Ristretti Orizzonti - Centro di Documentazione Due Palazzi - Casa di Reclusione di Padova - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

Giornata Nazionale diStudi

La verità e la riconciliazione

  Venerdì 23 maggio 2014, ore 9.30-16.30, Casa di Reclusione di Padova

 

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La Verità e la Riconciliazione

“Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione, la verità” (Desmond Tutu).

La morte di Nelson Mandela ci ha fatto venire il desiderio di contribuire anche noi, dal carcere, a non dimenticarlo, lavorando con quelle due parole, che tanto hanno significato per il Sudafrica: la Verità e la Riconciliazione.

Uno studente di diciott’anni, dopo un incontro in carcere con la nostra redazione, ci ha scritto:Credevo di sapere bene dove fosse il male, standone alla larga e promettendomi di non corrompere mai i miei valori e ciò in cui credevo. Oggi ho per la prima volta capito che tutti hanno del bene e del male insieme, e che bisogna nutrire la parte di bene che ognuno di noi ha, e so che questa potrebbe sembrare una conclusione piuttosto ovvia, ma per me, senza il vostro aiuto, non sarebbe stato nemmeno lontanamente concepibile”. Questo ragazzo ci mostra che è sempre emozionante scoprire la complessità delle vite, specie oggi che non la insegna quasi più nessuno: noi vogliamo allora provare a scandagliare il tema della verità, proprio a partire dalla consapevolezza di quanto esso sia complesso, per trovare poi la forza di raccontare anche le verità più respingenti.

 

La verità e la riconciliazione dal Sudafrica a noi

Partiamo allora dalla Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, per capire che cosa quell’esperienza ci può insegnare, in un momento in cui da una parte domina nella nostra società l’idea di una giustizia solo punitiva, e però dall’altra quel modello garantisce solo un’illusione di sicurezza. “Con troppa facilità la novità dell’esperienza delle Commissioni per la verità e la riconciliazione è stata accantonata e giudicata come qualcosa che tutto sommato ha potuto funzionare più o meno bene per paesi arretrati. Non si è cercato di capire che alcuni degli aspetti fondamentali della giustizia, e soprattutto il tema della centralità delle vittime, possono e debbono entrare in una riforma della giustizia di tipo tradizionale, di tipo occidentale” (Marcello Flores).

*      Marcello Flores insegna Storia contemporanea e Storia comparata alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena. Ha pubblicato, tra l’altro: Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo e Tutta la violenza di un secolo.

 

La verità che non si raggiunge mai

Scriveva Leonardo Sciascia che “il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.

Carlo Arnoldi, che ha perso il padre nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, combatte da una vita perché nessuno dimentichi: “Ci interessa comunicare con i ragazzi, che pur avendo strumenti di conoscenza come Internet e Facebook hanno altri interessi.

Piazza Fontana non sanno nemmeno che sia esistita. E questo ci fa male. È da anni che il 12 dicembre leggiamo il nome dei nostri morti. E ci rendiamo conto che sono un numero. Però la forza della nostra associazione è di non far dimenticare”.

*      Carlo Arnoldi, figlio di Giovanni Arnoldi, morto nella strage di Piazza Fontana, è Presidente dell’Associazione Familiari Vittime di Piazza Fontana.

 

La verità che nessuno sopporta

“Chi ha scelto di lavorare con le parole - il più arduo dei materiali, il più difficile da modellare secondo il proprio desiderio - sa che, a volte, le parole mentono: travestono, travisano, trasformano”: le parole che mentono sono per Bianca Stancanelli, la giornalista che ha raccolto 21 storie di Rom nel libro “La vergogna e la fortuna”, quelle che tutti prima o poi usiamo quando parliamo di Rom, perché “il carico di pregiudizio e di ignoranza che c’è in questo paese sulla questione rom è davvero micidiale”. Per questo è importante trovare il coraggio di raccontare anche le storie che nessuno vuole sentire, le verità che respingono, che infastidiscono, che spaventano.

