Carceri piene di uomini, vuote di speranza Il Mattino di Padova, 5 maggio 2014 Ha usato il cavo della televisione per farla finita con una vita, che doveva sembrargli priva di qualsiasi speranza: il 25 aprile si è ucciso nella Casa di reclusione di Padova un detenuto, Alessandro Braidic. Lo vogliamo ricordare, per continuare anche in nome suo a batterci per condizioni più civili nelle carceri, per le persone detenute, ma anche per chi ci lavora. Perché non possiamo dimenticare che pure tra gli agenti c’è sofferenza per le condizioni di lavoro sempre più frustranti, e che il 29 aprile si è tolto la vita uno di loro, in servizio nella Casa circondariale di Padova. Il sovraffollamento non è un problema di numeri Sabato 26 aprile, quando sono entrata nel sito del Mattino di Padova, ho sentito un pugno nello stomaco: "Padova, detenuto si impicca in carcere con il filo elettrico". Sono andata subito a cercare il nome, io in quel carcere ci entro ogni giorno da diciassette anni, conosco tanti detenuti e ho avuto paura. Ma il nome non c’era, c’era solo un fine pena mostruoso, 2039. Mi sono allora attaccata al telefono per cercare quel nome, e alla fine l’ho saputo: Alessandro Braidic. Io non lo conoscevo, Alessandro, e quindi un po’ di sollievo l’ho provato, non era uno della mia redazione, ma è stato un sollievo amaro. Perché poi cominci a farti tante domande, a cercare delle ragioni, a pensare se ci sono delle responsabilità, se si poteva evitare. È una domanda anche stupida, per carità, nessuno è in grado di dire se si poteva evitare un suicidio, però una riflessione su quello che sta succedendo nelle carceri io voglio tornare a farla. Io personalmente sono stanca di difendere queste istituzioni, di essere obiettiva, di richiamare le persone detenute alla loro responsabilità, che certamente hanno, a volte anche pesantissima, sono stanca e avvilita per la grande e diffusa evasione dalla responsabilità che mi vedo intorno. Perché bisogna pur ripeterlo ogni giorno che il problema non è mille detenuti in più o in meno, mezzo metro di spazio in più o in meno, il problema è il vuoto di speranza di tutto il sistema: a partire dalle pene inumane come quel 2039 di Alessandro, uno che comunque era un "predestinato" alla galera già solo per il suo essere un "sinto, giostraio, nomade, rom" (i giornali le hanno usate tutte, queste definizioni, quando hanno parlato di lui). E poi la sua carcerazione, inutile, disperata. Prima a Milano, poi a Padova. Io non so cosa ci facesse a Padova, lontano dalla sua famiglia, solo, ma alcuni dubbi li ho, alcuni motivi di rabbia anche: Non vorrei più vedere servizi televisivi sul carcere modello di Bollate o su quello di Padova. Bollate è una specie di santino, Padova un mezzo santino dell’Amministrazione penitenziaria. Prendiamo Padova, che conosco bene, qui sono impegnati a fare qualcosa, con la pasticceria, Ristretti, la scuola, la legatoria forse quattrocento detenuti, ma ce n’è quasi cinquecento che vivono, come altre migliaia in Italia, la stragrande maggioranza, nel vuoto, nell’assenza di futuro, nella fragile speranza di un trasferimento in un altro inferno, solo un po’ migliore. Come Alessandro Braidic, che per farsi mandar via si era isolato da tutti. Voglio credere alle promesse dell’Amministrazione, che dichiara con una nuova Circolare l’intenzione di umanizzare i trasferimenti e di dare risposte "entro 60 giorni" alle richieste dei detenuti di essere trasferiti. Ma allora perché Alessandro Braidic si era chiuso e isolato proprio per essere trasferito da Padova, dove non aveva nessuno, e andare a Milano, vicino alla famiglia, e aspettava credo da più di un anno una risposta alla sua richiesta di trasferimento? Vorrei che tutto quello che riguarda le "morti di carcere" fosse oggetto di una informazione chiara, attenta, precisa: perché è importante ricostruire ogni passaggio delle vite e delle morti come quella di Alessandro Braidic, per capire, per cercare le responsabilità, per spezzare la catena di indifferenza che c’è dietro queste storie e fare davvero tutto il possibile per ridare umanità alle galere. E non per paura dell’Europa e delle sue sanzioni, ma per rispetto di noi stessi e delle nostre istituzioni. Ornella Favero, Redazione di Ristretti Orizzonti Morti che si tolgono la vita Sui quotidiani di Padova del 26 aprile leggo "Nel carcere di Padova si è tolto la vita Alessandro Braidic. Condannato al carcere fino al 2039 si impicca in cella con il cavo della TV". Qui si continua a morire, ma nessuno fa nulla perché la morte dei "cattivi" non interessa quasi a nessuno. Un altro detenuto che se ne va, un altro ancora, che forse amava la vita e per continuare ad amarla è dovuto morire perché in carcere si vive una non vita. Forse là fuori, molti "buoni" del mondo libero non sanno che quando in carcere un compagno si toglie la vita tanti altri detenuti lo invidiano. Cercano di indovinare i suoi ultimi gesti per ricordarsi di quando toccherà a loro. Ed io questa notte ho immaginato i pensieri che forse gireranno nella mia testa quando toccherà a me. Ho sempre vissuto come ho potuto. E non certo come avrei voluto, ma non ho mai smesso di amare l’umanità anche quando questa mi ha maledetto e condannato a essere cattivo e colpevole per sempre. Mi viene in mente che i filosofi non consideravano la scelta di suicidarsi un crimine o un peccato, ma solo un modo di abbandonare la scena quando la vita diventava inutile. E la mia vita oltre che inutile ora è diventata anche insopportabile. Non temo la morte. È già da tanto tempo che la aspetto. E lei per farmi dispetto e per lasciarmi in prigione tarda a venire. Ora però sarò io ad andare da lei. Ogni ergastolano resiste a stare in carcere fino a un certo numero di anni, che cambia a seconda degli uomini. Poi ad alcuni non rimane altro che impiccarsi alle sbarre della propria cella. Io già ho superato di molti anni questo limite, ma non ho ancora avuto il coraggio di togliermi la vita per l’amore della mia famiglia. A un tratto immagino che non esiste un ergastolano che non abbia mai pensato a togliersi la vita per uscire prima. Per un po’ cammino avanti e indietro per la cella. Mi sdraio sulla branda. Fisso il soffitto macchiato di umidità per una decina di minuti. Mi scrollo gli ultimi dubbi da addosso. Poi non ci penso più di tanto. Mi guardo intorno per la cella come se qualcuno mi potesse vedere e impedirmi di fuggire da dentro l’Assassino dei Sogni, come io chiamo il carcere. Tento un debole sorriso a me stesso. Mi tolgo la malinconia con una scrollata di spalle. E faccio quello che ho pensato sempre di fare. In tutti questi anni ci avevo pensato anche troppo. Provo l’impressione che le pareti della cella si stringano intorno a me. Poi viene il buio. Ed è così denso che sembra che mi sorrida. La libertà e la morte sono così vicine che basta allungare la mano per toccarle. Ed io lo faccio. Prima tocco la morte. Poi abbraccio la libertà. E mi addormentò come fanno solo i morti. Ciao Alessandro, non ti conosco, non ti ho mai visto, ma ti ammiro per esserti rifiutato di vivere una vita da cani. Spero un giorno di avere anch’io il tuo coraggio. Buona morte. Carmelo Musumeci 25 aprile 2014 giorno di morte in carcere a Padova È morto un altro detenuto, Alessandro, un ragazzo che ho conosciuto personalmente, un ragazzo con il quale ho parlato, qualche volta anche scherzato, un ragazzo che non avrei mai immaginato potesse fare una fine del genere: essere trovato pendente da una corda… Era arrivato dal carcere di Milano, e da subito si è dimostrato aperto al dialogo con gli altri detenuti. Era nella mia stessa sezione fino a qualche mese fa, poi per suoi motivi legati a problemi, io credo psicologici, o psichiatrici non so bene, ha deciso di isolarsi da tutti e ha chiesto il divieto d’incontro con tutto il carcere, perché voleva essere trasferito, ed era stato portato nella sezione isolati. Nell’ultimo periodo, prima di essere messo in isolamento, si vedeva chiaramente che stava male, il suo carattere era cambiato da un giorno all’altro, parlando con le persone che conosceva esprimeva chiaramente dei comportamenti dettati da un disagio, era diventato una persona del tutto diversa. Ora mi chiedo: qualcuno si sarà accorto che non stava bene? Sicuramente sì, perché già da quand’era in sezione