La complessità della violenza domestica Il Mattino di Padova, 10 marzo 2014 Parlare dei reati in famiglia è complicato, perché per tutti è inevitabile identificarsi nella condizione di chi subisce la violenza, ed è difficile invece provare a guardare la realtà "con gli occhi del nemico", gli occhi degli autori di reato, provare a capire perché le famiglie possono diventare il luogo dei conflitti e della violenza. Sarebbe tutto più rassicurante se potessimo pensare che certe azioni le fanno "i mostri", quelli diversi da noi, ma non è mai una questione così semplice, e ce lo spiegano bene due testimonianze, raccolte di recente in un seminario che ha messo a confronto in carcere detenuti, giornalisti ed esperti, che ci offrono due punti di vista importanti: quello di una persona detenuta per un omicidio in famiglia, e quello di Alessandra Kustermann, la ginecologa che ha creato a Milano dei servizi all’avanguardia in Italia nella lotta contro la violenza sessuale e domestica. L’angoscia ricordando la famiglia distrutta Non è facile raccontare il peggio della propria vita, soprattutto per me che con il mio gesto ho distrutto tutto quello in cui credevo. Io ho iniziato a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti nell’aprile 2010, ma anche se da subito ho capito che il progetto di confronto tra la scuola e il carcere era qualcosa di utile e importante, solo dopo un anno di incontri ho trovato il coraggio di parlare agli studenti. Vedevo mio figlio tra loro e mi bloccavo, poi mi sono detto: "Ma se tra di loro ci fosse davvero mio figlio a chiedermi perché?". Ecco che allora ho deciso di espormi a partire da una riflessione sul mio reato, che mi aiutasse a capire ciò che poteva aver trasformato una vita che consideravo normale, in una vera tragedia, con la distruzione della mia famiglia. Io ho superato tutti i limiti e in quel momento non ho percepito che potevo arrivare a compiere atti così gravi. Non c’è stato per me un campanello d’allarme, o per lo meno non sono riuscito a coglierlo, e mi sono fidato forse dei farmaci che prendevo, abusandone, perché in un momento di difficoltà personale mi permettevano di fare tutto quello che avevo fatto prima, senza farmi render conto però che ero caduto in una depressione e che non riuscivo a reggere il carico di stress che mi pesava addosso. Forse dovevo coinvolgere familiari e amici parlando con loro dei pesi che pensavo di poter e saper gestire da solo, con una grande presunzione e incapacità di ammettere le mie debolezze, e anche le paure che lavoravano dentro di me non facendomi mai percepire il rischio che correvo. Ma chi di noi pensa che nella propria famiglia, se non ci sono mai stati scontri di nessun genere, si possa arrivare a compiere un reato come il mio, contro mia moglie, mio figlio e me stesso? Questo dialogo con gli studenti poi si è trasformato anche in un continuo percorso di ulteriori riflessioni che scaturivano dalle domande o dalle osservazioni che ricevevo da loro, e quindi ho trovato in un certo senso un percorso di autoanalisi, che non vuol significare inventarsi giustificazioni al più tremendo dei reati che un uomo possa compiere, ma aiutare altri, attraverso la propria tragica esperienza, a cercare delle forme di prevenzione. Ritengo che questo sia un percorso difficile, perché ogni volta ti costringe a ripercorrere la parte più nera di quella tremenda giornata, ma se serve a far capire e far pensare che nella vita si può arrivare a compiere gesti mostruosi, bene, io sono disposto a fare questo percorso. E penso che una ulteriore forma di prevenzione si potrebbe attuare mettendo assieme non i numeri dei "femminicidi" ma un’analisi delle singole storie, per capire quali fatti, quali sofferenze, quali errori portano a far esplodere la situazione, e se c’è un modo per fermarli, per disinnescarli. La cosa certa è che anche dopo il mio fine pena resterà sempre presente dentro di me l’angoscia per un gesto imprevedibile, per cui ho causato la morte prematura di mia moglie, dopo 35anni vissuti assieme con tanti obiettivi raggiunti, e devo solo ringraziare mio figlio che non ha voluto girarmi le spalle e lasciarmi solo. Ulderico G. Se una donna dice "Io ti cambierò" Vorrei ragionare più in generale sull’origine della violenza contro le donne. Sappiamo che le donne stanno iniziando a sfondare il famoso tetto di cristallo che impedisce loro di arrivare in posizioni dominanti, anche se le discriminazioni negative continuano a sussistere per la maggioranza del genere femminile. Ma nell’ambito della famiglia questa sudditanza di fatto, auspicata peraltro da molti uomini, ancora esiste. La mia lunga esperienza (ormai ho visto o conosciute le storie di 15 mila donne vittime di violenza sessuale e domestica), pur lasciandomi la consapevolezza che ogni donna è diversa, così come ogni autore di violenza è diverso, mi porta a riflettere su alcuni elementi che le accomunano: una progressiva perdita del loro ruolo sociale, della loro capacità di difendersi dalle sopraffazioni, la loro difficoltà di affermare che prima di tutto c’è un "io" anche nella coppia e questo io va rispettato. Queste donne perdono progressivamente autostima, in una storia che in genere è una storia di maltrattamento che va avanti da anni, è una storia permeata di senso di possesso, di desiderio di dominio, ma anche, in alcuni casi, di una forte gelosia. Non tutti i maltrattanti diventano poi degli assassini delle loro partner, infatti, è un evento estremamente raro l’omicidio, ma sicuramente c’è qualche cosa in queste storie che inizia da lontano, che inizia fin quasi nelle prime fasi felici della relazione, che accomuna gli uomini e le donne che fanno parte di queste coppie disfunzionali ed è un divario, sempre più profondo tra le aspettative dell’una e le aspettative dell’altro. "Io ti cambierò" è purtroppo una delle aspirazioni femminili più irritanti per i maschi e più pericolosa per le stesse donne. La relazione amorosa non può prevedere la capacità di modificare completamente l’essere umano che si è scelto come proprio partner, ma purtroppo questa tendenza a immaginare che "io ti cambierò, io ti salverò, io farò di te un altro uomo, un uomo migliore", che accomuna molte donne, può determinare un’incapacità ad accettare la dura realtà che il loro partner non cambierà mai(…). Le donne che subiscono violenza o maltrattamento sono forse le uniche vittime che provano vergogna per quello che hanno subito e non desiderano vendicarsi sull’autore del reato. Bisognerebbe riuscire a prevenire il maltrattamento, iniziando un trattamento nella fase in cui si limita ancora a un conflitto familiare. In questa fase il trattamento può coinvolgere ambedue i partner della coppia. Mentre se si interviene in una fase in cui ormai il conflitto familiare è sfociato in un maltrattamento a tutti gli effetti, bisognerebbe offrire un trattamento solo agli autori di questo reato, che preveda anche una sorta di rieducazione sentimentale. Altrimenti non ci sarà mai un lieto fine, perché un uomo maltrattante, pur condannato a una pena detentiva, continuerà a pensare di aver subito una condanna ingiusta, dato che la cultura diffusa gli insegna che in fondo non ha fatto niente di male. C’è una collusione con gli altri uomini che è molto evidente, permeata dai luoghi comuni e dalla prassi che consente il dominio di un genere sull’altro. È questo insieme di fattori culturali e individuali che impedisce ai maltrattanti di sentirsi colpevoli, per cui la pena detentiva difficilmente sortisce un effetto positivo in termini sociali e la frequenza di recidiva è estremamente elevata, o con la stessa donna o con un’altra incontrata successivamente. I maltrattamenti intra famigliari non possono essere contrastati, se non si attua una rieducazione dei rei e se non si diffonde l’idea che l’unica prevenzione efficace prevede un cambiamento culturale che deve coinvolgere per primi i ragazzini, raccontando fin dalle scuole materne che la storia dei rapporti tra i sessi non può andare per sempre così, che il fatto che i maschietti siano più forti e che facciano giochi più violenti tra di loro, non vuol dire che siano migliori delle "femminucce" in genere più deboli e più remissive. Alessandra Kustermann Ginecologa, responsabile al Policlinico di Milano di servizi all’avanguardia contro la violenza sessuale e domestica Un uomo ombra scrive ad Alessandra Celletti di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 10 marzo 2014 Il silenzio dei buoni è la forza dei cattivi. (Martin Luther King). Ho ricevuto questa lettera da una persona che non conoscevo: "Caro Carmelo, sono tre giorni che conosco la tua storia e tre giorni che penso soltanto a cosa potrei "inventarmi" per aiutarti a tornare ad essere un uomo libero. Quando ero bambina e andavo alle elementari la maestra usava mandare qualcuno alla lavagna per scrivere i buoni e i cattivi e ogni volta io mi alzavo di corsa dal banco per cancellare tutto prima che lei potesse leggere i nomi. L’idea di questa suddivisione non mi è mai andata giù. E neanche adesso. Non fraintendermi: è chiaro, lo sappiamo tutti che ci sono azioni tremende, azioni che non devono e non possono essere permesse. Ma è fin troppo facile dire questo quando si sta comodamente dalla parte dei buoni. Io so che in ogni essere umano c’è la luce e c’è anche il buio e che quando però è buio tutt’intorno non è così facile orientarsi. So anche che in ognuno di noi c’è la