Giustizia: ecco perché non c’è modernità senza garantismo di Piero Sansonetti Gli Altri, 3 maggio 2014 Può esistere il garantismo di sinistra? Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra. Tutto questo è successo molto, molto tempo fa. Soprattutto, naturalmente, quando la sinistra era all’opposizione, o addirittura era "ribelle", e quando i magistrati - qui in Italia - erano prevalentemente legati ai partiti politici conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo. Il grande limite del garantismo, in Italia - e il motivo vero per il quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra - sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee - di una convinzione assoluta - ma solo di una battaglia politica (questo, tranne pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del Partito Radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico - o giornalistico, o di pensiero - e la casta dei magistrati. Il "garantismo reale", diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura. Per questo il garantismo non riesce più ad essere un "valore generale" e dunque entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra - moderata, radicale, o estremista - che vede nella magistratura un baluardo contro il berlusconismo, e al "culto" di questo baluardo sacrifica ogni cosa. Tranne in casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico. Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano "transitoriamente" garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle proprie illegalità, non di difesa di tutta la società. Il garantismo può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le tradizionali distinzioni tra sinistra e destra. La sinistra e la destra - per dirla un pò grossolanamente - si dividono sulle grandi questioni sociali e sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra "legalità" e "diritto". Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra, tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto con le idee più reazionarie di Stato-Patria, Gerarchia-Ordine, Obbedienza-Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il solo limite della scarsa "passione" della sinistra per i diritti individuali, spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa. Ed è proprio in questa morsa tra destra e sinistra - tra statalismo di destra e di sinistra - che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà. Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, iper-capitalistica. Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro. E questa tendenza -che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino - passa per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il resto. L’idea è che moderno significhi "regolato", "predeterminato" e che per fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente, libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge, o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia "successiva" agli altri valori. Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista. E non ha nessuna possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro. È la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura reazionaria di sinistra dei girotondi. Giustizia: sostituire l’amnistia legale a quella clandestina che riguarda i ricchi e i potenti intervista al Radicale Marco Cappato a cura di Nanni Riccobono Gli Altri, 3 maggio 2014 Per fortuna ci sono i Radicali. Che magari hanno tanti difetti ma sono gli unici che in Italia hanno nel codice genetico il garantismo e la questione dei diritti individuali. Rita Bernardini si sta sottoponendo da settimane a uno sciopero della fame per richiamare l’attenzione sulla sentenza europea attesa per il 28 maggio che riguarda le condizioni in cui sono costretti a vivere i carcerati. Chiedono l’amnistia, e l’ha chiesta perfino Napolitano. "Eppure di fronte ad una situazione definita dalla Corte di Strasburgo come pratica di tortura nei confronti dei detenuti, a sinistra c’è ancora chi parla di Berlusconi che con l’amnistia non c’entra niente. Berlusconi è la loro ossessione, o forse, il loro alibi", dice Marco Cappato, con il quale parliamo con della possibilità del recupero a sinistra di valori portati avanti finora solo da loro. Il garantismo come valore può essere attribuito a uno specifico campo politico? Se guardiamo alla questione in termini teorici o politologici, è evidente che in una democrazia libera non ci sono nessuna destra e nessuna sinistra che possano o debbano avere delle resistenze esplicite contro il diritto delle garanzie: è un principio di natura individuale contro i poteri dello Stato. Ma se vogliamo stare agli schemi classici, forse potrebbe appartenere più a una destra liberale che alla sinistra. D’altra parte però c’è l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, un valore molto sentito a sinistra. Se poi invece guardiamo a come la giustizia si è radicata in Italia, allora non si può non vedere come elementi di irresponsabilità e arbitrarietà del potere giudiziario siano stati coltivati e apprezzati negli ultimi decenni soprattutto a sinistra. Ma questo giustizialismo a sinistra è da imputare solo all’anti berlusconismo? Evidentemente no, comincia già con Mani Pulite. Poi Berlusconi è diventato il nemico, ma la politicizzazione di alcuni poteri della magistratura sono stati funzionali a un disegno politico della sinistra italiana, e questo a prescindere da Berlusconi. Già negli anni Settanta, ai tempi degli anni di piombo, del sequestro Moro e così via, la cosiddetta "strategia della fermezza" e la disponibilità a sospendere la legalità democratica è stata una caratteristica del Pci che l’ha portata avanti con più ferocia rispetto alla Dc o qualsiasi altro partito. Berlusconi si è trovato a essere un ostacolo quando ha battuto Occhetto e la sua "gioiosa macchina da guerra". Lui stesso poi ha deciso di non spendere le sue risorse politiche per difendere l’idea di una giustizia giusta per tutti - e non semplicemente per se stesso - quindi per la sinistra alla fine è stato più un alibi che un ostacolo. È stato responsabile del fallimento dei referendum radicali degli anni Novanta sulla giustizia: prima da dichiarato ci avrebbe pensato lui e invece alla fine non ha fatto nulla, se non firmare sei mesi fa tutti i nostri referendum, che sono stati invece boicottati da Renzi, dal Pd e da tutti gli altri. La sinistra dunque, il Pci in particolare, al garantismo non ha mai tenuto. È così. Se penso al caso Tortora, ricordo che lì noi trovammo delle sponde sulla raccolta delle firme tra i socialisti, Claudio Martelli in particolare, mentre il Pci e l’editoria di sinistra erano ostili a quella battaglia, basta pensare a Repubblica, un giornale sempre nemico delle battaglie garantiste. E comunque da Mani Pulite in poi il Pci divise il campo tra i "buoni" e i "cattivi", i puri a sinistra e gli altri a destra, così l’idea che il sistema delle garanzie riguardasse ogni singolo individuo è andata a farsi benedire. Senza riflettere sul fatto che il non guardare al singolo è in perfetta continuità con ideologie totalitarie tra cui il corporativismo fascista. Quindi non ha senso parlare di un recupero del garantismo a sinistra, ma casomai della fondazione del principio garantista in quest’area.... Diciamo che i vertici del Pci hanno sempre pensato di poter usare per il proprio fine la politicizzazione del potere giudiziario e la sospensione di fatto delle garanzie processuali. E lo hanno fatto utilizzando i media, che si sono rivelati essere un elemento strategico potentissimo. Poi ovviamente anche a sinistra non sono mancate e non mancano personalità che al contrario si sono spese e si spendono per il garantismo in modo splendido. Eppure se la sinistra assumesse la questione del garantismo per ciò che in effetti è, e cioè la vera emergenza sociale dei nostri tempi, si riuscirebbe a portare la questione dei diritti individuali nell’alveo della battaglia egualitarista e a dargli nuova linfa e nuova forza. Che cosa significa esattamente? La sinistra dovrebbe avere più di altre forze politiche il compito di guardare alle grandi questioni sociali del Paese, a partire dai diseredati, da quelle che una volta si chiamavano masse popolari. La giustizia è la grande questione sociale perché è lì che la disparità sul piano economico causa una disparità sociale profonda, più che in altri settori del vivere civile, e questo è direttamente collegato all’urgenza della battaglia radicale sull’amnistia e i processi. Numero chiave sono i dieci milioni e oltre di procedimenti giudiziari pendenti. Tutti sanno che oggi chi dispone di avvocati di un certo livello e altri strumenti privilegiati, può prevalere sia sul piano penale che su quello civile, puntando sulle prescrizioni, sull’impianto almeno formalmente garantista della nostra giurisprudenza, per evitare il carcere. Basta vedere chi c’è, in carcere: tossici, immigrati, prostitute, autori di piccoli reati. Questa è la realtà sociale del carcere, la verità riferita ai processi. Anche sul piano civile: chi sono quelli stritolati dai fallimenti e dal recupero crediti? Le partite Iva, i piccoli imprenditori... Una grande azienda se ne frega dei contenziosi in sede civile. Questo è il senso della nostra battaglia per sostituire l’amnistia legale a quella clandestina che riguarda fondamentalmente i ricchi e i potenti che riescono quasi sempre ad accedere alla prescrizione. Giustizia: la riforma della custodia cautelare e il nodo dei "colletti bianchi" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2014 Il ministro Orlando fiducioso