assieme a me veniva visto dal medico e lui stesso chiedeva di poter essere visitato dallo psichiatra, cosa che poi era successa. Risulta evidente che i medici erano al corrente della sua situazione e del fatto che non era una persona che poteva stare là, dove poi alla fine si è tolto la vita, per triste coincidenza nel giorno della "Liberazione". A mio parere non si può tenere un ragazzo per mesi e mesi in una sezione di semi-isolamento. E prima che lo mettessero lì tutti sapevamo bene che lui aveva dei seri problemi psichici e che il carcere di Padova non era il posto adatto a lui. Qui, secondo me, qualcuno dovrebbe chiedersi se davvero è stato fatto tutto il possibile per capire il suo malessere, perché comunque non è giusto che un ragazzo giovane, l’ennesimo ragazzo, perché in carcere sono tanti i ragazzi giovani che si tolgono o cercano di togliersi la vita, faccia una fine del genere. Io credo che sia giusto che qualcuno, nelle carceri italiane, si chieda: ma si poteva evitare? Ma davvero abbiamo fatto tutto il possibile perché nessuno pensi a un gesto così tragico come una forma di liberazione? Andrea Zambonini e Biagio Campailla Giustizia: sospensione del procedimento ed estinzione del reato per "messa alla prova" a cura di Paolo Giuliano (Avvocato) www.fanpage.it, 5 maggio 2014 La legge del 28.04.2014 n. 67 introduce l’istituto della messa alla prova dell’imputato prima della sentenza, durante la fase della "prova" il procedimento penale è sospeso e se la prova ha esito positivo il rato è estinto. Ecco i nuovi articoli 168 bis codice penale e 168 ter codice penale e i corrispondenti articoli 454 bis cpp; 464 ter cpp; 464 quater cpp; 464 quinquies cpp; 464 sexies cpp; 464 septies cpp; 464 octies cpp. La legge del 28 aprile 2014 al fine di eliminare il carico dei procedimenti e di ridurre il peso dei detenuti nelle carceri ha introdotto il nuovo istituto della sospensione del procedimento per "messa alla prova". In poche parole il procedimento penale di sospende onde permettere all’imputato il risarcimento del danno il risarcimento del danno dallo stesso cagionato, l’affidamento dell’imputato al servizio sociale Ambito di applicazione. Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale. La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 cp. Richiesta: è l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. Quindi, non è obbligatorio chiedere o concedere la messa alla prova. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta. La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto. Forma della richiesta La volontà dell’imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall’articolo 583, comma 3 cpp. Contenuto della "messa alla prova" La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. Documenti da allegare alla richiesta di sospensione: All’istanza è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma. Il programma in ogni caso prevede: a) le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale; c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa. Termini entro cui effettuare la richiesta fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 cpp o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1 cpp. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere presentata anche nel corso delle indagini preliminari. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice, se è presentata una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, trasmette gli atti al pubblico ministero affinché’ esprima il consenso o il dissenso. Il consenso del pubblico ministero deve risultare da atto scritto e sinteticamente motivato, unitamente alla formulazione dell’imputazione. Il pubblico ministero, in caso di dissenso, deve enunciarne le ragioni. In caso di rigetto, l’imputato può rinnovare la richiesta prima dell’apertura del dibattimento di primo grado e il giudice, se ritiene la richiesta fondata, provvede. Effetti della messa alla prova: Durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso. L’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede. L’estinzione del reato non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge. Revoca della messa alla prova. La sospensione del procedimento con messa alla prova è revocata: 1) in caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, ovvero di rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità; 2) in caso di commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole. Esito della messa alla prova. Decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo. A tale fine acquisisce la relazione conclusiva dell’ufficio di esecuzione penale esterna che ha preso in carico l’imputato e fissa l’udienza per la valutazione dandone avviso alle parti e alla persona offesa. In caso di esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso. Giustizia: carcere e pene severe, dall’Inghilterra alla Russia sono spariti gli "ultrà" di Luca Fazzo Il Giornale, 5 maggio 2014 I rapporti torbidi e mai recisi con le società, dove affari, opportunismi, ricatti e sudditanze si intrecciano in modo inestricabile. E un sistema penale all’insegna della tolleranza, che rende praticamente impossibile finire in cella a scontare la propria pena a meno che non si ammazzi qualcuno. È questo doppio binario a fare sì che l’Italia sia diventata il paradiso europeo degli ultrà, l’ultimo paese della comunità dove si può assistere a scene incredibili come quelle avvenute dentro e fuori dall’Olimpico sabato sera. Dalla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania, alla Russia, non esiste più un solo paese (con l’eccezione forse della Serbia) dove il rimedio alle violenze che avvelenano il calcio sia affidato a pannicelli come il Daspo o la tessera del tifoso. Della sudditanza verso gli ultrà sono buoni testimoni per esempio le squadre di Milano, che entrambe hanno permesso nelle scorse stagioni ai caporioni delle curve di minacciare i giocatori senza reagire: come quando il 24 novembre scorso, agli ultrà rossoneri fu consentito di incontrare faccia a faccia Abbiati e Kakà promettendo ritorsioni se la squadra non avesse mutato atteggiamento in campo. Minacce provenienti da una curva pesantemente infiltrata sia da elementi dell’ultradestra che dalla malavita organizzata, ma cui viene comunque consentito di fare la voce grossa. Stessa situazione a Genova, dove nel 2011 a venti teppisti da curva venne permesso di salire sul pullman della Sampdoria. Esattamente il contrario di quanto avvenne a Barcellona quando Joan Laporta, presidente del club balugrana, estromise a forza dal Camp Nou i violenti del Boixos Nois. O a Parigi, dove il Paris Saint-Germain ha sciolto i club ultrà, e cancellato tredicimila abbonamenti. In Italia, invece, la prepotenza degli ultrà nasce dalla tolleranza dei club: e poi cresce a dismisura grazie all’indulgenza dei giudici. L’unico ultrà ad avere scontato per intero la sua pena è probabilmente Ivan Bogdanovic, il serbo che si arrampicò sulle cancellate di Marassi. Per il resto, della scarsa severità con cui la magistratura guarda al fenomeno l’esempio più clamoroso rimane il trattamento riservato agli ultrà dell’Inter che nel 2007 assaltarono una caserma dei carabinieri per protestare contro l’uccisione di un laziale. Vennero arrestati in dieci, la mattina dopo non c’era più nessuno in cella. In Inghilterra, dove il fenomeno degli hooligans è stato debellato, per finire in cella per 24 ore basta invece il semplice sospetto da parte della polizia. Per gli atti di violenza o per le violazioni al Daspo (che esiste anche lì, ma può durare fino a dieci anni) scatta la condanna penale, contro la quale il tifoso violento può fare appello: ma se l’appello è infondato, la condanna è raddoppiata. In Francia va in galera fino a tre anni chi porta razzi allo stadio, e fino a due anni chi ricostituisce un club disciolto dal ministero degli Interni (possibilità che in Italia non esiste). Persino in Russia il Daspo è più severo che in Italia, visto che può arrivare fino a sette anni, ed in più ai tifosi violenti possono essere ordinate 160 ore di lavori socialmente utili. In Spagna, dove il fenomeno degli hooligans è ben lontano dal raggiungere i nostri picchi di violenza, l’obbligo di prenotare il proprio posto con nome e cognome e restarvi seduto per tutta la partita vale