Giustizia: la sicurezza e lo stato di diritto di Stefano Allievi Il Mattino di Padova, 4 maggio 2014 Gli applausi del Sindacato Autonomo di Polizia agli agenti condannati per il caso Aldrovandi (il pestaggio a morte di un giovane studente ferrarese, che li ha portati alla condanna per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi) è stato giustamente stigmatizzato, e ha colpito molto l’opinione pubblica e le istituzioni: a cominciare dal capo dello stato Napolitano e dal presidente del consiglio Renzi, che si sono premurati di solidarizzare con la famiglia. Si è trattato di un applauso istituzionalmente inaccettabile (la polizia ha lo scopo di tutelare i cittadini), e vergognoso nei confronti della famiglia, già oltraggiata in passato da alcuni indecorosi supporter degli agenti proprio sotto la propria casa, con manifestazioni indegne L’applauso in sé va dunque condannato, senza titubanze: anche il segretario del Sap ha dovuto fare retromarcia, in una lettera al Presidente della Repubblica. E tuttavia va notato che, più che di una legittimazione della violenza, si è trattato di un applauso corporativo, di solidarietà tra i membri di un corpo dello Stato, per giunta sottoposto a molti stress: ugualmente inaccettabile, e tuttavia frequente. Accade anche tra le corporazioni non istituzionali: ricordiamo, per esempio, gli altrettanto vergognosi e forse moralmente più scandalosi applausi dell’assemblea di Confindustria al management della Thyssen, dopo la condanna ricevuta per la morte di sette operai: una strage sul lavoro, più che un incidente sul lavoro, per cui quello stesso management portava responsabilità dirette. O gli applausi ripetuti e frequenti, a Montecitorio come a Palazzo Madama, ad indagati e inquisiti illustri, ea loro solidarietà. Tra medici e avvocati, calciatori o magistrati, nelle loro rispettive assise, potremmo trovare esempi simili o potrebbero avvenire: è un aspetto sgradevolmente sindacale della solidarietà tra persone che svolgono la stessa professione e corrono rischi simili. Certo, nel caso della polizia, c’è qualcosa che turba maggiormente: perché la polizia è il corpo che più direttamente si pone al servizio dei cittadini, proprio nel momento in cui la loro sicurezza è violata, e dunque nei momenti critici, e in cui più immediatamente c’è bisogno di aiuto. Proprio per questo il senso di responsabilità deve essere maggiore: e, va detto, normalmente lo è (in questo caso è stato dimostrato anche da molti agenti e dai loro superiori, che si sono dissociati dal gesto, e più in generale operano tutti i giorni rispettando le leggi). Va ricordato tuttavia che, a differenza di altre istituzioni, tutto si tratta fuorché di privilegiati (tranne che nei suo vertici), i poliziotti servono lo stato correndo grossi rischi e ricevendo poco in cambio, in termini di remunerazione come di considerazione, ciò che, senza giustificarlo, può contribuire a spiegarne lo stato di stress e di sconforto. Infine, diciamolo: l’indignazione facile delle opposte partigianerie non aiuta a comprendere le cose, e anzi contribuisce a esacerbare il confronto di opinioni, trasformandolo in una questione di tifo calcistico, di schieramento a prescindere dai contenuti. Accade per i politici presenti all’incontro del Sap, o comunque abituali sostenitori di legge e ordine, che si sono affrettati a schierarsi con i poliziotti, squadernando una facile e assai pelosa solidarietà (dopotutto, votano anche loro, e soprattutto votano milioni di persone che vivono situazioni di insicurezza su cui questi stessi politici costruiscono le loro carriere). Ma accade per l’indignazione di molti, inclusi ambienti corrivi ai violenti d’altro genere (per esempio a quelli che provocano disordini nelle manifestazioni in cui i poliziotti rischiano la vita per tutelare un ordine pubblico che è anche nostro, perché è un bene di tutti): che usano il caso per attaccare comunque la polizia, a prescindere. Uno stato di diritto ha bisogno della certezza che innanzitutto le proprie istituzioni siano al servizio della legge, e non usino il proprio potere per autotutelarsi, o per commettere reati gravi (come avvenne al G8 di Genova, per dire), ma nemmeno per difendersi con depistaggi, come avvenuto anche nel caso Aldrovandi e troppe volte nella storia italiana. Ma ha anche bisogno che il diritto alla sicurezza collettiva sia adeguatamente tutelato, tutelando innanzitutto chi se ne occupa, purché resti nei limiti della legge. Sono due facce della stessa medaglia. Entrambe vanno perseguite con la stessa fermezza. Senza applausi. E con più azioni. La condanna dei poliziotti che hanno ucciso Aldrovandi è dopotutto la prova che il patto sociale a fondamento dello stato di diritto, in questo caso, ha funzionato. Basta così. Giustizia: l’abbraccio tra la vedova e la mamma di chi le uccise il marito di Federico Centola Il Centro, 4 maggio 2014 Toccante incontro a Roseto degli Abruzzi tra la moglie del carabiniere Santarelli e la madre del giovane omicida: "Se Matteo si riscatta, mio marito non sarà morto invano". Due giovani madri, sedute l’una accanto all’altra per testimoniare un dolore che le accomuna pur nella sua drammatica diversità. Da una parte Claudia Francardi, vedova del carabiniere Antonio Santarelli, venuto a mancare nel 2012 dopo l’aggressione subita il 25 aprile 2011, mentre era in servizio in provincia di Grosseto. Al suo fianco Irene Sisi, madre del giovane Matteo Gorelli, condannato per l’omicidio Santarelli. Con questa immagine si è aperto il convegno dal "Il percorso della legalità", che si è tenuto ieri al Palazzo del Mare di Roseto in memoria dell’appuntato scelto Santarelli, medaglia d’oro al valor civile, organizzato dalla locale sezione dell’associazione nazionale carabinieri e dall’associazione culturale "Cerchi concentrici promotor" con il patrocinio del Comune di Roseto. Di fronte una platea particolarmente attenta, formata per lo più da ragazzi delle scuole superiori, con il prof William Di Marco a scandire i tempi degli interventi. Ma già prima che le due donne iniziassero a parlare, era chiaro a tutti che sarebbe stato il perdono l’argomento centrale del convegno. Non a caso il direttore de il Centro Mauro Tedeschini, chiamato a coordinare i lavori, ha esordito definendo l’incontro di ieri "un esempio per persone che rischiano di sconvolgere la propria esistenza macerandosi nell’odio". Ma è possibile non solo perdonare, ma addirittura diventare amica, per portare avanti un progetto comune, della madre del ragazzo che ha ucciso il proprio marito? Sì, perché le due donne hanno dato vita a un’associazione battezzata "Amicainoabele", concentrando in un’unica parola il concetto di amore e amicizia, vittima e carnefice, per non dimenticare che la crudeltà ha sempre fatto parte della natura umana. "Antonio amava la bontà e praticava la giustizia - ha raccontato la vedova di Santarelli - e faceva questo anche nella forma più alta che è la virtù cristiana. Il giorno dell’aggressione avrebbe voluto dire a Matteo: "Devi cambiare vita", ma non ne ha avuto il tempo". Il volto disteso della signora Claudia, parzialmente coperto dai lunghi capelli biondi, trasmette ai presenti una serenità d’animo, raggiunta, però, soltanto dopo un lungo e doloroso percorso interiore. "All’inizio pensavo che il Signore ci chiedesse di testimoniare l’amore nei Suoi confronti chiamandoci a vivere insieme il dolore - dice ancora la signora Claudia - poi è arrivata la morte di Antonio e non più capito: ero disorientata. Per un periodo ho smesso anche di pregare e ho anche buttato via il rosario, ma poi ho visto una luce in fondo al tunnel buio: flebile, ma c’era". Parole sottolineate dal silenzio commosso della platea, tra cui erano presenti anche i fratelli del carabiniere ucciso. I progetti di vita dei coniugi Santarelli interrotti dalla mano di un giovane omicida, hanno via via lasciato il posto a quello che la signora Claudia ha definito "miracolo interiore", che