sull’ok imminente alla riforma, ma l’Anni lancia l’allarme per alcune criticità e per un nuovo illecito disciplinare . I detenuti in attesa di giudizio "diminuiscono" e rispetto al 2009 sono addirittura "la metà" (10mila), fa sapere il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ma governo e maggioranza continuano a considerare prioritaria la riforma della custodia cautelare, al punto che, secondo le previsioni del Guardasigilli, "nelle prossime settimane avremo un nuovo testo in vigore" con cui l’Italia "potrà risolvere il problema". La proposta di legge ribattezzata "stop alle manette" è già nel calendario di giugno dell’Aula della Camera e tuttavia la previsione del ministro potrebbe rivelarsi azzardata poiché il testo tornato a Montecitorio dal Senato (in teoria per il sì definitivo) contiene almeno tre criticità che allarmano magistrati come Giuseppe Pigliatone e l’Anm: per i reati dei colletti bianchi diventa di fatto inapplicabile, o comunque si riduce moltissimo, il ricorso al carcere preventivo e persino agli arresti domiciliari; in caso di ritardo nella trasmissione degli atti al Tribunale del riesame o nel deposito dell’ordinanza di custodia cautelare, scatta la responsabilità disciplinare delle toghe (punite con sanzione non inferiore alla censura) ma, soprattutto, decade la misura cautelare, che non può più essere rinnovata (salvo casi eccezionali); viene reintrodotta la "presunzione assoluta di adeguatezza" del carcere preventivo per il reato di associazione finalizzata al traffico di droga, sebbene la Consulta l’abbia cancellata nel 2011. Ce n’è abbastanza per dubitare che la riforma diventerà legge nelle prossime settimane. A questo punto, la decisione di confermare o modificare il testo diventa politica e impone un chiarimento nella maggioranza e con il governo. Due le linee di pensiero: o si approva il testo così com’è, rinviando le correzioni a un successivo intervento legislativo; oppure si procede alle modifiche e si rimanda l’articolato a Palazzo Madama. In questo secondo caso, però, occorre una larga maggioranza per la norma che cancella o riduce il ricorso al carcere e ai domiciliari per i colletti bianchi è stata votata da Camera e Senato nell’identico testo e quindi si è formata la cosiddetta "doppia conforme", superabile solo se c’è un accordo molto ampio. L’esame del testo è appena ripreso in commissione Giustizia, a Montecitorio dove, anche grazie al lavoro del Servizio studi, le tre questioni sono già sul tappeto. Anche i due relatori, Carlo Saitto (Fi) e Anna Rossomando (Pd) ne hanno parlato nella relazione, sia pure senza sbilanciarsi. Solo sul nuovo illecito disciplinare dei magistrati hanno fatto notare che la norma inserita dal Senato sembra "fuori materia" rispetto al provvedimento. Per l’Anm è una norma "molto pericolosa". Il presidente Rodolfo Sabelli, dopo aver ricordato che già oggi il comportamento negligente del magistrato costituisce illecito disciplinare, sostiene che la riforma "apre un varco ad automatismi", cioè ad accertamenti disciplinari su situazioni "che generalmente non dipendono dalla responsabilità del magistrato" ma da disfunzioni (una notifica non tempestiva, un ritardo nel-la nomina del difensore ecc.). "Molto pericolosi" anche gli effetti processuali della nuova norma. Il Codice prevede già che il Pm debba trasmettere gli atti al Tribunale del riesame entro 5 giorni e che la decisione debba intervenire entro 10 giorni dalla trasmissione. La riforma aggiunge un ulteriore termine di 30 giorni per il deposito dell’ordinanza, prorogabile fino a 45 giorni. In tutti e tre questi casi, il ritardo non solo fa scattare la responsabilità disciplinare del magistrato ma rende inefficace la misura cautelare, senza possibilità di rinnovarla. "Attualmente, l’inefficacia per motivi formali della misura cautelare non ne impedisce la rinnovazione - osserva Sabelli - mentre la riforma la esclude, "salvo eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate". Questo è pericoloso, perché basta una notifica sbagliata per sforare i termini e impedire di rinnovare la misura". Ma "molto pericolosa" è anche la norma che impedisce di ricorrere al carcere preventivo o agli arresti domiciliari se il giudice (in sede cautelare) ritiene, fra l’altro, "che all’esito del giudizio l’esecuzione della pena possa essere sospesa ai sensi dell’articolo 656, comma 5", se cioè prevede che sarà irrogata una pena non superiore a 3 anni. "Anzitutto la valutazione che si fa in sede cautelare è ontologicamente diversa da quella che si fa in sede di esecuzione della pena - osserva sempre Sabelli. Inoltre parliamo di 3 anni irrogati in concreto, anche se la pena edittale è più alta; il che impedirà al giudice di ricorrere al carcere preventivo e agli arresti domiciliari per reati di una certa gravità, tra cui quelli contro la pubblica amministrazione poiché l’esperienza dimostra che raramente la corruzione è punita con più di 3 anni". "Introdurre una norma che riduce la custodia cautelare per i colletti bianchi - conclude Sabelli - significa perseverare sulla scia del diritto penale d’autore stigmatizzato dalla Corte costituzionale". Giustizia: Orlando; contro sovraffollamento delle carceri più pene alternative e rimpatri Ansa, 3 maggio 2014 Per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri serve sviluppare una serie di misure: "pene alternative, rimpatrio di una parte dei detenuti nei Paesi d’origine, far sì che i tossicodipendenti scontino una parte della pena in comunità e riflettere se tutte le volte che un legislatore prevede la pena del carcere è strettamente necessaria proprio quella pena". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso del programma "La telefonata di Belpietro" su Canale 5. Poi, ha spiegato Orlando, "bisogna rendere più adeguato e razionale il nostro patrimonio immobiliare, le strutture detentive spesso sono fatiscenti". Ma il ministro non ritiene che la costruzione di nuovi istituto sia risolutiva. "Una volta costruite nuove carceri - ha rilevato - c’è la necessità di avere polizia penitenziaria, cosa che non è facile a causa di vincoli di bilancio, del blocco del turnover". Quanto ai detenuti in attesa giudizio, per Orlando "il Parlamento sta affrontando problema, mi auguro che nelle prossime settimane ci sarà un testo vigente, prima della pronuncia della Corte di Strasburgo". Il ministro ha infine ricordato che "i detenuti in attesa di giudizio nel 2009 erano 20mila ed oggi sono diventati 10mila". Lomoro (Pd): non ci sono le condizioni per un’amnistia La senatrice del Partito Democratico Doris Lomoro interviene sul tema delle carceri e, ai microfoni di radio radicale, dice: "farci carico di questo problema è un dovere antico". Poi la senatrice spiega perché fino ad oggi non si è trovata una soluzione: "Ogni volta che si discute del sovraffollamento carcerario ci sono partiti che agitano fantasmi incredibili". Ma la senatrice del Pd aggiunge: "Credo che oggi, anche nel Partito democratico, non ci siano le condizioni per approvare una soluzione che vada verso l’indulto o l’amnistia". Giustizia: Pannella; carceri e amnistia… con la Chiesa, finalmente dalla stessa parte intervista a cura di Ambrogio Crespi Il Tempo, 3 maggio 2014 Per Marco Pannella lo scorrere del tempo non esiste. Quando ci parli, alla vigilia del suo 84° compleanno (l’interessato, però, dice che entra nell’ottantacinquesimo) ti rendi conto che per lui esiste solo un eterno presente, che ingloba un passato fatto da oltre 55 anni di lotte non violente. Divorzio, aborto, smilitarizzazione della polizia e della guardia di finanza, lotta alla fame nel mondo, moratoria contro la pena di morte e tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità, nuovo codice del diritto di famiglia, legalizzazione delle droghe, antiproibizionismo su tutto, a cominciare dalla ricerca scientifica. E, soprattutto, la battaglia per la giustizia giusta, che negli anni 80 condivise con Enzo Tortora, l’icona della malagiustizia all’italiana a cui recentemente ho dedicato il mio docufilm "Enzo Tortora, una ferita italiana". Senza dimenticare la lotta per le carceri e i detenuti, per il rientro dell’Italia nella legalità europea e dell’Europa in quella internazionale. Il passato di Pannella, da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli al recentemente scomparso Sergio Stanzani, già presidente di "Non c’è pace senza giustizia", da Pier Paolo Pasolini ad Aldo Capitini, ideatore della marcia della pace, è come se fosse ancora tutto lì con lui. Un pantheon ideale che lui evoca e che riesce, parlando, a far materializzare davanti a ogni interlocutore. Poi, di colpo, irrompe il presente. Come quando racconta della parola magica - amnistia - sussurrata discretamente a Papa Francesco (perché poi quest’ultimo la ripeta "urbi et orbi"), durante la telefonata ricevuta in ospedale dopo l’operazione di qualche giorno fa. Tutto questo, "compresente" nei suoi discorsi oltre che nella sua memoria, è Marco Pannella. Un uomo di una cultura immensa che per comunicare il male oscuro della partitocrazia italiana cita Camus e "La peste" (che l’Italia sta diffondendo in Europa) o che, per ricordare quel che accade nella giustizia penale del nostro Paese, ricorda le parole della "colonna infame" di manzoniana memoria, proprio come a suo tempo faceva anche Enzo Tortora. Eppure questo grande uomo italiano - che loda il presidente Napolitano per il coraggio dimostrato nel messaggio alle Camere su giustizia, carceri e amnistia ("parola che nessuno nel Pd vuole pronunciare", sottolinea lui) - accetta ogni giorno di rimettere in discussione