capacità di trasformazione ed è proprio questo il senso della nostra vita, la nostra "missione" di esseri umani. Ognuno ha la possibilità di accendere una piccola luce nella propria esistenza in modo da poter fare una meravigliosa metamorfosi. A me non piace giudicare ma perdonami se ti dico che sento che tu sei una persona forte e buona. Io non sono mai stata in una prigione ma mi fa arrabbiare sapere che ad una persona forte e buona possa essere negato il diritto alla libertà. Anzi, addirittura oso pensare che la libertà è un diritto di tutti, addirittura a prescindere dal fatto di essere buoni o cattivi. È un diritto dell’essere umano in quanto tale e nessuno dovrebbe permettersi di sottrarre per sempre ad una persona quella qualità che è la sua natura e il dono della sua nascita. Così da tre giorni ho deciso che voglio fare qualcosa per sostenere la tua battaglia. Ti immagino libero che riabbracci tua figlia e sento questo desiderio forte. Non ci capisco niente di politica e di leggi. Fino a tre giorni fa non sapevo neanche cosa fosse l’ergastolo ostativo. Ora riesco ad immaginare cosa si prova ad avere questa pena e ne soffro un po’ anche io. Mi sento anche io una sbarra davanti all’idea che non potrei ad esempio incontrarti per strada e chiederti di raccontarmi la tua storia guardandoti e poi darti la mano per ringraziarti. Chi sostiene questa assurda legge della "non speranza" non si rende conto che così facendo toglie la speranza anche a se stesso. Con affetto e stima per essere un esempio di cosa vuol dire saper essere una persona (e non un ombra). Ti auguro, mi auguro la libertà. Alessandra Cara Alessandra, non c’è bisogno che fai qualcosa per me. Lo hai già fatto perché le tue parole mi hanno fatto sentire ancora umano e il mio cuore per questo ti dice grazie. Non ti nascondo che da un po’ di anni non riesco più a ricordarmi di quando ero un uomo libero. E non sognare la libertà è ancora più dolorosa di non averla. Ormai la mia vita è una lunga marcia attraverso la notte. E avanzo verso un burrone, senza nessuna possibilità di evitarlo. Ti confido che spesso mi sembra che vivo solo per mantenere in vita il mio corpo perché più passano gli anni e più mi sento un morto che respira. Non ti nascondo che incomincio a essere stanco. A volte così stanco anche di respirare. Alessandra, questa notte ho girato fino all’alba in tondo nella mia cella, come una belva in gabbia, a fumare la scorta delle mie sigarette di tutta la settimana. Ed ho pensato che privare un uomo della speranza è il crimine più grande che si possa mai commettere. E, maledizione! Anche questa mattina ho aperto gli occhi. Ed ho subito pensato che per un uomo ombra morire nel sonno sarebbe la morte più dolce e più bella. Alessandra, ti chiami come la mia compagna che mi sta inutilmente aspettando da ventitré anni e che di me, se non cambiano le leggi italiane, avrà solo il mio cadavere, ma se non posso più essere libero e felice posso lo stesso continuare a lottare e ad amare. E non è poco. Grazie se darai un po’ della tua voce e della tua luce agli uomini ombra. Ti mando fra le sbarre il migliore dei sorrisi che mi sono rimasti. Carmelo Musumeci Giustizia: la posizione del Pd sull’emergenza carceri di Walter Verini L’Unità, 10 marzo 2014 Se giornali e osservatori, commentando e riportando il dibattito alla camera sul messaggio del presidente della repubblica sulla drammatica emergenza carceraria hanno parlato di "Pd contro l’indulto" o "Pd diviso" o "timido" deve certamente essere dipeso da noi, dalla capacità di far sentire nel modo giusto le posizioni e la voce. È vero: gli interventi della Responsabile Giustizia del partito, Alessia Morani e del suo predecessore Danilo Leva hanno avuto toni e accenti diversi sul punto. Ma a ben vedere, le loro posizioni di sostanza non erano poi così lontane. E tuttavia, la relazione in aula della presidente (democratica) della commissione, Donatella Ferranti e la dichiarazione di voto finale pronunciata a nome del Gruppo dal Capogruppo in commissione Giustizia (il sottoscritto) erano chiare e hanno rappresentato correttamente la posizione democratica in Parlamento. Che sintetizzo in punti e titoli, come ho cercato di fare in Aula. 1) La situazione carceraria è una vergogna e Parlamento e governo hanno il dovere di intervenire non solo per evitare le pesantissime sanzioni europee, (nei giorni scorsi nuovamente minacciate) ma essenzialmente perché persone che hanno sbagliato debbono scontare la giusta pena in condizioni civili e umane, non bestiali. E dovere della società è quello di recuperare e reinserire queste persone, dopo il fine pena. Ciò significa anche investire in sicurezza: chi esce dal carcere avendo preso un diploma, imparato un mestiere, difficilmente tornerà a compiere reati. 2) Il presidente della Repubblica deve essere ringraziato. Anche per questo messaggio. Ha costretto la politica e il Parlamento a confrontarsi su un tema difficile e scomodo e a guardarsi allo specchio. Magari vergognandosi un po’. 3) Non c’è dubbio: il sovraffollamento carcerario si risolve con provvedimenti strutturali. È quello che si sta facendo. La messa alla prova, la riforma della custodia cautelare, il recente decreto carceri e i suoi contenuti innovativi, alcune depenalizzazioni introdotte e l’estensione della possibilità di detenzione domiciliare e pene alternative al carcere, un timido avvio di un piano di edilizia carceraria, la possibilità di espellere (per certi reati) detenuti stranieri identificati: questi provvedimenti, approvati o davvero in via di approvazione definitiva, consentiranno di ridurre in maniera significativa il sovraffollamento. A questo vanno aggiunti gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale sulla distinzione tra droghe leggere e pesanti, che rappresenta un altro punto fermo in questa direzione. 4) Alla luce di queste misure (appunto strutturali) provvedimenti di clemenza non possono né debbono essere esclusi. Ma obiettivamente non assumono più quella centralità che avrebbero potuto avere alcuni mesi fa. Non possono né debbono essere esclusi, magari in maniera mirata, escludendo reati di particolare allarme sociale. Impostare però il dibattito solo su questo, rischia di provocare un effetto: dare spazio e voce a posizioni forcaiole e populiste, a modesti interessi elettoralistici. Di chi, a diverse latitudini e longitudini dello schieramento politico, considera la questione carceraria non un tema da affrontare per ragioni di civiltà e umanità, ma un fastidio, una cosa su cui dichiarare al massimo in occasione di interventi delle più alte autorità morali e religiose. O un tema da agitare per soffiare sul fuoco delle paure e delle inquietudini del tempo e dei giorni che stiamo vivendo. E quell’aula un po’ vuota e non troppo attenta parlava di questo... Questa è stata la posizione espressa in Parlamento dal Pd e mi sembrava giusto rimetterla un po’ in fila. Giustizia: emergenza carceri… fate presto, il tempo è finito di Valerio Spigarellli (Presidente Unione delle Camere Penali) Il Tempo, 10 marzo 2014 Alla sentenza Torreggiani, pronunciata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ci dà tempo fino al 28 maggio per interrompere il trattamento disumano che riserviamo alle persone in carcere, la scorsa settimana si è aggiunto il monito del Consiglio d’Europa a trovare soluzioni adeguate a risolvere il sovraffollamento carcerario. Questi fatti dovrebbero bastare al nostro Parlamento, sulla scorta delle indicazioni del Presidente della Repubblica, ma anche del primo Presidente della Corte di Cassazione, a trattare con serietà e coraggio una ipotesi di indulto ed amnistia ma purtroppo così non è. E la gente continua, numerosa, a morire in cella. Il dibattito che si è svolto alla Camera la scorsa settimana su questo tema ha dimostrato in maniera chiara che i molti politici, vecchi, nuovi e nuovissimi, hanno timore di affrontare il problema. Tutti invocano misure strutturali, ma il tempo sta scadendo e quelle che sono state licenziate negli ultimi due anni, fino al decreto legge del dicembre scorso, si sono rivelate inadeguate. Le misure di clemenza spaventano prima di tutto il governo ed il partito del Presidente del Consiglio, che per bocca del responsabile giustizia ha espresso la sua contrarietà. Eppure la vastissima maggioranza che la Costituzione impone per un provvedimento del genere ci sarebbe, visto che molte altre forze politiche, dal Ncd, ai Popolari, a FI, fino a Sel, hanno aperto degli spiragli, se solo il PD desse ascolto ai suoi molti parlamentari che hanno convenuto su questa soluzione. In carcere si muore e si soffre per una condizione che i giudici europei hanno definito "disumana" perché costringe 60 mila persone a stare in luoghi che ne potrebbero contenere la metà. Se questa amara contabilità del deficit di diritto non fosse sufficiente a spiegare alla pubblica opinione perché si devono adottare questi provvedimenti, si spieghi, almeno, dove si troveranno i molti milioni di euro che dovremo pagare ai detenuti se non rispetteremo la sentenza della Cedu in tempo. Se non per amore della giustizia e per rispetto della Costituzione lo facessero almeno per tutelare l’interesse economico del Paese. In carcere si muore e si soffre per una condizione che i giudici europei hanno definito "disumana" perché costringe 60 mila persone a stare in luoghi che ne potrebbero contenere la metà. Se questa amara contabilità del deficit