si è concretizzato il giorno della condanna in primo grado (il 7 dicembre 2012) nei confronti di Matteo Gorelli: ergastolo. "Quando ho ascoltato la sentenza - ricorda tra le lacrime la vedova Santarelli - ho avvertito un malessere fisico, perché non potevo immaginare che a un giovane non venisse offerta un’altra possibilità di recupero. Poi l’ho guardato negli occhi mentre lo portavano via e sono rimasta sconvolta quando l’ho visto sorridere. Pensavo fosse impazzito, ma quando in seguito mi ha spiegato il motivo (cioè che voleva trasmettermi l’accettazione della condanna per il male che mi aveva fatto) ho capito che era proprio quello il miracolo più grande: io mi preoccupavo per lui e lui faceva altrettanto per me". Così è iniziato il cammino di riconciliazione che coinvolge tre persone: le due donne e il giovane condannato. "Sono la mamma di Matteo - così si è presentata la signora Irene iniziando il suo intervento - e mi sento particolarmente emozionata nel venire nella terra di Antonio. Se esistesse il reato di omicidio morale io sarei certamente colpevole, in quanto sono io che ho armato la mano di mio figlio quel giorno perché non mi sono mai resa conto delle sue grida silenziose che io non sono stata capace di ascoltare in tempo. Avrei dovuto essere in grado di metterlo nelle condizioni di prendersi cura della sua anima, dandogli quelle risposte alle domande che non mi ha mai fatto, in modo da insegnargli a essere in grado da solo di fermarsi un attimo prima di sprofondare nel baratro". "Quale futuro oggi per Matteo?", ha chiesto il direttore Tedeschini alla signora Sisi. "Io spero che continui il recupero nella comunità Exodus - è stata la risposta della madre del giovane - proseguendo un percorso comune assieme alla sua famiglia. Lui dice che vorrebbe diventare un educatore e credo che in futuro possa aiutare molti giovani a migliorare e diventare, perché no?, un esempio per loro". Intanto le due donne continuano a portare in giro per l’Italia il messaggio di perdono attraverso l’associazione Amicainoabele, testimoniando attraverso la loro terribile storia che un gesto di carità è sempre possibile. "Io, colpevole come mio figlio di omicidio...", di Mauro Tedeschini Mai, in trent’anni e più di mestiere, avevo partecipato a un incontro così emozionante e intenso. Ascoltare e vedere quelle due donne che una tragedia così grande ha finito per unire, invece di separarle da un odio perenne, per un’intera mattinata ha tenuto inchiodate alla sedia, in un religioso silenzio, decine e decine di giovani. Un piccolo grande miracolo della fede e della disperata ricerca di dare un senso a un delitto che, sulle prime, una spiegazione proprio sembrava non averla, se non nella follia di una gioventù bruciata dalla cultura dello sballo. E il senso è tutto racchiuso nella parole di Claudia, la vedova del carabiniere, quando dice che adesso capisce che Antonio è morto per salvare quel povero assassino: "Ero stata a Medjugorje poche settimane prima di quel 25 aprile del 2011 e aveva avuto un presentimento che qualcosa di forte sarebbe accaduto alla mia famiglia. Anche Antonio aveva da tempo la sensazione che sarebbe morto giovane. I mesi più duri sono stati quelli in cui mio marito era in coma vegetativo, sentirsi vedova davanti a un uomo apparentemente ancora vivo". La svolta è avvenuta al processo, dopo che a una prima udienza Claudia aveva gridato a Matteo, l’autore del pestaggio mortale del marito, tutta la sua rabbia. Qualcuno le aveva fatto notare che l’aveva chiamato proprio così, "Matteo", senza mai usare la parola "assassino". E da lì è iniziato un percorso fatto di sguardi sempre più compassionevoli, arricchito dagli incontri, chiesti e accordati, con Irene, la mamma del ragazzo. Fino all’incontro in carcere, voluto da Claudia, dopo che Matteo era stato condannato all’ergastolo: "Mi sembrava una pena enorme per un ragazzo così giovane, nessuno mi avrebbe restituito mio marito, e andai a Milano per incontrarlo. Fu lui a rassicurarmi con un sorriso, dicendo che era la pena che si era meritato. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme, poi gli ho messo tra le mani quel rosario che mi ero portato da Medjugorje. E in quel momento ho capito che Antonio non era morto invano: lui che cercava sempre di correggere i giovani, non certo per il gusto di punirli, aveva salvato la vita a quel ragazzo. E spero che il suo sacrificio, tutto il dolore che questa storia ha causato, possa essere d’esempio per tanti giovani che devono trovare la forza di fermarsi in tempo". Oggi Matteo, con l’assistenza di don Mazzi e della Comunità Exodus, frequenta l’università, indirizzo Scienze dell’Educazione. La mamma dice che vuole diventare proprio un educatore, la professione che costituirebbe un ponte ideale tra il suo passato e il suo futuro. La sua è stata una famiglia difficile: i genitori separati quando lui aveva tre anni, con un divorzio difficile, sfociato in un’infinità di contrasti. Irene dice che se ci fosse il reato di omicidio morale, lei sarebbe da condannare, assieme al figlio: errori, assenze, silenzi. Ma Claudia l’abbraccia e dice che nessuno deve giudicare, ma solo aiutare. Anche a dare un futuro a chi ha ucciso il padre di suo figlio. Chi tende la mano e chi non ce la fa: Rita, Patrizia, Lucia… di Giuliano Di Tanna "Chiederò perdono per mio fratello sulla tomba della bambina". Rita Di Zio è la sorella di Gianfranco, l’ex camionista pescarese di 48 anni, che, domenica scorsa, ha ucciso se stesso e la sua figlia di 5 anni, Neyda, dandosi fuoco nella sua auto alla periferia della città. La persona alla quale Rita Di Zio chiederà perdono è una donna di 44 anni, Ena Pietrangelo, di Cepagatti, la madre della bambina, che lotta contro la morte in un letto dell’ospedale Sant’Eugenio a Roma per le ustioni riportate nel tentativo di sottrarre sua figlia al rogo sacrificale. Il perdono è una moneta con due facce. Quella che riguarda la richiesta di perdono è la più facile. Quella della concessione del perdono, la più difficile. Il vero perdono, secondo Paul Ricoeur, é quello difficile, "quello", spiegava il filosofo francese, "che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono". "Non si tratta, aggiungeva Ricoeur, "di cancellare un debito su una tabella dei conti, livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi". I nodi da sciogliere riguardano la possibilità di sopravvivere al dolore con l’oblio. Ma sono nodi resistenti, come dimostrano altre due storie che ci vengono incontro dalla cronaca italiana recente. La prima è quella di Federico Aldrovandi, lo studente di 18 anni morto, nel 2009 a Ferrara, la sua città, per le botte riportate dai poliziotti che lo avevano fermato per un controllo. Per quella morte quattro agenti sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi di carcere ciascuno per "eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi". Nei giorni scorsi, quei poliziotti, sono stati celebrati con un applauso durante il congresso del sindacato di polizia, Sap, a Rimini. Patrizia Moretti, la madre di Federico, ha detto: "Io quei quattro non li perdonerò mai. Non ci può essere perdono senza pentimento". La seconda storia ha per protagonista e vittima, Lucia Annibali, un avvocato di Urbino di 36 anni, che, nell’aprile del 2013, ebbe il viso sfigurato con l’acido gettatole in faccia da due albanesi assoldati, secondo l’accusa, dal suo ex fidanzato. Si può perdonare l’autore di un gesto così crudele? Nessuno ha mai posto la domanda in maniera diretta a Lucia Annibali. Lei non chiude la porta, per il momento, alla prospettiva dell’oblio. "Non ne voglio parlare", ha detto in una delle sue ultime uscite in pubblico. E pensando al suo ex fidanzato, ha aggiunto: "Delle volte mi ha fatto pena, questo sì". Giustizia: amnistia e indulto; testo unificato in Commissione del Senato entro il 15 maggio Asca, 4 maggio 2014 Tenuto conto della persistente situazione di sovraffollamento delle