la sua leadership e lo stesso partito radicale, oggi "galassia", da lui fondato. Perché proprio in questi giorni un altro Senato, quello della galassia in questione, deve prendere gravi decisioni a proposito del proseguimento della lotta politica. "Non mi voglio candidare alle Europee - dice Pannella - e non farò di certo un’eccezione come qualcuno mi ha suggerito dopo la telefonata con Bergoglio, che per una volta ci ha regalato l’attenzione dei media. È inutile, per inseguire un improbabile 4 per cento, legittimare un regime criminale e pluripregiudicato nel non rispetto dei diritti umani". Il problema è che "la peste" si è già diffusa nel Vecchio Continente. "E ancora una volta è stato il nostro Paese, come già negli anni Trenta, a diffonderla". Come? Anche con gli eccessi di burocrazia "che hanno reso l’Europa non più un sogno ma un incubo". "Questa è la situazione di Cesare", come Pannella ama definire il potere dell’autorità statale e continentale. "Per fortuna che invece c’è Pietro", cioè il Papa. Il paradosso di uno stato con un sovrano assoluto ma illuminato, come Papa Francesco, che con un atto d’imperio abolisce l’ergastolo dopo che in passato un suo predecessore, Papa Woytyla, altro grande amico di Pannella ("mi cercava da quando era vescovo in Polonia", ricorda), allo stesso modo aveva abolito la pena di morte. Mentre in Italia l’ergastolo c’è ancora e la pena di morte è stata sostituita dalla morte per pena. Questo rinnovato - e ricambiato - amore del mondo cattolico verso il "diavolo Pannella" non è una novità: "Mai avrei vinto le battaglie su divorzio e aborto senza le nonne cattoliche che mi dicevano "legalizzaci Marco!". E proprio oggi che Pannella è in sciopero della fame, non più della sete, perché arrivi un segnale dalla politica (e da Renzi) sui provvedimenti chiesti da Napolitano sei mesi fa nel suo messaggio alle Camere, Pannella lancia un’altra delle proprie profezie. "Quando sostenevo che prima o poi si sarebbe dovuto legalizzare la marijuana - dice - mi rispondevano che volevo corrompere la gioventù, ma io adesso ti dico che il proibizionismo ha i giorni contati. Quattro o cinque anni... e tutte le droghe saranno legalizzate, perché i paesi del Sud e del Nord America vogliono provare una strada nuova. E fra due anni, a Vienna, magari faranno cambiare le convenzioni che risalgono al 1961. Quello sarà un gran giorno e non potrà opporsi neanche la Russia, che è l’ultimo ridotto del proibizionismo e di tutte le mafie, perché sarà la Cina a muoversi e a metterne in crisi la prepotenza che oggi né l’Europa né l’America riescono a contenere". Quante volte, da destra e da sinistra, sono stati costretti a dirgli "Marco, avevi ragione..."? Visti i precedenti, anche stavolta sarebbe il caso di non prenderlo troppo alla leggera. Auguri Marco. Giustizia: Viceministro Costa; nelle carceri situazione difficile per operatori e detenuti Agi, 3 maggio 2014 "La situazione delle carceri italiane è ben nota per la sua drammaticità che si riflette anche sulla qualità della vita non soltanto delle persone detenute ma anche degli operatori". È quanto ha affermato il viceministro della giustizia Enrico Costa, nel corso della visita effettuata nella mattinata della giornata dedicata alla tradizionale Festa dei Lavoratori, presso la Casa di Reclusione di Saluzzo (Cuneo). "Non una visita di cortesia ma la mia sincera vicinanza e quindi testimonianza di condivisione per un impegno costante che anche, il 1? maggio, - ha affermato Costa - le donne e gli uomini della polizia penitenziaria assicurano per garantire la legalità e la convivenza, insieme con gli altri operatori penitenziari, all’interno delle nostre carceri". Il Viceministro ha visitato i diversi padiglioni penitenziari, compreso quello nuovo in via di completamento, per il quale, però, si registra da alcuni mesi un blocco dei lavori che Costa ha definito "inaccettabile, posto che rischia di compromettere le opere svolte fino ad oggi, per le quali sono state spese ingenti risorse". Il nuovo padiglione infatti, praticamente quasi del tutto completato, potrebbe ospitare circa 200 persone detenute. Infine, Costa ha riservato attenzione alla tematica del lavoro nelle carceri, visitando il laboratorio di produzione di birra artigianale inserito all’interno della casa di reclusione. "È necessario - ha osservato il viceministro - impegnarsi a fondo affinché i detenuti siano messi in condizione di lavorare, apprendendo conoscenze tecniche e facendo esperienze che possano poi risultare utili per i momenti successivi alla detenzione. Solo così - ha concluso - si potrà ottenere un reinserimento in società e un consistente calo del rischio di recidiva. Ad oggi, siamo ancora molto indietro". Giustizia: Italia e Serbia al bivio del diritto (democratico) processuale europeo di Domenico Bilotti www.politicamentecorretto.com, 3 maggio 2014 Gli osservatori internazionali hanno puntualmente certificato un dato che non era sfuggito (seppure non con questa evidenza) a qualunque cittadino europeo che avesse semplicemente cercato di impegnarsi sui temi della giustizia continentale. Se si adotta, come parametro di una riflessione seria ed effettiva, la condizione delle carceri - nonché di almeno quel ramo del diritto che si chiama "dell’esecuzione penale", nel girone dei dannati troviamo la Serbia e l’Italia. È opportuno, certo, operare un minimo distinguo tra le due situazioni, che purtroppo scambiano le posizioni di legalità democratica e riconsegnano, in realtà in modo peggiorativo, la palma dell’inefficacia, dell’inefficienza e dell’ingiustizia al Belpaese. Tanto per cominciare, la popolazione penitenziaria italiana è ben più numerosa. Non solo, la strumentazione giuridico-parlamentare "nostrana" dovrebbe avere strumenti analitici e, addirittura, risolutivi più consolidati e meglio riferibili a una grande quantità di soggetti sottoposti a privazione della libertà personale, corrispondente a decine di migliaia di individui (con l’aggravante di quelli in attesa di giudizio, sono cifre che equivalgono a una città media di uno degli Stati dell’Europa Orientale). La legalità costituzionale serba, inoltre, è più recente: oltre alla storia demografica e culturale di quel popolo, infatti, di cui qua non si discute (anzi, va per quanto sommariamente ricordata), il sistema giuridico pubblico dello Stato in questione si forma, in modo ancorché precario, solo allo smembramento dell’ex Jugoslavia, in un percorso accidentato che dura sino a tutto l’ultimo quinquennio, con problemi di conflittualità sociale, di dichiarato accentramento politico nei frangenti di maggiore tensione interna. Insomma, se si vuole essere onesti, in un ambito di giustizia processuale e penitenziaria, un Paese che aveva, o ha, l’ambizione di mettersi alla stessa stregua dei grandi pionieri liberal-democratici europei, non può sentirsi troppo soddisfatto di essere finito alla pari o quasi di uno Stato di recente formazione e che non registra, nemmeno legislativamente, una peculiare evoluzione sul terreno dei diritti umani. E già questo dovrebbe chiudere i conti con le false consolazioni del "non è detto che siamo i peggiori". La via maestra all’Italia, per riportarsi dentro un parametro di legalità comunitaria-internazionale (e, se ciò sembrasse poco, come a volte sembra, per onorare un minimo di giustizia sostanziale), è stata indicata dal Presidente della Repubblica, suggerita strutturalmente dalla stessa Corte di Strasburgo e non scoraggiata, ma addirittura incentivata, da due Pontefici: amnistia e indulto. Il governo nemmeno ci pensa; interviene sulle carceri con ridottissimi provvedimenti disorganici e che creano difficoltà interpretative, persino nella mera quantificazione e qualificazione dei beneficiari, e si pronuncia, soprattutto nella sua componente a Sinistra (cioè, quella che giurava di farsi carico dell’innovazione, del riformismo, del grande cambiamento, della ripartenza economica e civile), contro ogni ipotesi di clemenza, addirittura bollata come inutile o approssimativa o deficitaria o, peggio, "errore da non ripetere" (e quando recentemente era stato compiuto? Ci torneremo). Il vero padre e pioniere dell’europeismo politico, nel quadro del costituzionalismo post-bellico, è Altiero Spinelli. Con Ernesto Rossi, di cui troppo spesso si ricorda solo l’anticlericalismo -ma che anticlericalismo! documentato, intuitivo e non in disprezzo della libertà religiosa, autore del Manifesto di Ventotene. Lo scopo: un’Europa libera e unita. Lo scenario della redazione (prima, ovviamente, della preziosa cucitura sistematica di Colorni): un confino politico. Il sogno europeo nasce, o almeno rinasce, dalle macerie della privazione della libertà politica. Dove c’è un forte regolamento interno che si sfida con la clandestinità. La detenzione e il confino specchio del Paese: ordine e corporativismo, unica alternativa "sediziosa" il cambiamento attraverso discussioni, aperture sovversive con dialogo, impegno e studio, dichiarazioni di opposizione. La speranza e il progetto di un’Europa federale hanno profondamente bisogno di ripartire dalle sofferenze estreme e distruttive, patite dai suoi fautori: rilanciarsi attraverso la libertà, la decarcerizzazione, la depenalizzazione, la garanzia dell’esercizio dei diritti di libertà. Colorni, Rossi e Spinelli ne fanno manifesto esistenziale: sulla loro pelle e nella loro esperienza, la federazione degli Stati Uniti d’Europa significa massimizzazione dei diritti di libertà, organizzazione efficace antiautoritaria e anticentralistica. Rispetto della legge penale che deve coincidere con la sua natura