anche per le curve: una norma impossibile da fare rispettare in un qualunque curva italiana. In Germania, altro paese ormai quasi bonificato dagli ultrà, la polizia si è vista riconoscere il diritto di arrestare preventivamente i tifosi violenti. Lettere: l’ingiustizia ci fa male ai pensieri di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014 Un mio paziente in carcere ha 71 anni e sta scontando otto anni per avere sedotto una ragazza ancora minorenne. Un altro mio paziente ha 55 anni e ha una condanna a cinque anni per lo stesso motivo. In entrambi i casi non c’è stata prostituzione, né promiscuità sessuale, ma tutti e due sanno di avere sbagliato e accettano la pena con dignità. La legge è stata veloce e precisa per loro: in carcere dopo la denuncia e fino alla fine. Un altro uomo per anni ha indotto alla prostituzione ragazze minorenni, le ha invitate a travestirsi e a partecipare a sesso di gruppo; ha anche usato il suo potere per mentire alla polizia, ma non ha fatto ancora un giorno di carcere. La legge è molto lenta per lui che continua a essere un uomo libero. Sono, queste, storie di ordinaria ingiustizia e non avrebbe senso ricordarle qui se non per un motivo di carattere psicologico che non viene quasi mai preso in considerazione. Noi viviamo in un sistema che poggia su una quantità sterminata di leggi che nessun cittadino potrebbe mai conoscere, e che quindi amministra l’ingiustizia in ambito politico, sociale, economico, religioso e culturale in relativa tranquillità. Ma l’ingiustizia, di qualunque genere, e qui abbiamo solo portato un esempio noto a tutti, non è soltanto una violazione del diritto, non azzera solo l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma infligge anche una ferita all’anima collettiva e indebolisce il fondamento di un patto sociale. Ci sentiamo traditi e perdiamo fiducia nelle istituzioni, abbiamo paura, evitiamo di inimicarci i potenti, caso mai proviamo a imitarli, e rabbia, rassegnazione e malinconie depressive poco per volta si impadroniscono di noi. Ci si sente sempre più estranei alla macchina sociale e indifferenti al suo funzionamento difettoso, attenti solo a non cadere nei suoi ingranaggi; ognuno per sé e si salvi chi può. Così da cittadini sovrani ci trasformiamo in sudditi. Ma più diventiamo sudditi e più si estende l’ingiustizia e il circolo vizioso che si attiva è quello che oggi vediamo. Lettere: facili evasioni, non così si riduce il sovraffollamento delle carceri... di Lorenzo Mondo La Stampa, 5 maggio 2014 In quattro mesi sono fuggiti dai nostri penitenziari 7 detenuti, 4 dei quali assassini patentati. Anziché di fuga si dovrebbe parlare, per i più, di mancati rientri, essendo persone sottoposte a misure alternative. Da ultimo, nello stesso giorno, ne sono spariti due, rispettivamente da Bollate e da Porto Azzurro. Godevano entrambi di un permesso premio. Il primo è un tunisino, che dovrebbe scontare fino al 2020 una condanna per omicidio. Il secondo è un personaggio che merita un maggiore riguardo. Si chiama Filippo De Cristofaro, noto alla cronaca nera come "l’assassino del catamarano". Aveva una passione sconfinata, mal riposta, per le barche e la vita di mare. Sicché nel 1988 ammazzò a colpi di machete una skipper per rubare il suo splendido catamarano e darsi alla bella vita nei Mari del Sud. In compagnia dell’olandese Diana Bayer, la giovanissima fidanzata e complice. Catturato dopo rocamboleschi inseguimenti, fu condannato all’ergastolo. Ma nel 2007, fruendo di un permesso per chissà mai quale buona condotta, fuggì dal carcere di Opera, ritenuto una struttura modello. Si direbbe che gli mancasse quanto meno l’aria di mare. Ma nemmeno l’isola d’Elba sembrerebbe giovargli, se ha ripetuto la fuga. Adesso Diana Bayer, che si è rifatta una vita in Olanda, è in preda al terrore. Va ricordato infatti che, secondo i suoi giudici, l’uomo è dotato di un "animo particolarmente malvagio". Non si capisce, con tali precedenti, questa benevola disposizione nei suoi confronti, questa così clamorosa attenuazione del già ipotetico ergastolo. Sarà vero che la messa in prova dei detenuti fuori dal carcere, nelle sue varie forme, dia esiti in larga misura positivi. Ma, conoscendo il caso vistoso di Filippo De Cristofaro, ti persuadi che si stia esagerando. Vien da osservare maliziosamente che i servizi sociali e i giudici di sorveglianza agiscano sulla base di un malinteso. Il presidente Napolitano e il digiunante Pannella denunciano le deplorevoli condizioni in cui vengono tenuti i carcerati, la Corte di Strasburgo minaccia sanzioni severe per le inadempienze dell’Italia. Ed ecco che, motu proprio, certi istituti si adoperano a sfolticchiare le prigioni, fornendo, per così dire, esempi virtuosi. Peccato che si tratti con ogni evidenza di un rimedio irrilevante dal punto di vista quantitativo e che si esercita spesso, quasi in via sperimentale, su persone sbagliate. Non così, non così si risponde all’esigenza di civili, umani comportamenti con chi ha violato la legge e, nel contempo, di una ragionata sicurezza nei confronti dei cittadini. Veneto: il secessionista Faccia "prigioniero di guerra", da un mese è in isolamento Il Mattino di Padova, 5 maggio 2014 Dei 24 secessionisti alc entro dell’inchiesta, 22 sono tornati in libertà. Restano in carcere Luigi Faccia di Agna (nella foto) e Marco Ferro di Arquà Polesine. Il secondo si è visto respingere la richiesta di domiciliari mentre Faccia, che si dichiara patriota veneto prigioniero di guerra e non riconosce l’autorità della Repubblica italiana, è detenuto in isolamento (il regime previsto per i presunti terroristi) da oltre un mese a Vicenza. A difenderlo, è l’avvocato Andrea Arman: "La volontà del mio assistito è precisa ed io la rispetto", commenta il penalista "perciò non mi è possibile avanzare istanze di scarcerazione. Tuttavia, credo che un elementare principio di civiltà giuridica imponga ai magistrati di vagliare la posizione di Faccia secondo gli stessi criteri adottati nei confronti degli altri indagati, ora in libertà". Le motivazioni del Riesame per le scarcerazioni Il tribunale del Riesame di Brescia ha depositato le motivazioni della delibera che ha scarcerato gran parte dei 24 secessionisti arrestati dai carabinieri del Ros nel blitz del 2 aprile scorso ordinato dalla Procura della città lombarda. L’avviso di avvenuto deposito è stato comunicato dai giudici alle parti processuali nel pomeriggio. L’accusa più pesante a carico degli indagati, quella di associazione per delinquere con finalità di terrorismo, è caduta perché i magistrati del Riesame hanno ritenuto inconsistenti le prove addotte dalla Procura (che peraltro annuncia ricorso) e dagli investigatori; resta in piedi quella di aver "fabbricato e detenuto illegalmente un carro armato", considerato "arma da guerra" dai consulenti dell’accusa ma per questo reato Brescia è incompetente a giudicare: il fatidico tanko artigianale è stato costruito ed è stato rinvenuto a Casale di Scodosia, che si trova nel Padovano ma è sottoposto alla giurisdizione del tribunale di Rovigo. Comunque sia, quasi tutti gli indagati sono in libertà, a cominciare da Franco Rocchetta (nella foto) fondatore e ideologo della Lega e Lucio Chiavegato leader dei forconi veronesi - che il 25 aprile sono sfilati in piazza San Marco, a Venezia, tra gli applausi dei venetisti - mentre l’ex Serenissimo Fabio Contin è stato posto agli arresti domiciliari. Resta in carcere Luigi Faccia, che si dichiara "prigioniero politico" dello Stato italiano. A proposito di Rocchetta: oggi, alle ore 15 all’hotel Millepini di Montegrotto Terme, sarà di scena insieme a Gianluca Busato, il "doge" indipendentista di Plebiscito.eu, alla presentazione del "Libro bianco dei veneti, prima fase". Oristano: nel carcere di Massama troppi detenuti in regime di "Alta Sicurezza 3" di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 5 maggio 2014 Mafiosi e terroristi sono 200 su un totale di 260. Il ministero, poi bloccato, voleva mandar via tutti i detenuti comuni. Le cassandre forse tali non erano e andavano prese più sul serio. Massama sta diventando sempre più un carcere ad alta sicurezza e, qualche settimana fa, il nuovo penitenziario oristanese ha rischiato di trasformarsi per intero in una struttura di detenzione per soli mafiosi e