Giustizia: l’Eropa preme per misure straordinarie sulle carceri… Renzi si gioca la faccia di Dimitri Buffa www.italia.news.it, 11 marzo 2014 I politici italiani potranno anche sostanzialmente fregarsene delle condizioni carcerarie da terzo se non da quarto mondo dei 204 penitenziari della Penisola. E dal tasso di assenteismo che ha caratterizzato il finto dibattito del 4 marzo sul messaggio alle camere in materia del Capo dello stato, Giorgio Napolitano, che risaliva addirittura allo scorso 7 ottobre, non c’è dubbio che le cose stiano così. Il problema è che oggi da Strasburgo, in attesa della mazzata che ci darà la Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal prossimo 28 maggio se non rimetteremo i detenuti in grado di vivere secondo la capienza regolamentare che attualmente prevede meno di 40 mila posti (non 47 mila come dicono i burocrati del ministero fingendo di ignorare i padiglioni inagibili per ristrutturazione, ndr), ci arriverà anche una procedura di infrazione dello stesso tipo di quelle che si emanano quando si sforano i parametri del tre per cento nel rapporto tra deficit e Pil. Matteo Renzi sul versante carceri e giustizia sta in effetti sbagliando un po’ tutto. A partire dalla decisione di mettere una come Alessia Morani a responsabile di quel settore. Anche se il ministro Andrea Orlando potrebbe essere un ottimo antidoto alle idee forcaiole dalla Morani. Strasburgo ci chiede misure straordinarie e non ve ne è che una: amnistia con annesso indulto. Bisogna affrontare questo tabù perché l’Europa non sembra disposta a fare sconti sui diritti umani dei detenuti. Ed è giusto che sia così. L’Italia in materia di giustizia e carceri meriterebbe di essere cacciata dall’Unione europea. E se Renzi si prenderà la tremenda responsabilità di sottovalutare la questione porterà per sempre la nomea di colui che, citando Dante, "per viltade fece il gran rifiuto". Il problema è che coinvolgerà anche Napolitano in questa terribile figuraccia per la quale l’Europa ci disprezza molto di più che per il debito pubblico. E questa sarà un’ulteriore ingiustizia. Giustizia: la modifica genetica del potere giudiziario di Valerio Spigarelli (Presidente Unione Camere Penali) Gli Altri, 11 marzo 2014 Il nuovo che si è installato al potere con gli ultimi governi realizza - scrive Sansonetti in apertura di questo giornale - una società ancora sostanzialmente libera ma non democratica. Da qui l’interrogativo, che nasce dalla contrapposizione tra i due termini, democrazia e libertà, se "sia possibile una società che viva in libertà ma senza possibilità di influire sul potere". Vista con gli occhi di chi da oltre venti anni chiede invano, alla classe politica di occuparsi realmente, e non per "fatto proprio", della progressiva erosione del principio di separazione dei poteri e dell’assunzione da parte della magistratura di un ruolo ben diverso rispetto a quello in linea con principi di una democrazia liberale, l’interrogativo non è per nulla stravagante. Anzi, per dirla schietta, quelli che vedono all’opera la "democrazia giudiziaria", che è una delle forme che assume il fenomeno analizzato all’interno dello Stato, hanno le idee ben chiare anche sulla risposta, cui è bene giungere facendo alcuni esempi concreti. Il primo attiene al tema della interpretazione della legge. Oggi la magistratura, e il fenomeno non è solo italiano, attraverso la riscrittura per via interpretativa delle nonne, arriva a forme di vera e propria supplenza politica, cioè fa il lavoro dei parlamenti senza investitura popolare. Tra l’alternativa di denunciare l’incostituzionalità di una legge sottoponendola al vaglio della Consulta, e quella di mutarne radicalmente il senso, di fatto abrogandola e restituendone un significato ed un ambito di applicazione del tutto estraneo alle scelte del legislatore, accade sempre più spesso che i magistrati imbocchino la seconda strada, rivendicando apertamente in molti casi l’inadeguatezza della politica a realizzare norme adeguate alle esigenze. II fenomeno è talmente evidente che anche un giurista tradizionalmente vicino alla magistratura come Glauco Giostra ne ha denunciato la pericolosità. Accanto a questo c’è poi la concreta applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, scelto dalla Costituzione come traduzione processuale del principio di eguaglianza tra i cittadini, ma che nella pratica si è da tempo ridotto ad una discrezionalità selvaggia, che permette ad ogni pm di scegliere quali processi coltivare e quali destinare al macero. Tutti lo sanno, e tutti sanno che sta in questo un aspetto rilevante della modifica genetica del potere giudiziario, ma ogni volta che si tenta di discutere questo aspetto la magistratura, che non vuole perdere questo potere incontrollato, alza le barricate. Su di un altro versante, a proposito dei sintomi di "regressione", che Sansonetti denuncia pur senza ritenerli epigoni di una effettiva compressione della libertà, stanno le intercettazioni. La circostanza che da strumenti di ricerca delle prove -che tali sono con buona pace dei loro adoratori che li trasformano nel totem della verità assoluta - siano diventate qualcosa di diverso ce lo dice, assai banalmente, il nostro modo di conversare al telefono. In strati sempre più ampi di quella che un tempo si definiva la classe dirigente, persone sicuramente oneste ma consapevoli di poter incappare nella sgradevole esperienza di essere ascoltate, e magari di vedere finire su di un giornale parole in libertà e qualche insulto, hanno trasformato il modo di comunicare al telefono, paradossalmente avvicinandolo, quanto a cripticità e rapidità, a quello dei delinquenti. Ciò non è avvenuto per caso. In primo luogo la magistratura giudicante, immersa nella medesima cultura di quella requirente, ha dato una interpretazione assai largheggiante delle norme in tema di controllo giurisdizionale, tanto da legittimare una sostanziale libertà di azione da parte degli organi di polizia e delle Procure. Queste ultime, poi, hanno tenuto indenne la stampa da responsabilità per le illecite pubblicazioni nella consapevolezza, maturata fin dai tempi di tangentopoli, che l’appoggio dei media è un elemento fondamentale per la ricerca del consenso alla azione giudiziaria. Un consenso che si sollecita sul preteso carattere auto evidente delle conversazioni rispetto all’oggetto dell’indagine ma anche, e sempre più spesso, sulla dimensione "etica" dei risultati. Il messaggio implicito è che nulla racconta di più su di un imputato che osservarlo dal buco della serratura, mentre i bravi cittadini non hanno nulla da temere. Lo slogan "intercettateci tutti", dimostra come la rinuncia ad un pezzo di libertà in nome della azione palingenetica della magistratura, si fondi sul riflesso tipico dei sistemi autoritari, secondo il quale chi non ha nulla da temere non ha bisogno di quella libertà. Il risultato è che la libertà delle comunicazioni è compressa nel nostro Paese, e l’articolo 15 della Costituzione non possiede una dimensione effettiva. Passando poi alla tutela della libertà personale, è ormai riconosciuto anche da autorevoli magistrati che la custodia cautelare in carcere viene da anni utilizzata come forma di anticipazione della pena. Per far fronte alla inefficienza del sistema, la giurisprudenza piega la lettera della legge processuale, segnatamente il pericolo di reiterazione di comportamenti pericolosi, trasformando il processo in uno strumento di difesa sociale ed anticipando l’applicazione della pena prima della condanna definitiva. Ciò che la Costituzione vieta espressamente. C’è, infine, la questione delle questioni: qual è lo scopo dell’azione giudiziaria? Che nel nostro Paese sia volto alla risoluzione della singola controversia, cioè, per quel che riguarda il penale, all’accertamento della colpevolezza di un imputato ed alla sussistenza di un fatto di reato, non lo credono più neppure gli studenti al primo anno di giurisprudenza. L’azione giudiziaria è volta, dichiaratamente, a fronteggiare fenomeni che hanno dimensioni sociali e che vanno ben al di là del singolo caso. Ciò non è vero solo per la corruzione, o il crimine organizzato, ma anche per faccende di dimensione criminale di molto inferiori, come quello dei graffitari, per