residuale, scritta, espressa, limitata. Altrimenti, il fallimento interno allo Stato nazionale sarà, in prospettiva, cancro che può contraddittoriamente posizionarsi anche a danno del progetto unitario: se quella violenza cancerogena non viene estirpata coi metodi autentici e nonviolenti dell’armonizzazione e dell’amicizia tra i popoli, può diffondersi e, contemporaneamente, consumare da dentro quello Stato e quel popolo. La situazione italiana è a questo disagevole guado e ricordare l’indulto Mastella in nulla aiuta quanti vogliono continuare a tenere, sotto il secchio di fango, il gigante malato dai piedi d’argilla: quell’indulto non fu compiuto proprio per le ragioni opposte a quelle che si ricordano nella "vulgata" di una democrazia "reale". Innanzitutto, non fu integrato da un provvedimento di amnistia: non fu elevatissima la percentuale di detenuti che ne beneficiarono concretamente in sede di "output" dagli istituti di pena, processi inconcludenti sul filone della pena principale furono comunque celebrati, la tregua ai numeri infernali e al sovraffollamento fu solo temporanea. In seconda battuta, vi fu qualche errore nella selezione nella griglia dei reati integranti l’applicabilità oggettiva: i reati bagatellari potevano e dovevano essere al centro di un dichiarato programma di depenalizzazione e, forse, poteva essere più utile evitare che l’indulto fungesse, anche se secondariamente e marginalmente, da salvacondotto per qualche furbetto del reato "bianco". Ancora: ma quanto poco si è detto, quanto poco è realmente entrato nella sfera conoscitiva dell’opinione pubblica, sui numeri della recidiva degli indultati, competitivi e, anzi, apertamente inferiori rispetto al trend medio garantito dal nostro sistema penitenziario? La domanda, a questo punto, è legittima: che c’entra invocare un nuovo indulto, la tanto reclamata amnistia, una riforma complessiva ed economica dei diritti processuali e un quadro di depenalizzazioni, funzionali ad esigenze umanitarie, di spesa e di coerenza giudiziaria interna alla legalità costituzionale, col riferimento ai grandi obiettivi del federalismo europeo, fatto a pezzi dalle opzioni di chi vuole un’Europa di contenimenti di spesa o, all’opposto, un’Europa di Nazioni sul piede di guerra e protezionistiche? Il riferimento è, innanzitutto, al monito ormai quasi irrecuperabilmente in scadenza giuntoci da Strasburgo; e si rimanda anche ai rapporti sulla detenzione degli Stati "virtuosi", che dovrebbero suggerirci buone prassi (non solo le aste per le auto blu). E ricordiamo, quasi simbolicamente, la condizione di sofferenza e privazione di quegli intellettuali che, dalle gole infami della prevenzione penale, malamente interpretata dallo stato di polizia, seppero scrivere un’agenda di obiettivi e sogni per un Continente macilento, quasi quanto quello attuale. Giustizia: il Codice dei briganti e quello dei galantuomini (o impropriamente ritenuti tali) di Livio Pepino Il Manifesto, 3 maggio 2014 Silvio Berlusconi non è certo il primo uomo politico del Belpaese ad essere stato condannato per gravi reati e neppure il primo a scontare la pena nella forma dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Ricordo a memoria: Mario Tanassi, Pietro Longo, Franco Nicolazzi, Arnaldo Forlani, Francesco De Lorenzo, Cesare Previti e via elencando. Ci fu addirittura un periodo - a cavallo del nuovo millennio - in cui i Tribunali di sorveglianza di Milano e Torino e la Corte di cassazione arrivarono a ridisegnare i contenuti e i limiti della misura dell’affidamento in prova per i "colletti bianchi", riscrivendo un istituto originariamente pensato per tutt’altra categoria di condannati. E, sul punto, decine furono i commenti e le precisazioni sulle riviste giuridiche. Ma mai era accaduto che l’esecuzione di una pena si trasformasse in un assist per il rilancio politico del condannato e in una dimostrazione scolastica del ripristino di una giustizia tanto forte (e talora spietata) con i deboli quanto debole con i forti. Intendiamoci. Non amo il carcere per nessuno. Di più, trovo civile che le pene medio-brevi (e i residui di pena di tale entità) siano scontate con modalità diverse dal carcere. Per tutti. E, a maggior ragione, per chi è segnato dagli anni. Dunque non auspicavo e non auspico il carcere neppure per l’ex cavaliere di Arcore. E ciò, pur non dimenticando che, nel caso specifico, la condanna da scontare riguarda non un fatto contingente e limitato ma una evasione fiscale di ben 13,9 milioni di euro (6,6 nel 2001, 4,9 nel 2002, 2,4 nel 2003) programmata ed organizzata negli anni, effettuata coinvolgendo quasi tutti i più stretti collaboratori. Poco meno di 14 milioni di euro pari al danno provocato alle parti offese dall’insieme di quasi tutti gli attuali detenuti per furto nelle prigioni italiane. Nonostante questo non auspicavo il carcere. Ma ridurre la misura alternativa dell’affidamento in prova a una attività volontaria (sic!) "di animazione" (come scritto nell’ordinanza di concessione) di quattro ore settimanali in favore degli ospiti di un istituto per anziani è a dir poco offensivo, oltre che per i destinatari dell’animazione sottoposti (essi sì) a una prova di pesantezza inaudita, per la collettività vittima dell’evasione milionaria, per chi crede nella legalità, la pratica e la insegna ai propri figli o ai propri studenti, per chi è dimenticato in carcere in esecuzione di condanne per fatti assai più modesti. Ed è anche lontano le mille miglia da una interpretazione razionale del sistema delle pene e delle misure alternative. Non si trattava di chiedere al condannato eccellente ammissioni esplicite di responsabilità né dichiarazioni di pentimento o pubbliche scuse. Più semplicemente si trattava di tradurre in prescrizioni concrete e coerenti l’affermazione - ribadita in sentenze del 1987, 1988 e 1998 della Corte costituzionale e della Corte di cassazione - che le misure alternative alla detenzione (e, tra esse, l’affidamento in prova) "hanno la natura di vere e proprie sanzioni penali" e richiedono, dunque, prescrizioni caratterizzate da un significativo tasso di afflittività tale da costituire controspinta a ulteriori condotte delittuose (unico intervento rieducativo possibile nei confronti di persone normo-inserite nella società). Né sarebbe stato difficile individuarle, quelle prescrizioni: basti pensare a prestazioni quotidiane e a titolo gratuito dirette a contribuire, con un lavoro negli uffici competenti, al recupero di imposte evase, di spese di giustizia o quant’altro. Nulla, invece, di tutto questo né altre significative prescrizioni (al di fuori di quelle di routine) sino al punto di consentire al condannato eccellente movimenti ed esternazioni inibiti a tutti gli altri affidati in prova, costretti a chiedere l’autorizzazione finanche per recarsi a una visita medica fuori dal comune di residenza e talora addirittura a seguire itinerari prestabiliti per recarsi al lavoro. In tutta la mia (lunga) attività giudiziaria non avevo mai visto una cosa del genere. È evidente - anche da molti altri segnali - che si sta chiudendo, per la giustizia, una stagione. E si chiude nel peggiore dei modi, all’insegna del ripristino di due codici diversi: uno per i briganti e uno per i galantuomini (o impropriamente ritenuti tali). Giustizia: l’appello di Micromega e gli orfani del "delinquente patentato" di Marco Bascetta Il Manifesto, 3 maggio 2014 Il linguaggio è dei più triviali, l’immagine, che raffigura fianco a fianco due pupazzi, l’uno con il volto di Berlusconi l’altro con quello di un maiale, rasenta l’oscenità. Si parla di "luridi tornaconti", di "delinquente patentato" di "lordatore della scena pubblica". Non si tratta del volantino compilato da una combriccola di avvinazzati, ma di un appello che conta tra i primi firmatari un gruppo di intellettuali "democratici" discretamente conosciuti. E che reclama la galera senza se e senza ma per l’ex cavaliere. Perché mai coloro che nutrono una cieca fede nell’infallibilità della magistratura intendono sostituirglisi o condizionarne le decisioni, facendosi portavoce di un "intero popolo insultato"? Chiamare a raccolta i cittadini intorno al sinistro entusiasmo per la punizione del reprobo? Il fatto è che l’antiberlusconismo (non il legittimo conflitto con le politiche liberiste del suo governo) ha coinciso con una delle espressioni più miserevoli della storia politica italiana. Ci ha recato la squisita prosa di Marco Travaglio, l’arte melodrammatica di Michele Santoro, tanti palloncini viola e naturalmente le mobilitazioni di massa trascinate da Micromega. Un così solido contenuto di pensiero, del resto, non è mai riuscito a sconfiggere politicamente il suo antagonista, affidandosi a quella magistratura che oggi sente il bisogno di bacchettare. Il problema è che l’antiberlusconismo non essendo che una avversione (e non un pensiero politico di rottura con la dottrina del mercato, del "paese-azienda" e dell’"imprenditore di se stesso") rischia di scomparire insieme allo spauracchio del "delinquente patentato" di cui si nutre. Trovandosi nella necessità di rianimarlo anche quando annaspa. Ma c’è un aspetto decisamente più inquietante. L’accanimento nei confronti di Silvio Berlusconi (il cui tramonto politico fortemente ci auguriamo) ha l’effetto di accreditare la "serietà" di quel Nuovo centro destra che fa parte della maggioranza parlamentare di Matteo Renzi. Così vengono salutati con soddisfazione e compiacimento i voltagabbana e gli opportunisti, fino a ieri compiti cortigiani, ciambellani e giullari alla corte di re Silvio, se non sue esclusive