terroristi. Il Ministero infatti aveva programmato lo spostamento di altri detenuti - ovviamente non sardi e tanto meno oristanesi - in regime di detenzione speciale. Contemporaneamente avrebbero dovuto fare i bagagli tutti i detenuti comuni, che sarebbero stati trasferiti in altre carceri isolane e non, venendo così meno al principio della territorialità della pena, secondo il quale il detenuto deve scontarla più vicino possibile al luogo di residenza della sua famiglia. Ci sono stati lunghi giorni di mediazione e alla fine il Ministero ha cambiato idea. È una decisione momentanea? Alla domanda ora non si può rispondere, ma il disegno era proprio quello di avere solo affiliati a cosche mafiose e terroristi. Eppure la situazione non è ora molto diversa da quella prospettata. A Massama ci sono 260 detenuti e di questi ben 200 sono in regime carcerario di Alta Sicurezza 3. Non c’è bisogno di calcolatrici per capire che sono la stragrande maggioranza. Dei detenuti presenti in questo momento, 221 hanno alle spalle una condanna definitiva. Tra questi c’è anche un internato definitivo. Sono invece 14 i detenuti in attesa del giudizio di primo grado, 9 sono quelli che hanno presentato appello e altri 15 quelli che hanno fatto ricorso contro la misura di detenzione in carcere. Il totale fa proprio 260, che vuol dire che si è già al di sopra di 20 unità rispetto al numero per cui il carcere era stato costruito. Secondo i piani, Massama avrebbe dovuto ospitare 240 detenuti a cui ne andavano aggiunti altri 10 in regime di semilibertà. Le celle, inizialmente, dovevano ospitare o detenuti singoli o due detenuti. Sta invece già succedendo che in alcune celle i letti da due siano diventati tre. Non si può comunque parlare di sovraffollamento, perché la struttura regge tranquillamente un carico di persone leggermente superiore a quello previsto. Chi non regge invece è il personale di polizia penitenziaria e tutto il resto dell’apparato di dipendenti della struttura carceraria. La situazione rimane quindi carente sotto diversi punti di vista, col problema che è ampliato dalla presenza di un numero altissimo di detenuti in regime di Alta Sicurezza 3. Il carcere di Massama, con appena tre educatori, non può certo far fronte ad un numero così cospicuo di detenuti dal passato così particolare e con una pena da scontare attraverso un regime carcerario così severo. Lo psicologo tanto atteso ancora non si vede e non sembra che nelle idee del ministero ci sia la volontà di porre rimedio a questa lacuna. Era stata invece nominata una criminologa, che avrebbe dovuto prestare servizio per venti ore mensili, ma ancora non ha iniziato la sua opera. Carenze che rischiano quindi di acuirsi nel caso in cui il ministero ritorni alla carica e proponga nuovi spostamenti di detenuti dell’Alta Sicurezza. Quel che appare certo è che le profezie iniziali di parlamentare, esponenti politici di vario grado e semplici cittadini si stanno avverando. Lo sbilanciamento è notevole e in questi ultimi mesi la direzione del carcere ha dovuto rinunciare anche a dei progetti di recupero dei detenuti, perché diventava necessario farli uscire dal carcere o comunque far sì che questi venissero a contatto con il mondo esterno. Ma in caso di detenzione per reati di mafia o terrorismo questo non è assolutamente possibile. E così non resta che "Continuare a vigilare - afferma la deputata Caterina Pes. Gli operatori vanno già incontro a notevoli difficoltà e consideriamo positivo che Massama non si sia trasformato in un carcere interamente per detenuti speciali. La territorialità della pena dev’essere garantita e il rapporto tra carcere e territorio si mantiene solo coi progetti di recupero dei detenuti". Sassari: detenuto tenta suicidio, prova a impiccarsi e poi si taglia vene, agenti lo salvano Ansa, 5 maggio 2014 Ha tentato di impiccarsi, ma l’intervento della polizia penitenziaria ha evitato che i suoi propositi suicidi si realizzassero. Qualche ora dopo ha provato a togliersi la vita di nuovo tagliandosi le vene dei polsi, e anche in questo caso è stato fermato in tempo. Il duplice episodio è avvenuto ieri nel carcere sassarese di Bancali. Protagonista un detenuto maghrebino che nei mesi scorsi aveva rivolto minacce di morte agli agenti della polizia penitenziaria, mostrando i primi segni di disagio rispetto alla vita in carcere. Ieri è stato salvato dalla prontezza del poliziotto di turno, che durante un normale controllo ha notato l’uomo, già cianotico e quasi esanime. L’immediato intervento dell’agente, insieme ai rinforzi allertati dallo stesso, hanno impedito il peggio. Qualche ora dopo il detenuto ha tentato di nuovo di farla finita, ma anche in questo caso è stato fermato per tempo. Attualmente viene sorvegliato a vista 24 ore su 24. A riferire dell’episodio è Domenico Nicotra, segretario generale aggiunto dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. "Questa è la polizia penitenziaria - commenta il sindacalista - si tratta di uomini che per poco più di 1.300 euro al mese salvano vite umane e subiscono aggressioni fisiche da parte dei detenuti". Pisa: salute in carcere, telemedicina e telediagnostica entrano al "Don Bosco" www.marketpress.info, 5 maggio 2014 La telemedicina e la telediagnostica entrano nel carcere Don Bosco di Pisa, per consentire di curare al meglio i detenuti. Una delibera approvata dalla giunta destina alla Asl 5 di Pisa la somma di 19.600 euro (il 70% del costo complessivo previsto per la completa realizzazione del progetto presentato dall’azienda sanitaria pisana, che è di 28.000 euro). Il carcere Don Bosco di Pisa accoglie detenuti di media e alta sicurezza, per un totale di 64 posti letto, di cui 9 femminili, che provengono dall’intero territorio nazionale per ricoveri di tipo ospedaliero di bassa e media intensità, che necessitano di interventi anche di tipo chirurgico. Il Centro diagnostico-terapeutico - Centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa è considerato a livello nazionale tra i centri clinici necessari e insopprimibili, per i quali è richiesto l’impegno delle Regioni ad una loro implementazione. Il progetto presentato dalla Asl 5 di Pisa, diretto ad attivare telemedicina e telediagnostica dentro il carcere Don Bosco, si pone l’obiettivo di consentire la corretta gestione di alcune urgenze sanitarie, con modalità che possono garantire una migliore qualità dell’assistenza e ridurre il ricorso improprio a uscite esterne verso il pronto soccorso. Questo, grazie all’attivazione dei collegamenti telematici e all’acquisto di apparecchiature necessarie per la lettura, registrazione e refertazione dei parametri clinici dei pazienti detenuti ricoverati e affetti da pluripatologie. Roma: caso La Penna; sentenza sempre più vicina, tre medici accusati di omicidio colposo www.viterbonews24.it, 5 maggio 2014 È giunto alle ultime battute il processo a carico di tre medici del carcere di Regina Coeli, il direttore sanitario Andrea Franceschini e i suoi colleghi Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano, accusati di omicidio colposo in relazione alla morte in cella del giovane viterbese Simone La Penna, avvenuta il 26 novembre 2009. Il 30 aprile scorso, i giudici del tribunale di Roma, davanti ai quali si svolge il dibattimento, hanno ascoltato la deposizione di Mauro Mariani, all’epoca dei fatti direttore del penitenziario, il quale ha spiegato come è organizzata l’assistenza sanitaria nel carcere romano e quali sono e ha illustrato i compiti del direttore sanitario. Subito dopo il processo è stato aggiornato. La prossima udienza sarà dedicata all’audizione di alcuni testimoni. Dopodiché sarà la volta della requisitoria del pubblico ministero e degli interventi dei difensori dei tre medici e del legali di parte civile. Secondo il calendario fissato dal collegio, la sentenza di primo grado dovrebbe essere pronunciata prima della sospensione estiva dell’attività giudiziaria o subito dopo la ripresa. La Penna, 32 anni all’epoca dei fatti, stava scontando una pena a 2 anni e 4 mesi di reclusione per spaccio di droga. Mentre era rinchiuso a Regina Coeli si ammalò di anoressia e, in pochi mesi perse ben 34 chili di peso. Secondo la procura della Repubblica di Roma, i medici, non avrebbero somministrato al giovane le cure necessarie, nonostante i loro