fare un esempio insolito. Chi persegue, e chi giudica, dichiara di combattere in primo luogo il "fenomeno" e si comporta di conseguenza. Dal canto suo la classe politica è sempre pronta a fornire nuove leggi emergenziali. Che poi l’emergenza sia vera o fittizia poca importa, perché su questo terreno politica e magistratura sono convolate a nozze da tempo immemore in nome del consenso di piazza. Il peggio è che le emergenze fittizie, non di rado, scalzano quelle vere ma indigeribili dalla piazza. Sotto questo profilo non stupisce che il campione del nuovo, nel suo discorso di insediamento, si sia dedicato anima e corpo ad una emergenza inventata, quella degli omicidi stradali, e non abbia neppure citato quella vera e drammatica delle carceri. Su questa china la stessa funzione giudiziaria ha finito per distorcersi, al punto da legittimare indagini e processi che apertamente rivendicano un ruolo improprio, come quello di far luce su vicende della storia politica del Paese, anche a prescindere dalla sussistenza di reati o dalla loro concreta perseguibilità. Il processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, secondo un altro giurista vicino alle ragioni della magistratura, Giovanni Fiandaca, ne è l’esempio più chiaro. Ciò posto la domanda di Sansonetti, per un penalista è retorica: il nuovo le libertà le ha già ridotte da un pezzo ed il potere giudiziario agisce senza controllo su queste libertà; dunque anche la democrazia non sta messa bene. Giustizia: manicomio criminale o carcere? La perizia psichiatrica finisce sotto processo di Alessia Guerrieri Avvenire, 11 marzo 2014 Il controverso caso Kabobo risveglia polemiche e dubbi. Tariffario al ribasso, ricorso a esperti che non conoscono il paziente e un rapporto di fiducia con il magistrato sono le "storture" elencate dal presidente della Società nazionale di psichiatria penitenziaria. Il nodo delle consulenze sta soprattutto nel ruolo che gli si affida: stabilire se un detenuto è socialmente pericoloso. Dell’Acqua (Forum Salute Mentale): chi lo certifica non sa quello che dice. "Venti anni di reclusione in carcere più sei anni di "misura di sicurezza" da espiare all’interno di una casa di cura". È questa la richiesta di condanna che il pm di Milano, Isidoro Palma, ha chiesto al termine della sua requisitoria per Kabobo, il ghanese soprannominato "il picconatore" per aver ucciso l’11 maggio scorso a colpi, appunto, dì piccone tre uomini nel quartiere Niguarda dì Milano. Durante la sua requisitoria, il rappresentante della pubblica accusa si è soffermato sulla necessità di riconoscere la semi infermità mentale a Kabobo che tuttavia quel sabato mattina del maggio scorso "ha agito con lucidità". Il pm Palma ha inoltre analizzato il movente che ha spinto Kabobo ad uccide tre uomini a colpi di piccone: "Il rancore nutrito nei confronti di una società che lo ha sempre tenuto ai margini, la finalità predatoria del gesto e l’esigenza di catalizzare più attenzione su di sé". Vizio totale di mente, capacità d’intendere e volere, semi-infermità. Tre "stati" che nel caso Kabobo si sono rincorsi sin dal giorno del suo arresto nel maggio scorso. All’inizio il ghanese che uccise a colpi di piccone tre passanti venne dichiarato, al momento del fatto, con capacità d’intendere "grandemente scemata, ma non totalmente assente" e capacità di volere "sufficientemente conservata". Dunque processabile come sano di mente e rinchiuso in carcere in attesa di giudizio. Una perizia del tribunale a gennaio, dopo un anno e mezzo di reclusione, ne ha però chiesto invano il trasferimento in Opg. Infatti, secondo i giudici del riesame, il suo posto è la cella perché "non vi è incompatibilità" tra la detenzione e la patologia psichiatrica del picconatore di Milano. In più, dicono, "sussiste un gravissimo ed eccezionale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie". Il processo Kabobo tuttavia è solo l’ultimo episodio (restano esemplari anche casi come quello di Bartolomeo Gagliano) , in cui il tema complicato e delicato delle perizie psichiatriche torna centrale, stabilendo il limite tra il carcere e l’Opg. Un’asticella sottile e labile, insomma, tra il reo e il folle-reo e reo-folle, almeno secondo la giustizia. Ma che cambia profondamente il destino del presunto infermo che commette un reato. È come scoperchiare un vaso di Pandora, però. Che inizia col portare alla luce il tariffario al ribasso con cui vengono pagati i periti dal tribunale. E non solo perché il prezzario è fermo a dodici anni fa, ma anche per il fatto che uno psichiatra forense percepisce meno di un decimo di un ingegnere chiamato dal tribunale, ad esempio. Eppure dalla sua perizia deriva il futuro di un uomo, prima che di un carcerato. Scorrendo, difatti, il decreto di adeguamento dei compensi di periti e consulenti del 30 maggio 2002, si legge che "per la perizia o la consulenza tecnica in materia psichiatrica o criminologica spetta al perito o al consulente tecnico un onorario da euro 96,58 a euro 387,86". Ovviamente lordi. Da dividere tra visite in carcere, presenze nelle udienze, lettura dei fascicoli e la stesura della perizia vera e propria. Ma gli psichiatri vanno oltre la semplice questione monetaria. E chi non fa perizie in tribunale per scelta, come Mario Iannucci, presidente della Società italiana di psichiatria penitenziaria, ne descrive tutte le storture. "Un medico che non ha in cura la persona da molto tempo - esordisce - non è in grado di ricostruire situazioni gravi". Le valutazioni, perciò, "devono farle i clinici", dice. Ecco perché secondo lui, "è farsesca" la logica di interpellare u-no psichiatra forense, anche perché "spesso sono staccati dai servizi che hanno in cura il paziente" colpevole di reato. In più, affonda Iannucci, spesso i periti vengono nominati tra persone di fiducia del magistrato, "anche perché sono in grado di leggere le sue intenzioni". E, tuona alla fine, "chi accetti di assecondare il pregiudizio di chi gli assegna una perizia delicata all’interno di un servizio indelicato è già povero". Sulla stessa lunghezza d’onda Peppe dell’Acqua del Forum Salute Mentale, che arriva a definire la psichiatria troppe volte "ancella-soccorritrice della giustizia" e il perito colui che accetta di fare "un’operazione ideologica che non ha fondamento scientifico", a cui tuttavia viene riconosciuto "un super potere. E questo è l’aspetto più delicato e terribile". Perciò, dice, occorre interrogarsi "sull’insensatezza delle risposte che pretende di dare, sui destini che essa drammaticamente costruisce". Drammatici, "perché fondati su processi di annientamento al di fuori di un pur che minimo criterio oggettivo", aggiunge, che non c’è e non può esserci anche se i periti venissero pagati il quadruplo. Così il nodo delle perizie psichiatriche sta soprattutto nel ruolo che gli si affida, cioè quello di stabilire la pericolosità sociale di una persona. Quando si certifica che un detenuto è pericoloso socialmente, conclude perciò lo psichiatra triestino, "nessuno sa quello che dice". Giustizia: ecco la "cella liscia", dove vengono torturati i detenuti nelle carceri italiane di Chiara Rizzo Tempi, 11 marzo 2014 Intervista ad Arianna Giunti, che ha raccolto in un libro le testimonianze inedite delle vittime di questa "tradizione" disumana. Ennesima stortura di un sistema penitenziario da terzo mondo. "È stato il padre di Carlo M., detenuto morto in carcere, a raccontarmi per primo della "cella liscia", come è chiamata nel gergo carcerario. Per lavoro mi occupo spesso di carcere, ma fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare. L’uomo mi ha raccontato di questa forma di tortura, su cui solo oggi per fortuna si inizia a fare progressivamente luce". Arianna Giunti, giornalista freelance per il gruppo L’Espresso (premio Guido Vergani "cronista dell’anno" 2010), racconta a tempi.it com’è nato l’e-book "La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane" (Edizioni Informant). Attraverso documenti e testimonianze dettagliate, Giunti è riuscita a ricostruire aspetti sconosciuti dell’ingiustizia che è diventato il sistema carcerario italiano, fatto di soprusi e violenze, oltre che di una generale indifferenza per il fallimento della funzione rieducativa della pena. Cos’è la "cella liscia"? Proprio in questi giorni è stata avviata un’inchiesta dalla procura di Napoli basata su circa 70 esposti di carcerati che denunciano l’esistenza di questa cella liscia o "cella zero". Si chiama "liscia" perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Stando alle testimonianze raccolte, il detenuto viene rinchiuso lì per punizione, a volte solo per alcune ore, in altri casi anche per una settimana. Viene lasciato per tutto il giorno da solo, abbandonato a se stesso. I testimoni all’unanimità riferiscono che una volta al giorno nella cella liscia si è sottoposti a pestaggio da parte degli agenti. Il detenuto Carlo Marchiori, finito in cella al Mammagialla di Viterbo per droga, prima di morire nel 2005 aveva raccontato al padre della cella liscia: "Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare fieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come se fossero una cosa bella". Ci sono celle lisce in tutte le carceri italiane? Solo negli istituti dove ci sono ancora le celle di isolamento: oltre al caso di Viterbo, ho raccolto testimonianze relative al Santa Maria Maggiore di Venezia, Le Sughere di Livorno, Marassi di Genova, Sollicciano di Firenze, la Casa circondariale di Asti. Però le segnalazioni citate nel libro e raccolte dall’osservatorio "Ristretti Orizzonti" non hanno prodotto molte inchieste da parte della magistratura, e quando questo è avvenuto i processi si sono chiusi senza condanne. Come si è convinta che non si trattava di fantasie dei carcerati? Quasi tutte le testimonianze che ho raccolto sono frutto di confidenze dei detenuti ai parenti, consegnate in alcuni casi prima di morire dietro le sbarre. Sottolineo che quelle che avvengono nelle celle lisce non sono torture che portano direttamente al decesso, non c’è un nesso causale dimostrato. Non sono pestaggi violenti, ma resta il fatto che sono abusi. Le testimonianze mi hanno convinta perché combaciano perfettamente tra loro pur provenendo da detenuti in carceri geograficamente distanti, che non erano in contatto tra loro. Inoltre le parole delle vittime non sono mai intese ad accusare la guardia di turno o altre persone in particolare, non sono dettate da sete di vendetta. E poi una sentenza che ha riconosciuto l’esistenza di questa forma di "tortura" c’è. Di quale sentenza parla? Parlo del caso di Claudio Renne e Andrea Cirino. I due erano detenuti nel carcere di Asti e i fatti che hanno raccontato alla magistratura sono avvenuti nel 2004. Come molti altri, però, temevano ritorsioni anche dopo la scarcerazione, quindi hanno sporto denuncia sulla cella liscia solo nel 2010, appoggiati dall’Associazione Antigone. Nel libro ricostruisco le prove che hanno portato il tribunale a emettere nel dicembre 2012 una sentenza di condanna nei confronti di quella che i giudici hanno definito "la squadretta" di guardie: due dei quattro responsabili sono stati radiati dalla polizia penitenziaria un anno fa. Ma nel frattempo i reati erano caduti in prescrizione. Del resto erano reati lievi, visto che in Italia non esiste il crimine di "tortura". L’indagine aperta adesso a Napoli invece promette qualcosa di più, perché in questo caso un garante dei detenuti ha raccolto per iscritto settanta testimonianze. Nel libro affronta anche un aspetto meno drammatico ma ugualmente grave dell’emergenza carcere, la mancata funzione rieducativa della pena… La funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti italiani sono "condannati a vita" a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi, tra i più alti d’Europa. Solo il 17,5 per cento degli oltre 67 mila detenuti in Italia lavora: sono 11.579 persone. A queste si aggiungono solo altri 2.266 fortunati, impiegati per altri datori. E se possibile, una volta fuori, i detenuti si trovano spesso davanti a prospettive ancora più cupe. Posso raccontare una storia emblematica? Prego… Mi ha colpita molto la vicenda di Sebastiano, 35 anni, ex detenuto a San Vittore, Milano, per piccoli reati di droga. In carcere Sebastiano era riuscito a disintossicarsi e aveva imparato a fare il giardiniere, sperando "che da quel momento non avrei più commesso cazzate". Una volta uscito di galera, però, si è ritrovato addosso un marchio indelebile. Quindici giorni dopo la scarcerazione ha trovato lavoro come pony express, ma a un certo punto ha iniziato improvvisamente a soffrire di crisi di panico: quando per strada sentiva le sirene delle volanti o vedeva un uomo in divisa, gli si annebbiava la vista e non riusciva più a muoversi. "Sette anni di carcere non passano indenni", mi ha raccontato. Avrebbe dovuto iniziare un percorso psicoterapeutico, ma non poteva permetterselo. Così lo hanno licenziato dicendogli: "Sappiamo dei suoi problemi passati, ma non possiamo permetterci persone problematiche". Nel mese successivo ha fatto un altro colloquio e lo ha superato. Ma quando si è presentato nella nuova azienda, si è visto sbattere la porta in faccia: "Ci spiace, deve esserci stato un errore, lei ha precedenti penali". Oggi, cinque anni dopo la scarcerazione, Sebastiano sta ancora provando a reinserirsi nel mercato del lavoro. Non ce l’ha ancora fatta. Nel libro racconto anche il caso di un uomo, Marcello, ingiustamente rinchiuso in prigione in via cautelare e poi scagionato dalle accuse: nemmeno l’assoluzione è servita a cancellare dal suo curriculum l’onta della detenzione. Veneto: a Nogara la "capitale" regionale dei detenuti psichiatrici, critiche dal M5S di Alessio Corazza Corriere del Veneto, 11 marzo 2014 Sarà l’unica di questo tipo nella regione. Paese diviso, opposizioni all’attacco. Il sindaco: "Nessun Kabobo, ma investimenti e lavoro" Un tempo venivano chiamati manicomi criminali, poi sono stati addolciti con l’acronimo Opg (ospedali psichiatrico-giudiziari), adesso arriva una nuova sigla: Rems, che sta per Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria. A non cambiare è la finalità: strutture destinate ad accogliere detenuti cui è stato diagnosticata una qualche forma di infermità mentale. La nuova normativa, che recepisce precise direttive europee, prevede la chiusura dei sei vecchi Opg italiani. Gli internati dovranno essere trasferiti nell’apposito Rems della propria regione d’origine. Il Veneto si è mosso in ritardo ma ora finalmente ha individuato il luogo dove dar vita alla struttura: sarà a Nogara, proprio a fianco dell’ospedale Stellini. È stato il sindaco, Luciano Mirandola, ad avanzare la candidatura del suo paese. "Il bando della Regione prevedeva precisi requisiti - spiega - tra cui l’esistenza di ospedali come assistenza psichiatrica già in corso, terreni liberi per la nuova costruzione, la presenza di una stazione dei carabinieri, un sito decentrato ma accessibile. Noi presentavamo tutte queste caratteristiche". A far gola a Nogara è l’investimento di 12,5 milioni di euro, più altri 2,5 per l’avviamento della gestione: la struttura sarà di dimensioni ridotte, con 40 posti letto (contro i 280 del vecchio Opg di Castiglione delle Stiviere) ma circa 150 posti di lavoro tra medici, infermieri, guardie. Già, però questa idea di Nogara "capitale veneta dei matti" ha trovato non poche resistenze in paese. "Anche in giunta c’era qualche preoccupazione, abbiamo fatto tutti gli approfondimenti del caso - spiega il sindaco - certo, una parte del paese resta contraria per motivi pregiudiziali. Ma qui non arriverà nessun Kabobo, per capirci". Domani, in un incontro pubblico in paese, interverrà anche il sindaco di Castiglione delle Stiviere, Alessandro Novellini, che ha più volte avuto modo di affermare che i detenuti psichiatrici non comportano alcun pericolo per la popolazione (proprio da Castiglione arriveranno una parte dei detenuti). "E poi noi a Nogara da anni facciamo iniziative con i malati mentali - continua Mirandola - è chiaro che qualche problema potrà esserci, ma questo ci induce ad essere ancora più presenti". Il progetto è fortemente contestato dalle opposizioni che tuttavia, almeno ufficialmente, dicono di non essere contrari alla struttura in sé, ma al fatto che sorga sui terreni del lascito di Francesco Stellini, storico benefattore del paese che ha dato il nome all’ospedale da lui voluto e finanziato. "Vergognoso - ha protestato il leghista (ed ex