creature, che abbandonano il vascello alla deriva di Forza Italia in nome della "responsabilità". Se il principe di Arcore avesse letto con attenzione quel che Machiavelli scriveva degli eserciti mercenari forse si sarebbe meglio guardato le spalle. Questa compagnia di ventura, con patente di rispettabilità borghese, annuncia ora la Repubblica delle lunghe intese. Col Grande Corruttore in galera la marcia trionfale della "democrazia riformista" sarebbe definitivamente garantita. Giustizia: seimila euro al mese di pensione per il detenuto Cuffaro di Antonio Fraschilla e Emanuele Lauria La Repubblica, 3 maggio 2014 L'Ars continua a versare il vitalizio all'ex governatore siciliano in carcere per mafia: il decreto Monti taglia le pensioni solo a chi ha compiuto reati contro la pubblica amministrazione. Senza tanto clamore da tre anni riceve il vitalizio, come molti ex deputati dell'Assemblea regionale. Nonostante lui sia un ex particolare, quantomeno. Il suo nome è Salvatore Cuffaro, governatore potentissimo della Sicilia per otto lunghi anni, in carcere a Roma dal gennaio 2011 per scontare una condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia. Dall'aprile di tre anni fa l'amministrazione di Palazzo dei Normanni versa il vitalizio a Cuffaro, un assegno da circa 6 mila euro lordi al mese, perché non esiste alcune norma, nazionale o regionale, che preveda lo stop al vitalizio per ex deputati agli arresti. E la "pensione" di Cuffaro non sarà intaccata nemmeno dal regolamento appena approvato da Sala d'Ercole, che accoglie nell'Isola del tesoro le norme imposte dal decreto Monti sui costi della politica. Norme che prevedono la "sospensione del vitalizio per chi è condannato per reati contro la pubblica amministrazione con pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici". Il caso dell'ex governatore ha creato qualche scompiglio tra i dirigenti di Palazzo dei Normanni, che dopo l'approvazione del regolamento Monti si sono posti la domanda: "Che facciamo con Cuffaro?". Si scopre, infatti, che tre anni fa l'ex governatore, attraverso i suoi legali, ha fatto richiesta di poter accedere al vitalizio. Ottenendolo senza colpo ferire. Burocraticamente, la sua è una storia intricata. Dopo le dimissioni da presidente della Regione, nell'aprile 2008 Cuffaro viene eletto al Senato e rimane in carica a Palazzo Madama fino al febbraio del 2011, quando decade per la condanna definitiva. L'Ars, dal 2008 al gennaio 2011, sospende qualsiasi emolumento proprio perché Cuffaro è senatore. Una volta decaduto da Palazzo Madama, l'ex governatore fa quindi richiesta per il vitalizio dell'Assemblea regionale, nonostante abbia appena 53 anni: le munifiche norme di Palazzo dei Normanni consentivano fino al 2012 agli ex deputati di andare in pensione anche a 50 anni se con oltre tre legislature alle spalle. Proprio il caso di Cuffaro, che quindi ottiene l'assegno, versato dall'Ars in un conto gestito da un procuratore da lui nominato in attesa di scontare la pena. Ai funzionari dell'Assemblea è però venuto il dubbio se sospendere o meno il vitalizio all'ex governatore dopo l'approvazione a Sala d'Ercole del regolamento che recepisce il decreto Monti. Ma il dubbio è durato pochi minuti. Perché il decreto è chiaro: la sospensione scatta solo per reati contro la pubblica amministrazione con previsione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Non per altri reati, come il favoreggiamento alla mafia. Le regole per avere la pensione sono comunque cambiate per gli attuali deputati dell'Ars, per lo meno sul fronte dell'età anagrafica. Il regolamento in vigore, appena pubblicato sul sito dell'Assemblea, prevede che il primo assegno pensionistico scatti al compimento dei 65 anni di età "a condizione di aver svolto un periodo effettivo di mandato per almeno 5 anni". Ma rimane aperta la porta a un piccolo escamotage: "Per ogni anno di permanenza all'Ars oltre i cinque anni della prima legislatura, l'età richiesta per il conseguimento del diritto alla pensione è diminuita di un anno, con il limite all'età di 60 anni". In sintesi, con due legislature e dieci anni di contributi, la pensione (che comunque è calcolata con il metodo contributivo e non è più un vitalizio) scatta anche a 60 anni, contro i 65 dei comuni mortali. L’appello di Micromega: "Silvio subito in galera" "La libertà di Berlusconi è un’indecenza", il "delinquente patentato" deve andare "in galera o in stringenti domiciliari che gli inibiscano radicalmente la scena pubblica, che invece continua impunemente a lordare". Questo in sintesi l’appello lanciato ieri dalla rivista Micromega, firmato dal direttore Flores d’Arcais, da don Aldo Antonelli, Roberta de Monticelli, Giorgio Parisi e Adriano Prosperi (questi ultimi schierati con la lista L’Altra Europa con Tsipras) e in poche ore sottoscritto da 3mila persone. "Non revocare" al leader di Fi l’affidamento ai servizi sociali "diventa ora un affronto alla legge eguale per tutti", dice il testo. Che ha provocato una pirotecnica levata di scudi dei forzisti. Lettere: un affettuoso sorriso e un augurio di buon compleanno a Marco Pannella di Carmelo Musumeci (Ergastolano in carcere a Padova) Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2014 Il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue carceri e dalle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e le scuole non saranno carceri, allora quel giorno avrà raggiunto la misura più alta che la democrazia può raggiungere. (Giuseppe Ferraro). Marco, abbiamo saputo con preoccupazione e partecipazione del tuo ricovero all’ospedale nel reparto di terapia intensiva e del tuo intervento di ricostruzione dell’aorta addominale. Abbiamo anche letto e ascoltato dai mass media i numerosi messaggi degli esponenti della politica, a partire dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. E molti di noi hanno sorriso amaramente, perché quando ti affannavi sulla tua richiesta di amnistia e indulto, che possa riportare la legalità nelle nostre Patrie Galere, nessuno invece ti ha mai veramente ascoltato. Eppure molti di loro sanno che le nostre carceri sono luoghi di violenze e di abusi istituzionali. Sanno che viviamo in modo non umano, come topi dietro le sbarre. E in questo modo le persone in carcere non possono che peggiorare, perché sono circondati e sommersi da una cultura e mentalità ostile, arrogante, ingiusta. E spesso ci trattano come cani ciechi e scemi in un canile. E ci impediscono persino di abbaiare alla luna e per un cane abbaiare alla luna è tutto. Marco, tu ben sai che, come se questo non bastasse, spesso nelle carceri italiane, vengono premiati i detenuti peggiori, quelli furbi, quelli che strisciano, che non criticano, che non dissentono, che subiscono in silenzio, quelli che sono sempre d’accordo con il potere, quelli che, insomma vegetano. I detenuti che tentano di vivere, che vogliono studiare, lavorare, creare e pensare, sono visti come ribelli. Ci sono anche però i detenuti che lottano e protestano individualmente (e quando capita l’occasione anche collettivamente) tutti i giorni, poiché è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità. Io sono uno di quelli che ha deciso di non arrendersi perché in carcere come nella vita sono perse di sicuro le battaglie che non si combattono. D’altronde io non rischio più nulla, posso solo continuare a perdere e quando uno ha perso tutto (sono condannato all’ergastolo a vita) questo è il guaio minore. Però tutti i detenuti che lottano, io per primo, abbiamo bisogno che tu continui a vivere perché sei l’unico faro di luce delle carceri italiane. Adesso però c’interessa di più la tua salute e ti auguriamo di tornare presto a gridare per noi, per continuare a darci voce, luce e affetto. In nome di tutta la popolazione carceraria ti mando un affettuoso sorriso fra le sbarre. E un augurio dal cuore di buon compleanno. Napoli: dramma a Poggioreale, ennesimo suicidio in cella di Claudia Procentese Il Mattino, 3 maggio 2014 Un 51enne si impicca con il lenzuolo. Sos delle associazioni: solo 4 psichiatri su 2.200 reclusi Chi lo ha visto prima di morire non ha notato in lui alcun stato di angoscia. Qualche ora dopo i suoi compagni di cella lo hanno trovato impiccato in bagno, soffocato dalle lenzuola strette al collo, mentre tutti gli altri erano fuori stanza per l’ora d’aria. Antonio Spizuoco, 51 anni, era a Poggioreale da appena 15 giorni, dopo il suo fermo alla guida di un tir che trasportava un grosso quantitativo di cocaina. A terra, vicino al cadavere, un quotidiano che riportava la notizia del suo arresto. Sarà adesso l’esame autoptico a dare maggiori dettagli sull’episodio di giovedì mattina, mentre è del 19 febbraio scorso il suicidio di Angelo Amuso, 33 anni, toltosi la vita asfissiandosi con il gas. "Quando si verifica una morte in cella, si cristallizza la scena - spiega Domenico De Benedictis, responsabile campano Uil-Pa Penitenziari - i detenuti di quella stanza vengono ascoltati ed assegnati ad altre celle, fino a nuovo ordine del magistrato. Vengono, poi, fatti accertamenti a livello sia investigativo che scientifico. Le indagini si svolgono a 360 gradi, non si tralascia nulla. Fatto sta che nel caso di suicidi, non sempre c’è un campanello di allarme che avverte dell’insano gesto". Su circa 2.200 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1.400 posti, ci sono 750 poliziotti. E soprattutto soltanto 4 psichiatri, di cui uno a tempo pieno, una psicologa dell’Asl e una dozzina di psicologi per il servizio nuovi giunti. "Le forze di cui dispone Poggioreale si disperdono di fronte ad una popolazione carceraria