", dall’ordine degli avvocati, per manifesta incompetenza e per una eccessiva frequentazione di altri bar, nel senso delle taverne. Con l’aiuto di legali più esperti, che avevano rilevato il Caso Glenn "Pro Bono", dunque senza essere pagati, partì la solita processione dei ricorsi, degli appelli, delle petizioni, delle richieste di revisione. Glenn dovette, come i tremila condannati a morte in attesa di esecuzione, aspettare. Oltre la sua siepe di cemento e sbarre, nel penitenziario di massima sicurezza di Angola, prima la "Old Sparky", la vecchia scintillona nel gergo macabro del braccio della morte, la sedia elettrica e poi gli stantuffi dei veleni da flebo, continuavano a funzionare. Cinquantasei suoi compagni di viaggio nel lungo miglio verde, due all’anno, facevano il tragitto finale verso la barella. Trascorsero i primi dieci anni, il tempo medio di attesa fra la condanna e l’esecuzione, senza che il direttore bussasse alla sua porta. Poi altri dieci, e altri dieci. Un appello raggiunse la Corte Suprema della Louisiana e gli alti magistrati emisero una decisione sbalorditiva. Il processo contro Glenn Ford era stato viziato da errori procedurali evidenti. Prove che si sarebbero dovute ammettere erano state respinte dal giudice. Gli avvocati si erano dimostrati ridicolmente inetti, di fatto negando all’imputato il diritto costituzionale alla difesa. Elementi a discolpa erano stati ignorati dall’Accusa per tirare diritto verso la condanna. Ma, ma. La condanna era valida e l’esecuzione doveva essere portata termine. Uno dei nove "Supremi" si indignò e si chiamò fuori. "I miei illustri colleghi sono fuori di testa". Chi rientrò in sé, all’undicimillesimo giorno, fu il più imprevedibile dei protagonisti del Buio oltre la Siepe: Charles Scott, proprio il pubblico ministero che aveva pilotato il processo verso il patibolo. Quei trent’anni e due mesi dovevano aver morso anche la sua coscienza, seppur lentamente, e Scott, riaprendo le indagini per propria decisione, riascoltato testimoni ancora vivi, esaminate le false deposizioni che avevano indicato Ford come colpevole, ha riconosciuto i proprio errori, ha chiesto al Tribunale la scarcerazione del condannato per non avere commesso il fatto. In pochi minuti, prova della vergogna che la Giustizia serbava, il giudice ha ordinato la scarcerazione. Ora su Glenn Ford pioveranno dollari in danni per falsa carcerazione, un milione, a colpi dei 35mila per ogni anno previsti dallo Stato dell’Alabama. "Li userò per aiutare i miei nipotini" ha detto l’uomo che è tornato fra i viventi con un cappello di lana in testa e un paio di occhiali da vista nuovi "perché quando entrai qui dentro ero padre di due baby e oggi sono nonno di due baby". Ma nessuno gli restituirà quei trent’anni nella sala d’attesa del boia. "Mi chiedono se provi rancore, ci potete scommettere che provo rancore". A noi resta il pensiero di che cosa possa provare chi, meno fortunato di lui, è stato - ed è - condotto a morire sapendo di essere innocente, come lo è il 3% di tutte le vittime del delitto di Stato. Sri Lanka: il paese dove non si trova un boia… www.giornalettismo.com, 13 marzo 2014 In Sri Lanka la pena di morte non viene praticata da trent’anni, ma c’è ancora nei codici e quindi serve che ci sia un boia, ma da quando quello che c’era prima è stato promosso non si trova un rimpiazzo. Il dipartimento penitenziario ha nominato il terzo arrivato al concorso tra i 176 partecipanti per il posto di boia nazionale, dopo che i primi due hanno rifiutato l’onore. Poi lo ha addestrato per una settimana e infine gli ha mostrato il patibolo. A quel punto il neo-boia si è licenziato. Chandrarathna Pallegama, il sovrintendente alle carceri ha detto che l’uomo è rimasto sconvolto alla vista del patibolo e che a questo punto al prossimo faranno prima vedere il patibolo e solo poi cominceranno l’addestramento. L’ultima esecuzione a Colombo l’hanno vista nel 1976, anche se poi hanno continuato a condannare a morte molti rei, fino a metterne insieme 400 nel braccio della morte. Nonostante ci sia chi invochi il ritorno delle esecuzioni il regime di Colombo non sembra intenzionato, pur accusato di uccisioni stragiudiziali e di aver massacrato i civili Tamil, il governo ci tiene all’immagine internazionale ed è cosciente dell’inutilità della pratica come deterrente. Il posto avrebbe quindi semplicemente lo scopo di riempire il mansionario, tanto che il boia precedente ha sempre e solo esperito compiti amministrativi, ma i colleghi ricordano che anche lui era molto inquietato dalla visione del patibolo. Francia: il carcere insegna…. a tacere e non a denunciare di Annalisa Lista www.west-info.eu, 13 marzo 2014 Sono sempre di più in Francia i detenuti maltrattati perché denunciano le storture del sistema carcerario. Il pesante j’accuse arriva dall’ultimo rapporto del Controleur Général des Lieux de Privation et Liberté. Dal quale emerge il paradosso che nelle carceri d’Oltralpe più che i violenti e gli indisciplinati, sono i cosiddetti "procéduriers" ad avere la peggio. Ovvero coloro che si permettono denunciare alle autorità giudiziarie le deplorevoli condizioni in cui vivono. Guardati a vista dal personale penitenziario, gli audaci reclusi subiscono costantemente minacce e ritorsioni: dalla mancata consegna e apertura abusiva delle lettere di denuncia alle minacce di trasferimento. Da perquisizioni irregolari al mancato coinvolgimento nelle attività quotidiane, fino alla negazione del diritto di colloquio con i propri cari. Per non parlare di dispetti e provocazioni: come svegliarli nel cuore della notte con una torcia o attaccarli verbalmente affinché reagiscano furiosamente. Quali sono i motivi che spingono i detenuti a ribellarsi? Nella maggior parte dei casi violenze, discriminazioni, furti subiti, impossibilità di accesso alle cure sanitarie. Gran Bretagna: "The Clink Restaurant", le carceri diventano ristoranti aperti al pubblico www.winenews.it, 13 marzo 2014 Se da noi i detenuti vengono coinvolti in numerosi progetti enogastronomici, fuori e dentro le prigioni, come l’esperienza dei carcerati del penitenziario a cielo aperto di Gorgona, l’isola più piccola dell’Arcipelago Toscano, dove, grazie all’impegno del Marchese Lamberto dè Frescobaldi, l’antico vigneto è tornato ad essere produttivo, in Gran Bretagna le carceri diventano dei veri e propri ristoranti, aperti al pubblico, per dare ai prigionieri un’esperienza di lavoro che li prepari al mondo esterno. La catena, già, perché nel Regno Unito di locali così ce ne sono già tre, a Sutton, Cardiff e Londra (Brixton), si chiama "The Clink Restaurant" (www.theclinkrestaurant.com), si mangia solo con le posate di plastica, per entrare si passa per controlli e metal detector, ed è consigliatissima la prenotazione, perché al di là dell’esperienza, dell’ambiente particolare e del brivido di farsi servire da un pluriomicida, sembra che si mangi davvero bene, tanto da meritarsi il Certificato di Eccellenza 2013 di TripAdvisor (www.tripadvisor.co.uk) e spingere l’associazione "The Clink Charity" a pensare all’apertura di altri 10 penitenziari al pubblico entro il 2017.