sindaco) Simone Falco. È questo il modo di rispettare il testamento di Stellini che prevedeva fossero i poverelli di Nogara a beneficiarne?" Mirco Moreschi, del Movimento 5 Stelle, insiste: "Non vogliamo che venga sprecato denaro pubblico per cementificare un terreno del lascito Stellini quando una struttura da utilizzare già c’è". Il sindaco non si scompone: "La legge prevede nuove costruzioni. E poi la struttura nuova ci dà l’occasione di ristrutturare quella vecchia". Infatti, per il Comune, la disponibilità ad accogliere i detenuti psichiatrici è anche la leva con cui contrattare, con la Regione, un futuro per il vecchio ospedale, riempiendolo di servizi, dal potenziamento della psichiatria, alla radiologia, a posti letto per i malati di Alzheimer, agli ambulatori dei medici di base. "L’idea è di fare una cittadella della salute - spiega il sindaco - Se tutto questo andasse in porto, per almeno vent’anni avremmo un ruolo e un indotto che nessuno ci potrà togliere". Insieme ai detenuti psichiatrici di tutto il Veneto. Uno spreco di denaro pubblico, di Mirco Moreschi (www.beppegrillo.it) Nel Consiglio Comunale del 24 febbraio 2014 l’Amministrazione Mirandola ha approvato la costruzione, sui terreni del lascito Stellini, di una struttura per la detenzione e la cura di malati psichiatrici provenienti dagli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Precisiamo, a scanso di equivoci e fraintendimenti, che non siamo contrari alle Rems o mini Opg. Siamo convinti che i malati/detenuti debbano essere curati e non ghettizzati e, per quanto possibile, reinseriti nella società. Chiarito questo, durante il consiglio comunale abbiamo chiesto spiegazioni su tre punti che a noi stanno particolarmente a cuore. 1. Perché costruire una struttura ex novo sui terreni del lascito Stellini, quando esiste già l’ospedale che è tuttora vuoto e che può, con le dovute modifiche strutturali, accogliere i 40 posti letto della futura Rems? A nostro avviso le modifiche strutturali si possono fare spendendo sicuramente meno dei 12 milioni di euro previsti per la costruzione ex novo. 2. Perché cementificare territorio vergine quando, come detto sopra, abbiamo già in essere una struttura per più della metà vuota e già pronta all’uso? Ricordiamo che la Regione Veneto e l’Ulss, in questi anni, hanno provveduto alla sistemazione del tetto e, recentemente, a rendere una parte dell’edificio antisismica. L’ex Ospedale Stellini c’è: usiamolo! 3. Il documento, votato in Consiglio Comunale dalla sola maggioranza, non dà nessuna garanzia che la Regione Veneto e l’Ulss procedano con la "rinascita" dell’ospedale Stellini. Non ci sono garanzie sulla futura realizzazione di Pronto Soccorso, Tac, Risonanza, e tutto quanto promesso nel documento che la maggioranza ha votato. Molti dubbi sorgono riguardo i numeri che Sindaco e maggioranza continuano a sparare sui presunti posti di lavoro. Su un articolo de L’Arena si è parlato di 120 posti di lavoro, in consiglio il Sindaco ha detto 150/200 e nell’ultimo volantino la maggioranza parla di almeno 150. I numeri sembrano buttati a caso per cercare di indorare la pillola alla cittadinanza che non pare affatto contenta di questa scelta. Quanti sono questi futuri posti di lavoro? Si continuano a chiedere sacrifici alla cittadinanza sotto forma di nuove tasse e nuovi balzelli e, nello stesso tempo, si trovano 12 milioni di euro per la cementificazione di territorio vergine, mentre si lasciano intere strutture, già in essere, vuote ed abbandonate. Firenze: Padre Davide, Cappellano di Solliccianino "il carcere offra lavoro non vendetta" www.firenzepost.it, 11 marzo 2014 Sono padre Davide, frate domenicano, attualmente cappellano di Solliccianino, ma nelle patrie galere da quasi venticinque anni, di cui diciotto passati interamente sulla Casa di Reclusione di Gorgona. Premesso che uno Stato di diritto, come il nostro, è chiamato innanzi tutto a superare il conflitto e non a suggellarlo, mi chiedo se non sia arrivato il momento epocale per tutti di ripensare in toto il problema carcerario. In attesa, si fa presto a dirlo, rimangono le carceri, immagini speculari e fedeli della nostra società. In attesa rimane Solliccianino, un carcere a custodia attenuata, più umano dunque, ma non di certo paradiso, perché un carcere non può, né potrà mai essere un paradiso! Eppure Solliccianino o Casa Circondariale "Mario Gozzini", rimane nello scenario quasi apocalittico delle carceri, un’eccezione mirabile, ma dovrebbe essere la regola ed invece rischia di essere cancellato o comunque paurosamente ridimensionato. Non è il carcere che non funziona e sembra un paradosso dirlo, ma è lo Stato che non funziona; è il Ministero della Giustizia (la Grazia guarda caso è sparita!) che viene meno ad un dovere importantissimo per la qualità di tutti i detenuti: il lavoro, espressamente previsto e scritto nello stesso ordinamento penitenziario, come uno degli elementi cardini del trattamento. È uno Stato, il nostro, che alla faccia della rieducazione e del reinserimento, invoglia vergognosamente i suoi detenuti-cittadini, alla più completa vita parassitaria. Bisognerebbe avere il coraggio di uscire, una volta per tutte, dalla logica perversa degli interventi legislativi di emergenza, per entrare finalmente nella logica della santa normalità. Ma non c’è solo Solliccianino con i suoi tanti problemi. Ci sono carceri, che scoppiano da troppo tempo, gremiti fino all’inverosimile per colpa di leggi ingiuste ed inique; l’aumento paurosamente allarmante di detenuti suicidi; malati di Aids o comunque tossici, che dovrebbero stare dappertutto meno che in galera; l’incredibile aumento dei minorenni nelle nostre galere, in barba alla prevista chiusura dei carceri minorili nel lontano 1989 e non ultimo i tanti, i troppi extra-comunitari presenti, che non avendo punti di riferimenti esterni, non sono italiani né europei, non possono di fatto accedere ai permessi premio e si fanno due volte la galera. Se poi, quest’ultimi hanno la sfortuna di avere a fine pena, anche l’espulsione coatta, vengono comunque espulsi, pur sapendo che verranno di certo condannati a morte nei loro paesi. Ricordo a questo proposito, di aver scritto personalmente all’allora ministro degli interni, Giorgio Napolitano, ora Presidente della Repubblica e dopo di me, gli scrissero il Direttore di Gorgona ed il Vescovo di Livorno: aspettiamo ancora risposta! Ma quello che mi preoccupa seriamente è il gravissimo problema delle famiglie, che subiscono, loro malgrado, le pene inflitte ai loro congiunti con perquisizioni e toccamenti vari, che offendono il più elementare pudore della dignità umana. Se poi a questo si aggiungono i divieti d’incontro, penso allo stramaledetto 41 bis, che il ministro Alfano minaccia di voler inasprire ancora di più, altro che carceri della speranza! Tempo addietro ho visitato l’ex carcere di massima sicurezza di Pianosa ed ho provato dolore per tutte le offese gratuite recate al genere umano, come non bastassero quelle già esistenti. Tutto sistematicamente murato sul pavimento: letto, tavolo, sedia, i detenuti venivano sorvegliati 24 ore su 24, anche quando stavano nel bagno. Saranno anche dei bastardi, non lo nego, ma sfido chiunque ad uscirne migliore, dopo un trattamento simile, sfacciatamente vendicativo e cosa ancora più grave, perseguito e voluto proprio dallo Stato. Per non parlare del vergognoso invito dello Stato alla delazione, alias collaborazione, come se non si sapesse da machiavellica memoria, che il fine non giustifica mai i mezzi e perciò umanamente scorretta, eticamente immorale e legalmente illecita. Li chiamano anche pentiti, termine quanto mai improprio, perché prettamente religioso. Ci si penta pure dei propri errori, anche di fronte al mondo, ma ci si fermi qui, per carità. È difficile credere ai pentimenti, che provocano arresti, quando dietro c’è il perverso allettamento di uno Stato, che se parli ti sconta la pena, se parli ancora ti mantiene, a nostre spese e se parli troppo ti cambia i connotati, residenza e ti assicura uno stipendio. Una giustizia così mercanteggiata, non è degna di tale nome. Strana una Chiesa che su argomenti come questi scelga il solito silenzio. E che dire dell’agonizzante "legge Gozzini" con i suoi ben noti