che è il doppio di quella prevista dalla legge -sottolinea De Benedictis. Siamo carenti di figure professionali che possano intercettare in tempo il disagio psichico. Nonostante i nostri sforzi per segnalare i detenuti "sospetti" a psicologi ed educatori, nonostante i colloqui preventivi con gli ispettori ed i direttori di reparto, non possiamo prevedere come e quando può esplodere ciò che cova in un’anima travagliata". Perché spesso a scatenare il dramma represso contro se stessi è lo stesso effetto criminogeno della pena che non rieduca. "Dall’inizio dell’anno - conferma Mario Barone di Antigone Campania - sono morti nelle carcere italiane 47 detenuti, di cui 14 per suicidio. Sarà eventualmente la Procura della Repubblica a chiarire le ragioni di questo ulteriore decesso avvenuto a Poggioreale. Una cosa è certa: per quanto il numero complessivo dei detenuti a Poggioreale sia diminuito negli ultimi mesi, rimane un istituto sovrappopolato e in cui i detenuti stanno in cella 22 ore su 24. In queste condizioni, è ancor più difficile la fondamentale opera di prevenzione del suicidio portata avanti dagli operatori penitenziari". Il padiglione Milano, teatro del suicidio di giovedì, ospita poco meno di 300 persone. È uno di quelli ristrutturati una decina di anni fa, quindi con i piani chiusi, sorvegliati da 7 agenti per turno di mattina, 6 di pomeriggio e 6 di notte. "Nel primo decennio degli anni 2000 - aggiunge Barone - i detenuti suicidi in Italia sono stati circa 570, mentre nel decennio 1960-70 sono stati un centinaio, con una popolazione detenuta che era circa la metà dell’attuale. Il tasso di frequenza dei suicidi è aumentato. La spiegazione si rinviene nella normativa che, ad oggi, produce carcerazione: le carceri sono prevalentemente popolate da immigrati, tossicodipendenti e disagiati psichici, cioè soggetti già portatori di fragilità". Un disagio espresso dai numerosi casi di autolesionismo messi in atto dai reclusi in segno di protesta, dal taglio con il rasoio all’ingestione di sostanze pericolose. "I tasselli della tragedia Poggioreale sono tanti - commenta Riccardo Polidoro, presidente di Carcere Possibile Onlus. Il primo è abbandonare la dignità, e chi non arriva al suicidio dietro quelle sbarre, si ammala per come ci vive. Si fanno sempre le cose a metà: l’amnistia o l’indulto senza le riforme, o al contrario. Manca sempre un pezzo perché la politica deve accontentare tutti". Cambia il direttore sanitario: "Non è una rimozione" "Non una rimozione, ma una sostituzione nell’ottica di un normale avvicendamento deciso già prima di Natale". Con queste parole Antonella Guida, direttore sanitario Asl Napoli 1 Centro, spiegala nomina di Bruno Di Benedetto a nuovo direttore sanitario del carcere di Poggioreale. Un cambio che era nell’aria da mesi, in un momento critico per il penitenziario partenopeo soprattutto nell’ambito della cura dei detenuti. L’obiettivo è quello di favorire il processo di aziendalizza-zione del sistema penitenziario, dopo che nel 2008 tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dap sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale. "Con questo cambio non si vuole di certo sminuire il lavoro svolto finora egregiamente dal dottor Mingione - ci tiene a precisare Guida, nessuna critica può essergli fatta per professionalità e qualità dell’assistenza, ma occorreva un aggiornamento della visione generale che metta a maggior profitto il servizio. Insomma, un modo per tirare il meglio dalle poche risorse che abbiamo a disposizione". Nessun collegamento, dunque, con il recente annuncio di trasferimento della direttrice del carcere Teresa Abate. Procedura di mobilità avviata dal Dap, con l’invito ad indicare un’altra sede nel giro di dieci giorni, che in queste ore, all’interno del carcere di Poggioreale, ha portato ad una petizione spontanea in suo sostegno. Una raccolta di firme, indirizzata al ministro della Giustizia e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, partita come segno di solidarietà per chi ha diretto l’istituto negli ultimi due anni. "Nostro impegno è quello di tendere alla distrettualizzazione dell’azienda - aggiunge Guida, cioè legarla quanto più possibile al territorio. Il nuovo direttore sanitario, le cui ore settimanali passeranno da 18a28, ha esperienza sia in ambito penitenziario che dirigenziale". A sostituire Luigi Mingione, infatti, che ora rientra a Poggioreale in funzione di medico incaricato, da ieri è subentrato Di Benedetto, 74anni, già direttore sanitario dell’Asl Caserta 2 (il cui mandato ha previsto anche la gestione del carcere di Santa Maria Capua Vetere), con specializzazione in igiene e sanità pubblica. "La criticità sanitaria di questo carcere - spiega Di Benedetto, da 4 anni a Poggioreale - non è solo connessa al sovraffollamento e alla carenza di personale, ma deriva anche, ad esempio, dal mancato adeguamento strutturale per ospitare nuove attrezzature elettromedicali". Deficit di un edificio di inizio 900. "A Poggioreale fino a pochi anni fa esisteva esclusivamente il ministero della Giustizia a gestione autonoma - continua il nuovo direttore sanitario, con indubbi doveri di controllo e sicurezza. Oggi le cose sono cambiate, eppure resta sempre una casa circondariale che si riempie di continuo. Si parla più o meno di 4-500 nuovi detenuti ogni mese, con un turn-over di 8-9mila all’anno. Nostro difficile compito è quello di dare una più efficace organizzazione quotidiana". L’allarme arriva anche dal dirigente anestesista Vittoriano L’Abbate. "C’è una situazione di stallo che perdura ormai da circa 6 anni - la denuncia - in merito alla chiusura della sala operatoria del centro clinico, a causa del completamento dell’impianto di climatizzazione, per competenze che si scaricano vicendevolmente la direzione dell’Asl Na 1 Centro e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Alla fine i detenuti risultano cittadini di serie B dovendo aspettare più di un anno per essere operati in altre strutture ospedaliere". Comunicato del’Associazione "Il carcere Possibile Onlus" Un detenuto di 51 anni si è impiccato nel padiglione "Milano", era in carcere da soli 10 giorni. Il 19 febbraio scorso si era tolto la vita, con il gas, un uomo di 31 anni. I detenuti morti dall’inizio dell’anno sono 47, tra questi 14 si sono suicidati. Altri 3 suicidi vi sono stati tra gli agenti di Polizia Penitenziaria. Si allunga il macabro elenco dei decessi. Governo e Parlamento intanto sono sordi alle richieste di amnistia e indulto che provengono da autorevoli fonti. Dal Papa, dal Capo dello Stato, da addetti ai lavori, che conoscono veramente i problemi quotidiani della Giustizia: il sovraffollamento delle carceri, il sovrannumero di fascicoli processuali che ingolfano inutilmente le aule dei Tribunali, perché avviati alla prescrizione. In questo paradossale contesto, in cui nessuno vuole prendersi la paternità di provvedimenti di clemenza, certamente ingiusti, quanto impopolari, soprattutto alla vigilia di un importante appuntamento elettorale, non si comprende che lo Stato la partita della Giustizia l’ha già persa, da tempo. L’Italia, che è stata condannata più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per le condizioni disumane in cui vivono i detenuti, che è costretta a risarcimenti milionari per la lunghezza dei processi, si deve arrendere e cambiare rotta, o, se si preferisce "cambiare verso", come direbbe il neo-presidente del consiglio. In questa resa, dovuta a inefficienze e responsabilità del passato, provvedimenti iniqui come l’amnistia e l’indulto sono inevitabili se davvero si vogliono avviare le riforme che, altrimenti s’innesteranno in un sistema già morto che le contagerà Il 28 maggio 2014, termine fissato dalla Corte Europea, per risolvere il problema del sovraffollamento nelle nostre carceri, è vicinissimo e non si vede nulla di concreto all’orizzonte. Si spera probabilmente in un rinvio, con un atteggiamento tipico della Giustizia italiana, spesso non condiviso dai nostri partner. Le morti nelle carceri, però, non attendono. Inesorabili arrivano, trovando facile strada in un contesto che è il peggiore d’Europa. Di questo malessere, che trova linfa vitale nella costante violazione dei principi costituzionali e delle norme dell’Ordinamento Penitenziario, l’Istituto di Poggioreale è il simbolo da tutti riconosciuto. Capienza tollerabile 1.300 detenuti. Ne ospita circa 2.800. Struttura fatiscente, con dodici padiglioni, alcuni dei quali con mura che trasudano umidità. Celle anche con 12, 14, 16 detenuti, che contemporaneamente non riescono a stare in piedi, ma devono alternarsi sui letti a castello, che giungono anche a quattro livelli. Prive di docce, con wc e lavabo a vista, dove si cucina. Si resta in cella l’intera giornata, solo con un’ora d’aria la mattina e una il pomeriggio. Visita medica all’ingresso in istituto, manca una frequenza di visite di controllo. Un educatore ogni 400 detenuti. Liste di attesa di mesi anche per interventi sanitari urgentissimi. I rapporti con la famiglia penalizzati dalla mancanza di spazio. Un colloquio a settimana in una grande stanza dove i detenuti, a venti alla volta, parlano o meglio urlano i loro affetti e le loro esigenze ai parenti, reduci da ore di fila in strada sin dall’alba. Una sola cucina per circa 3.000 pasti. Il cibo è immangiabile e si è costretti a preparare in cella quanto acquistato allo spaccio, spesso a prezzi superiori a quelli praticati all’esterno. In questo totale abbrutimento del corpo e della mente, i detenuti di Poggioreale, nel piangere l’ennesimo suicidio, attendono il nuovo