carceri - a fronte di una capienza regolamentare pari al massimo a 44mila unità, i detenuti sono 61mila - dell’obbligo imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia di ovviare entro il 28 maggio all’emergenza detentiva e del recente, reiterato monito del Presidente della Repubblica, il presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma nella seduta del 29 aprile ha invitato i relatori a predisporre entro il 15 maggio un testo unificato sulle proposte legislative in materia di amnistia e indulto. Nonostante le richieste di rinvio avanzate da alcuni senatori del Pd e di Ncd, non condivise né da FI-Pdl né dal M5S, il presidente Palma ha confermato la scadenza del 15, precisando tuttavia che il seguito dell’esame potrà aver luogo dopo lo svolgimento delle consultazioni elettorali per il rinnovo del Parlamento europeo. Eventuali modifiche in ordine ai tempi e ai modi di esame dei provvedimenti in titolo potranno comunque essere disposte nel corso della prossima riunione dell’Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi. Giustizia: misure cautelari personali; illustrato testo di pdl in Commissione della Camera Asca, 4 maggio 2014 Ha preso il via il 30 aprile in commissione Giustizia della Camera l’esame della proposta di legge 631-B che detta disposizioni in materia di misure cautelari personali, visita a persone affette da handicap in situazione di gravità e illeciti disciplinari. A riferire sui contenuti del provvedimento - già approvato da Montecitorio e modificato dal Senato - la relatrice Anna Rossomando (Pd) che ha osservato come i primi due articoli modifichino il codice di procedura penale allo scopo di limitare la discrezionalità del giudice nella valutazione delle esigenze cautelari, attualmente individuate nel pericolo di inquinamento delle prove, nel pericolo di fuga e nel pericolo di reiterazione dei reati. Il provvedimento interviene poi su altre materie tra cui: scelta delle misure cautelari, con la finalità di escludere sia la custodia in carcere che gli arresti domiciliari quando il giudice ritenga che l’eventuale sentenza di condanna non verrà eseguita in carcere; applicazione della custodia in carcere per alcuni reati di particolare gravità (come ad esempio l’associazione di stampo mafioso, i delitti di associazione sovversiva e di associazione terroristica); revoca degli arresti domiciliari; interdizione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio. Il testo integra poi le possibilità di visite dei genitori detenuti al minore infermo, tema che è oggetto della pdl 1438 all’esame della stessa commissione Giustizia. Il seguito dell’esame è stato rinviato a una prossima seduta. In settimana la commissione ha svolto anche l’audizione del ministro della Giustizia Andrea Orlando sulle linee programmatiche del suo dicastero (che proseguirà in data da stabilire) e l’audizione informale dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, della Lega italiana divorzio breve e dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia nell’ambito dell’esame delle pdl in materia di presupposti per la domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Giustizia: Camere Penali; su Opg l’Associazione Nazionale Magistrati ha visione classista Adnkronos, 4 maggio 2014 "In nome di un realismo che finisce per pregiudicare i più deboli, il sindacato dei magistrati si oppone a che sia solo la pericolosità soggettiva a determinare la possibile permanenza in Opg, e nel far ciò esprime una singolare visione classista della giustizia". È quanto scrive in una nota l’Unione delle camere penali. "Che la misura cautelare nel reparto di psichiatria di un ospedale civile sia difficile da gestire può essere verosimile, ma è altrettanto vero che la possibilità di ricovero provvisorio in Opg - si legge - è in contrasto col diritto alla salute, che deve prevalere sull’esigenza meramente pratica di far fronte a carenze strutturali cui, peraltro, si può tranquillamente ovviare. Che la pericolosità debba basarsi unicamente sulle condizioni soggettive pare altrettanto ovvio, a meno di non voler ritenere che chi è guarito ma non ha una famiglia in grado di accoglierlo debba rimanere in Opg in eterno. Bisognerebbe - conclude la nota- che anche i magistrati, prima di prendere posizione, visitassero gli Opg: così come stiamo facendo noi". Lettere: Papa Francesco dia voce all’afonia del carcere don Marco Pozza (Cappellano del carcere Due Palazzi) Il Mattino di Padova, 4 maggio 2014 Carissimo Papa Francesco, un giorno qualcuno scrisse: "Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché da esse si misura il grado di civiltà di una nazione" (Voltaire). Le scrivo da una galera dopo i giorni della Pasqua nei quali abbiamo rivissuto pure noi la prodigiosa battaglia tra la Vita e la Morte: il sovraffollamento di disperazione come forma di passione, il dramma del suicidio di un ragazzo giovane e di un agente di Polizia come giorni di silenzio, il battesimo di Cristian come annuncio della Pasqua. Ferite e feritoie di una Grazia misteriosamente all’opera dentro una certa disgrazia feriale. Essere Chiesa qui dentro è una cosa profondamente e tremendamente seria: il male non va giustificato ma abbiamo il dovere di cercare di comprendere il perché di una vita che è deragliata, con la grammatica di quella misericordia che - come annotava Benedetto XVI - non cancella la giustizia. Forse, però, l’aiuta a brillare del suo più splendido significato: restituire alla società un figlio/a che tutti davano come dannato per l’eternità. I tempi stringono, la situazione non migliora, la speranza sembra affievolirsi: ci sono giorni nei quali in questa barca che affonda anche Cristo sembra aver preso sonno e il Male ergersi vittorioso. Eppure non è così: basta un cenno e la Vita riparte. Più ardita, più spettacolare, ancor più imprevedibile. La sua voce in carcere è come una brezza leggera nel deserto: le sue semplici metafore, i suoi ragionamenti del cuore, la sua indomabile voglia d’andare a cercare l’uomo laddove s’è smarrito sono una forza che nessuna disperazione riesce ad arginare. Certi giorni basta il nome - Francesco - per vedere splendere un sorriso, asciugarsi una lacrima, vincere la malinconia. Quei piedi lavati a Casal del Marmo sono valsi l’amore di chi nella vita ha fallito: e poi la Chiesa come ospedale da campo, la memoria delle mamme dei detenuti, quell’inedita visione della cella come punto di contatto con Dio, le lettere inaspettate. Quel narrare la vicinanza di un Dio che "invece di abbandonarli ha stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù". D’un Padre giusto e misericordioso. Sono uomini e donne che oggi guardano a Lei come profeta di speranza e di misericordia. Non Le chiedono l’amnistia o l’indulto, le chiedono un ricordo nella preghiera: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno" (Lc 23,43). Forse anche ardiscono un di più: d’essere da Lei rappresentati al cospetto delle tribune dimentiche e lontane da loro. Perché ricostruire un uomo è ricostruire il sogno di Dio: che tutti siano uno. Perché recuperare Caino non è dimenticarsi di Abele ma ricongiungere faticosamente la vittima col carnefice, l’uomo con se stesso, la creatura col Creatore. Santità, la sua franca Presenza ci sorregge in quest’avventura d’estrema periferia. Da Giovanni XXIII fino a lei la storia dei Papi s’incrocia con il ferro e il cemento delle galere: ed è storia di miracoli e di conversioni. Le chiediamo un favore: che Lei "presti" la sua voce all’afonia delle carceri, che le sue parole assicurino che l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono. Parli di loro, di noi, del mondo errante. Non per paura dell’Europa o per vergogna alcuna, ma semplicemente perché una riconciliazione è possibile. È doverosa, come seguito della prima Pasqua. Sentirla compagno di viaggio dentro le galere è sentirsi come ad Emmaus, laddove l’amarezza dei due viandanti fu il preludio non riconosciuto