colleghi in servizio nel carcere di Viterbo, dove era detenuto La Penna prima del trasferimento a Regina Coeli, gli avessero diagnosticato "anoressia e vomito con calo ponderale e episodi di ipokaliemia". Le terapie, secondo l’accusa, furono iniziate solo 43 giorni dopo il ricovero nel centro clinico del carcere romano. Un lasso di tempo, ritenuto eccessivo dagli inquirenti, aggravato dalla mancata verifica sulla effettiva somministrazione della terapia psichiatrica. Inoltre, i medici, nonostante il progressivo peggioramento delle condizioni di La Penna, non avrebbero chiesto il suo trasferimento in una struttura sanitaria specializzata nel contrasto dell’anoressia e dei suoi effetti Bologna: dal carcere ai lavori utili, il weekend dei detenuti nel quartiere San Vitale di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 5 maggio 2014 Anziché stare in cella, puliscono la città. Grazie a un accordo tra il quartiere San Vitale e due associazioni che si occupano di carcere. Casacche arancioni con i catarifrangenti, e ramazze alla mano, tre detenuti della Dozza hanno passato un’altra domenica al lavoro, a favorire della collettività, ripulendo da cartacce e rifiuti le mura di Porta San Vitale, piazzetta Borgo Masini, via del Pallone, via Capo di Lucca e altre aree della zona. L’iniziativa, in corso da un mese, è frutto di un accordo tra l’amministrazione comunale e le associazioni Chiusi fuori e Cittadinanza attiva. Il sabato e la domenica cinque "ragazzi dentro" - due nelle giornate prefestive e tre nei festivi - escono dal carcere per prendersi cura di giardinetti e angoli degradati di Bologna. I netturbini volontari, cui vengono rimborsati pranzi e spese di trasporto, sono affiancati da due supervisori e da un gruppo di volontari. "Ringraziamo il Quartiere San Vitale per l’opportunità che ci è stata offerta - dicono i rappresentati di Chiusi fuori, che raggruppa detenuti e ex detenuti, avvocati e simpatizzanti - e per la fiducia che ha dimostrato verso la nostra giovane associazione. Non è stato semplice partire con l’iniziativa per la complessità dell’iter burocratico e le difficoltà che abbiamo incontrato nell’ottenere tutti i permessi necessari, ma finalmente nelle settimane scorse il progetto è partito". Chiunque volesse partecipare a questa esperienza può contattare info@chiusifuori.it. Volterra (Pi): detenuti del carcere chef per una notte, ecco il progetto "Cene galeotte" di Gigi Baj Il Giorno, 5 maggio 2014 La grande cucina brianzola entra nel carcere di Volterra grazie al progetto "Cene galeotte" che vede i detenuti impegnati nella preparazione di otto cene di autore sotto l’attenta supervisione di cuochi stellati. Ad aprire la rassegna è stato infatti lo chef Giancarlo Morelli, titolare del ristorante Pomiroeu di Seregno, che ha varcato la soglia del carcere toscano trasformato per l’occasione in una grande ristorante aperto ai visitatori. Un’esperienza unica e soprattutto un momento di interessante coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e in cucina hanno avuto l’opportunità di acquisire un bagaglio professionale funzionale al reinserimento. Il ricavato della cena andrà a finanziare la Fondazione "Il cuore si scioglie onlus" che si occupa di bambini: "Ho accettato - ha affermato Giancarlo Morelli - immediatamente l’invito. La duplice finalità del progetto - charity per i bambini del sud e di sostegno al reinserimento dei detenuti - l’ho sentita subito mia. L’apertura all’altro, la capacità di empatia, sono elementi fondamentali della professione di chef. Si cucina per sé e per gli altri. Il cucinare è un atto sociale che si completa con la convivialità del mangiare. Un atto di grande libertà che permette di esprimersi e raccontarsi, una sorta di catarsi. Credo sia stata un’esperienza importante per loro e anche per me. Un confronto interessante e stimolante per entrambe le parti". Una novantina le persone ospiti della antica cappella della Fortezza Medicea: "Con i reclusi abbiamo preparato una cena d’autore che ha riscosso grande apprezzamento tra i commensali grazie anche all’ottima scelta di vini del territorio di Montalcino. I mie aiutanti di cucina si sono dimostrati all’altezza dell’evento e si sono impegnati al massimo". Il progetto "Cene Galeotte" è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la Fisar-Delegazione Storica di Volterra, la supervisione artistica di Leonardo Romanelli. Giancarlo Morelli vanta oltre vent’anni di arte culinaria. È uno tra i più conosciuti chef a livello nazionale. Dopo il diploma all’Istituto Alberghiero di San Pellegrino Terme, Giancarlo Morelli ha iniziato la carriera lavorando nella Grande Mela e in Francia facendo esperienza e portando il suo palato e la sua mano in importanti ristoranti stellati. Dopo una breve esperienza sulla nave da crociere "Pacific Princess" è approdato in Brianza. Quattro lustri all’insegna della ricerca, della cultura del territorio e dell’ospitalità che hanno fatto del ristorante di via Garibaldi un preciso punto di riferimento per gli amanti della buona cucina. Repubblica San Marino: qui c’è il carcere più piccolo del mondo… e sembra un albergo di Giulia Zaccariello Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014 Il primo mito da sfatare è quello della cosiddetta sbobba. Qui i piatti arrivano direttamente da una delle migliori e più antiche cucine del centro storico di San Marino. Quella del Ritrovo dei lavoratori 28 luglio, ristorante pluridecorato, che ha attovagliato campioni, poeti e presidenti (Tonino Guerra, per esempio, ma anche Alberto Tomba e Francesco Cossiga) e che ogni giorno prepara anche i pasti per dei clienti altrettanto particolari: i detenuti del carcere. Le celle si trovano proprio a due passi dal famoso locale, dove ogni giorno i cuochi cucinano per decine di turisti e insieme, grazie a una convenzione del 1980, confezionano pranzi e cene destinati ai reclusi del penitenziario. "Mangiano quello che mangiamo noi: un giorno tortellini, un altro porcini, un altro ancora tagliata", racconta il proprietario del ristorante, Massimo Agostini. Ben diverso dalla pasta scotta a cui sono abituati coloro che vivono negli istituti di pena italiani. Del resto una mensa sarebbe uno spreco inconcepibile per una struttura come quella della piccola Repubblica incastrata tra l’Emilia Romagna e le Marche. L’istituto penitenziario del Titano infatti è uno dei più piccoli al mondo: tra le due celle della sezione femminile e le sei di quella maschile, si raggiunge una capienza totale di 8 posti, distribuiti su due piani. Basta considerare che, per gran parte del tempo, i letti rimangono vuoti: dal 2004 a oggi la media è stata di due detenuti per anno. Nel mese di febbraio, per esempio, l’istituto ha ospitato tre persone, e già tra le vie della Repubblica si parlava di situazione eccezionale. A marzo la concessione dei domiciliari a Pietro Berti, medico ed ex-politico, rinchiuso a gennaio con l’accusa di aver molestato alcune sue pazienti, si è ristabilita la normalità e la cifra è scesa di nuovo. Oggi uno dei detenuti è un 54enne originario di Sant’Arcangelo, in provincia di Rimini. Deve scontare un anno per truffa e attualmente si trova in regime di semilibertà. Questo significa che ogni mattina esce per andare a lavorare, per poi rientrare in carcere in serata, prima della cena. Il giudice ha deciso che parte di ciò che guadagnerà durante la detenzione servirà per risarcire un parroco che l’uomo aveva raggirato tempo fa, riuscendo a scucirgli 1.500 euro. In carcere, a fargli compagnia, c’è un notaio sammarinese, condannato nel 2013 a tre anni per falsità in scrittura privata e falsità ideologica in atto pubblico. E se è vero che il confine italiano si trova a meno di 10 chilometri, la loro realtà quotidiana è lontana anni luce da quella di chi vive in un istituto di pena nostrano. Oltre alla mensa, nel carcere di San Marino non esistono agenti di polizia penitenziaria. Non servono. Al loro posto, incaricati di vigilare, ci sono solo alcuni uomini della gendarmerie. Ed è inutile dire che qui di sovraffollamento nessuno ha mai sentito parlare. Non si conoscono code per la doccia, letti a castello e persone ammassate in celle. Non c’è ombra di tutto ciò che in Italia rende la vita in carcere simile a un inferno. È un altro pianeta. Nell’istituto