*      Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice, è inviato speciale per il settimanale “Panorama”. È autrice di molti libri, fra i quali La vergogna e la fortuna. Storie di Rom e A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario.

 

Quanto costa guardare in faccia la sofferenza

Il carcere è pieno di persone che hanno ucciso, e molte di loro però non si sono nemmeno mai confrontate con quello che significa un lutto per una morte che non ha niente di naturale come l’omicidio. Quando è venuta in redazione Benedetta Tobagi, in un percorso di confronto tra autori di reato e vittime, tanti si sono meravigliati che, dopo più di trent’anni, lei piangesse ancora parlando del padre ucciso. In carcere allora si deve parlare di più del lutto, e la responsabilizzazione delle persone, e quindi la “riconciliazione” con la società passa anche da questo.

Chi ha subito un grave lutto non ha voglia di sentirsi dire sciocchezze, né luoghi comuni, non può sopportare atteggiamenti pietistici o affettati. La credibilità e la sincerità fanno la differenza”: sono parole dello psichiatra Diego De Leo, che affrontando il tema del lutto traumatico forse può aiutare anche chi è autore di atti violenti a confrontarsi con la sofferenza causata ai sopravvissuti.

*      Diego De Leo, Professore Ordinario di Psichiatria alla Griffith University, Australia., dopo che ha perso due figli in un tragico schianto in auto, ha dedicato la sua esistenza a sostenere i sopravvissuti ai lutti traumatici. È autore del libro Lutto traumatico. L’aiuto ai sopravvissuti, realizzato con altri tre psichiatri, che a loro volta hanno perso i figli.

La prima “riconciliazione”, quella con la propria famiglia

A vedere certi film che narrano del ritorno a casa di reduci da guerre come quella in Iraq, viene in mente un paragone, non così azzardato, con il rientro in famiglia di un detenuto dopo anni di galera: persone spezzate, spaventate ma spesso incapaci di ammettere la propria fragilità, di fare i conti con le proprie emozioni, di cui raramente riescono a parlare con qualcuno nel corso di lunghe carcerazioni, passate spesso a nascondersi che “ritornare a casa” sarà drammaticamente difficile. Forse perché, come scrive Vanna Iori, docente di pedagogia che da anni si occupa anche delle famiglie dei detenuti, “emozioni e sentimenti sono stati esclusi dal sapere visibile della formazione perché ritenuti misteriosi, perturbanti e potenzialmente pericolosi”. Così viene negato o trascurato il diritto alla genitorialità e la possibilità di mantenere relazioni affettive con la famiglia.

*      Vanna Iori, Professore Ordinario di Pedagogia Generale e sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Pedagogia

 

La mediazione per riconciliarsi con la società

Io non penso che si possa dire che la vittima resta ferma ad un momento della sua storia - che è il momento del reato. Da quel momento nasce una creatura nuova nella sua vita che è il conflitto. (…) Il conflitto che nasce il giorno del reato, a distanza di un mese, di sei mesi, di un anno, è tutto un altro conflitto e può avere travolto un'infinità di altri soggetti e una quantità enorme di altri pezzi della sua vita”.

È da questa riflessione che parte il grande lavoro di Duccio Scatolero per la mediazione dei conflitti, a partire da quartieri degradati come San Salvario a Torino. Ed è sua l’idea di riflettere sulla necessità di “un tavolo di ricostruzione post reato”.

*      Duccio Scatolero, Criminologo, già Docente di Criminologia presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, Docente al Master Internazionale in Mediazione - Istituto Kurt Bosch di Sion. È autore di molti articoli sul tema della gestione dei conflitti e ha realizzato, o contribuito a realizzare, molti interventi di mediazione a Torino e in tutta Italia.