dell’incontro con la vita. Risorta e riconciliata: con Dio, coi fratelli e con le proprie anime. Lombardia: dal Pd interrogazione sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari Ansa, 4 maggio 2014 In che modo la Regione intenda superare gli ospedali psichiatrici giudiziari: questa la questione posta dal gruppo del Pd in Consiglio regionale della Lombardia in un'interrogazione per l'assessore alla Salute Mario Mantovani. Il testo, di cui è primo firmatario il consigliere Mario Barboni (Pd), sarà presentato durante la seduta di martedì prossimo del Consiglio. In particolare, i democratici chiedono come e quando la giunta prevede di aggiornare il piano per il superamento degli Opg, utilizzando le risorse messe a disposizione per realizzare strutture residenziali (le Rems, residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) e tenuta conto anche la necessità di riqualificare i dipartimenti di salute mentale sul territorio. Sulmona (Aq): ergastolano 65enne stroncato da infarto, camera mortuaria per il carcere? di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 4 maggio 2014 Giovanni Pollari, 65 anni, siciliano, è deceduto per infarto fulminante nel carcere di Sulmona, dove stava scontando la pena dell’ergastolo. Nel primo pomeriggio di ieri, dopo aver fatto attività fisica, attorno alle 15.30, si è accasciato improvvisamente al suolo. L’agente che era in servizio in sezione ha subito chiamato il medico di turno del penitenziario che ha provveduto a praticare il massaggio cardiaco, nulla da fare. Trasportato in infermeria, defibrillatore e soccorsi non sono stati sufficienti a rianimarlo. Immediato l’intervento del personale del 118, ma è stato tutto inutile. L’uomo deceduto non ha mai manifestato problemi di cuore, aveva semplicemente qualche acciacco legato all’età. Con oltre 200 ergastolani, l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe cominciare a pensare di dotare l’istituto di detenzione Peligno di una camera mortuaria perché, se è vero che si tratta di un carcere ad alta sicurezza, è possibile allora che una parte dei detenuti sconti condanne all’ergastolo e dentro quelle mura probabilmente trascorrerà gli ultimi giorni di vita. Sulmona: detenuto 33enne affetto da malattia incurabile tenta suicido, salvato dagli agenti di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 4 maggio 2014 Un foglio di carta con poche parole. Dagli slip avrebbe ricavato l’elastico che, annodato alle sbarre della finestra, si è attorcigliato al collo e poi al buio si è seduto sullo sgabello. Così voleva farla finita, nel carcere di Sulmona, G. M. detenuto 33enne salvato in extremis da un agente che fortunatamente stava controllando proprio il braccio di detenzione in cui è sistemato il giovane, gravemente malato, ora piantonato in regime di sorveglianza a vista. Il penitenziario ovidiano schiva per un soffio la triste fama assegnata in passato alla struttura oggi in sofferenza per superare gravissime difficoltà causate dal sovraffollamento della popolazione carceraria e dalla carenza di organico della Polizia Penitenziaria, da apparecchiature obsolete e impianti fatiscenti. Grane incredibili che gli agenti a Sulmona cercano di risolvere, attenuare o almeno attutire. Questo è il primo tentativo di suicidio del 2014, l’emorragia sembrava essersi arrestata anche perché, nell’arco di 10 anni, 13 suicidi hanno inciso a fuoco sulla struttura il marchio di carcere dei suicidi. La battuta d’arresto per la macabra conta si ottiene nel 2013, oggi a via Lamaccio nessuno più si è dato la morte. I primi mesi dello scorso anno 4 tentati suicidi e 12 atti di autolesionismo gravi praticamente scomparsi quando, a giugno 2013, sono stati trasferiti al carcere di Vasto tutti gli internati di Sulmona, negli ultimi 10 mesi non sembra si sia verificato alcun episodio grave, eccetto il tentato suicidio dell’altro ieri. Da indiscrezioni sembra che il detenuto trentatreenne, con una malattia incurabile, avrebbe tentato il suicidio perché non sarebbe stata accolta la sua richiesta di sospensione della pena o di detenzione domiciliare. Curare la malattia del giovane, costretto a letto e ad una degenza definitiva dietro le sbarre, costerebbe allo Stato circa 800 euro al giorno tra cateteri da cambiare e cure sanitare da garantire per lenire le sue sofferenze. Foggia: Associazione "Mariateresa Di Lascia" visita carcere tra i più affollati e degradati www.ilquotidianoitaliano.it, 4 maggio 2014 Il 28 maggio scadono i termini concessi dalla Cedu dopo la condanna con la c.d. sentenza Torreggiani per i trattamenti inumani e degradanti perpetrati nelle carceri ma a Foggia, come sottolinea Norberto Guerriero, "i numeri attuali sono quelli di una situazione al collasso nella quale diventa difficile operare anche per l’amministrazione penitenziaria. La Puglia si colloca tra le prime regioni per sovraffollamento". Nella giornata del 28 aprile l’Associazione radicale di Foggia "Mariateresa Di Lascia" nelle persone del segretario Norberto Guerriero e dell’attivista Ivana De Leo, accompagnati dal consigliere regionale di Forza Italia Giandiego Gatta ha effettuato una visita ispettiva al carcere di Foggia. Il 28 maggio prossimo scadono i termini concessi dalla Cedu dopo la condanna con la c.d. sentenza Torreggiani per i trattamenti inumani e degradanti perpetrati nelle carceri italiane. I radicali italiani conducono da anni la battaglia per una giustizia giusta che riporti l’Italia fuori dalla condizione di flagrante illegalità in cui si trova. Proprio in queste ore il leader storico dei radicali Marco Pannella è impegnato in un estremo sciopero della sete nonostante sia stato sottoposto ad un delicato intervento cardio-chirurgico e ha raccolto il sostegno e la vicinanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Papa Francesco. I numeri del collasso del sistema giustizia sono disarmanti, secondo i dati ufficiali del Dap al 31.03.14 i detenuti reclusi nelle carceri italiane sono oltre 60mila a fronte di una capienza regolamentare di soli 48.309 posti. In questa tragica classifica la Puglia si colloca tra le prime regioni per sovraffollamento con 3.669 detenuti in 11 istituti che potrebbero ospitare massimo 2.431 detenuti. I numeri delle morti all’interno delle carceri sono ancora più brutali certificando che in Italia si muore di carcere: dal 2002 all’aprile 2014 sono 2.284 i detenuti morti dei quali 813 suicidi. I radicali foggiani conducono ormai da oltre 50 giorni una sciopero della fame a staffetta come forma di lotta non violenta, per denunciare lo stato degradante e inumano delle carceri di Capitanata. A gennaio l’associazione radicale "Di Lascia" ha effettuato la prima visita al carcere di Lucera, a pochi giorni dall’ennesimo suicidio di un giovane, con la presenza del segretario di radicali italiani on. Rita Bernardini. Durante la visita hanno denunciato la condizione di degrado e fatiscenza della struttura accendendo un faro su una morte ammantata da troppe ombre. La scorsa settimana una nuova visita al carcere di Foggia, dove poco più di 15 giorni fa un detenuto di 22 anni ha tentato di uccidersi. Come sottolinea il segretario Norberto Guerriero "i numeri attuali sono quelli di una situazione al collasso nella quale diventa difficile operare anche per l’amministrazione penitenziaria. Nelle carceri ci sono 552 detenuti, numero in constante crescita per il rientro dei detenuti trasferiti temporaneamente a altro istituto e secondo la direzione destinati a ritornare velocemente verso le oltre 750 unità. Di questi, molti sono affetti da patologie che richiederebbero un’adeguata assistenza sanitaria e ben 123 tossicodipendenti, dei quali solo 15 in trattamento. Sono reclusi, 296 detenuti in attesa di giudizio a dimostrazione di un sistema di detenzione preventiva e cautelare inadeguato. All’interno del carcere ci sono giovani in attesa di giudizio da oltre 3 anni. Gli interventi adottati dalle istituzioni nazionali per arginare tale