benefici a favore dei detenuti? Rischia di essere completamente vanificata, vuoi per le sue continue modifiche in senso sempre e soltanto restrittivo, vuoi perché da troppi interpretata secondo una sterile logica del "do ut des". "Basterebbe - e a dirlo è un ex magistrato, Giancarlo De Cataldo - strutturare permessi, licenze, semilibertà e tutti gli istituti alternativi alla detenzione insomma, non più come benefici legati all’idea di un premio, ma alla stregua di diritti a cui tutti i detenuti possono accedere, dopo aver espiato una certa quota di pena". Sarebbe davvero, dico io, un ulteriore e decisivo passo avanti verso la tanta declamata umanizzazione del pianeta carcere. Smettiamola di concepire il carcere in maniera idealista, quasi fossimo noi in grado di poter rieducare o reinserire qualcuno, premiando i buoni e castigando i cattivi. Alle volte ho quasi l’impressione che tutti, nell’amministrazione penitenziaria, vogliano fare il prete… Forse ne guadagneremo tutti se anziché profanare le coscienze altrui, ci sforzassimo, Stato per primo, a fornire al cosiddetto reo, strumenti veri, concreti, che siano davvero alternativi alla sua devianza. Non sarebbe giusto fosse lo Stato in primis, che si arroga a torto o a ragione di sbattere qualcuno in galera, ad avere il dovere sacrosanto di dare lavoro al detenuto, dentro e soprattutto fuori dalla galera? Machiavelli sosteneva, in un celebre capitolo del Principe, che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe. E sappiamo bene che il leone e la volpe sono simbolo della forza e dell’astuzia. Forza per portare avanti le riforme, anche se impopolari; astuzia, per non lasciarsi impelagare dalle pastoie burocratiche ed è con questo spirito che mi auguro presto, molto presto, un atto non di clemenza, ma di giustizia dal Ministero della… Giustizia con un giusto indulto ed una opportuna amnistia. Il resto è nelle nostre mani e per chi ci crede ancora, nelle mani di Dio. Volterra (Pi): Ugl; suicida poliziotto penitenziario, sistema non dà garanzie al personale Dire, 11 marzo 2014 "Esprimiamo il nostro cordoglio e la nostra vicinanza alla famiglia dell’agente di Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa di Reclusione di Volterra che si è tolto la vita questa mattina. Anche se, da quanto apprendiamo, le motivazioni del gesto sono estranee all’attività lavorativa, torniamo a denunciare la fragilità di un sistema che ormai non offre più al personale né sostegno né garanzie". Lo dice il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, secondo cui "l’Amministrazione continua a chiedere impegno e dedizione, senza però offrire alcuna tutela, anzi, inducendo le donne e gli uomini del Corpo a svolgere il proprio difficile compito in condizioni di grave criticità organizzativa e gestionale. Così facendo però - continua - il personale subisce un inaccettabile carico di stress pscio-fisico che purtroppo, in alcuni casi, può essere concausa di gesti così tragici". "Auspichiamo che il nostro grido d’allarme non resti ancora inascoltato e che il ministro della Giustizia promuova l’utilizzo di fondi straordinari destinati all’attuazione del piano carceri anche per migliorare il benessere del personale. Riteniamo quindi doveroso- conclude Moretti- rilanciare al Guardasigilli questo Sos in soccorso dei nostri eroi silenziosi che ogni giorno, con incomparabile spirito di sacrificio ed abnegazione, si battono in difesa della legalità". Pavia: Commissione regionale sulle carceri; a Torre del Gallo carenze assistenza sanitaria Ansa, 11 marzo 2014 "Il carcere di Torre del Gallo, a Pavia, ha recentemente aperto un secondo padiglione nel quale sono stati accolti 250 detenuti: ma per ora non ha provveduto, per mancanza di risorse, ad adeguare le strutture sanitarie all’aumento della popolazione carceraria e tutto questo sta provocando notevoli problemi". È la conclusione alla quale sono giunti i rappresentanti della "Commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia" che oggi hanno visitato l’istituto penitenziario pavese. Insieme a Fabio Fanetti, consigliere della Lista Maroni e presidente della Commissione, erano presenti anche i consiglieri regionali Iolanda Nanni (Movimento 5 Stelle) e Fabio Pizzul (Partito Democratico). "Il grande impegno dei dipendenti e dei volontari che operano nel carcere di Torre del Gallo - ha sottolineato Fabio Fanetti - permette di far fronte ai seri problemi strutturali. In questo istituto si riscontra la volontà di avviare concretamente un percorso di recupero sociale dei detenuti". Iolanda Nanni si è soffermata sull’inadeguatezza dei servizi sanitari: "Purtroppo ci è stato detto che non verrà realizzato il polo psichiatrico, come era stato previsto tempo fa. A Pavia sono stati trasferiti numerosi detenuti che arrivano dal carcere di Opera: ma in quell’istituto potevano disporre di un centro clinico, che qui invece manca. Nell’ultimo mese una cinquantina di detenuti di Torre dal Gallo sono stati trasferiti, per visite o controlli, al Policlinico San Matteo: è un impegno gravoso per chi lavora nel carcere e, tra l’altro, questi continui trasferimenti sottraggono per diverso tempo all’istituto penitenziario del personale che qui potrebbe svolgere un compito prezioso. La disponibilità di tanti volontari non basta, anche perché la presenza degli educatori è ancora insufficiente". Per Fabio Pizzul è più che mai necessario "trasformare l’istituto di Torre del Gallo a Pavia da casa circondariale a casa di reclusione, per dotarlo di quei servizi di cui necessita dopo l’apertura di un nuovo padiglione e l’arrivo di un numero così importante di detenuti". Busto Arsizio: nel carcere "lavori in corso", per realizzare nuovi 100 posti detentivi di Rosella Formenti Il Giorno, 11 marzo 2014 Detenuti ben oltre la capienza. Entro maggio le opere dovrebbero essere completate, in modo che l’Italia non debba pagare la pesante sanzione decisa dalla Corte europea dei diritti umani. Lavori in corso alla Casa circondariale di Busto Arsizio per realizzare nuovi 100 posti, un intervento grazie al quale si potrà risolvere il problema del sovraffollamento. Una situazione che per la realtà carceraria bustese si trascina da anni e che in qualche caso ha portato la popolazione oltre le sbarre a 430 detenuti, a fronte di una struttura che era stata realizzata con una capienza di 167 posti. I lavori sono partiti alcune settimane fa, "procedono spediti - dice il direttore Orazio Sorrentini - gli operai sono all’opera per trasformare l’area nella quale prima erano detenuti i tossicodipendenti nella nuova ala di trattamento avanzato. Stiamo attrezzando anche un’area verde e ampliando la sala colloqui". Entro maggio le opere dovrebbero essere completate e in questo modo l’Italia eviterà di pagare la pesante sanzione decisa dalla Corte europea dei diritti umani che l’ha condannata per "trattamenti inumani" nelle carceri. Condanna arrivata nel gennaio 2013 dopo il ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. Da qui la necessità di intervenire con urgenza e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Per quanto riguarda la struttura in via per Cassano nessuna nuova costruzione ma una diversa organizzazione degli spazi per ricavare le nuove celle e dunque 100 nuovi posti che daranno un po’ di respiro. Tre anni fa proprio la casa circondariale bustese era stata inserita nell’elenco delle strutture da ampliare, il ministero e la Regione Lombardia avevano firmato un protocollo d’intesa per la costruzione di un nuovo edificio per 200 posti. Poi il governo Monti e la spending review avevano messo il progetto nel cassetto. Nel gennaio 2013 la condanna della Corte europea dei diritti umani con la richiesta di migliorare la situazione. A Busto Arsizio in via per Cassano si sta lavorando per mettere a disposizione 100 nuovi posti. Intanto la popolazione carceraria bustese sfiora ancora i 400 carcerati, molti gli stranieri, ma nonostante le difficoltà non mancano le esperienze positive di lavoro nelle quali sono impegnati i detenuti. Un fiore all’occhiello è il laboratorio di cioccolateria che produce dolci e cioccolatini di ottima qualità, che hanno ottenuto anche prestigiosi riconoscimenti. Bilancio positivo anche per il panificio. Importante è anche la