sammarinese le giornate scorrono lente e silenziose, e più che una prigione richiamano alla mente la vita di un convento (preghiera esclusa, ovviamente). Sveglia alle 7, colazione e riordino della cella alle 7.30, regime aperto e due ore d’aria dalle 9 alle 12.30 e dalle ore 14.30 alle ore 18.30. Al limite, si può soffrire di solitudine e di noia. Anche per questo chi si trova dietro le sbarre ha a disposizione una sala polifunzionale, con libri, palestra privata e televisione. Mentre nei cortili ci sono spazi verdi per coloro che hanno voglia di curare un piccolo orto. Sono previsti poi colloqui con l’avvocato o con la famiglia, lavoro conto terzi, attività fisica sia all’interno, sia all’esterno della struttura due volte alla settimana, per almeno un’ora. Va detto che la popolazione di San Marino è pari a quella di un piccolo comune italiano, circa 32mila e 500 abitanti. Ma secondo il Segretario di stato per gli Affari interni e la giustizia, Giancarlo Venturini, il basso numero di detenuti non è comunque da ricondurre esclusivamente a una questione demografica. Sarebbe invece frutto di uno stile di vita elevato, capace di far crollare il livello della piccola criminalità. "Qui il numero di reati è senz’altro basso se confrontato con altri stati. Questo perché è ancora un territorio dove la qualità della vita può definirsi molto buona: la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi politici, economici e sociali che le permettono di sviluppare le proprie potenzialità e condurre una vita relativamente serena e soddisfatta. E una buona qualità della vita costituisce l’elemento principale per la prevenzione criminale". Si deve poi aggiungere l’abitudine del giudice a ricorrere alle misure alternative, per via "del basso tasso di recidiva". Insomma, complici le piccole dimensioni, il sistema giustizia qui funziona. Anche la struttura del carcere non ha niente a che vedere con gli edifici vecchi e fatiscenti del nostro Paese. Dal 1970 il carcere si trova in via Paolo III, nella zona più apprezzata dai turisti. Il carcere occupa un’ala di un antico convento dei cappuccini, risalente al 1500, per la quale il governo paga una quota d’affitto alla diocesi del Montefeltro. Anche se presto la cornice potrebbe cambiare e i detenuti finire a Gaviano, nella periferia nord, non lontana dal confine italiano. Ufficialmente, fanno sapere dall’amministrazione penitenziaria, c’è la necessità di "dotarsi di una struttura carceraria più idonea rispetto all’attuale". E il trasferimento, precisa ancora Venturini, finora è stato rallentato "da ragioni legate al contenimento della spesa". Ma sul Monte Titano si parla anche di pressioni arrivate direttamente dall’Unesco, che dopo aver inserito San Marino tra i patrimoni dell’umanità nel 2008, poco gradiva la presenza di un carcere in un edificio religioso tra i più antichi della Repubblica. Gran Bretagna: caso Claps; Restivo spera nella Cassazione e vuole restare in Inghilterra Adnkronos, 5 maggio 2014 L’omicidio di Elisa Claps, un giovanissimo simbolo del terribile fenomeno del femminicidio, torna al centro delle dispute giudiziarie sia in Italia che in Inghilterra. Danilo Restivo, condannato a 30 anni per aver ucciso nel 1993 la studentessa sedicenne di Potenza, spera nella Corte di Cassazione per ribaltare una sentenza che in primo e secondo grado non è stata mai in discussione sia per l’efferatezza del delitto che per la personalità del detenuto. Il 23 ottobre si terrà l’udienza davanti alla Suprema Corte sul ricorso del 41enne di origini siciliane che ha impugnato la decisione della Corte di appello di Salerno di condannarlo senza alcun dubbio, a sua volta confermando quanto era stato deciso dal Gup di Salerno nel 2011. Non è l’unica aula in cui è alla sbarra: Restivo sta fronteggiando un altro processo in Inghilterra dove sta scontando una pena definitiva a 40 anni di cella per aver ucciso nel 2002 la sarta di Bournemouth, Heather Barnett, sua vicina di casa. I delitti Claps e Barnett sono molto simili: entrambe le donne sono state uccise a coltellate e a tutte e due sono state tagliate ciocche di capelli, la firma "feticista" dell’assassino. Tutti elementi che hanno portato all’unico colpevole. Restivo si sta opponendo ad un provvedimento firmato dal ministro all’Interno della Corona, Home Secretary, Theresa May, che ha deciso che il detenuto sia trasferito in Italia (deportation) per fargli scontare la pena inflitta per il caso Claps. Il caso è incardinato davanti ad un tribunale di Bradford. Si stima che la permanenza del detenuto italiano in Inghilterra (attualmente in un carcere dello Yorkshire) costi ai contribuenti inglesi circa due milioni di sterline. Restivo si è opposto e davanti ai giudici di oltre-Manica ha addotto motivazioni che riguardano le differenze tra i sistemi penitenziari. I suoi legali hanno chiesto la permanenza in Inghilterra dove ha la residenza perché la sua famiglia, con la moglie Fiamma ed i figli della donna nati da un precedente matrimonio, vive a Bournemouth, a centinaia di chilometri dal carcere. L’accusa è di parere opposto in quanto nulla impedirebbe ai familiari di raggiungerlo in Italia. La difesa rincara la dose chiamando in causa le carceri italiane e le regole penitenziarie. Per Restivo non sarebbe garantito il suo attuale diritto di telefonare alla moglie, ora può farlo più volte al giorno dalla cella di isolamento. Altra motivazione: le celle sono ritenute non idonee a tutelare i diritti dei detenuti, con un solo bagno per tanti uomini e con problemi di igiene e pulizia. L’esperienza l’ha vissuta proprio durante il processo di appello a Salerno dove l’imputato si è difeso personalmente, ottenendo una consegna temporanea per il periodo del dibattimento. "Ero solo in una cella mentre in quella accanto c’erano quindici persone", ha detto Restivo come riportato dalla stampa inglese. Tutti motivi che fanno dire ai suoi legali che non è rispettato lo "Human Rights Act" della legislazione inglese. Restivo non intende rientrare in Italia. La battaglia legale andrà avanti per settimane. Intanto è stata decisa la data per l’udienza in Cassazione. È presto per conoscere le mosse della difesa per il 23 ottobre anche se Restivo difficilmente chiederà di tornare in Italia poiché ha addotto motivi familiari e di difesa dei diritti nell’ennesima aula della giustizia. In due Paesi gli viene presentato un conto risalente a molti anni fa. È il caso dell’omicidio di Elisa Claps, ventuno anni fa. Soltanto nel 2010 i resti della ragazza sono stati trovati alla chiesa della Santissima Trinità a Potenza, nel sottotetto della canonica. La chiesa non ha più riaperto al culto. Da quel momento, inoltre, c’è stata la svolta giudiziaria perché sono arrivati, nell’ordine, il fermo in Inghilterra, il mandato di arresto europeo da Salerno, la condanna in Inghilterra e i due gradi in Italia. Elisa Claps è stata uccisa il 12 settembre 1993 a Potenza, era una domenica. È avvenuto durante un tentativo di violenza sessuale, come ha accertato la perizia autoptica. È stata assassinata con tredici fendenti di un coltellino o di altro oggetto tagliente e appuntito come un taglierino, in un arco orario tra le 11.30 e le 13.10, dopo un tentativo di approccio sessuale rifiutato. Sin dal primo momento i sospetti sono ricaduti su Danilo Restivo, un ragazzo che frequentava la parrocchia, che conosceva Elisa e che le aveva dato un appuntamento davanti alla chiesa proprio quella domenica mattina per darle un regalino. Una perizia dei Ris ha rilevato la presenza di dna di Restivo in un reperto biologico trovato sul maglione che la ragazza vestiva quella mattina: si tratta di una traccia di saliva frammista a sangue di Elisa. Dal ritrovamento dei resti nel sottotetto si sono sviluppati altri filoni giudiziari. A Potenza, in particolare, la famiglia Claps sta ascoltando con grande attenzione ciò che puo emergere dal processo alle donne delle pulizie della chiesa sul presunto ritrovamento dei poveri resti avvenuto qualche mese prima, che era conosciuto da esponenti della Chiesa locale (l’arcivescovo Agostino Superbo, però, ha negato) ma taciuto alle autorità. Filippine: Farnesina; sin dall’arresto l’ambasciatore Bosio ha ricevuto piena assistenza Adnkronos, 5 maggio 2014 "Fin dal momento del suo arresto nelle Filippine