situazione sono insufficienti come dimostrano le sole 14 unità in meno a seguito dei provvedimenti cosiddetti svuota-carceri, sottolineando la necessità di un intervento straordinario di amnistia e indulto. Ci chiediamo dove possa condurre la miopia di un’amministrazione penitenziaria che metro alla mano pensa di poter sanare la situazione semplicemente garantendo l’insufficiente misura di 3 metri quadrati per detenuto, riducendo tale emergenza in una semplice corsa al rispetto di un parametro che invece andrebbe calato nel contesto di strutture totalmente inadeguate a ospitare una popolazione carceraria così numerosa". Ma l’associazione "Mariateresa Di Lascia" denuncia anche le condizioni estreme in cui operano gli agenti della polizia penitenziaria, sottodimensionati come personale con un età media di servizio tra i 15 e 20 anni, addirittura privi di un proprio servizio di assistenza sanitaria interna. I radicali foggiani contestualmente allo svolgimento della visita hanno organizzato un sit-in dinanzi al carcere per la distribuzione dei formulari necessari per i ricorsi al magistrato di sorveglianza e la Cedu. Insieme a loro anche le camere penali che renderanno a breve tale materiale disponibile agli 87 avvocati penalisti del foro foggiano, per garantire l’effettiva fruizione di tali strumenti da parte dei detenuti degli istituti di Capitanata, come sottolineato dal presidente delle camere penali avv. Gianluca Ursitti. Solidale con l’iniziativa anche il Cosp, sigla sindacale che da anni denuncia le condizioni inumane delle carceri pugliesi. Si è registrata anche la spontanea presenza al presidio dei candidati sindaci al comune di Foggia e proprio a loro il segretario dell’associazione radicale di Foggia ‘Mariateresa Di Lascià lancia una provocazione: "primo atto della prossima giunta introdurre il garante comunale del detenuto, per rendere effettiva la funzione di garanzia di tale figura e sanare le inefficienze fisiologiche del garante regionale. Noi radicali ci batteremo per portare in campagna elettorale e più in generale, nel dibattito della città tali tematiche sui diritti civili non fermandoci alla sterile protesta ma avanzando concrete proposte. Ricordiamo che dal prossimo fine settimana saremo presenti con tavoli di raccolte firme sul tema del registro del testamento biologico dopo l’inaccettabile battuta d’arresto subita nel consiglio comunale". Vasto (Ch): convegno conclusivo del progetto Proserpina con i reclusi della Casa di lavoro di Anna Bontempo Il Centro, 4 maggio 2014 Carciofini sottolio, miele millefiori, succo e polpa di pesca, marmellate e ortaggi in agrodolce, tutti etichettati e pronti per la commercializzazione. A confezionarli sono stati dodici internati della Casa Lavoro di Vasto che hanno partecipato al progetto Proserpina, una iniziativa volta a favorire lo sviluppo di opportunità di reinserimento socio-lavorativo di soggetti in condizioni di svantaggio sociale. Ieri a Palazzo D’Avalos si è svolto il seminario conclusivo con la proiezione di un video e la presentazione dei risultati. Oltre al direttore dell’Istituto, Massimo Di Rienzo, hanno partecipato alla manifestazione il magistrato di sorveglianza di Pescara, Maria Rosaria Parruti, il sindaco di Vasto Luciano Lapenna, Roberto Furlotti del Cipat Abruzzo e operatori penitenziari. "Con Proserpina si è voluta dare concretezza alle cose fatte e creare non solo aspettative, ma generare un ambiente favorevole, attenzione verso alcuni percorsi e processi e soprattutto dare risalto alle competenze, alle abilità e capacità di cambiamento di coloro che sono stati coinvolti", spiega Antonella Baccari, fondatrice della società consortile Biosapori di Casacalenda e formatrice esperta in tecnologie alimentari, "è stato realizzato un progetto formativo che ha fortemente scommesso, prima che sulle metodologie, sulle persone, sulla loro positività nell’avvicinarsi a temi distanti anni luce quali la sicurezza alimentare, la tipicità e qualità del prodotto, e metodi di trasformazione. Tutto questo è accaduto con Proserpina. Non è un caso che l’amministrazione penitenziaria insiste nel voler continuare ed investire in questa tipologia di esperienza perché la formazione è uno strumento eccezionale per attivare importanti processi partecipativi anche dei soggetti più deboli". Il direttore Di Rienzo, oltre a porre l’accento sugli aspetti organizzativi legati alla trasformazione del Carcere in Casa Lavoro e sulla diversa tipologia di reclusi (internati), si è anche soffermato sugli altri progetti in cantiere. É il caso del laboratorio per la produzione seriale di tute e camici da lavoro, (che sta incontrando qualche ostacolo burocratico per la riconversione di un capannone industriale) e della pensione per cani, progetto quest’ultimo che l’educatore Lucio Di Blasio sta portando avanti insieme all’agronomo Nicola Giarrocco. Nell’attesa ci si sta prodigando per dare impulso alle attività dell’azienda agricola, di cui il progetto Proserpina rappresenta il versante formativo ed addestrativo. I dodici internati impegnati nella formazione hanno approfondito tematiche di sicurezza alimentare, qualità del cibo e modalità di trasformazione dei prodotti, oltre a strategie di marketing. Il gruppo ha anche visitato un frantoio mostrando interesse e tempestando di domande l’imprenditore. Il risultato di questo percorso, durato 110 ore, è stata la produzione di 250 vasetti fra sottoli di varie tipologie, marmellate e succhi di frutta che verranno avviati alla commercializzazione grazie alla collaborazione del Conad di via Alessandrini. Pescara: al carcere di San Donato telecamere montate al contrario, protesta degli agenti di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 4 maggio 2014 Il mondo gira al contrario, ma qualcuno potrebbe obiettare: "Guardi, dipende dai punti di vista!". Allora noi che ci vediamo bene offriamo un particolare punto di vista, quello delle telecamere del carcere di san Donato a Pescara, videocamere che sono state installate al contrario. Incredibile, ma vero! Questa è la situazione che da circa due anni, sempre la stessa, fa dannare il personale della struttura detentiva. Così gli oltre 130 agenti effettivi devono arrangiarsi come possono per tenere a bada i circa 300 detenuti dell’istituto di detenzione del Capoluogo Adriatico. L’occhio del grande fratello ha bisogno di una inquadratura migliore e in attesa che accada il sistema è spento con buona pace della privacy e primi piani indistinti sui muri della prigione. Nonostante le ripetute richieste del personale di Polizia penitenziaria di reinstallate le telecamere come si deve, le cose peggiorano in istituto. Come si dice in gergo.. sul cotto l’acqua bollente! Proprio di acqua si tratta, anche se gelida e fangosa, se dall’alluvione di dicembre scorso è andata ancora peggio al San Donato. Il carcere si è allagato e giacché il mondo gira rovinosamente al contrario l’impianto elettrico della videosorveglianza è finito in arresto, quale migliore definizione per restare in argomento! Adesso l’impianto, costato migliaia di euro, è praticamente inservibile, da allora inutilizzabile. Nonostante i tanti sacrifici degli agenti di Pescara e l’impegno per mandare avanti il carrozzone una cosa sola rimarrebbe da dire. L’amministrazione delle carceri abruzzesi fa acqua da tutte le parti e non vede al di qua delle proprie telecamere. Come gira il mondo? Alla rovescia. Ragusa: applicato a una donna accusata di spaccio il primo "braccialetto elettronico" www.nuovosud.it, 4 maggio 2014 I militari della stazione carabinieri di Marina di Ragusa hanno attivato in provincia il primo braccialetto elettronico per il controllo degli arrestati e dei detenuti domiciliari. L’attivazione dell’apparato è stata condotta a Marina di Ragusa dai Carabinieri della locale Stazione con l’ausilio della centrale operativa provinciale. Il dispositivo di monitoraggio a distanza, infatti, è controllato da un personal