rete di relazioni che la casa circondariale ha avviato con l’amministrazione comunale e le associazioni del territorio per favorire esperienze lavorative, passi importanti per il reinserimento. Nei giorni scorsi in carcere un gruppo di studenti delle scuole superiori accompagnati dal cappellano don Silvano Brambilla hanno incontrato una quarantina di detenuti, esperienza di confronto importante. Sassari: in arrivo detenuti "sex offender"? La direttrice "una ipotesi senza fondamento" di Francesco Bellu www.sassarinotizie.com, 11 marzo 2014 L’ipotesi di trasferimento dei detenuti per reati sessuali dal carcere di Iglesias a quello di Bancali "è destituito da ogni fondamento". Lo ha dichiarato la direttrice del penitenziario sassarese Patrizia Incollu commentando l’ipotesi rilanciata dal presidente dell’associazione Socialismo-Diritti e Riforme Maria Grazia Caligaris. "È vero - ha spiegato Incollu - che nel nuovo carcere di Sassari è prevista una sezione destinata ai colpevoli o in attesa di giudizio per reati sessuali, ma al momento non è previsto alcun trasferimento a breve". Il rischio paventato dall’associazione è che i detenuti che saranno trasferiti a Sassari da Iglesias potrebbero rallentare il percorso di recupero iniziato in un altro carcere, anche per la lontananza dalle famiglie di origine. "Ci sono tutte le garanzie che la riabilitazione prosegua anche a Sassari - ha precisato Incollu - e non credo nemmeno che tutti i detenuti che un giorno verranno a Sassari siano originari del Cagliaritano". Cagliari: Pili (Unidos); chiusura carcere di Iglesias è scelta irrazionale di spending review Adnkronos, 11 marzo 2014 "La decisione irrazionale e grave di chiudere il carcere di Iglesias è l’ennesima dimostrazione di una gestione scandalosa del sistema penitenziario in Sardegna". Lo ha detto il deputato sardo di Unidos Mauro Pili in una interrogazione urgente presentata al Ministro della Giustizia Andrea Orlando per sollecitare la revoca della decisione di chiudere il carcere di Iglesias, che ospita detenuti ‘sex offender’, condannati cioè per reati sessuali che saranno trasferiti nel penitenziario di Bancali, a Sassari. Pili sollecita Orlando a ritrattare la "decisione che costituisce un errore tecnico sostanziale, proprio per la tipologia di reati che si scontano in quella struttura. A questo si aggiunge che sarebbe un danno erariale gravissimo proprio perché verrebbe resa inutilizzata una struttura costata miliardi di lire e che era funzionale alle esigenze del territorio e delle politiche di rieducazione dei detenuti". "Si tratta - per Pili - di una chiusura decisa unilateralmente dall’Amministrazione che avrà gravi ripercussioni su tutto il personale in servizio a Iglesias e sulle loro famiglie e non solo, considerato che c’è tutto un indotto economico che vi ruota attorno". "La chiusura dell’istituto di Iglesias costituisce un vero e proprio danno economico considerato che nel resto nel Paese molti altri istituti presentano un rapporto tra costi e benefici decisamente più sconveniente - prosegue Pili - oltre anche ad essere fatiscenti e non rispettare le norme europee". Iglesias, inoltre, è "certamente uno dei pochi istituti sardi dove ai detenuti sono garantite condizioni di vivibilità consone ad un essere umano, come previsto Consiglio d’Europa. Si è nei limiti della capienza tollerabile, ma - sottolinea Pili - i detenuti sono ospitati nelle camere di detenzione in un numero non superiore a due". La chiusura di Iglesias, ribadisce Pili, "andrà ad incidere sull’economia di una zona, quella del Sulcis Iglesiente, già di per sé provata poiché l’indotto sicuramente risentirà gravemente dell’assenza di una struttura importante come il carcere. Sarà duramente colpito il personale della ditta appaltatrice del servizio di mantenimento dei detenuti, nonché quello della ditta che gestisce la mensa di servizio ed altro". "Tutto questo - conclude Pili - risulta incomprensibile perché, in regime di spending review, di gravi crisi economiche, di carenza di posti letto per i detenuti, a fronte di sanzioni da parte del Consiglio d’Europa, e di iniziative per l’amnistia e per l’indulto l’amministrazione penitenziaria dopo aver speso più di 1.000.000 di euro per la costruzione di nuovi locali quali la caserma agenti, due capannoni per le lavorazioni dei detenuti, la ristrutturazione dei locali destinati agli uffici e la rimessa in opera del condotto fognario, decida di chiudere l’istituto, lasciando aperti carceri vecchi e fatiscenti invivibili non solo per i detenuti ma anche per il personale". Pili chiede quindi al Ministro la revocare immediata del provvedimento di chiusura del carcere "per evidenti incongruenze gestionali, organizzative ed economiche e predisporre un nuovo piano gestionale che preveda la salvaguardia di quelle strutture efficienti e necessarie a garantire una gestione razionale del sistema carcerario sardo". Catania: Osapp; al carcere di Bicocca soltanto 100 poliziotti penitenziari per 270 detenuti www.blogsicilia.it, 11 marzo 2014 Il personale di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Catania "Bicocca" è ormai prossimo al collasso totale e senza urgenti provvedimenti la sicurezza penitenziaria etnea potrebbe degenerare così tanto che anche la sicurezza pubblica potrebbe avere ripercussioni. Lo scrive l’Osapp, organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, che ha indirizzato una lettera al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e, per conoscenza, al Ministro della Giustizia, al Capo del Dap, alla Direzione Generale del Personale e della Formazione, al Direttore della Casa Circondariale di Catania Bicocca. L’Osapp chiede un incontro per trovare soluzioni congiunte rispetto alle criticità "che hanno ridotto il personale del Corpo in servizio presso l’Istituto di Bicocca in una simile situazione". Il sindacato sottolinea la gravissima carenza di organico, sono presenti attualmente solo 100 unità circa, acuita anche dagli innumerevoli distacchi in uscita (circa 30), alla quale si aggiunge il sovraffollamento penitenziario. Sono 270 i presenti - scrive l’Osapp - mentre la capienza regolamentare è di 150 detenuti. Il sindacato chiede al Provveditore di avviare tutti gli iter necessari per riportare alle soglie della sicurezza il personale del Reparto della Casa Circondariale di Catania Bicocca e si dice pronto ad avviare lo stato di agitazione, qualora non dovessero giungere dalla sedi dipartimentali segnali concreti di attenzione. Napoli: la Polizia stradale in "missione" all’Ipm di Nisida, per promuovere la sicurezza La Presse, 11 marzo 2014 Nell’ambito delle iniziative finalizzate all’educazione della sicurezza stradale la polizia di Stato ha predisposto, all’istituto penale per i minorenni "Nisida" di Napoli domani alle 10 la proiezione del film "Young Europe". La pellicola, diretta da Matteo Vicino, realizzata con il contributo della Commissione Europea, viene presentato per la prima volta ai giovani detenuti di alcuni istituti penali per i minorenni d’Italia, nell’ambito di un programma di educazione stradale avviato dal dipartimento della pubblica sicurezza in collaborazione con il dipartimento per la giustizia minorile. Un’iniziativa promossa dalla polizia stradale e immediatamente condivisa dal direttore della struttura Gianluca Guida, per facilitare il percorso di integrazione sociale dei giovani detenuti in vista della loro rimessa in libertà attraverso l’utilizzo di un linguaggio diretto con il mondo dei ragazzi. Napoli: giovedì presentazione del libro "Fine pena mai" nel carcere Femminile di Pozzuoli La Presse, 11 marzo 2014 Giovedì 13 marzo, alle 9:30, presso la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (Via Giovan Battista Pergolesi 140), sarà presentato il libro "Fine pena mai" di Tina Cioffo, Alessandra Tommasino e Francesco Diana, edizioni la Meridiana. All’iniziativa, organizzata dal presidio di Libera Campi Flegrei, dedicato a Daniele Del Core, vittima innocente della criminalità, parteciperà una delegazione di studenti dell’Isis Tassinari. Non si tratta, infatti, di un semplice libro, ma di una rassegna di sentimenti, emozioni, studi, amicizie ed anche crimini; una raccolta di lettere scritte da detenuti quasi tutti ergastolani e rivolte