l’ambasciatore Daniele Bosio ha ricevuto ogni possibile assistenza da parte della Farnesina in particolare attraverso l’ambasciata a Manila". È quanto si legge in una nota della Farnesina in relazione alla vicenda dell’ex ambasciatore in Turkmenistan arrestato nelle Filippine con l’accusa di presunti abusi sui minori e violazione della legge che tutela i minori. "Grazie al tempestivo e costante intervento dei funzionari dell’ambasciata, le autorità filippine hanno concesso piena accessibilità a Bosio. Per lui sono state ottenute anche alcune agevolazioni - si legge ancora nella nota - Bosio ha così potuto incontrare ripetutamente i suoi genitori, parenti, amici, oltre che funzionari dell’ambasciata, incluso l’ambasciatore d’Italia a Manila, Roscigno, che assicurano sin dall’inizio uno stretto raccordo con i familiari. A Bosio è stata immediatamente fornita l’assistenza di uno studio legale locale. Egli ha avuto ogni sostegno legale e istituzionale per la sua difesa, come ogni connazionale detenuto all’estero". "La Farnesina continuerà a seguire il caso con attenzione e scrupolo e manterrà il suo impegno affinché all’interessato sia garantito ogni diritto", conclude la nota. Stati Uniti: gli "standard di umanità necessari" per le esecuzioni sono un’enorme ipocrisia di Marco Cubeddu Secolo XIX, 5 maggio 2014 Occhio per occhio, dente per dente". Così, nel Levitico, la sintesi con cui siamo soliti riassumere la legge espressa dal Codice di Hammurabi, comunemente detta "del taglione", in cui si legittimava la violenza della vendetta ammantandola di pubblica equità, dando un ordine alla nostra civiltà anche se equa e civile non era. Un esempio ne è la pena di morte: chi uccide verrà ucciso. Da allora, nuovi codici hanno sostituito i vecchi, sfumature e pene alternative hanno sostituito il "tanto al chilo" del passato con gli apparentemente bilanciati pesi e contrappesi della moderna Giurisprudenza. Eppure, il problema dei delitti e delle pene, trattato da filosofi e giuristi, divisi in scuole e ordinamenti, resta aperto: è giusto uccidere un assassino? Qualche giorno fa, in Oklahoma, Clayton Lockett doveva essere giustiziato con un’iniezione letale. Trentotto anni, nero, faccia da teppista, Lombroso non avrebbe avuto dubbi: colpevole! Secondo le testimonianze dirette, iniettato l’anestetico, era stato dichiarato incosciente dai medici. Ma appena gli sono stati somministrati i due farmaci letali, Clayton ha cominciato a contorcersi, serrando gambe a braccia, gridando, tentando di sollevarsi di scatto, senza riuscirci, per poi morire d’infarto, tra dolori atroci, dopo quasi un’ora di agonia. Giustizia è stata (malamente) fatta? Dopo l’incidente, l’esecuzione successiva è stata rinviata, e sul caso verrà aperta un’indagine. La Casa Bianca, attraverso il suo portavoce, ha precisato: "Nel caso di Lockett non sono stati rispettati gli standard di umanità necessari". Ma anche se "non ci sono prove che la pena di morte faccia ridurre il crimine", alcuni delitti meritano di essere puniti con la morte, purché "nel rispetto degli standard d’umanità necessari". Non è la prima volta che "gli standard di umanità necessari" non riescono a essere rispettati. In seguito alla decisione di alcune aziende farmaceutiche di non vendere più farmaci utilizzabili nelle esecuzioni sono nate nuove miscele poco sperimentate e questo rende impossibile sapere se i farmaci siano "sicuri". I sofismi farmaceutici diventano la foglia di fico con cui nascondere la lucida follia della pena di morte. Per carità, è probabile che Lockett non fosse esattamente uno stinco di santo, dato che era stato condannato per aver stuprato una ragazza di 19 anni e averla sepolta viva. E che dire del secondo, la cui esecuzione è attualmente rimandata, condannato per lo stupro e l’omicidio di una neonata di 11 mesi (?!?). Ci sono diversi crimini atroci che mi fanno pensare che i colpevoli dovrebbero essere eliminati dalla faccia della terra. E, d’altra parte, non so, penso che se beccassi qualcuno che fa del male a mia mamma o, un domani, a mio figlio, se ne avessi la possibilità, gli riserverei una fine amarissima. Possibilmente lenta e dolorosa. Siamo sempre nel campo delle ipotesi, ognuno è chiamato a fare i conti con la propria coscienza. Ma io non mi ci vedo a farmi intervistare da qualche sciocco programma televisivo, mentre concedo il mio perdono per le telecamere. Mi immagino piuttosto a cercare vendetta per tutta la vita. Eppure, gli "standard di umanità necessari" riescono a sembrarmi più agghiaccianti di qualunque colpa. Il problema è che la furia individuale, a caldo, è una cosa. La lucida pianificazione statale, con funzionari e addetti ai lavori, un’altra. Personalmente, non penso affatto che la violenza, in sé, sia una cosa necessariamente negativa. Anzi, a volte è stata un elemento propulsivo per l’evoluzione umana. Che so, difficile negare il ruolo della Rivoluzione Francese, comprese le teste mozze dei reali: un male necessario affinché il vecchio regime venisse relegato nel museo della storia, dove meritava di stare. C’è però violenza e violenza. Al servizio di cosa un’azione violenta è mossa? Con quale diritto una società come quella americana, la cui classe dirigente si è macchiata di oppressioni e crimini indicibili (basta pensare alla bomba atomica), che estromette strati profondissimi della sua popolazione dall’istruzione e dall’assistenza sanitaria, può permettersi di eliminare i figli deviati, frutto del suo stesso sistema? E, se questo vale per gli Usa, non manca di valere anche per tutti gli altri Stati in cui la pena di morte è parte integrante della tutela dell’ordine. Tocca sempre domandarsi: di quale ordine stiamo parlando? Vivessimo un mondo realmente A misura d’uomo, sussisterebbero ancora tutte le basi che muovono la violenza privata, così tante volte frutto non solo di fame e disagio ma anche di un’emarginazione sociale e una mancanza di valori non meno imputabili all’inumana società in cui viviamo? Sono certo di essere banale nei ragionamenti ma, da un punto di vista generale, una società in cui la norma giornaliera sono migliaia di bambini che muoiono di fame e centinaia di morti nelle guerre (nonostante formalmente tutti consideriamo di vivere in un periodo di pace nel 2013 sono più di 100.000) non credo possa legittimamente considerarsi depositaria di nessuna giustizia universale. Su un piano più specifico, a farmi orrore, della pena di morte, c’è poi tutto l’aspetto di crudeltà minute, mediate dall’asetticità del sistema. Lockett aveva ordinato bistecca, gamberi, una patata arrosto e una fetta di torta, per la sua ultima cena. Il tetto di 15 dollari non poteva essere sforato, pasto rifiutato. Penso anche al secondo condannato, convinto di morire dopo 2 ore, un conto alla rovescia della disperazione. Poi quello che dovevano far fuori prima di lui si fa rompere una vena, succede un pasticcio mediatico, ed ecco, tutto è rimandato di quattordici giorni (adesso meno, visto che il fatto è avvenuto il 29 aprile, tic toc), un nuovo conto alla rovescia. Anni di incertezza nei bracci della morte, non certo estranei a innocenti vittime di errori giudiziari, compresi i riabilitati post mortem, un mucchio di gente costretta a vivere una non vita per anni, nell’attesa e nel terrore. Il tutto, avvolto dall’ipocrisia generale, che pretende ci siano modi puliti di uccidere e modi sporchi, sofismi come i "crimini di guerra", di cui sono colpevoli solo gli sconfitti, previa condanna dei vincitori, le dissertazioni sulle armi proprie o improprie, come se macellare un uomo con una granata possa essere meglio che asfissiarlo coi gas, cose tipo "non si spara sulla croce rossa", ma una volta che i feriti sono stati ricuciti possono tornare ad essere carne da macello al fronte. E, anche nel caso di Lockett, il punto sembra che, se solo la dormia fosse stata iniettata in vena, tutto ok, avanti il prossimo. Contro o a favore della pena di morte? Difficile dirlo con certezza. Personalmente, potrei così sintetizzare la mia posizione: una società avrebbe il diritto di emetterla solo se, con la sua iniquità, non avesse creato le basi sociali perché qualcuno debba subirla. Non mi risulta ne siano ancora sorte. Fino ad allora, per ogni giudice che Condanna a morte qualcuno, mi auguro sopraggiunga il gorilla