di diritto non fosse sufficiente a spiegare alla pubblica opinione perché si devono adottare questi provvedimenti, si spieghi, almeno, dove si troveranno i molti milioni di euro che dovremo pagare ai detenuti se non rispetteremo la sentenza della Cedu in tempo. Se non per amore della giustizia e per rispetto della Costituzione lo facessero almeno per tutelare l’interesse economico del Paese. Giustizia: i costi delle carceri inumane di Massimo De Luca La Gazzetta di Reggio, 10 marzo 2014 Nell’estate del 1971 un professore americano di nome Philip G. Zimbardo condusse un interessante esperimento nel seminterrato dell’Università di Psicologia di Stanford. Scelse 24 studenti tra i più maturi ed equilibrati e li divise in due gruppi, affidando a un gruppo il ruolo di guardie carcerarie e all’altro il ruolo di detenuti. I prigionieri furono obbligati a indossare divise a righe e furono sottoposti a una rigida serie di regole, mentre alle guardie, dotate di manganello e manette, fu concessa ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Dopo qualche giorno si dovette interrompere la prova, perché gli episodi di violenza furono da subito numerosi e divennero sempre più intollerabili. L’esperimento Zimbardo è utile per capire che qualsiasi tipo di istituzione repressiva è potenzialmente generatrice di violenza e la piena tutela dei diritti dei detenuti è una sfida continua per tutti i sistemi democratici. Scriveva Foucault: "Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non vediamo con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno". Il carcere costituisce un vero archetipo della condizione umana, un microcosmo che rispecchia il macrocosmo del mondo esterno. Purtroppo il sistema carcerario italiano, soprattutto per il problema del sovraffollamento, non ci mette certo all’avanguardia tra i paesi occidentali, anzi ci espone ai continui richiami e sanzioni delle istituzioni comunitarie. L’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce, oltre alla tortura, il trattamento inumano o degradante dei reclusi, funge da parametro per valutare le condizioni di vita in carcere e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ritiene, ormai, che sia violato automaticamente l’art. 3 della Convenzione laddove lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore ai tre metri quadrati. Questo orientamento emerse nel caso Sulejmanovic contro Italia, nel quale la Corte con una sentenza del luglio 2009 condannò l’Italia per trattamento inumano e degradante, a causa dell’insufficienza particolarmente rilevante dello spazio individuale (2,7 metri quadrati) nella cella del ricorrente. Come era immaginabile, vista la situazione costante di sovraffollamento delle carceri in Italia, la decisione ha spianato la strada a numerosi altri ricorsi, con il rischio di provocare un "effetto valanga". Con la recente sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, la Corte, preso atto che il sovraffollamento delle carceri in Italia è un problema strutturale, ha sospeso la decisione di altri ricorsi, dando tempo allo Stato italiano fino a maggio di quest’anno per risolvere la situazione. Manca ormai poco tempo alla scadenza, ma il legislatore sembra incapace di adottare provvedimenti strutturali che risolvano questo annoso problema: dall’ammodernamento dell’edilizia carceraria a una seria depenalizzazione, dall’adozione di sanzioni alternative al carcere alla velocizzazione dei processi. Le misure previste dal recente "decreto svuota carceri" servono a tamponare la situazione, ma non sono certo risolutive. Il rischio è che la condizione dei detenuti continui a essere intollerabile e sullo Stato italiano fiocchino condanne milionarie per trattamenti degradanti all’interno delle nostre carceri. Oltre alla giustizia internazionale anche i magistrati di Sorveglianza hanno iniziato a intervenire, imponendo alle direzioni dei penitenziari di assicurare ai detenuti celle più ampie, pena il pagamento di risarcimenti pecuniari ai ricorrenti, come deciso in alcune recenti ordinanze dei giudici veneziani. C’è, insomma, il rischio concreto che il fallimento della politica carceraria ci costi parecchio, da tutti i punti di vista, ma è evidente che la politica è in tutt’altre faccende affaccendata. La battaglia per carceri più umane non è popolare, ma dovremmo sempre ricordarci che il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni, come diceva Voltaire più di due secoli fa. Giustizia: una scelta politica coerente per amnistia e indulto di Gianni Caso Città Nuova, 10 marzo 2014 Il 4 marzo la Camera ha sospeso il percorso verso la concessione dei provvedimenti di clemenza avviati per rispondere alla procedura d’infrazione aperta dall’Europa contro lo stato delle carceri italiane. Il commento di Gianni Caso, magistrato, già presidente della Corte di Cassazione. L’amnistia e l’indulto sono nella loro origine atti clemenza che tradizionalmente venivano concessi dal sovrano, comunque dallo Stato, in occasione di eventi lieti o tristi che interessavano la comunità nazionale, e miravano ad una pacificazione sociale. Poi sono divenuti, negli ultimi 60 anni, soprattutto delle misure per alleggerire il carico giudiziario: con l’amnistia si mandavano in archivio migliaia di processi penali, ma questi riguardavano reati di minore gravità. L’indulto, invece, non aveva la predetta finalità - (per applicare l’indulto il processo bisogna farlo, poi l’indulto o condono si applicano sulla pena definitiva nella misura stabilita dal provvedimento di clemenza). L’indulto, quindi, giova direttamente ai condannati e serve, più dell’amnistia, a far uscire dal carcere (tenendo però presente che dall’indulto vengono generalmente esclusi i reati di più grande gravità e quelli socialmente odiosi). Un provvedimento di questo tipo fu quello deciso dal governo Prodi nel 2006, che suscitò grandi polemiche. L’indulto e l’amnistia di cui oggi si discute dovrebbero avere la stessa finalità. Tuttavia - e penso che sia stato questo il motivo a spingere il Presidente Napolitano a chiedere la clemenza - i predetti provvedimenti potrebbero avere quasi la funzione di ripagare i detenuti delle sofferenze loro procurate dalle deficienze dell’attuale situazione carceraria. In questo senso la clemenza potrebbe trovare ragione in una sorta di compensazione a fini di giustizia. Volendo esprimere un’opinione sull’opportunità che il Parlamento conceda tale clemenza (si ricorda che la legge di amnistia e indulto deve essere approvata dai due terzi del Parlamento) bisogna considerare che mentre la cosiddetta "legge svuota-carceri", recentemente varata e già in vigore, persegue l’obiettivo di "svuotare" le carceri mediante misure e benefici, che vengono concessi individualmente alle singole persone (imputate o condannate), l’amnistia e l’indulto si applicano generalmente a favore di tutti, senza una valutazione di meritevolezza. Con tale premessa ritengo coerente che l’indulto non debba essere concesso in misura superiore ad un anno ed escludendo, come detto sopra, i reati di maggiore gravità. A partire da questa precisazione, emanare oggi un atto di indulto non dovrebbe destare un allarme sociale e potrebbe essere un atto di civiltà in considerazione dello stato pietoso delle carceri e, per questo motivo, contribuire alla pacificazione sociale. Giustizia: la vergogna dei suicidi in carcere di Augusto Parboni Il Tempo, 10 marzo 2014 Celle sovraffollate e giustizia lenta: in tre anni si sono tolti la vita in 188. E tra le guardie penitenziarie siamo a livelli record: 26 vittime dal 2011 Commetti un reato? Vai in carcere. Non commetti un reato? Rischi di andare comunque dietro le sbarre. Sono sia colpevoli sia innocenti i detenuti che affollano i penitenziari d’Italia, dove devono scontare pene da lievi a vita. Tutti, comunque, devono fare i conti con le difficoltà di vivere in una cella di pochi metri quadri sovraffollate in condizioni igienico sanitarie e psicologiche al limite della sopportazione. Anzi, della sopravvivenza. Sì, perché non tutti riescono ad affrontare le drammatiche situazioni delle carcere italiane, il peso di trovarsi in galera senza un motivo, da innocenti, o i lunghi tempi della giustizia. Ma il risultato, sempre più spesso, è lo stesso: togliersi la vita. Non è cambiato nulla negli ultimi 5 mesi, da quando cioè sulle pagine de Il Tempo è stata denunciata la terribile escalation di vittime in cella, che ha raggiunto i duemila detenuti. È allucinante il numero di uomini e donne che si uccidono nelle celle. Ed è un fenomeno che non sembra diminuire. Ma ad arrivare a compiere il gesto estremo non sono solo i detenuti, ma anche chi ogni giorno vive nelle carceri, come gli agenti penitenziari. Anche loro, infatti, a volte arrivano a suicidarsi. Se si prendono in esame i numeri degli ultimi tre anni di detenuti morti in galera, diffusi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, insieme con Radicali italiani, le associazioni "Il detenuto ignoto", "Antigone", "Buon diritto", "Radio Carcere", "Ristretti orizzonti", c’è da chiedersi quando arriveranno soluzioni concrete per evitare che tragedie così continuino ad accadere. In poco più di 36 mesi, infatti, si sono tolti la vita 26 agenti e 188 detenuti. Per quanto riguarda le forze dell’ordine, l’età varia dai 32 fino a 54 anni. E i suicidi sono avvenuti da Torino ad Agrigento, da Napoli a Roma, da Trapani a Biella, da Aversa a Lecce, da Pordenone a Viterbo. Ma