ai giovani. Il presidio di Libera, nella totale condivisione dell’idea degli autori, secondo i quali non è possibile educare alla legalità se non si stabilisce un ponte con chi sta in carcere, nella consapevolezza di dover minare le mafie dal proprio interno, propone un confronto tra il mondo carcerario, le istituzioni, la chiesa e gli studenti. Il dibattito vedrà coinvolti, oltre agli autori, il magistrato della DDA di Napoli Cesare Sirignano, Bruno Vallefuoco e Carmen Del Core, rispettivamente referente per la memoria nazionale e territoriale di Libera ed il giornalista Ciro Biondi. Dopo i saluti della direttrice della Casa Circondariale Stella Scialpi, don Fernando Carannante, vicario episcopale della Carità e del dirigente scolastico Dario Sessa, la testimonianza di una detenuta impegnata nella Cooperativa Lazarrelle. A cura dell’Associazione Artemide la lettura di alcune lettere tratte dal libro. A fine incontro sarà offerto il Caffè dalla Cooperativa Lazzarelle, prodotto all’interno del Casa Circondariale dall’impresa sociale, che nasce dalla convinzione che il carcere non debba essere un luogo oscuro e dimenticato, e dall’idea, coraggiosa e un po’ incosciente, che è sempre possibile, anche nelle condizioni più difficili, che le donne siano protagoniste del loro cambiamento. Genova: manifestazione podistica dell’Uisp-Vivicittà, i detenuti corrono insieme agli atleti www.genova24.it, 11 marzo 2014 Vivicittà, la manifestazione podistica internazionale organizzata dall’Uisp in contemporanea in 40 città italiane e 20 nel mondo (quest’anno festeggerà la trentunesima edizione con appuntamento il 6 aprile) unisce, da sempre, lo sport ad importanti temi di solidarietà e promozione di diritti. A Genova, Vivicittà vedrà, per il terzo anno, un importante prologo nazionale. Lunedì 24 marzo, infatti, presso la Casa Circondariale di Marassi, si svolgerà la speciale manifestazione "Vivicittà - Porte Aperte". Lo start della corsa è previsto alle ore 15.00 circa. I detenuti partecipanti correranno insieme ad una rappresentativa di atleti tesserati per associazioni della Lega atletica leggera Uisp. Si correrà lungo un tracciato di 3 chilometri. Dall’interno del carcere si uscirà per correre anche due giri esterni attorno alle mura dell’Istituto. Contemporaneamente, sul campo interno, si disputerà una partita di calcio a sette fra i partecipanti alle attività dei progetti di sport per tutti, arbitrata da uno dei detenuti che hanno seguito e superato il corso arbitri organizzato dalla Lega calcio Uisp. La manifestazione è organizzata dal Comitato Uisp di Genova e dalla Direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi, con la collaborazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, con l’intento di gettare un "ponte" tra l’esterno e l’interno delle mura dove l’Uisp è stata presente, negli ultimi anni, tramite le azioni dell’omonimo progetto. Guinea Equatoriale: il Viceministro Pistelli; nostro costante per cittadino italiano in cella Tm News, 11 marzo 2014 "La Farnesina sta compiendo ogni sforzo" affinché siano garantite a Roberto Berardi, l’imprenditore italiano arrestato in Guinea Equatoriale, che ha denunciato gravi maltrattamenti in carcere, "condizioni detentive conformi agli standard di tutela dei diritti umani". È quanto si legge nella risposta scritta fornita dal vice ministro degli Esteri Lapo Pistelli all’interrogazione della senatrice Ivana Simeoni. "Ogni possibile via diplomatica è al vaglio affinché possa essere trovata una conclusione positiva all’iter giudiziario in cui è coinvolto il connazionale", ha aggiunto Pistelli. Ricordando la "costante azione di assistenza a suo favore" e, tra le altre cose, le "richieste formali volte ad assicurare al connazionale un trattamento dignitoso", il vice ministro degli Esteri ha spiegato che "la Farnesina ha svolto numerosi interventi di sensibilizzazione volti a favorire una soluzione positiva della vicenda" e "continuerà, anche tramite la nostra ambasciata competente, a non lasciare nulla di intentato al fine di tutelare i diritti del signor Berardi". Il console generale spagnolo a Bata, su richiesta dell’ambasciata italiana in Camerun, si è recato in visita a Roberto Berardi nello scorso mese di febbraio e, durante questa visita, non sono state riscontrate infermità o danni fisici apparenti. Ma numerosi sono stati gli interventi di sensibilizzazione svolti per favorire una soluzione positiva della vicenda. Il 22 aprile 2013 l’ambasciata italiana in Camerun - competente per la Guinea Equatoriale - ha inviato una nota verbale al ministero degli Esteri di Malabo per sollecitare la scarcerazione e il rientro in Italia del connazionale. Alcuni giorni dopo, l’ambasciatore ha indirizzato una richiesta ufficiale di liberazione al figlio del presidente, Teodorin. L’ambasciata ha inoltre sensibilizzato il Nunzio apostolico a Yaoundé, accreditato anche in Guinea Equatoriale, che è intervenuto direttamente presso il presidente della Repubblica Teodoro Obiang. Il 13 maggio scorso il direttore generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie, ambasciatore Ravaglia ha ricevuto l’ambasciatore della Guinea Equatoriale a Roma, Cecilia Obono Ndong (già convocata nei giorni precedenti), per sensibilizzarla sul caso del connazionale. E pochi giorni dopo Ravaglia ha sensibilizzato sulla vicenda anche l’incaricato d’affari della Guinea Equatoriale, presente alla Farnesina in occasione della Giornata dell’Africa. Il 20 giugno, inoltre, è stato svolto un passo anche presso il rappresentante permanente della Guinea Equatoriale alla Fao, ambasciatore Crisantos Obama Ondo. Dopo una serie di interventi presso l’ambasciata della Guinea Equatoriale a Yaoundé, a gennaio 2014 l’ambasciatore in Camerun Pontesilli ha sollevato la questione con il nuovo ambasciatore della Guinea Equatoriale, chiedendo nuovamente la massima attenzione al rispetto dei diritti umani. Negli stessi giorni, inoltre, è stata inviata una lettera alla delegazione dell’Unione Europea in quel Paese, competente anche per la Guinea Equatoriale, che ha assicurato un intervento sulle autorità di Malabo. Da ultimo lo stesso vice ministro Pistelli - nel corso della visita ad Addis Abeba per partecipare al Consiglio Esecutivo dell’Unione Africana (27-28 gennaio 2014) - ha sollecitato una soluzione positiva della vicenda incontrando il ministro degli Esteri della Guinea Equatoriale, Agapito Mba Mokuy. Questi ha confermato di essere ben a conoscenza del caso di Berardi e di essere in contatto con il ministero della Giustizia del proprio Paese. Mokuy ha auspicato una soluzione positiva della vicenda. Il ministro equato-guineano ha però aggiunto una nota di cautela, ricordando che l’imprenditore italiano sarebbe oggetto di indagini concernenti attività illecite in un altro Paese africano, il Camerun. India: l’ex ministro Terzi a Tommy ed Elisabetta "Tenete duro… l’Italia è con voi" www.savonanews.it, 11 marzo 2014 "Un caso connotato da "gravi irregolarità processuali", basti pensare che l’autopsia sul cadavere viene svolta (no comment!) da un oculista (!) e il corpo del defunto viene immediatamente cremato subito dopo, cancellando così ogni possibilità di raccogliere ulteriori prove riguardo alle effettive cause del decesso" "Tomaso, Elisabetta, tenete duro: l’Italia è con voi", parole forti quelle di Giulio Terzi, ex Ministro degli Affari Esteri, che tramite il suo profilo Facebook interviene per sostenere i due ragazzi rinchiusi nel carcere di Varanasi da oltre quattro anni. Il 4 febbraio 2010 viene ritrovato il corpo senza vita di Francesco Montis, compagno di viaggio di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni e loro sono stati accusati di omicidio dalle autorità locali. Quattro anni che i due ragazzi hanno trascorso in India, nella struttura penitenziaria di Varanasi, fatti di rinvii di processi, di viaggi nel cuore dell’Asia di Marina Maurizio, la mamma di Tommy, di delusione, ma anche di speranza dei tanti amici di Albenga, che sperano di riabbracciare al più presto il ragazzo. Una vicenda complessa, che corre parallela, in certi tratti, a quella dei due Marò. E proprio per questo motivo l’ex ministro degli Affari Esteri Giulio Terzi, che ha seguito in prima persone la vicenda di Latorre