della canzone di Brassens, cantata anche da De André, e il suddetto togato finisca a piangere "come un vitello" per l’incontro amoroso con il quadrumane, gridando "mamma" negli intervalli. Anche se, così augurando, ricado nel "taglione", l’importante è rispettare "gli standard di umanità necessari" facendo mettere al gorilla un profilattico certificato: "occhio per occhio, dente per dente, io sono scemo e tu deficiente". Attenti al gorilla! Brunei: sharia e lapidazione per gli adulteri dopo svolta islamica, rivolta contro il sultano di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 5 maggio 2014 Nelle parole del sultano Hassanal Bolkiah, l’introduzione del codice penale islamico per il felice popolo del Brunei è "un atto di fede e gratitudine nei confronti di Allah, l’onnipotente". Si tratta di infliggere pene come la flagellazione, l’amputazione degli arti ai ladri e la morte per lapidazione agli adulteri e a chi commette atti sessuali contro natura. La decisione è stata presa dopo una lunga polemica che ha coinvolto le organizzazioni internazionali per i diritti dell’uomo. Ma il sultano, dall’alto dei suoi 20 miliardi di dollari di ricchezza personale costruita sul petrolio e del diritto divino al regno sui 416 mila sudditi del suo minuscolo Stato incuneato nel Borneo, il primo maggio ha emanato il decreto. Come riportato dalle cronache mondane, il sultano vive in un palazzo di 1.788 stanze, si fa proteggere da una guarnigione di mille soldati britannici ereditati dall’epoca coloniale ed è noto per la stravaganza: quando festeggiò i 50 anni, ingaggiò Michael Jackson per una serata costata 17 milioni di dollari. Come regalo di nozze alla terza moglie, una star televisiva che ha meno della metà dei suoi anni, pensò a un corano d’oro da quattro milioni. Gli eccessi contraddistinguono la famiglia regnante. Il fratello del sultano, Jefri Bolkiah, ha un harem e un super yacht che si chiama "Tits" (tette) e due barche d’appoggio battezzate "Nipple 1" e "Nipple 2" (capezzolo uno e due). Tempo fa i fratelli si scontrarono per un ammanco miliardario nelle casse del sultanato. Oggi Hassanal Bolkiah ha 67 anni e con l’età, dicono i politologi, sta diventando sempre più religioso. Forse si prepara all’aldilà. Il sultano, secondo i sondaggi, gode dell’appoggio di quel 70 per cento della popolazione del Brunei che è formato da musulmani di rito sunnita. Il resto è composto da un 15 per cento di cinesi e da una minoranza cattolica e anglicana. La legge coranica si applicherà anche a loro e i vescovi locali già temono di dover sospendere i battesimi per non incorrere nei rigori del codice. Bolkiah sostiene che il codice penale islamico difenderà il regno dall’esterno, dalla globalizzazione che porta influssi decadenti, tentazioni che vengono diffuse via Internet: "Queste leggi sono un aiuto di Dio". Il codice legato alla Sharia sarà introdotto in tre fasi. Nella prima subiranno ammende e pene detentive coloro che saranno trovati colpevoli di condotta indecente, metteranno al mondo figli al di fuori del matrimonio o non frequenteranno la moschea il venerdì. Nella seconda fase, a fine anno, i condannati per furti e rapine saranno frustati pubblicamente o avranno le mani tagliate. L’anno prossimo la fase finale: lapidazione a morte per adulterio e sodomia. La protesta della Commissione diritti Umani delle Nazioni Unite non ha fermato il sultano. Lo ha lasciato indifferente anche la minaccia di Londra di rivedere l’accordo che fornisce al Brunei (a pagamento) il battaglione di soldati di Sua Maestà britannica. Si sta mobilitando anche un fronte di personalità del jet set internazionale, guidato dall’attore inglese Stephen Fry e dalla star americana Ellen DeGeneres. "Dobbiamo mandare al sultano un chiaro messaggio: cominciamo boicottando la sua catena di alberghi a cinque stelle Dorchester Collection", ha scritto su Twitter Fry, che si rivolge ai suoi 6,7 milioni di followers. Si è unito il designer di scarpe americano Brian Atwood, che ha incitato l’industria della moda a disertare gli alberghi Dorchester di Londra, Parigi e Milano durante le settimane delle sfilate. La catena comprende tra gli altri il Bel-Air di Los Angeles, il Dorchester di Londra, l’Athenée a Parigi, il Principe di Savoia a Milano. I dipendenti degli alberghi hanno diffuso un comunicato: "Noi con le questioni religiose e politiche non c’entriamo". Israele: sciopero detenuti amministrativi palestinesi 3 di loro versano in condizioni critiche Ansa, 5 maggio 2014 Oltre cento palestinesi detenuti nelle carceri israeliane osservano uno sciopero della fame dal 24 aprile scorso per protestare contro la loro detenzione amministrativa, ossia lo strumento giuridico che permette di tenere in arresto un sospetto senza la formulazione di un’accusa precisa o un processo. Secondo quanto riferito all’Ansa da Addameer - l’Associazione per i Diritti dei detenuti Palestinesi - tre degli scioperanti (Dawood Hamdan, Tariq Deis e Muhammad al-Natsha) versano in condizioni critiche e sono stati trasferiti nel centro medico di Assaf Harofeh, poco distante da Tel Aviv. La portavoce del sistema carcerario israeliano, Sivan Weizman, ha dichiarato all’agenzia Màan che gli scioperanti della fame sono stati separati dagli altri detenuti, e che quanti lo necessitano ricevono cure mediche. La portavoce non ha invece confermato che alcuni di essi siano stati ricoverati in ospedale. Ad Addameer risulta che complessivamente nelle carceri israeliane 186 palestinesi sono sottoposti a detenzione amministrativa. Fra questi, nove parlamentari del Consiglio Legislativo Palestinese (Plc). Cina: aperto un carcere destinato ad ospitare solo donne incinta, in attesa di processo Ansa, 5 maggio 2014 Tempi duri per le cinesi che - proprio come faceva Sofia Loren nel film "Ieri, Oggi e domani" - ricorrono all’escamotage della gravidanza per evitare il carcere. A Shangai, nel distretto di Minhang, ha aperto i battenti un centro di detenzione destinato ad ospitare solo donne incinta in attesa di processo. Lo riferisce il Global Times. Il nuovo carcere, operativo marzo scorso, è stato dotato di tutto ciò che una donna incinta possa avere bisogno, al momento ospita cinque donne accusate di furto. "Per aprire questo carcere, - ha spiegato un funzionario della polizia di Minhang - abbiamo scelto un posto vicino a ben due ospedali, di cui uno specializzato in ginecologia, in modo che se le donne hanno le doglie o altri problemi, possiamo assisterle con tempestività". Secondo la polizia l’apertura di questo centro servirà anche come deterrente per ridurre l’incidenza dei piccoli furti e dei borseggi in città. In Cina infatti, le donne in stato di gravidanza, rappresentano spesso un problema per la polizia, in quanto la legge concede loro pene molto leggere e quindi sono maggiormente portate a delinquere. "Abbiamo una volta avuto il caso di una donna che aveva sette figli - racconta un funzionario di polizia - rubava sistematicamente ma ogni volta la faceva franca perché era sempre incinta". Medio Oriente: Hamas libererà detenuti politici di Gaza, per riconciliazione con Fatah Nova, 5 maggio 2014 Il governo palestinese che controlla la striscia di Gaza, a guida Hamas, ha annunciato che libererà una serie di detenuti legati al partito di al Fatah, nell’ambito del processo di riconciliazione nazionale in corso tra i due partiti. Inoltre Hamas ha deciso di consentire la pubblicazione anche a Gaza del quotidiano vicino all’Autorità palestinese "al Quds", edito in Cisgiordania. In questo modo il gruppo palestinese intende rispettare gli accordi presi con Fatah con il quale sta studiando la composizione di un nuovo governo di unità nazionale composto da tecnici. Tunisia: Ghannouchi; è necessario dialogare con capi gruppo Ansar al Sharia in carcere Nova, 5 maggio 2014 Per il presidente del partito islamico di Ennahda, Rachid Ghannouchi, "è necessario dialogare con i capi del gruppo Ansar al Sharia presenti in carcere". Parlando alla stampa tunisina il leader del partito islamico di Ennahda ha spiegato che "gli uomini di questo gruppo islamico sono sempre figli della Tunisia che sbagliano perché hanno un progetto che porta alla guerra civile. Noi dobbiamo fargli cambiare posizione dialogando con quelli che sono in carcere e convincendoli ad abbandonare le armi".