se si prendono in considerazione invece le morti di detenuti, i numeri schizzano alle stelle e l’età minima scende fino ai 21 anni e arriva ai 73 anni. Una fascia molto più ampia dovuta alle inumane condizioni che devono affrontare i detenuti in quasi tutte le galere italiane. I gesti estremi sono avvenuti sia in celle con altri detenuti, sia in quelle d’isolamento. E le cause di morte sono anche differenti: la maggior parte delle persone sono decedute per impiccagione, poi per asfissia, per avvelenamento, dissanguamento, soffocamento e abbruciamento. La percentuale di uomini che si uccidono raggiunge cifre enormi rispetto alle donne: negli ultimi tre anni, infatti, sono sei le donne "vittime" del carcere: quattro si sono impiccate, una è morta per asfissia e un’altra per soffocamento. Per quanto riguarda invece gli agenti penitenziari deceduti, ne sono morti due nel 2014, otto lo scorso anno, nove nel 2012 e otto nel 2011. I ruoli che ricoprivano andavano dall’assistente, all’assistente capo, dall’agente scelto all’ispettore. Un gesto estremo, nella maggior parte dei casi, nato proprio durante il proprio lavoro. In carcere. Lo stesso luogo che continua a far vittime anche tra chi deve scontare una pena. Giusta o ingiusta che sia. Giustizia: ogni nome, una croce… ecco gli "ultimi" morti dimenticati di Augusto Parboni Il Tempo, 10 marzo 2014 Ecco i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre nel 2014 e nel 2013. Saranno elencati per cognome, nome, età, data di morte e Istituto di pena. 2014 L. M . (italiano) 39 anni 08-mar-14 Biella, impiccamento Consoli Paolo 42 anni 07-mar-14 Lecce, impiccamento Murro Benedetto 41 anni 20-feb-14 Napoli Secondigliano, impiccamento Amuso Angelo 33 anni 19-feb-14 Napoli Poggioreale asfissia Cantone Mario 40 anni 18-feb-14 S.M. Capua Vetere, impiccamento Colt Ion 52 anni 14-feb-14 Milano Opera dissanguamento Manno Salvatore 37 anni 07-feb-14 Vibo Valentia, impiccamento Locicero Giampietro 39 anni 17-gen-14 Parma, impiccamento Di Noia Alberico 38 anni 15-gen-14 Lucera (Fg), impiccamento Di Francesco Francesco 53 anni 5-gen-14 Roma Rebibbia, impiccamento Scarcella Francesco 42 anni 3-gen-14 Ivrea (To), impiccamento 2013 Bellavia Rosario 50 anni 24-dic-13 Caltanissetta, impiccamento M. R. (marocchino) 27 anni 20-dic-13 La Spezia asfissia gas Badea Paul 51 anni 7-dic-13 Viterbo, impiccamento Cristian Mendoza 28 anni 26-nov-13 Roma Rebibbia asfissia gas Iacca Mario 29 anni 23-nov-13 Benevento, impiccamento Riccardi Michele 43 anni 15-nov-13 Ancona, impiccamento Mourat Abdul 25 anni 10-nov-13 Torino, impiccamento Nahri Said 33 anni 17-ott-13 Pesaro, impiccamento Simsig Giulio 50 anni 17-ott-13 Trieste, impiccamento Valpiani Davide 49 anni 13-ott-13 Perugia asfissia gas De Marco Luciano 35 anni 26-set-13 Napoli Opg, impiccamento Asslamal Fouad 37 anni 23-set-13 Livorno asfissia gas Tunisino 43 anni 16-set-13 Spoleto (Pg) avvelenamento Panariello Angelo 64 anni 5-set-13 S. Angelo d. L. (Av), impiccamento Mokhar Ahmed Mohamed 24 anni 4-set-13 Caltanissetta, impiccamento Mariani Walter Luigi 58 anni 31-ago-13 Milano Opera abbruciamento Suladze Shota 29 anni 28-ago-13 Taranto, impiccamento Daoudi Abdelaziz 21 anni 16-ago-13 Padova Circondariale, impiccamento Italiano 51 anni 13-ago-13 Prato, impiccamento Tunisino 40 anni 10-ago-13 Alghero avvelenamento Vignoli Mario 66 anni 29-lug-13 Cremona, impiccamento Midilli Gilberto 40 anni 28-lug-13 Aversa Opg (Ce), impiccamento Marsala Giovanni 40 anni 28-lug-13 Velletri (Rm), impiccamento Bottini Piero 53 anni 25-lug-13 Roma Rebibbia, impiccamento Maragkos Nikolaos 53 anni 21-lug-13 Rossano (CS), impiccamento Tunisino 40 anni 3-lug-13 Napoli Secondigliano, impiccamento Italiano 39 anni 25-giu-13 Napoli Opg, impiccamento S. D. (romeno) 32 anni 25-giu-13 Terni, impiccamento D’Angelo Luigi 38 anni 20-giu-13 Napoli Poggioreale, impiccamento Esposito Aniello 29 anni 19-giu-13 Napoli Secondigliano, impiccamento Vasil Venetov Vasile 35 anni 13-giu-13 Roma Rebibbia, impiccamento Lazala Los Santos Octavio 24 anni 31-mag-13 Napoli Poggioreale, impiccamento Pietrobono Pasqualino 48 anni 27-mag-13 Latina dissanguamento Hajjaji Mustapha 44 anni 18-mag-13 Spoleto (Pg), impiccamento N. S. (marocchino) 40 anni 2-mag-13 Catanzaro, impiccamento Ronzato Denis 25 anni 23-apr-13 Castelfranco C.L. (Mo) asfissia gas Chalbi Rachid 32 anni 20-apr-13 Macomer (Nu) asfissia gas Morra Carmine 56 anni 3-apr-13 Catanzaro, impiccamento Saadaoui Mohamed 27 anni 27-mar-13 Velletri (Rm) asfissia gas Maurizio Alcide 53 anni 22-mar-13 Ivrea (To), impiccamento Pagano Domenico 46 anni 17-mar-13 Milano Opera, impiccamento Ghanese 47 anni 16-mar-13 Reggio Emilia Opg dissanguamento Tunisino 33 anni 7-mar-13 Pescara asfissia gas Maccarrone Pasquale 27 anni 6-mar-13 Crotone, impiccamento Coniglio Natale 42 anni 4-feb-13 Noto (Sr), impiccamento Romirez Santana 23 anni 24-gen-13 Bergamo, impiccamento Najar Mohamed 56 anni 24-gen-13 Terni, impiccamento Abdi Mohamed 38 anni 6-gen-13 Lecce, impiccamento Pizzo Giuseppe 58 anni 2-gen-13 Palermo Pagliarelli, impiccamento Giustizia: intervista a Rita Bernardini "in prigione si infligge la morte… per pena" di Andrea Barcariol Il Tempo, 10 marzo 2014 Per i carcerati non c’è nulla. Solo il suicidio. Il segretario dei radicali italiani, è da sempre in prima fila insieme a Marco Pannella al fianco dei detenuti. È una battaglia che porta avanti da anni, quella sull’emergenza delle carceri. Rita Bernardini, segretario dei radicali italiani, è da sempre in prima fila insieme a Marco Pannella al fianco dei detenuti. Come giudica il fenomeno dei suicidi in continuo aumento nelle carceri italiane? "Sono i dati che corrispondo alla situazione delle carceri italiane dove ormai c’è la morte per pena. Perché le condizioni sono proprio quelle che descrive la commissione Europea: inumane e degradanti. Un dato può dare bene l’idea: nelle carcere ci si suicida 20 volte di più rispetto a chi vive all’esterno. Sono condizioni orribili per un Paese che alla fine non ha il coraggio di applicare la pena di morte e così ricorre alla morte per pena. Cito, ad esempio, una categoria particolarmente critica, i tossicodipendenti. Vengono messi in galera, spesso in isolamento, perché commettono dei reati. Appena vengono lasciati da soli muoiono inalando le bombolette del gas che si usano per cucinare. Non è che nelle carceri questo non lo sappiano, è evidente che si tratta di persone dal profilo psicologico debole e non andrebbero messe in quelle condizioni". Sotto il profilo degli istituti di pena, gli altri Paesi dell’Unione Europea sono dunque avanti anni luce rispetto all’Italia? "Gli altri Paesi, infatti, non sono stati condannati come noi. Solo per l’Italia è stata fatta una sentenza pilota". Il problema è solo il sovraffollamento o sono varie le criticità? "No il problema non è solo il sovraffollamento, ce ne sono tanti. Uno dei più gravi è che non ci sono altre attività. L’unica cosa che si può fare è guardare la televisione. Quella c’è. I detenuti non hanno niente da fare e per loro è veramente la morte civile. Questa totale assenza di attività provoca anche altri problemi. Alcune carceri, ad esempio, sono delle scuole di delinquenza, i detenuti hanno tutto il tempo per imparare. Non è un caso che nell’unico Istituto in Italia dove c’è anche la possibilità di lavorare, la casa di Reclusione di Bollate, la recidiva sia vicina allo zero. Vi assicuro che non si tratta di una coincidenza". L’ipotesi di concedere amnistia e indulto è stata respinta dalla Camera con i voti di Pd e Sel. Come giudica questo provvedimento? "Per questo siamo oggi al decimo giorno di sciopero della fame. Una protesta anche per far valere le ragioni e le speranze del presidente Napolitano e del suo messaggio al Parlamento. Vorremmo dialogare con questa classe politica, purtroppo però loro non sanno governare, non si assumono le responsabilità, preferiscono lasciar fare tutto ai giudici. Si preferisce scegliere la via della prescrizione, che altro non è che l’amnistia decisa dai magistrati che contravvengono così al principio, sancito dalla Costituzione, dell’obbligarietà dell’azione penale. I giudici scelgono i processi da fare e quelli da far cadere in prescrizione e la classe politica gli lascia campo libero. Il problema sta a monte, le carceri italiane sono l’ultimo anello della catena di un sistema che non funziona". Cosa intendete fare adesso? "Usiamo il metodo della non violenza, l’unico possibile, visto che, grazie al Partito Democratico, non siamo in Parlamento. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando mi aveva chiamata appena eletto per fissare un appuntamento, per incontrarci, ma poi non si è fatto più sentire. Noi continuiamo a lottare in questo modo. La non violenza è il metodo migliore per cercare di parlare con questi signori. Stiamo contando i giorni che mancano al 28 maggio (data di scadenza fissata dalla Unione Europea in cui scatterà la multa all’Italia per il sovraffollamento nelle carceri ndr). È fondamentale che vengano rimosse le cause che generano questi trattamenti inumani e degradanti. Questa situazione di illegalità viene pagata anche dagli agenti di polizia penitenziaria". Il presidente del Consiglio Mattero Renzi si è espresso chiaramente contro amnistia e indulto. Come giudica la sua posizione? "Non è che sia cambiato molto rispetto agli anni Settanta. Renzi poco prima di essere eletto aveva detto che i referendum deve deciderli il Parlamento, la stessa cosa che diceva il Pci all’epoca del divorzio. Il popolo italiano dimostrò di essere molto più avanti. La verità è che hanno paura di dare la parola al popolo. Contano ancora una volta sul fatto che sulla situazione delle giustizia e delle carceri non c’è dibattito e non c’è informazione. Le elezioni politiche del 2008 furono giocate tutte sulla questione sicurezza, si parlò tantissimo di omicidi, stupri, delitti ma non si disse una parola su come prevenirli. Il problema è che in Italia non c’è democrazia e non c’è Stato di diritto. Il sistema partitocratico elogia tanto a parole la Costituzione, ma in realtà se l’è divorata". Giustizia: carceri e polizia violenta, pure l’Italia nel mirino Usa di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 10 marzo 2014 Violenza delle forze dell’ordine, sovraffollamento carcerario, casi di discriminazione razziale. A 65 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani gli Usa hanno elaborato un rapporto sui diritti umani che riguarda circa 200 paesi E anche l’Italia finisce nel mirino. Il rapporto per ogni paese è redatto dalle ambasciate americane in giro per il mondo. Tra le situazioni di particolare gravità sono citate quella della Siria, dove sarebbero state perpetrate violazioni sistematiche ai diritti umani che hanno prodotto oltre 100 mila morti e milioni di persone deportate, e quella del Sudan, con le violenze che sono da tempo all’ordine del giorno nel paese. Attenzione è data alla Russia per le discriminazioni religiose, politiche e legate all’orientamento sessuate. Si ricorda anche come in paesi quali Egitto o Cuba vengano negate le libertà politiche elementari, quali per esempio la libertà di assemblea pubblica. Della Cina si rimarcano le violazioni connesse all’assenza di un potere giudiziario indipendente e alla repressione del dissenso. Anche l’Italia finisce nuovamente sotto la lente degli Stati Uniti d’America. trattamento degli immigrati irregolari, traffico di esseri umani, condizioni di vita dei rom, stato delle carceri, libertà di informazione, violenza nei confronti di omosessuali e donne sono tra ì maggiori problemi riscontrati. Qui di seguito alcune delle grandi questioni sollevate e delle storie raccontate distinte per temi Nel rapporto gli Stati Uniti hanno riservato uno spazio anche ai tanti casi di corruzione che mettono a rischio il godimento dei diritti politici dei cittadini. Violenze delle forze dell’ordine Viene riportato il caso di un signore tunisino Bohli Kaies che il 5 giugno 2013 muore per asfissia cerebrale mentre era in custodia dei carabinieri in una caserma di Riva Ligure. Era in stato di arresto per motivi di droga. Il procuratore Roberto Cavallone affermò che: "C’è una grossa responsabilità delle istituzioni, dello stato, per la morte di questo cittadino tunisino". Carceri e Cie Viene ricordata la sentenza pilota della Corte europea che ci costringe ad assumere provvedimenti diretti a ridurre il sovraffollamento e ad assicurare condizioni dignitose di vita negli istituti di pena. Inoltre si pone attenzione alla drammatica condizione in cui vivono gli extracomunitari nei centri di identificazione ed espulsione. Libertà di informazione Viene ricordata la anomala proprietà di giornali e tv dell’ex primo ministro Silvio Berlusconi. In particolare viene stigmatizzato come i media tendano a riflettere il punto di vista dei loro proprietari. Infine si raccontano al mondo americano i rischi a cui invece vanno incontro quei giornalisti che si occupano di mafia. Omofobia Vengono riportati i tanti casi di violenza nei confronti di lesbiche, gay, bisexual e transgender. Discriminazione razziale Vengono citati ben 1.238 casi di denunce per discriminazione di cui il 51% sarebbe su base etnica o razziale. Sfruttamento del lavoro minorile Nel 2012 gli ispettori del lavoro, si legge nel rapporto, hanno identificato 887 casi di minori costretti al lavoro; 5.538 sarebbero i casi invece di minori non accompagnati di cui il 94% sarebbe costituito da maschi e il 59% da minori con un’età inferiore ai 17 anni Le nazionalità pia rappresentate sono quelle di Bangladesh, Afghanistan, Egitto. Giustizia: carceri, debutta il reclamo al giudice di sorveglianza di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2014 Tutela contro le lesioni ai diritti fondamentali dei detenuti. Lo strumento non può essere esteso al risarcimento del danno. Il reclamo giurisdizionale (disciplinato dall’articolo 35-bis della legge 354/75 sull’ordinamento penitenziario, introdotto dal Dl carceri 146/2013, convertito dalla legge 10/2014, in vigore dal 22 febbraio scorso) rappresenta un’assoluta novità nel panorama giuridico italiano e si rivolge alle persone detenute o internate che abbiano subito una lesione di un diritto fondamentale in seguito a un provvedimento o a una condotta illegittima dell’amministrazione penitenziaria. Il reclamo ha natura sussidiaria, nel senso che non è proponibile in relazione a posizioni soggettive che sorgono e si sviluppano nell’ambito di rapporti estranei all’esecuzione penale, i quali trovano protezione secondo le regole generali dettate dall’ordinamento (ad esempio, la tutela laburistica del detenuto); né a situazioni soggettive che vengono in considerazione nel momento applicativo degli istituti propri dell’esecuzione penitenziaria (come avviene in materia di benefici penitenziari). È anche esclusa la possibilità di ottenere, attraverso il reclamo, il risarcimento del danno subito, per il cui ristoro resta confermata la competenza del giudice civile. Il reclamo giurisdizionale va presentato, direttamente dal detenuto o tramite il suo avvocato, al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di pena dove l’interessato è detenuto o internato. La procedura segue le disposizioni sul procedimento camerale (articoli 666 e 678 del Codice di procedura penale), con alcune varianti. Non è, infatti, previsto alcun termine di decadenza e il ricorso può essere proposto fino a che perdura la violazione del diritto. È previsto che il giudice non esamini il merito del reclamo nel caso di "manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell’articolo 666, comma 2, del Codice di procedura penale": dizione che pare comprendere tanto la carenza delle condizioni di ammissibilità formale previste dalla legge per la formulazione della domanda; quanto la manifesta insussistenza dei presupposti di merito per l’accoglimento della stessa. Del procedimento è parte anche l’amministrazione interessata, che può comparire in udienza a mezzo dell’avvocatura dello Stato o di funzionario delegato. Le parti possono produrre memorie e documenti e chiedere l’assunzione di prove. Tuttavia, secondo l’articolo 185 delle norme di attuazione del Codice di procedura penale, il giudice assume le prove anche in via ufficiosa e svincolata da un’istanza di parte. Se accoglie il reclamo, il magistrato ordina all’amministrazione interessata di porre rimedio al pregiudizio accertato (purché ancora attuale al momento della decisione) entro il termine stabilito nella decisione. Avverso il provvedimento - che ha effetto limitato alla fattispecie oggetto del giudizio - è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di 15 giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa. Nei confronti della pronuncia del tribunale è poi ammesso ricorso per Cassazione soltanto per violazione di legge, nel termine di 15 giorni dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza. Per assicurare l’effettività della decisione, è stata introdotta una speciale procedura di esecuzione dell’ordinanza non più soggetta a impugnazione, nel caso di inottemperanza dell’amministrazione soccombente. La procedura, attivata presso lo stesso magistrato che ha emesso il provvedimento rimasto non eseguito, è anch’essa regolata dagli articoli 666 e 678 del Codice di procedura penale e prevede che il giudice, se accerta l’inadempienza, ordina l’ottemperanza alla propria decisione, indicando le relative modalità e tempistica, tenuto conto del "piano attuativo" predisposto dall’amministrazione per dare esecuzione al provvedimento (e sempre che il programma sia compatibile con il soddisfacimento del diritto inciso); dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione dell’ordinanza rimasta ineseguita; nomina, se occorre, un commissario ad acta. Il magistrato di sorveglianza conosce, altresì, tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, comprese quelle inerenti agli atti del commissario ad acta. Avverso il provvedimento emesso in sede di ottemperanza è sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge. In mancanza di una specifica indicazione normativa, il termine per l’impugnazione dovrebbe essere quello di 15 giorni dalla notifica del provvedimento giudiziale, in linea con quanto previsto dalla nuova disciplina per l’analogo ricorso avverso il provvedimento che definisce il procedimento di merito. Così si contesta la sanzione I detenuti e gli internati possono presentare un reclamo al magistrato di sorveglianza anche contro i provvedimenti disciplinari. Il reclamo può riguardare le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa. Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento. Secondo il Dl 146/2013, il giudice verifica la legittimità del provvedimento ma, nei casi più gravi, esamina anche il merito del reclamo. Se il magistrato di sorveglianza accoglie la richiesta, annulla il provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare. Al magistrato di sorveglianza Il reclamo deve essere presentato dal detenuto o dal suo difensore al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul carcere dove si trova l’interessato. Il magistrato di sorveglianza non decide nel merito del reclamo se la richiesta è manifestamente infondata perché mancano le condizioni formali per la formulazione della domanda o perché mancano i presupposti di merito per l’accoglimento: in questi casi dichiara la domanda inammissibile con decreto, contro il quale può essere proposto ricorso per Cassazione. In camera di consiglio Se la richiesta non è inammissibile, il magistrato di sorveglianza deve fissare la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso anche all’amministrazione interessata. All’udienza deve partecipare il difensore del detenuto. L’amministrazione ha diritto di comparire tramite l’avvocatura dello Stato o un funzionario delegato oppure di trasmettere osservazioni e richieste. Il detenuto che ha presentato la richiesta deve essere sentito personalmente. Le parti possono produrre memorie e documenti e chiedere l’assunzione di prove. Le prove possono essere assunte dal giudice anche d’ufficio. Tre gradi di giudizio Il magistrato di sorveglianza decide sul reclamo con ordinanza. Se accerta l’esistenza del pregiudizio al detenuto e verifica che è ancora attuale al momento della decisione, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro il termine indicato nell’ordinanza. Contro la decisione può essere presentato reclamo al tribunale di sorveglianza entro 15 giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito. La decisione del tribunale di sorveglianza è, a sua volta, ricorribile per Cassazione per violazione di legge entro 15 giorni dalla notificazione o comunicazione. Il giudizio di ottemperanza Se l’amministrazione non dà esecuzione al provvedimento non più soggetto a impugnazione, il detenuto o il suo difensore possono attivare la procedura di esecuzione dell’ordinanza presso lo stesso magistrato di sorveglianza che l’ha emessa. Il giudice, se accoglie la richiesta, ordina all’amministrazione l’ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento, dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del provvedimento rimasto non eseguito e nomina, se occorre, un commissario ad acta. Queste decisioni sono ricorribili per Cassazione per violazione di legge. Giustizia: liberazione anticipata speciale… esclusi i condannati per il "4 bis" di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2014 La versione definitiva del decreto carceri (Dl 146/2013, convertito nella legge 10/2014, m vigore dal 22 febbraio) contrae l’area di applicabilità della liberazione anticipata speciale, beneficio per cui la detrazione di pena concessa è di 75 giorni per ogni semestre di pena scontata, anziché di 45 giorni come prevede l’articolo 54 della legge 354/75. Il Dl 146/2013, nella versione originaria, estendeva il beneficio ai condannati per i delitti di particolare gravità e allarme sociale previstidall’articolo4-bis della legge 354/75 (tra gli altri, associazione mafiosa e violenza sessuale), ma solo se avessero dato prova, nel periodo di detenzione, di un concreto recupero sociale. Invece, nel corso dell’esame parlamentare per la conversione in legge, i condannati per i delitti del "4-bis" sono stati esclusi del tutto dalla liberazione anticipata speciale. Il revirement pone delicati problemi applicativi per il futuro, poiché è evidente che non possono essere revocate le concessioni della liberazione anticipata speciale già accreditate ai condannati per un delitto del "4-bis" durante il periodo di vigenza del Dl 146/2013. Con riguardo, invece, alle istanze formulate dai detenuti in base al DI 146/2013 e non ancora definite al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, sono ipotizzabili due soluzioni. La prima implica che i procedimenti pendenti siano definite con le nuove disposizioni, negando quindi il più consistente "sconto di pena". Si tratta di un’ipotesi a stretto diritto ineccepibile ma nella sostanza criticabile per la grave disparità di trattamento nei confronti dei condannati per il "4-bis" che avessero presentato l’istanza nella vigenza del Dl 146/2013: i quali si vedrebbero concesso o negato il maggior rateo di liberazione anticipata secondo l’evenienza - del tutto casuale - che il giudice abbia definito il relativo procedimento prima dell’entrata in vigore della legge di conversione. Ragioni di equità sostanziale inducono, pertanto, a ritenere che a tutte le "vecchie" domande si applichi la versione originaria della disciplina. Sul piano applicativo, resta, inoltre, l’incertezza riguardo l’applicabilità del maggior tasso di liberazione anticipata in relazione ai periodi sofferti in regime di arresti domi- ciliari. La legge di conversione, infatti, ha precisato che la riduzione speciale non si applica ai soggetti ammessi all’esecuzione domiciliare prevista dalla legge 199/2010 o che si trovino ancora ai "domiciliari" al momento dell’irrevocabilità della condanna (articolo 656, comma 10, del Codice di procedura penale). L’evidente omogeneità di queste fattispecie con il regime cautelare degli arresti domiciliari fa ritenere che l’esclusione dal rilevante "sconto di pena" riguardi anche i periodi trascorsi agli arresti domiciliari. Occorre evidenziare, infine, la probabile incostituzionalità dell’articolo 4 del Dl 146/2013, sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui tale disciplina esclude del tutto e senza eccezioni i condannati per i delitti del "4-bis" dall’accesso alla speciale riduzione di pena. Non essendo praticabile - stante l’inequivocabile dizione normativa - una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame, sarà necessario adire la Consulta sollevando la relativa questione di costituzionalità. Giustizia: Danilo Orlandi morì di polmonite a Rebibbia, per i pm fu "omicidio colposo" www.blitzquotidiano.it, 10 marzo 2014 Omicidio colposo. È questa l’ipotesi di reato formulata dai pm che indagano sulla morte di Danilo Orlandi, il detenuto di 31 anni morto il 1 giugno scorso nella sua cella dopo essere stato arrestato a gennaio per resistenza a pubblico ufficiale. Sarebbe uscito di prigione pochi giorni dopo. Ad otto mesi dalla morte, la Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e a giorni potrebbero esserci le prime iscrizioni nel registro degli indagati. Nel mirino del pm Mario Ardigò i medici dell’istituto penitenziario che non avrebbero né diagnosticato né curato una polmonite bilaterale massiva che ha ucciso il giovane. Il diario clinico del detenuto, in possesso degli inquirenti, riporta le annotazioni mediche quotidiane degli ultimi giorni di vita di Danilo. Dal 26 maggio, quando è entrato in stato di isolamento disciplinare, fino all’alba del 1 giugno, quando è stato dichiarato il decesso. Ma manca un giorno, quello prima della morte, il 31 maggio. Giorno in cui la madre del ragazzo, Maria Brito, aveva visitato il figlio trovandolo "pallido, febbricitante e gravemente debilitato". Eppure tutti i bollettini medici degli ultimi giorni di vita di Danilo parlano sempre di "nessun fatto acuto da riferire". La perizia che la Procura ha richiesto a giugno al professor Costantino Ciallella della Sapienza ha messo nero su bianco che la morte del ragazzo è avvenuta per colpa di una "polmonite bilaterale massiva", cioè grave, non diagnosticata. Nessun infarto accidentale, come inizialmente dichiarato dalle autorità carcerarie. Secondo il documento nonostante la serietà della malattia il ragazzo non sarebbe stato curato con farmaci adeguati. Il diario clinico del detenuto riporta le medicine che erano state somministrate a Danilo: si parla sempre di "Fans" ovvero di prodotti anti-infiammatori o analgesici, come Aulin, Ketoprofene e Randitina. Oppure di Augmentin. Niente di specifico per curare una forma grave di polmonite. Restano da chiarire anche le condizioni in cui è morto il ragazzo. Se da solo "in cella di isolamento", come si legge nella perizia della Procura, oppure come ora sostiene l’istituto penitenziario, in una camera comune con altri due reclusi. Perché ora le autorità carcerarie affermano che la condizione di "isolato disciplinare", riportata più volte nel diario clinico, in questo caso sia stata scontata insieme ad altri detenuti in una camera comune, con un’unica direttiva: l’esenzione dalle attività in comune. Versione che non convince la famiglia del ragazzo. E che parrebbe smentita dalla stessa perizia della Procura. Giustizia: crac Parmalat, Giovanni Tanzi muore dopo la condanna a 10 anni di carcere Il Tempo, 10 marzo 2014 Era il fratello di Callisto, ex patron della Parmalat. Ieri la Corte di Cassazione aveva confermato la condanna a 10 anni. Giovanni Tanzi, fratello dell’ex patron di Parmalat, Calisto, è venuto a mancare ieri nel giorno della sentenza della Corte di Cassazione che lo ha condannato a 10 anni e 2 mesi per il crac del colosso del latte, con uno sconto di 4 mesi sulla condanna dell’Appello. La notizia della morte di Giovanni Tanzi, che soffriva di cuore da tempo, è stata comunicata oggi al fratello Calisto dal suo avvocato. La Suprema Corte ieri ha confermato la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Bologna il 23 aprile 2012. I giudici di secondo grado condannarono Calisto Tanzi, a 17 anni e 10 mesi di reclusione, e a 9 anni, 11 mesi