e Girone, si esprime in difesa di "Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, la cui storia rappresenta "un vero e proprio simbolo", e dei quali da Ministro mi ero occupato con estrema attenzione: da quattro anni sono in carcere a Varanasi, condannati all’ergastolo per un omicidio che pare non abbiano commesso". "Nel corso della loro vacanza in India, prosegue l’ex Ministro, il loro amico Francesco Montis, che soffriva di asma e problemi respiratori, decede purtroppo per gravi complicazioni di salute. Nonostante siano stati proprio i due ragazzi a chiamare sollecitamente i soccorsi, essi vengono arrestati e accusati del presunto omicidio. Un caso connotato da gravi irregolarità processuali, basti pensare che l’autopsia sul cadavere viene svolta (no comment!) da un oculista (!) e il corpo del defunto viene immediatamente cremato subito dopo, cancellando così ogni possibilità di raccogliere ulteriori prove riguardo alle effettive cause del decesso (come procedura giudiziaria non vi ricorda qualcosa?". "Anche la barca dei pescatori morti nell’incidente che coinvolge i nostri due Marò è stata repentinamente e inspiegabilmente affondata "prima" dell’inizio del processo). Da ben quattro anni quindi Tomaso ed Elisabetta sono detenuti in situazioni carcerarie davvero difficili, e gridano la loro innocenza: in particolare la mamma di uno dei due ragazzi - con la quale ero stato in diretto contatto - giustamente disperata, non cessa di lanciare appelli alle Istituzioni. Le pressioni Diplomatiche hanno agevolato l’apertura del processo di appello, attualmente in corso: la speranza di *noi tutti* è che sia fatta giustizia, e - appurata l’estraneità dei nostri due connazionali a questo tragico decesso - gli venga finalmente restituita la libertà! Tomaso, Elisabetta, tenete duro: l’Italia è con voi!!!", conclude Giulio Terzi. Albania: maggioranza adotta amnistia generale, l’opposizione non partecipa a votazione www.osservatorioitaliano.org, 11 marzo 2014 Il Parlamento d’Albania ha votato raggiungendo la maggioranza dei voti la bozza sull’amnistia, ma allo scrutinio non ha partecipato l’opposizione. La maggioranza della sinistra ha confermato al Parlamento con 84 voti necessari per l’adozione dei due progetti di legge a maggioranza qualificata, la bozza "sull’amnistia" e le modifiche al codice della procedura penale. Svizzera: i detenuti elvetici che si convertono all’Islam… per mangiare meglio www.ticinonews.it, 11 marzo 2014 "Abbiamo sempre più carcerati che vogliono convertirsi all’Islam perché i musulmani ricevono carne di vitello anziché di maiale e a loro piace di più". Lo ha dichiarato Ernst Scheiben, direttore del carcere cantonale di Frauenfeld, in un’intervista all’Ostschweiz am Sonntag. Scheiben non ha saputo spiegare nel dettaglio le differenze tra i menu dei prigionieri cristiani e quelli dei musulmani. "L’unica cosa sicura è che i musulmani non ricevono carne di maiale" ha aggiunto in seguito sul 20 Minuten, precisando che i menu non vengono preparati all’interno del carcere, bensì all’ospedale cantonale. "Senza validi motivi, non vediamo di buon occhio questi cambiamenti di religione" ha aggiunto Scheiben, spiegando che prima di accordare i nuovi menu si cerca sempre di valutare se il carcerato in questione intenda veramente vivere in futuro secondo i precetti dell’Islam o se la sua conversione sia dettata unicamente dalla volontà di mangiare meglio. "In generale è comunque sempre possibile cambiare. Ci sono anche carcerati che decidono di diventare vegetariani durante il periodo trascorso in prigione". Anche Ueli Graf, ex direttore del carcere zurighese di Pöschwies, ha affermato di conoscere bene questi "giochetti" messi in atto da prigionieri che intendono migliorare le proprie condizioni all’interno del carcere. "Una privazione della libertà comporta ovviamente delle mancanze per il carcerato. Molte delle cose che poteva fare fuori non sono più a sua disposizione. Per cui c’è chi cerca di compensare queste carenze. "Che qualcuno scelga di diventare musulmano sperando di mangiare meglio, non lo trovo drammatico". Brasile: sciopero agenti penitenziari, categoria rivendica aumento salari per rischi lavoro Ansa, 11 marzo 2014 Dopo gli spazzini a Rio de Janeiro, adesso sono gli agenti penitenziari di San Paolo a entrare in sciopero: il sindacato che li rappresenta (Sindasp) ha infatti convocato un’agitazione a tempo indeterminato a partire da oggi in tutto lo Stato di San Paolo, il più ricco e popoloso del Brasile. La categoria rivendica, tra l’altro, un aumento salariale del 20,6%. La paralisi arriva in un momento particolarmente delicato per la pubblica sicurezza nella regione: recentemente la polizia e il pubblico ministero locali hanno sventato un ingegnoso piano di fuga dal carcere per Marcos Hebas Camacho, detto "Marcola", capo del Pcc (Primeiro comando da capital), la maggiore organizzazione del narcotraffico brasiliano. Gli scioperanti sostengono di lavorare in condizioni di rischio, per via delle frequenti ribellioni dei detenuti. Arabia Saudita: fomentò proteste su twitter contro Re Abdullah, condanna 8 anni carcere Aki, 11 marzo 2014 Un uomo è stato condannato a otto anni di carcere in Arabia Saudita per aver pubblicato alcuni messaggi tramite il suo account Twitter nei quali lanciava appelli per manifestazioni antigovernative e criticava i servizi di sicurezza della monarchia del Golfo. L’uomo, la cui identità non è stata rivelata, è stato anche condannato al divieto di espatrio e al divieto di utilizzare i social network per otto anni. Secondo quanto riportato dall’agenzia d’informazione ufficiale Spa, che cita il portavoce del ministero della Giustizia Fahd bin Abdullah al-Bakran, il saudita è stato condannato per aver invitato "i familiari delle persone arrestate per ragioni di sicurezza a protestare, pubblicando tweet e video su YouTube". Inoltre, l’imputato è stato riconosciuto colpevole di aver diffuso tweet ritenuti irrispettosi del re Abdullah e criticato gli apparati di sicurezza per l’arresto di "promotori di ideologie estremiste". L’uomo era già stato arrestato una volta con accuse analoghe, ma in quell’occasione aveva evitato il carcere accettando di firmare una dichiarazione in cui si impegnava ad astenersi dal tenere in futuro simili comportamenti. Siria: 15 e non 150 donne liberate nel quadro dello scambio detenuti con suore Maaloula Ansa, 11 marzo 2014 Sono 15 e non 150 le detenute politiche siriane liberate nelle ultime ore dal regime di Damasco in seguito allo scambio di prigioniere negoziato col Libano e il Qatar e che ha portato al rilascio di 16 tra suore ortodosse dell’antica cittadina di Maaloula e tre loro ausiliarie, per tre mesi prigioniere di miliziani qaedisti. Lo ha detto il noto avvocato siriano per i diritti umani Anwar al Bunni, citato stamani dalla stampa di Beirut. Bunni precisa che tra le 15 donne liberate c’è una condannata a vent’anni di reclusione. Da parte sua, il portavoce del governo siriano Umran Zubi ha affermato alla tv di Stato che sono 26 le persone liberate nel quadro dello scambio di prigionieri. Il governo del Qatar, che sostiene i miliziani qaedisti, e alcuni attivisti siriani avevano ieri confermato invece la liberazione di circa 150 prigioniere e dei loro figli nelle carceri siriane. Secondo il quotidiano libanese an Nahar, nelle ultime ore un centinaio di donne sono state trasferite dalla prigione di Adra, nei pressi di Damasco, e sono in attesa di essere liberate nelle sedi della polizia e dei servizi di sicurezza. Ma le informazioni non possono essere verificate in maniera indipendente. Egitto: organismo di difesa detenuti politici; vietate visite in carcere a ex presidente Morsi Ansa, 11 marzo 2014 Il deposto presidente egiziano Mohamed Morsi non potrà ricevere visite in carcere. Lo ha reso noto oggi l’organismo che si occupa della difesa dei detenuti politici in Egitto citando la direzione delle prigioni. Secondo quanto apprende l’Ansa dalla stessa fonte, Morsi è detenuto nel penitenziario di massima sicurezza di Akrab a sud del Cairo. A dicembre il ministero dell’Interno aveva vietato all’ex Capo di Stato - deposto dai militari - anche le visite dei suoi legali nel timore che potesse dare informazioni ai Fratelli musulmani.