computer presso la centrale operativa. Il sistema è costituito dal cd "braccialetto elettronico", normalmente applicato alla caviglia del detenuto/arrestato, e di una centralina elettronica installata presso l’abitazione dove si deve scontare la misura. La centralina, dialogando con il dispositivo di controllo a distanza, comunica alla centrale operativa del comando provinciale gli eventuali allontanamenti dall’abitazione di cui il detenuto si dovesse rendere responsabile. In tal caso intervengono le pattuglie impiegate nel controllo del territorio. Nel disporre misure diverse dalla custodia in carcere (nel nostro caso gli arresti domiciliari), il giudice deve preventivamente verificare la disponibilità delle apparecchiature necessarie e la effettiva possibilità tecnica del controllo remoto. Una volta che il condannato o la persona sottoposta a custodia cautelare abbia richiesto d’essere sottoposto al controllo elettronico, è necessaria una verifica presso l’abitazione per accertare che vi siano i requisiti tecnici necessari. Viene quindi perimetrato il domicilio dove il detenuto dovrà permanere e creata una linea telefonica che collega il braccialetto e la centrale operativa dei Carabinieri, attraverso una centralina che viene collocata nell’abitazione dell’interessato. Viene quindi applicato il braccialetto alla caviglia. Esso è ovviamente resistente all’acqua. Il braccialetto è stato applicato nel pomeriggio di ieri, a una donna di Marina di Ragusa, la 41enne B.A., indagata per detenzione e spaccio stupefacenti, arrivata dalla Casa circondariale di Catania "Piazza Lanza" su ordine del Tribunale di Catania. Nuoro: ergastolano scrive a Sdr "a Badu e Carros aperti nuovi orizzonti mentali" Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2014 "Il reclusorio di Badu e Carros si tende spesso ad accumunarlo ancora oggi alla "cayenna" degli anni 70. Così non è. Grazie a questa nuova Direzione si sono aperti nuovi orizzonti mentali confacenti con l’art. 27 della Costituzione". Lo ha scritto in una lunga lettera all’associazione "Socialismo Diritti Riforme", Marcello Dell’Anna, 45 anni, di Nardò (Puglia), ex componente di spicco della Sacra Corona Unita, ergastolano ostativo, laureato in Giurisprudenza con una tesi sul diritto penitenziario, autore di due libri durante la carcerazione ristretto a Nuoro dal luglio 2013. "È grazie a questa lungimirante Direttrice se a Badu e Carros - osserva ancora Dell’Anna - si sono tenuti quattro seminari di studi giuridici ai quali, per la prima volta in campo nazionale, ha partecipato un ergastolano ostativo, laureato in legge, in qualità di relatore-coordinatore, e non certo per insegnare nulla a nessuno ma per consegnare una lunga esperienza di vita vissuta in questi luoghi. Ed è grazie a questa nuova Dirigenza se il sistema carcerario barbaricino non si rompe ancora, perché all’interno esiste non solo un Direttore illuminato ma anche personale di Polizia Penitenziaria responsabile e professionale che fa da argine alle acque limacciose che quotidianamente si alzano qui come in ogni reclusorio italiano". "Quanto affermo potrebbe sembrare sin troppo adulatorio oppure volto ad ingraziarmi i favori della Direzione del carcere. Chi mi conosce - scrive Dell’Anna - sa bene che non sono un allineato al sistema, anzi al contrario ogni giorno lotto per i miei diritti e quelli dei miei compagni e contro una pena di morte viva che di civile e di costituzionale ha ben poco. Intorno alla galassia carcere molto spesso vengono rilasciate esternazioni create deliberatamente per far perdere l’orientamento della razionalità e dell’analisi. Mi riferisco in particolare a quanto recentemente dichiarato dai delegati dell’Osservatorio Carceri Sardegna". "Sia chiaro che, come in ogni carcere d’Italia, anche in questo le criticità non mancano ma sono di tipo strutturale. La nostra vita non è certo facile ma non si possono sempre scaricare tutti i problemi sui Direttori o sui Comandanti o sugli Agenti che ogni giorno insieme agli oltre 60mila detenuti italiani cercano di affrontare condizioni non facili e lo fanno con diligenza e dignità per rendere meno afflittiva la detenzione. Non servono polemiche ma sarebbe necessario - conclude Dell’Anna - l’avvio di un rinnovato dialogo tra l’Osservatorio e la Direzione in un clima di costruttivo e cordiale confronto". "In carcere da 20 anni, Dell’Anna è un esempio inequivocabile di una riuscita rieducazione detentiva che però - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - non è stata apprezzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che, nonostante alcuni encomi, lo ha trasferito a Nuoro da Spoleto impedendogli di continuare gli studi e allontanandolo dalla famiglia". Televisione: oggi a "Telecamere" (Rai 3) il ministro Orlando parla di riforma e di carceri Ansa, 4 maggio 2014 Il sistema carcerario italiano e la riforma della giustizia saranno i temi al centro della puntata di Telecamere in onda oggi su Rai3 alle 10.45 e alle 24.10. Il 28 maggio prossimo scade infatti il termine che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha concesso all’Italia per dimostrare di essere un Paese che sa amministrare le pene e che risolverà il problema del sovraffollamento delle carceri. Altrimenti per lo Stato il rischio è quello di pagare ogni anno decine e decine di milioni di euro di multa. Come pensa il governo di fronteggiare questa emergenza, sia sotto l’aspetto economico, sia sotto quello dell’immagine dell’Italia in Europa, proprio alla vigilia del semestre europeo a guida italiana? Se ne parlerà con il ministro della giustizia, Andrea Orlando, ospite della trasmissione, mentre un ampio reportage dal carcere romano di Rebibbia documenterà le condizioni di vita dei detenuti. Nell’istituto penitenziario, poi, una ventina di reclusi, iscritti alla facoltà di giurisprudenza dell’Università la Sapienza, hanno dato vita ad un faccia a faccia con gli studenti universitari presenti ogni settimana nello studio di Telecamere. Televisione: domani a "I Fatti Vostri" (Rai 2) la vittima di errore giudiziario in Tailandia Ansa, 4 maggio 2014 La storia di un cittadino italiano, vittima di un errore giudiziario in Tailandia, sarà uno degli argomenti de "I Fatti Vostri", nella puntata in onda lunedì alle 11 su Rai2. Giancarlo Magalli intervista in studio Ferdinando Nardini. L’uomo, per motivi di lavoro, si era trasferito in Tailandia con la sua seconda moglie, una cittadina thailandese. Per una serie di vicende che spiegherà in diretta, è stato accusato di complicità in un delitto, di cui però si è sempre professato innocente. Ora, dopo il giudizio di secondo grado e due anni trascorsi in carcere, è tornato innocente in Italia. Guinea Equatoriale: la denuncia del Senatore Manconi "italiano detenuto ha la malaria" Ansa, 4 maggio 2014 "Roberto Berardi, l’imprenditore italiano detenuto da oltre un anno in Guinea Equatoriale in condizioni disumane, è affetto da malaria". È la denuncia del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani di Palazzo Madama. "Dopo l’incontro a Bruxelles del Presidente equato-guineano Obiang con il Vice Presidente della Commissione europea, Antonio Tajani dello scorso primo aprile - ha dichiarato Manconi - la situazione di Berardi sembrava avviata a soluzione. Ora è successo quel che si temeva, vale a dire un significativo e davvero preoccupante peggioramento delle condizioni di salute di Berardi, che ha contratto la malaria. Questo fatto rende ancora più urgente intensificare le iniziative messe in campo per riportare a casa il nostro connazionale il quale si trova da troppo tempo nelle carceri della Guinea Equatoriale a rischio della propria vita". Roberto Berardi, imprenditore di Latina di 49 anni, è stato arrestato in Guinea Equatoriale il 19 gennaio 2013.In affari con il figlio del presidente della Guinea, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi per truffa e appropriazione indebita. L’uomo è riuscito a mandare