e 20 giorni l’ex direttore finanziario della Parmalat Fausta Tonna. La prescrizione del reato associativo ha fatto diminuire di 5 mesi la condanna di Calisto Tanzi. Sconto di pena di 5 mesi anche per Fausto Tonna. Per Tonna la Corte d’Appello di Bologna dovrà pronunciarsi di nuovo "limitatamente al trattamento sanzionatorio", ha stabilito la Cassazione, in riferimento a calcoli interni della pena dati i diversi reati contestati all’imputato. Per Giovanni Tanzi, che era stato condannato a 10 anni e 6 mesi la Suprema Corte ha stabilito uno sconto di pena di 4 mesi, e per Luciano Silingardi, condannato in appello a 6 anni, la pena è stata ridotta di tre mesi. Tutte le altre condanne sono state confermate: diventa definitiva la pena di 7 anni e 8 mesi per Domenico Barili, quella di 4 anni e 10 mesi inflitta a Giovanni Bonici, quella a 4 anni, 10 mesi e 10 giorni comminata a Fabio Branchi. Confermate anche le pene per Rosario Calogero (4 anni e 7 mesi), Sergio Erede (1 anno), Camillo Florini (4 anni e 1 mese), Paolo Sciumè (5 anni e 3 mesi), Mario Mutti (3 anni e 6 mesi) ed Enrico Barachini (4 anni). Rigettati i ricorsi di Davide Fratta e Giuliano Panizzi, per i quali la Corte d’Appello di Bologna aveva dichiarato la prescrizione del reato. Con il verdetto di questa sera sono state anche confermate le statuizioni stabilite dai giudici del merito per oltre 34mila risparmiatori danneggiati dal crac Parmalat, costituitisi parte civile nel processo. L’unico tra gli imputati per il crac da 15,5 miliardi attualmente detenuto è Calisto Tanzi, che si trova agli arresti domiciliari in ospedale. La camera di consiglio dei giudici della quinta sezione penale, presieduti da Giuliana Ferrua, è durata circa tre ore. Nella sua requisitoria svolta negli scorsi giorni il pg di Cassazione Pietro Gaeta aveva sollecitato la conferma di tutte le condanne. Sassari: Osapp; gravi condizioni sanitarie nel nuovo carcere di Bancali Italpress, 10 marzo 2014 "La spada di Damocle che pende sul sistema penitenziario italiano include, ovviamente, anche tutte le criticità che si registrano nelle aree sanitarie delle carceri italiane. E purtroppo, anche presso il nuovo Istituto penitenziario di Sassari si registrano molte disfunzioni che nel caso di specie sono amplificate dalla circostanza che detto Istituto è anche sede di Centro clinico". Ad affermarlo è il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra, che aggiunge: "È impensabile che ai detenuti dimessi dal locale nosocomio a seguito di intervento chirurgico, non venga garantita la necessaria assistenza sanitaria e parasanitaria nel carcere di Sassari, tanto che solo il giro di ispezione della Polizia penitenziaria può rilevarne le condizioni in cui versano". "Se a questo - prosegue - si aggiunge l’assenza di altrettanti basilari attrezzature sanitarie, come per esempio le bocchette dell’ossigeno e le difficoltà pratiche per poter raggiungere le celle con le barelle, è evidente che qualcosa nell’Asp di Sassari va rivisto per tutto ciò che orbita attorno alla sanità penitenziaria". "È auspicabile - conclude Nicotra - che queste criticità vengano risolte nell’immediatezza, perchè se è vero che il grado di civiltà di un popolo si vede dallo stato delle patrie galere allora a Sassari non si va bene per niente". Trapani Uil-Pa; portare detenuti in altri spazi per 8 ore non risolve il sovraffollamento Ansa, 10 marzo 2014 "La Uil aveva detto che non bastano le sentenze a modificare le strutture carcerarie e le condizioni di vita dei reclusi soprattutto se i penitenziari sono stati costruiti nel secolo scorso negli anni 60". Lo afferma il coordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari Sicilia, Gioacchino Veneziano dopo la visita effettuata sabato scorso nel carcere di Trapani, insieme ai segretari provinciali di Trapani Salvatore Curatolo e Antonino Laudicina. "La condanna dell’Europa all’Italia per la questione carceraria, - dice - si riverserà sui nostri colleghi della Polizia Penitenziaria, perché lo sapevano pure le pietre che non si sarebbero risolti i problemi del sovraffollamento ‘buttando fuori dalle celle per 8 almeno ore i detenuti’, giacché le difficoltà traboccheranno in tutti gli spazi all’interno dei reparti detentivi". Per la Uil - "aprire le celle per otto ore consecutive, significherà spostare il sovraffollamento dalle celle ad altri spazi che non erano nati per queste finalità", quindi - sottolinea il Segretario Provinciale della Uil-Pa Penitenziari di Trapani Salvatore Curatolo: "Abbiamo voluto fotografare la struttura di Trapani, dove si metterà in pratica questo nuovo metodo di detenzione, ed in 40 scatti abbiamo messo a nudo che con l’attuale sovraffollamento, unitamente alle inadeguate condizioni strutturali, si metteranno in serio rischio gli equilibri di ordine e sicurezza quando dovremmo controllare centinaia di detenuti in spazi ristrettissimi". Caltanissetta: impedita la pratica in ospedale, ergastolano non può laurearsi di Vincenzo Pane La Sicilia, 10 marzo 2014 Dagli anni della guerra di mafia agli studi di Farmacia ed ora di Medicina, che non può proseguire perché dovrebbe recarsi nei reparti ospedalieri ma non gli vengono concesse le autorizzazioni visti i precedenti per mafia e omicidi. Maurizio Margiotta (46 anni), mazzarinese, è considerato un appartenente alla Stidda, l’organizzazione mafiosa rivale di Cosa nostra, e per questo motivo è stato condannato in passato per associazione mafiosa e per diversi omicidi risalenti al periodo della guerra di mafia tra le due fazioni criminali. Studente ergastolano. Adesso Margiotta è uno degli studenti del Polo penitenziario dell’università di Firenze. Ma la sua, secondo gli inquirenti, è una carriera criminale piuttosto seria: viene arrestato per la prima volta il 7 marzo del ‘92. Va in carcere e viene processato per mafia ed omicidi, mentre Stidda e Cosa nostra continuano ad insanguinare la zona sud della provincia nissena a forza di attentati e lupare bianche. Il 14 febbraio del 2003 Margiotta riassapora la libertà. I giudici gli concedono di lasciare il carcere, dopo l’istanza dell’avvocato difensore Giampiero Russo, solo per curarsi da un tumore e quindi attraversa un calvario di operazioni e cicli di chemioterapia. Negli anni trascorsi in ospedale per le cure sostiene di avere maturato interesse per le materie scientifiche: "La mia vita oggi è verso la cura dei pazienti, di chi soffre di salute". Il 13 agosto 2005 però - a seguito del successo delle cure mediche - torna in carcere, dopo che gli vengono revocati i permessi e torna in carcere, perché con l’avvento di nuovi collaboratori di giustizia sono state riaperte le indagini per l’omicidio di Pasquale Varsalona, ucciso alla periferia di Mazzarino a colpi d’arma da fuoco alla fine del 1989. Margiotta continua a coltivare l’interesse "scientifico" - pur se detenuto in una cella del carcere della Dogaia, a Prato - ottiene la laurea in Farmacia e subito si iscrive alla facoltà di Medicina e Chirurgia, arrivando con successo alle soglie del quarto anno. "Per superare gli esami di semeiotica e fisiopatologia medico-chirurgica - scrive Margiotta - devo frequentare le corsie di ospedale, ma se il magistrato non mi concede i permessi devo aspettare che finisca il periodo di detenzione per il reato ostativo". Diverse le richieste in tal senso che il suo legale, l’avvocato Giampiero Russo, ha presentato all’autorità giudiziaria. "Non sono un pentito". Al momento uno dei processi per il delitto Varsalona è ancora in corso, alla sbarra c’è Francesco Annaloro; il boss stiddaro di Riesi e Margiotta domani dovrà presentarsi in aula per un confronto con i collaboratori di giustizia. Il mazzarinese ha infatti fatto delle dichiarazioni ammettendo le sue responsabilità, ma respinge con forza di essere un collaboratore di giustizia o un dichiarante: "Il dichiarante - scrive Margiotta in una lettera - è colui che viene isolato nella sezione collaboranti e deve dire tutto ciò che sa in sei mesi. Se le dichiarazioni convincono i magistrati viene dichiarato collaboratore di giustizia e viene collocato nella sezione protetta destinata ai pentiti. Io non sono mai stato isolato per essere interrogato, ma sono rimasto sempre nella sezione alta sicurezza con altri ergastolani come me. Adesso mi trovo nella sezione "Polo universitario" dove trascorro le mie giornate con altri studenti". Le dichiarazioni sul delitto Varsalona. Su questa vicenda Margiotta sostiene di avere raccontato la verità ai giudici; una "verità" in cui scagiona Francesco Annaloro, scagliandosi contro il collaboratore di giustizia riesino Salvatore Riggio, ex stiddaro: "Ho confessato l’omicidio Varsalona - scrive Margiotta - ho detto tutta la verità. La verità non era quella di Salvatore Riggio che accusa Annaloro indicandolo come colui che ha sparato a Varsalona. Annaloro era seduto nel sedile posteriore dell’auto e non poteva sparare". Secondo la ricostruzione dei fatti, Varsalona fu ucciso da un commando di killer a bordo di un’auto, ma non tutte le ricostruzioni da parte di pentiti e testimoni coincidono. "La mafia mi fa schifo, amo il mio paese". "Per colpa della mafia - aggiunge Margiotta - io e la mia famiglia abbiamo visto tanti guai e ci siamo allontanati da molte persone. Abbiamo cercato nuovamente le persone oneste che conoscevamo ed iniziato a dire a tutti di stare lontano dalla mafia, perché fa solo schifo". Il suo pensiero - dice - va sempre al pese