direttore, sarà un uomo o una donna ? Non interessa! È importante che abbia la bacchetta magica. Avv. Riccardo Polidoro, Presidente "Il Carcere Possibile Onlus Cagliari: Riformatori Sardi; non chiudere la scuola di Polizia penitenziaria di Monastir Adnkronos, 3 maggio 2014 "La Regione Sardegna deve fare tutto quanto è in suo potere per evitare la chiusura della Scuola di Polizia Penitenziaria di Monastir (Cagliari) che lo Stato vorrebbe trasformare in un centro di accoglienza per emigrati e richiedenti asilo". Lo dice Michele Cossa, coordinatore regionale dei Riformatori sardi, che sulla questione ha presentato un’interrogazione al presidente della Regione sarda, Francesco Pigliaru. "Il progetto di chiusura - prosegue Cossa - desta molta preoccupazione negli amministratori locali per le ripercussioni sull’ordine e la sicurezza che una tale decisione potrebbe creare nel comune ospitante e dintorni, anche in considerazione del fatto che nella zona sono presenti numerose aziende industriali, commerciali e agricole, oltre il complesso di San Gemiliano a Sestu che si trova ad appena due chilometri dalla struttura in questione". L’Istituto ha svolto, per decenni, spiega Cossa "un eccellente lavoro nella formazione di migliaia di agenti penitenziari, le organizzazioni di categoria regionali del Comparto Sicurezza e Ministeri si dicono fortemente contrariate per la soppressione della Scuola per agenti di Polizia penitenziaria". Ecco perché, conclude il coordinatore regionale dei Riformatori sardi, "chiediamo alla Giunta di agire sul governo affinché venga tutelata la Scuola di formazione degli agenti di polizia penitenziaria". Bari: ex detenuti, nel Comune di Corato la "seconda possibilità" dal verde pubblico www.coratolive.it, 3 maggio 2014 Ha l’eloquente nome di "Verde speranza" il progetto studiato dal Comune di Corato per il reinserimento sociale di "soggetti fuoriusciti dal circuito penale". L’idea del settore servizi sociali è quella di offrire a soggetti svantaggiati quali gli ex detenuti e le persone sottoposte alla sorveglianza speciale, la possibilità di essere reinseriti nella società attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità come la salvaguardia del verde pubblico, di immobili e beni di proprietà comunale, il monitoraggio del decoro ed in generale cura della città. La realizzazione del progetto consentirà quindi ai soggetti che hanno avuto disguidi con la giustizia di rendere un servizio al territorio ed alla cittadinanza, ricevendo una piccola gratifica economica. "L’esperienza detentiva - si legge nelle premesse del progetto - influenza la vita futura del detenuto da un punto di vista "personale" e "materiale". Il soggetto transitato nel circuito penale, infatti, la cui concezione di sé è stata messa ripetutamente alla prova attraverso i meccanismi di potere che regolano l’esistenza del detenuto, manifesta un alto grado di diffidenza nei confronti delle relazioni interpersonali. Inoltre, le difficoltà che un ex-detenuto incontra al momento della liberazione sono da ricondurre allo stigma sociale implicato nell’aver scontato la sanzione detentiva. Tale stigma sociale comporta di fatto anche l’esclusione dal mondo del lavoro. Spesso gli ex-detenuti ricercano in attività illegali le proprie fonti di sostentamento, determinando così il circolo vizioso che porta ad un aumento delle attività criminose e ad un conseguente aumento dei costi sociali per la collettività. Il fine pena determina solo la fine della condanna, quella che si sconta in carcere o in misura alternativa, ma successivamente quali sono le prospettive per un ex detenuto? L’inserimento sociale mediante assegnazione di un impegno lavorativo potrebbe rappresentare una prima chance di inclusione socio-economica a favore degli ex detenuti . L’esigenza di realizzare un progetto di inclusione sociale a favore dei soggetti suddetti, nasce dall’osservazione della realtà occupazionale del territorio locale, che non è in grado di dare risposte concrete in termini occupazionali soprattutto ai soggetti ancora coinvolti o transitati nel circuito penale, la cui spendibilità ed appetibilità della forza lavoro offerta è minima, data la mancanza di preparazione professionale". Le persone interessate sono gli ex detenuti (che hanno già scontato una pena e non sono trascorsi cinque anni dalla data del rilascio) ed i soggetti sottoposti alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (da almeno cinque anni) di età compresa tra i 18 e 65 anni. Sarà indetto un avviso pubblico per la presentazione delle domande e verrà quindi stilato un elenco dei richiedenti dal quale saranno estratti mediante sorteggio pubblico i soggetti da impegnare nelle attività previste dal progetto. Il sorteggio pubblico sarà effettuato nei limiti delle esigenze del servizio e delle corrispondenti risorse finanziarie. Il costo totale del progetto si aggira intorno ai 30mila euro, tutti a carico del bilancio comunale, e sarà impegnato con un successivo atto dirigenziale. Il Comune affiderà "in house" queste risorse all’Asipu, azienda attraverso la quale lavoreranno le persone inserite nel progetto. Terni: vertice sul carcere… il Sottosegretario Bocci: "Andrò a verificare di persona" di Marco Torricelli www.umbria24.it, 3 maggio 2014 Centoquaranta ne sono già arrivati e almeno altrettanti sono attesi entro la fine del mese di maggio. Il totale del numero dei detenuti nel carcere di Sabbione, a Terni, supererà così le 550 unità. Ma oltre al numero, a preoccupare chi ci lavora è la connotazione che il carcere sta assumendo. A spiegarlo, venerdì mattina, al Sottosegretario Giampiero Bocci, al Senatore Gianluca Rossi, al presidente della Provincia, Feliciano Poli e al sindaco, Leopoldo Di Girolamo, sono stati i rappresentanti sindacali del personale: "La popolazione carceraria - hanno denunciato - non sta solo aumentando a dismisura (gli operatori carcerari sono circa 200, perché una cinquantina, considerati in organico, sono di fatto distaccati presso altre realtà; ndr), ma si sta anche modificando nella composizione, con il calo di detenuti comuni e l’incremento, considerevole, di detenuti sottoposti a regimi specifici". I nuovi detenuti, infatti, "appartengono a categorie specifiche, come quelle che prevedono il regime del così detto 41-bis e di Alta sicurezza, essendo persone riconosciute come organiche ad associazioni come la camorra o la ‘ndrangheta". E questo, hanno ricordato i sindacalisti, "presuppone l’innalzamento del livello di attenzione, non solo all’interno del carcere, ma anche all’esterno, per la frequente abitudine dei nuclei familiari dei detenuti di trasferirsi nelle zone limitrofe al luogo nel quale il loro parente è ristretto". Il sottosegretario Giampiero Bocci, mentre gli venivano spiegate queste cose, ha preso accordi - via sms - con il prefetto Bellesini ed ha poi annunciato che "la prima cosa che si farà sarà una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza, la settimana prossima, allargato alle delegazioni sindacali, mentre noi - ha detto rivolgendosi al senatore Gianluca Ross, prenderemo contatti con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), al quale chiederemo che si metta subito mano ad un piano che porti ad una ridistribuzione dei detenuti, alleggerendo la situazione ternana". Altra iniziativa annunciata da Giampiero Bocci è quella di "una visita al carcere ternano, che conto di fare al più presto (lo scorso anno di una visita analoga era stato protagonista lo stesso Rossi, insieme ad altri parlamentari del Pd; ndr) al fine di rendermi conto di persona di quale sia la situazione". Un particolare importante, ha messo in evidenza Bocci, è rappresentato dal fatto che "le amministrazioni locali hanno purtroppo poca voce in capitolo, e spesso non ce l’ha nemmeno il ministero, sulle decisioni che assume il Dap". Fatto, questo, confermato dal sindaco: "Le nostre iniziative - ha detto Di Girolamo - devono essere calibrate in funzione delle scelte fatte altrove, ma il fatto che la ‘vivibilità’ della città, in relazione alle presenze giustamente segnalate dal personale carcerario, sia comunque elevata, ci incoraggia e ci dimostra che le misure adottate hanno dato risultati positivi". Ovvio, ha chiarito il sindaco, "che è indispensabile elevare il livello attenzione ed a questo proposito non possiamo che essere grati al senatore Gianluca Rossi che da tempo è impegnato in un’opera di sensibilizzazione in parlamento". Brescia: Tintiglia (Idv); quella del carcere di Canton Mombello è una realtà intollerabile www.quibrescia.it, 3 maggio 2014 Dati europei che riflettono la situazione a Brescia. Secondo quanto dichiarato di una nota stampa di Italia dei Valori, "il Consiglio d’Europa, che sovrintende alla difesa dei diritti umani, è tornato a bacchettare lo Stato italiano sulle condizioni delle nostre carceri, che continuano ad essere le più sovraffollate d’Europa". "La situazione italiana è la peggiore dei 28 paesi dell’Ue - ha dichiarato il segretario regionale Idv Carmelo Tindiglia - mentre fra i 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa solo in Serbia il sovraffollamento è maggiore". "Il nostro paese ha sempre affrontato tale questione con provvedimenti vergognosi quali indulto e amnistia, senza affrontare in modo serio il problema ma limitandosi a rimandarlo per qualche tempo. Così come bisogna garantire condizioni di detenzione nel rispetto dei diritti e della dignità umana, è altrettanto necessario garantire la certezza della pena. Costruzione di nuove strutture carcerarie associata a forme di pena alternative alla detenzione per reati