un video-shock della sua detenzione trasmesso dal Tg1, che mostra segni di frustate e percosse sulla schiena. Filippine: legale di Daniele Bosio "è in tragiche condizioni detenzione, l’Italia intervenga" Adnkronos, 4 maggio 2014 Recluso in una cella di 30 metri quadri insieme ad altre 90 persone "arrestate per ogni tipo di reato", senza servizi igienici e senza cibo (tranne quello che gli viene portato dai famigliari e da un amico), in condizioni ambientali estreme con la temperatura che supera i 40 gradi. E senza ora d’aria, l’unico contatto con il mondo esterno rappresentato da una minuscola finestrella: è la "situazione tragica" in cui si trova a vivere da quasi un mese Daniele Bosio, l’ex ambasciatore in Turkmenistan arrestato nelle Filippine con l’accusa di presunti abusi sui minori e violazione della legge che tutela i minori. Per questo motivo l’avvocato Elisabetta Busuito, legale di Bosio, rivolge "un appello allo Stato italiano. La vicenda di Bosio è kafkiana, è incarcerato - dice all’Adnkronos - nelle condizioni più rigide solo sulla base di un semplice sospetto mentre ci sono decine di testimonianze scritte che sottolineano il suo comportamento sempre ineccepibile". "In queste settimane Bosio ha perso 10 kg. Abbiamo scritto all’ambasciata nelle Filippine affinché si attivi sul caso di un cittadino italiano impegnato in attività umanitarie e di volontariato da 20 anni", aggiunge l’avv. Busuito. Sulla vicenda pende ora un possibile trasferimento del procedimento da Laguna a Manila, ma non è ancora stato chiarito quando sarà presa una decisione in merito. Nel frattempo Bosio "continua ad essere detenuto in quelle condizioni sulla base di accuse non verificate. È stato visto giocare in un luogo pubblico, un parco acquatico, con tre ragazzini, uno di 9 anni e due di 12. Questi ultimi sono stati ascoltati dalla polizia, se ci fossero stati abusi sarebbero stati loro stessi a formulare accuse in questo senso. Invece hanno solo detto che Bosio ha giocato con loro, ha dato loro da mangiare, li ha fatti lavare perché in caso contrario non li avrebbero fatti entrare al parco acquatico, dove poi sono stati visti. Sono ragazzi di strada che vivono nella miseria, Bosio si è solo prodigato per loro. Ed ora è detenuto in quelle condizioni". Stati Uniti: il Presidente Obama chiede indagine e revisione procedure per pena di morte di Ugo Caltagirone Ansa, 4 maggio 2014 Stavolta si è passato il segno. Alla Casa Bianca l’atroce fine di un condannato a morte dell’Oklahoma ha accelerato un processo che, seppur lentamente, era già in atto da tempo nell’amministrazione Obama: rivedere tutte le procedure che regolano l’attuazione delle pena capitale in America. Una revisione dei protocolli è partita da anni a livello federale e dal 2011 è in vigore una moratoria federale sulle esecuzioni, che i singoli stati sono liberi di accettare o meno. Ora l’indagine riguarderà tutti, stato per stato, e sarà condotta in ogni angolo del Paese in cui il boia è ancora attivo. Ben 32 stati Usa prevedono infatti la pena di morte, anche se in 15 dal 2010 si applica di fatto una moratoria. Ad annunciare la stretta il portavoce del Dipartimento alla giustizia, Brian Fallon, che ha spiegato come, su indicazione del presidente Barack Obama, gli ispettori federali faranno piena luce non solo sulle linee guida e le procedure seguite dalle autorità penitenziarie e sui mix letali di farmaci utilizzati dal boia, ma anche sul trattamento dei prigionieri - la maggioranza di colore - che si trovano nel braccio della morte. Con lo stesso Obama che ha più volte denunciato un fenomeno di discriminazione razziale anche per quel che riguarda le condanne. L’iniziativa di avviare un generale ripensamento su come oggi funziona la pena capitale negli Usa arriva del resto a poche ore dalle parole del presidente che, pur ribadendo il suo sostegno alla pena di morte per i crimini più efferati e odiosi (come l’uccisione di bambini o le stragi di massa) ha ammesso l’esistenza di gravi problemi da affrontare e risolvere. Problemi che - dopo lo shock della fallita esecuzione in Oklahoma - vanno affrontati senza più ritardi. Secondo alcuni autorevoli osservatori - si legge sui principali media Usa -, la decisione annunciata dal Dipartimento alla giustizia potrebbe essere un primo passo per un’offensiva di Obama che - nell’ultima parte del suo ultimo mandato presidenziale - potrebbe davvero spingere per avvicinare gli Usa agli altri Paesi occidentali, dove la pena di morte non esiste più da decenni. Dunque, se non abolirla, almeno "indebolire" il sistema, in un momento in cui sempre più stati Usa vi stanno ufficialmente o di fatto rinunciando. Ma le associazioni per la difesa dei diritti civili appaiono scettiche. Qualcosa può cambiare, ma la strada per allineare gli Stati Uniti all’Europa è ancora lunga. Grandissima parte degli elettori è ancora favorevole alla pena capitale (seppur meno che in passato). E lo è soprattutto negli Stati dove si registra il maggior numero di esecuzioni: dal Texas all’Oklahoma, dalla Florida all’Ohio, dalla Georgia all’Alabama. Qui non basta un "incidente", non basta l’atrocità di un detenuto morto dopo un’agonia di 43 lunghissimi minuti per far cambiare idea alla maggioranza delle persone e a chi ha responsabilità politiche. Ucraina: l’Osce conferma liberazione osservatori militari europei, soddisfazione tedeschi Agi, 4 maggio 2014 L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) ha confermato il rilascio dei sette osservatori militari europei, detenuti dallo scorso 25 aprile. "Gli osservatori militari sono stati liberati, ma non facciamo alcun commento se prima non arrivano in un luogo sicuro", ha detto la portavoce dell’Osce, Natacha Rajakovic. La liberazione degli osservatori da parte dei miliziani di Slavyansk, roccaforte della ribellione contro Kiev nell’est dell’Ucraina, è stata data dal leader separatista nella città di Slavyansk, Slovyansk Vyacheslav Ponomaryov, che ha tenuto a sottolineare come il gesto sia stato su base volontaria, senza condizioni e fatto coincidere con il suo compleanno. Quasi in contemporanea la liberazione è stata confermata anche da Vladimir Lukin, l’emissario speciale del presidente russo, Vladimir Putin. La missione, che viaggiava in autobus, era stata intercettata vicino all’ingresso a Slavyansk. Degli otto osservatori sequestrati, uno -lo svedese Thomas Johansson, sofferente di diabete- era stato successivamente liberato per motivi sanitari e perché la Svezia non è membro della Nato (i separatisti avevano accusato il gruppo di essere spie dell’Alleanza Atlantica). Non è chiaro esattamente chi sia stato rilasciato: Lukin ha parlato di 12 persone. Il gruppo era accompagnato da almeno un traduttore tedesco e da alcuni militari ucraini. Anche Luklin ha ringraziato per il gesto: "È stato un atto umanitario, di buona volontà di cui siamo molto grati ai padroni della città. Vorremmo -ha aggiunto- che fosse seguito da altri atti umanitari, tra cui la cessazione delle violenze"; e ha chiesto alle parti di sedersi al tavolo del negoziato. Berlino si felicita per la liberazione degli osservatori Osce I ministri degli Affari esteri e della Difesa tedeschi si sono detti "felici e sollevati" per la liberazione degli osservatori dell’Osce detenuti dai separatisti filo-russi a Slaviansk, nell’est dell’Ucraina. "Sono felice e sollevato di poter annunciare che la squadra di osservatori dell’Osce è libera", ha dichiarato il ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier, nel corso di una conferenza stampa congiunta con la collega della Difesa Ursula von der Leyen. "Sono soprattutto felice del fatto che siamo riusciti a liberare tutto il gruppo di osservatori, compresi i 4 cittadini ucraini", ha aggiunto Steinmeier. Von der Leyen ha sottolineato da parte sua che un aereo tedesco è attualmente in volo verso l’Ucraina per recuperare i sette uomini e riportarli a Berlino. "Se tutto andrà come previsto, dovranno