 

Tra verità (delle cose) e dimensione simbolica (del diritto): il caso del regime di carcere duro del 41-bis

Nell'immaginario collettivo, il regime cosiddetto di carcere duro (previsto all'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario) è assurto a simbolo della lotta alla criminalità organizzata. In ragione di ciò, è diventato qualcosa di indiscutibile, nel duplice senso che non se ne deve parlare e non lo si può mettere in discussione. Questo è un problema, serio: perché gli istituti giuridici sono creazioni artificiali che - proprio per questo - non possono essere sottratti all'analisi razionale né a una verifica di coerenza con i principi della Costituzione e delle Carte internazionali dei diritti. Vale anche per il 41-bis: proveremo a farlo, attraverso testimonianze personali e aiutati da una non reticente analisi giuridica delle sue norme e della sua prassi applicativa, dei suoi fini dichiarati e di quelli nascosti.

*      Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, autore tra l’altro con Franco Corleone dei saggi Il delitto della pena e Volti e maschere della pena.

 

A scuola di “riconciliazione” per imparare a vedere la verità dell’altro

In un incontro in carcere con le classi a cui partecipavano alcuni genitori, una madre ci ha detto che sua figlia è stata uccisa in un incidente, e lei solo ora, dopo anni, sentendo le testimonianze delle persone detenute, per la prima volta ha pensato che le sarebbe potuto succedere anche il contrario, di essere la madre dell’”altro”, di chi ha provocato quel tragico incidente. Se pensiamo a tutto l’incattivimento su questi temi, alla pesante richiesta di introdurre il reato di omicidio stradale, alla rabbia e al desiderio di vendetta che spesso esprimono i famigliari delle vittime, viene da dire che l’unica possibilità di fermare la cattiveria sociale è moltiplicare le occasioni che aiutano a vedere il mondo con gli occhi dell’Altro.

*      Giovanni Bachelet, Ordinario di Fisica alla Sapienza, figlio del giurista Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1980. Al funerale di suo padre disse: “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”.

Perdonare è resistere alla crudeltà del mondo

Edgar Morin, nell’articolo “Pardonner, c’est résister à la cruauté du monde”, propone un concetto di perdono fondato sulla “comprensione”. “Comprendere un essere umano significa evitare qualsiasi riduzione della sua persona all’atto che egli ha commesso, sia pure il più grave di cui un essere si possa macchiare”. Ecco, è a partire da questa idea di cercare di opporsi alla “crudeltà del mondo” attraverso la “comprensione” che vogliamo provare a parlare di perdono, inteso come ne parla Adolfo Ceretti, quando afferma che “il perdono, nel dilatare il linguaggio di ciascuno per aprire uno spazio di coabitazione, di copresenza, non elimina il passato ma obbliga le parti a disinnescare le singole memorie congelate e ad avviare una narrazione a più voci attraverso la quale “io” accetto che gli altri, come me, possano dire “io”.

 

Dialogo su responsabilità e riconciliazione: nella seconda parte della Giornata i detenuti della redazione dialogheranno con Carlo Riccardi, criminologo e mediatore penale, e con Adolfo Ceretti, che con Ristretti Orizzonti affrontano da anni una riflessione sui possibili percorsi di presa di coscienza, di incontro con le vittime, di mediazione dei conflitti.

Il dialogo sarà aperto da Claudia Francardi e Irene Sisi, due donne unite da una tragedia. Claudia è la vedova del carabiniere Antonio Santarelli, che durante un posto di blocco è stato colpito alla testa da un ragazzo di diciannove anni ed è morto dopo più di un anno di coma. Irene è la madre del ragazzo che l’ha ucciso, Matteo Gorelli, condannato inizialmente all’ergastolo, pena ridotta in appello a venti anni. Claudia e Irene hanno deciso di fondare un'associazione perché portando la nostra testimonianza, raccontando la nostra storia, vorremmo sostenere percorsi di riconciliazione”.

 

Coordinerà i lavori Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano. Tra le sue pubblicazioni, Cosmologie violente e Oltre la paura.