natio, Mazzarino: "Amo il mio paese, Mazzarino, dove sono cresciuto e lo penso ogni giorno. Penso ogni giorno ai miei amici di Mazzarino e a tutti quelli che si allontanarono da me e spero un giorno di ritornare ad essere un loro amico. Ci tengo a ritornare a vivere assieme a loro". Libri: "La cella liscia. Storia di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane", di Arianna Giunti di Massimiliano Coccia Il Tempo, 10 marzo 2014 Le nostre giornate scorrono al ritmo dell’incessante danza delle consuetudini: il lavoro, le gelosie, gli amori, i drammi piccoli e grandi. Di questi coni d’ombra se ne occupa raramente la politica o il giornalismo, quello d’inchiesta, che in qualche meravigliosa eccezione ancora esiste. È il caso di Arianna Giunti, autrice di un e-book dal titolo "La cella liscia. Storia di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane" (Informant). "La situazione del sistema carcerario in Italia è un argomento del quale si tende a parlare ad intermittenza - racconta l’autrice - solamente quando qualche fatto di cronaca eclatante rimbomba sui media e scatena l’indignazione pubblica. In realtà nei nostri penitenziari gli abusi di potere avvengono ogni giorno, nel silenzio e nell’indifferenza generali". Una colpa essere detenuti, una colpa che si sconta anche con il pregiudizio "anche a costo di calpestare i propri diritti umani, in totale spregio dell’articolo 27 della Costituzione che conferisce al carcere una funzione rieducativa". In questo libro scritto con accuratezza ed una capacità narrativa molto forte, l’autrice ha scelto di puntare i riflettori "su alcuni degli aspetti meno noti e più dolorosi del carcere: gli abusi di potere in cella, la malasanità in carcere e le mancate cure per i detenuti, l’ergastolo ostativo con i cosiddetti "uomini ombra" e infine il difficilissimo reinserimento sociale degli ex detenuti". Un Paese che sembra quindi fermo al Medioevo, che costringe alla continua illegalità i cittadini che sbagliano, perché dal carcere attuale non si può che uscire peggio di come si è entrati, anche per colpa dell’abbrutimento morale e culturale di un ambiente che non permette un codice comportamentale diverso dalla violenza. "C’è una tecnica di tortura dal sapore medievale che ancora oggi resiste in moltissime prigioni italiane: i detenuti che disattendono gli ordini o hanno crisi isteriche, vengono confinati per un’intera giornata o per settimane intere - nudi e al buio - in una cella di isolamento. Lì vengono picchiati, umiliati, costretti a dormire sui propri escrementi - denuncia Arianna Giunti - in gergo la chiamano "la cella liscia", perché non ci sono appigli, mobili o brande. Una vera e propria stanza di tortura, di cui appresi l’esistenza dal padre di un detenuto. Per la ferocia del metodo io stessa non volevo crederci che in Italia ci fosse una realtà del genere, poi scavando sono venute fuori tante storie, che emergono con molta difficoltà perché i detenuti hanno paura di parlare. Un caso documentato che ha portato alla condanna (poi prescritta di quattro agenti della Penitenziaria di Asti), dove tra i picchiatori c’era anche un detenuto che con il suo silenzio era stato promosso al grado di carnefice". Una pagina strappata dalle cronache ufficiali quella che racconta questo libro, che Arianna Giunti ha avuto il merito di rincollare alla cronaca e alla vita. Stati Uniti: un delitto su quattro commesso da donne, 61 detenute nel braccio della morte Il Tempo, 10 marzo 2014 Le statistiche italiane non sono del tutto affidabili. Mentre gli Stati Uniti, ad esempio, hanno un’agenzia federale che raccoglie i dati da oltre 10.000 corpi di polizia locale e statale, li elabora e li pubblica, da noi esiste solo il rapporto annuale del ministero dell’Interno, che però lascia poco spazio all’incrocio dei dati e agli approfondimenti. Sembra che nel 2013 gli omicidi volontari in Italia siano stati "solo" 470, e di questi 115 abbiano avuto come vittima una donna. Quindi un omicidio su 4 in Italia ha una vittima femminile. 3 su 4 no. Esattamente un terzo di tutti gli omicidi volontari italiani (33,3%) sembra che avvenga in un contesto familiare. Mancano dati aggiornati su quanti omicidi siano stati compiuti da donne, sia contro maschi che contro femmine. La popolazione detenuta femminile in Italia è da anni stabile attorno alle 1700 unità (circa il 4,2% dell’intera popolazione detenuta. Non esistono dati aggiornati scorporati su quante di queste donne siano state condannate per reati violenti. 61 nel braccio della morte Negli Stati Uniti 61 donne sono attualmente nel braccio della morte accusate di omicidio volontario aggravato (contro 3.034 uomini). Le donne costituiscono quindi l’1,97% dei condannati a morte. Dal 1977 ad oggi sono state giustiziate 13338 persone, 13 delle quali (0,97%) erano donne. Le 1338 persone giustiziate erano state condannate per un totale di 1964 omicidi. Tra queste vittime, 961 (48,9%) erano donne. Nel complesso negli Usa vengono commessi, in proporzione, 5 volte più omicidi volontari di quanti ne vengano compiuti in Italia. Ogni 100.000 abitanti negli Usa si registrano una media di 5 omicidi, in Europa una media di poco superiore ad 1, in Italia una media di poco inferiore ad 1. Di converso negli Usa il sistema carcerario conta oltre 2 milioni di detenuti e 2 milioni di persone ai regimi alternativi. La popolazione Usa è di 280 milioni di abitanti, 5 volte quella Italiana. In proporzione gli Usa hanno il sestuplo dei detenuti italiani. E come abbiamo dalla percentuale di donne vittime, un utilizzo così del carcere non sembra essere di nessun aiuto per le donne Usa. Iran: sui social network le collette per salvare i condannati a morte di Maurizio Molinari La Stampa, 10 marzo 2014 Gli studenti cercano soldi per risarcire le famiglie delle vittime. Nell’Iran di Hassan Rohani raccogliere denaro sul Web può servire a salvare la vita ad un condannato a morte. Nella nazione che ha eletto Rohani presidente le esecuzioni continuano ad essere numerose - fra 500 e 625 nel 2013, il secondo dato più alto in assoluto dopo la Cina - ma gli oppositori per la prima volta si organizzano, sfruttando la legge islamica che prevede la scarcerazione del condannato se la famiglia della vittima riceve un adeguato risarcimento per la perdita subita. Questo hanno fatto un gruppo di studenti riuniti nella "Società popolare" intitolata all’Imam Alì, debuttando con una raccolta che ha fruttato quasi 50mila dollari per ottenere la liberazione di Safar Anghouti, 24 anni, responsabile di omicidio. La sovrapposizione fra la mobilitazione via Internet e le donazioni dei singoli cittadini ha dato vita ad una tipologia nuova di "crowd-fonding", il cui successo lascia ora intendere che qualcosa si sta muovendo nella società iraniana contro l’applicazione massiccia della pena di morte. Un ulteriore elemento di novità da Teheran arriva con il pronunciamento proprio di Rohani contro la recente chiusura di due giornali riformatori: "Aseman" e "Bahar". Le autorità giudiziarie della Repubblica Islamica avevano disposto la fine della pubblicazione a causa di alcuni articoli giudicati "in contrasto con i principi islamici" ma Rohani, con un discorso trasmesso in diretta da radio e tv, ha parlato di "decisioni errate". "Chiudere un giornale deve essere l’ultima decisione possibile, non la prima" ha detto Rohani, chiedendosi "perché alcuni mezzi di informazione sono del tutto liberi mentre altri non possono esserlo". E in particolare Rohani ha lamentato il fatto che "ad essere del tutto liberi sono coloro che mi criticano mentre a trovare ostacoli è chi mi sostiene". Ovvero, i giornali riformatori sono stati puniti da chi si oppone al presidente. Israele-Anp: capo negoziatore Erekat, il 29 marzo scarcerazione 30 prigionieri palestinesi Nova, 10 marzo 2014 Il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, al ritorno da una visita negli Stati Uniti, ha detto che l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha ricevuto l’impegno dagli Usa affinchè Israele, il 29 marzo, liberi 30 prigionieri palestinesi da tempo nelle carceri israeliane, come quarta e ultima tappa della liberazione dei prigionieri di lunga data che sono stati condannati prima degli accordi di Oslo, nel 1993. Erekat ha detto che il rilascio dei detenuti non ha nulla a che fare con i negoziati israelo-palestinesi e ha sottolineato che i palestinesi non intraprenderanno alcuna azione unilaterale delle Nazioni Unite per i nove mesi di durata dei colloqui, che si concluderanno il 29 aprile. Siria: arrivate a Damasco le suore di Maalula, scambio con 153 detenute Nova, 10 marzo 2014 Sono arrivate ieri sera a Damasco le suore di Maalula, rapite il 2 dicembre scorso dai miliziani ribelli islamici del Fronte di al Nusra e liberate ieri. Secondo quanto riferisce l’emittente televisiva "al Jazeera", in cambio della loro liberazione è attesa oggi la scarcerazione di 153 donne detenute nelle carceri siriane. Il tutto sarebbe avvenuto grazie ad una mediazione qatariota. Le sei suore sono giunte a Damasco, scelta come meta rispetto a Beirut, subito dopo la liberazione e il loro arrivo nella zona libanese di Arsal da dove sono rientrate in Siria tramite il valico di Jadida Yabus per poi essere portate nella zona cristiana di Damasco dove si trova la cattedrale. Al loro rientro nel territorio siriano, controllato dal regime di Bashar al Assad, sono state accolte da uomini politici e religiosi siriani.