arrivare questa sera tardi all’aeroporto militare di Tegel (Berlino), ha indicato il ministro della Difesa tedesco. I ministri della Difesa di Danimarca, Polonia e Repubblica Ceca saranno sul posto per accogliere i loro cittadini e riaccompagnarli nei rispettivi paesi. Il 25 aprile 12 osservatori Osce - tra cui 4 cittadini tedeschi, un polacco, un danese, un ceco, uno svedese (quest’ultimo liberato domenica scorsa perché malato di diabete) e quattro ucraini - erano stati catturati nell’est dell’Ucraina a maggioranza russofona dai separatisti filo-russi. Israele: decimo giorno di sciopero della fame per oltre cento detenuti palestinesi Nova, 4 maggio 2014 Oltre cento detenuti palestinesi delle carceri israeliane hanno iniziato oggi il loro decimo giorno di sciopero della fame, e tre sono stati ricoverati presso un centro medico a pochi chilometri da Tel Aviv. Lo ha reso noto la Palestinian prisoner’s society (Pps), un gruppo che promuove i diritti dei detenuti in Palestina. Oltre 120 detenuti palestinesi hanno già aderito allo sciopero della fame, per denunciare il loro arresto da parte delle autorità israeliane in assenza di un giusto processo, sostiene il gruppo. Stando a Pps, i detenuti che aderiscono alla protesta sono incarcerati presso i penitenziari israeliani di Negev, Ofer e Megiddo. Egitto: dietro le sbarre da 4 mesi, Peter e i reporter senza libertà di Cecilia Zecchinelli Corriere della Sera, 4 maggio 2014 "Buona giornata mondiale della libertà di stampa", ha augurato ieri il giudice Mohammad Nagy ai tre giornalisti in tuta bianca da carcerati chiusi in gabbia in un tribunale del Cairo. E poi: "Respingo la richiesta di libertà su cauzione, il processo è aggiornato al 15 maggio". Forse non si è reso conto di quanto fosse grottesco il suo augurio, il giudice Nagy. O magari sì, ma non cambia molto per il caso del trio diventato, tra i tanti in Egitto, il più celebre e seguito nel mondo anche per le nazionalità di due degli imputati. L’australiano Peter Greste, 48 anni, ex Bbc e Reuters, è l’inviato del canale in inglese di Al Jazeera arrestato il 29 dicembre in un hotel del Cairo con l’accusa di "diffusione di notizie false", "danni alla sicurezza nazionale", "sostegno ai terroristi" (i Fratelli musulmani). Gli stessi reati sono contestati ai suoi due colleghi della tv di Doha, come lui prigionieri nella famigerata prigione di Tora, nonché compagni di gabbia nelle sette inconcludenti udienze tenute finora: il producer egiziano Baher Mohamed e il più noto capo dell’ufficio del Cairo, il canadese- egiziano Mohamed Fahmy, già inviato di Cnn. I tre non sono certo gli unici ospiti a Tora (16 mila arresti dal golpe di luglio, tra cui i leader della Fratellanza e numerosi giornalisti, molti in attesa di processo e tanti che denunciano torture e abusi). Ma sono, in un certo senso, le star. "È un chiaro segnale che questa processo, un’immensa ingiustizia comunque vada a finire, avvenga il giorno della libertà di stampa", ha urlato ieri Peter Greste dalla gabbia. "Non potete avere una società libera senza che i media lo siano. In Egitto dovreste sapere che non ci può essere giustizia finché si può finire in cella come è successo a noi". Il collega Fahmy, autorizzato ad uscire dal recinto di ferro, ha invece tenuto una breve lezione di giornalismo, spiegando al giudice Nagy che "è normale per noi avere rapporti con tutte le parti politiche, con i Fratelli musulmani, i liberal, l’esercito. Anzi ho ottimi contatti proprio tra i militari e l’intelligence. È normale, è giornalismo, è il mio mestiere". È quello che ripetono dall’arresto dei tre, 126 giorni or sono, non solo Al Jazeera, di fatto bandita in Egitto per la sua vicinanza alla Fratellanza, ma tutti i grandi media internazionali, dalla Bbc all’Economist alla Cnn, che in gennaio avevano scritto una lettera aperta al presidente ad interim Adly Mansour chiedendo l’immediato rilascio dei tre, e di tutti i giornalisti in cella per le loro opinioni vere o spesso solo presunte. L’appello era stato firmato da pezzi grossi del giornalismo mondiale, a partire da Christiane Amanpour, e sostenuto da una miriade di organizzazioni e attivisti umanitari, da molti Paesi tra cui l’Australia e il Canada. Ma l’Egitto ormai tornato in mano all’esercito non ha prestato loro attenzione. Nè lo farà ora, a un mese dalle elezioni presidenziali che incoroneranno il generale Abdel Fattah Al Sisi nuovo raìs, con l’aperto sostegno di gran parte del Paese, dei sauditi e degli israeliani. E nell’indifferenza del resto del mondo nonostante la repressione sia sempre più dura contro ogni voce contraria al regime, a partire dai media. È anche l’involuzione in Egitto che ha portato la Ong americana Freedom House a denunciare ieri "il calo più grave da dieci anni per la libertà di stampa nel mondo". Nel suo rapporto 2014 si legge infatti che il declino globale è dovuto "all’importante arretramento in molti Paesi mediorientali, tra cui Egitto, Libia e Giordania, ai notevoli passi indietro della Turchia e dell’Ucraina, nonché al deterioramento di situazioni relativamente aperte come in Usa e Gran Bretagna". Complessivamente "solo una persona su sette vive oggi in un Paese dove la stampa è libera. Quasi la metà della popolazione vive invece in aree dove il lavoro dei giornalisti è ostacolato da leggi o pressioni politiche". Molti abitano invece in Stati con i media "parzialmente liberi", come l’Italia. Egitto: condannati a 10 anni di carcere ciascuno 102 attivisti dei Fratelli Musulmani Aki, 4 maggio 2014 Un tribunale in Egitto ha condannato a 10 anni di carcere 102 attivisti dei Fratelli Musulmani, il movimento messo al bando dalle autorità del Cairo al quale appartiene il deposto presidente Mohamed Morsi. Lo ha riferito la tv di Stato egiziana, precisando che gli imputati sono stati condannati per le violenze durante le proteste del luglio 2013. Altri due imputati sono stati condannati a sette anni di carcere. Pakistan: processo per blasfemia a Asia Bibi rinviato al 27 maggio, detenuta da più 4 anni Ansa, 4 maggio 2014 È stata fissata al 27 maggio la prima udienza del processo di appello davanti all’Alta Corte di Lahore ad Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte in Pakistan con l’accusa di blasfemia. Lo riferisce l’agenzia Fides che cita gli avvocati della difesa. La magistratura di Lahore ha rimandato quattro volte le udienze del processo di appello in quanto, come appreso da Fides, i giudici stessi, temendo rappresaglie dei gruppi islamici radicali, tendono a evitare la responsabilità di decidere su un caso così delicato e divenuto un simbolo. Asia Bibi si trova nel carcere femminile di Multan da oltre 4 anni e mezzo. "Nel caso di Asia Bibi, ogni ritardo o rinvio significa negare la giustizia", afferma in una nota inviata a Fides l’avvocato Mushtaq Gill, a capo dell’Ong Lead ("Legal Evangelical Association Development"), impegnata nella difesa dei cristiani pachistani. Stati Uniti: svolto annuale rodeo nel carcere di massima sicurezza di Angola, in Louisiana www.ilpost.it, 4 maggio 2014 Il fotografo di Associated Press Gerald Herbert ha raccontato in un reportage fotografico l’annuale rodeo nel carcere di Angola, in Louisiana, che si è tenuto il 26 e 27 aprile scorsi. Il rodeo, organizzato per la prima volta nel 1965, è arrivato alla sua 50esima edizione: si tiene nella più grande prigione di massima sicurezza degli Stati Uniti ed è il più antico a svolgersi in un carcere. I detenuti partecipano - molti dei quali sono condannati all’ergastolo per omicidio e altri crimini violenti - in cambio di premi. La manifestazione venne pensata inizialmente come una piccola occasione per svagare i detenuti, ma nel tempo è diventata un grosso evento, aperto a un pubblico di amici, familiari e semplici visitatori. Si svolge un weekend ad aprile e ogni domenica di ottobre, e ogni due anni viene organizzato anche un festival di arti e mestieri, con gli oggetti realizzati a mano dai detenuti.