minori, misure peraltro già applicate, sono interventi che non possono più essere rimandati". "I dati europei descrivono perfettamente le condizioni in cui versano le strutture bresciane. Già in passato l’Idv aveva sollevato la questione degli standard di vivibilità della Casa circondariale cittadina di Canton Mombello". "La disattenzione della politica verso un adeguato rilancio dell’edilizia carceraria, che tra l’altro ha visto l’esclusione di Brescia dal piano carceri nazionale, è intollerabile. Le risorse ci sono e potrebbero aumentare se solo si facesse ricorso agli immensi patrimoni confiscati alla mafia". "Anche per questo - ha concluso Tindiglia - il nostro impegno nella raccolta firme a sostegno di questa proposta di legge popolare prosegue e proprio a Brescia saremo presenti con i nostri banchetti nel prossimo week end". Velletri (Rm): trasferiti in altre carceri i detenuti coinvolti nella maxi rissa di giovedì www.lanotiziaoggi.it, 3 maggio 2014 I detenuti che giovedì sera si sono resi partecipi della rissa avvenuta presso il carcere di Velletri e che hanno ferito due agenti Penitenziari, un Sovrintendente ed un assistente Capo, i quali hanno riportato traumi con prognosi di 10 giorni, sono stati allontanati dall’Istituto di Velletri per essere trasferiti in altri istituti romani. I detenuti coinvolti, circa 25, per alcune ore hanno innescato risse interne ai reparti detentivi oltre ad incendiare alcune celle. Solo l’intervento del personale in servizio ha fatto si che fosse riportata e garantita la sicurezza all’interno dell’Istituto. I detenuti presenti nei 14 istituti della Regione Lazio, compreso quello di Velletri, risultano essere 6.777 di cui 465 donne (1.939 in più rispetto ai 4.838 posti disponibili). Pur continuando a diminuire i detenuti nelle carceri italiane il dato per la Regione Lazio è in controtendenza, seppur di poco, rispetto a quanto fornito dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), aggiornato al 31 Marzo 2014. Sovraffollamento che comunque continua a risultare elevato rispetto al dato nazionale dei detenuti reclusi nei 205 Istituti Penitenziari, 60.197 contro una capienza regolamentare di 48.309. Per la Fns-Cisl Lazio occorre intervenire , affinché, detenuti che si rendono partecipi di tali azioni siano puniti non solo disciplinarmente ma anche con pene detentive più severe rispetto a quelle previste attualmente. Parma: Gerardo Colombo incontra i detenuti di Via Burla: "Ii carcere non serve a nulla" www.parmaquotidiano.info, 3 maggio 2014 Martedì 6 maggio sarà a Parma Gherardo Colombo, noto ex magistrato, che ha indagato su molti misteri italiani. Parteciperà a due incontri. Dalle ore 13 alle 15 sarà nel carcere di Via Burla, dove parlerà del suo ultimo libro con i detenuti che partecipano al progetto "Etica sociale e legalità. Laboratorio narrativo", gestito dalla Coop Sirio e dalla Fondazione Mario Tommasini. Dalle 16,45 sarà presso l’Aula dei Filosofi della Facoltà di Giurisprudenza, in strada Dell’Università, per la presentazione pubblica del suo libro. Il libro "Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla", è uno dei testi di riferimento del laboratorio condotto da Giuseppe La Pietra, responsabile dell’Area formazione della Sirio. L’incontro nell’Aula dei Filosofi è organizzato in collaborazione con l’Unione Degli Universitari di Parma, che insieme alla Sirio coordinano le attività universitarie di alcuni studenti detenuti universitari. L’iniziativa è inoltre realizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Parma. Torino: il progetto "Parol-Scrittura e Arti nelle carceri, oltre i confini, oltre le mura" Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2014 Il Progetto europeo "Parol-Scrittura e Arti nelle carceri, oltre i confini, oltre le mura" lentamente prende sempre più forma. Dopo il percorso di lettura ad alta voce e quello di scrittura creativa, di Haibun-Renga-Renku appena iniziato, dopo il saggio di lettura ad alta voce del 23 gennaio 2014 nel teatro interno del carcere di Saluzzo aperto per l’occasione alla cittadinanza (nel carcere di Torino bisognerà aspettare settembre, in quanto il teatro è momentaneamente inagibile per lavori di ristrutturazione), sono state fissate le date di inizio di "Good Morning Poesia" e dei "Racconti d’Oltremura". Per i Racconti d’Oltremura non abbiamo avuto purtroppo l’autorizzazione ad aprirli anche al pubblico esterno. In effetti avrebbe comportato un carico eccessivo di lavoro e di attenzione da parte degli agenti penitenziari. I detenuti sono comunque entusiasti e non vedono l’ora di iniziare le due attività. Abbiamo preparto le locandine da appendere in diversi luoghi del carcere per avvisare i detenuti di ogni padiglione. Diverse locandine incollate su più scatole saranno collocate presso punti strategici del carcere per la raccolta di testi e poesie che i detenuti (ma anche gli agenti penitenziari) vorrebbero far recapitare al gruppo Parol per la lettura ad alta voce. Good Morning Poesia è stato attivato nell’agosto del 2013 nel carcere di Dendermonde in Belgio. Nella primavera del 2012 era stato attivato presso il liceo Segre di Torino. Non è una iniziativa facile. Occorre molta costanza e assunzione di responsabilità per riuscire a tenerla in vita puntualmente ogni settimana sempre alla stessa ora. Non so se gli studenti del Segrè hanno continuato a leggere poesie nell’atrio della scuola nell’orario in cui gli studenti si accingono ad entrare, o se riprenderanno nei prossimi mesi. Good Morning Poesia prevede uno scambio di testi e poesie fra i detenuti dei paesi coinvolti nel progetto Parol e anche con gli studenti che hanno attivato l’iniziativa nel proprio istituto. Libri: "Lenta cavalca nel tempo la prossima ora", con gli scritti dei detenuti di Rebibbia di Angela Telesca www.romatoday.it, 3 maggio 2014 "Lenta cavalca nel tempo la prossima ora" è un libro scritto dai detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia e curato da Cecilia Bernabei e Adele Costanzo (edito da L’Erudita). "In questo lento trascorrere delle ore, le giornate sempre uguali, vissute dietro abitudini e regole, ho camminato tra sogni e desideri". La presentazione sarà l’occasione per affrontare il tema dell’educazione scolastica all’interno degli Istituti di Detenzione con l’On. Valeria Baglio. Lenta cavalca nel tempo la prossima ora: è questo il titolo, preso da uno dei componimenti della raccolta, che le curatrici hanno voluto dare al volume che raccoglie testi scritti dai detenuti di Rebibbia frequentanti la sezione carceraria dell’Istituto di Istruzione Superiore Von Neumann di Roma. Il senso primario di questa raccolta antologica sta nella modalità con cui essa è nata, nella naturalezza e nella spontaneità con la quale i detenuti hanno affidato alla loro insegnante di italiano, Cecilia Bernabei, i loro scritti personali, parole per i familiari, spesso mai dette, pensieri fugaci o frutto di notti insonni, diventati parola scritta su fogli spesso improvvisati, su pezzi di quaderno o sul retro di una fotocopia. Il carattere d’immediatezza contraddistingue tutti i brani. Le curatrici hanno voluto lasciare intatta la sostanza del messaggio che ogni testo racchiude e la spontaneità di sentimenti nascosti consegnati direttamente alla scrittura senza intermediazioni. "Le tematiche, seppur diverse, hanno tutte, come elemento comune, il tempo: quel tempo che si dilata e diventa spazio, voglia di valicare i confini dell’aula attraverso la forza della parola". (Dalla Prefazione a cura di C. Bernabei). Il tempo che, srotolandosi in maniera insopportabilmente lenta, con la sua indiscutibile autorità e ripetitività conduce chi si trova in condizione di reclusione inesorabilmente dentro i suoi impaludamenti, nella sua immobilità e nelle improvvise e inarrestabili virate indietro nel passato. Tempo come attesa, come memoria e rimpianto e come presente popolato non solo da sofferenza e privazione, ma anche da opportunità da cogliere al volo. Tra il senso del dolore e della perdita, ecco che va colto e accolto il valore della solidarietà nel volto amico e partecipe dei volontari e, soprattutto, il valore della cultura, cui viene affidata la speranza dell’acquisizione di uno sguardo diverso e, quindi, di un possibile riscatto, di una possibilità di ritornare al "mondo libero", forse non migliori, ma uomini. Parte del ricavato editoriale sarà destinato all’ Associazione Telefono Viola contro gli abusi e le violenze psichiche. Interverranno: Adele Costanzo, direttore Editoriale ChiPiuNeArt, curatrice dell’antologia e docente del Istituto "R. Rossellini"; Maria Teresa Marano, Dirigente Scolastico dell’Istituto Rossellini; On. Valeria Baglio, Presidente della Commissione Politiche educative e Scolastiche del Comune di Roma Cecilia Bernabei, docente dell’Istituto Von Neumann, sez. carceraria presso la Casa Circondariale di Rebibbia e curatrice dell’antologia. Letture e accompagnamento musicale a cura degli studenti dell’Istituto Cine-Tv "Roberto Rossellini "Niente internet, niente e-mail, niente telefonini, niente sms, niente filtri. Fogli, penne, quaderni, qualche libro, fotocopie, parole, sguardi, rapporti umani. Il tempo trascorso a scuola diventa denso e carico di significati che vanno ben oltre la didattica, esattamente come nelle scuole "fuori", ma con la differenza che, alla fine dell’orario scolastico, per gli alunni, lo spazio resta il medesimo. Dentro le mura del carcere si svolge tutta la vita". (Dalla Prefazione a cura di C. Bernabei). Stati Uniti: prima dell’esecuzione utilizzato taser su un detenuto che si era anche ferito Ansa, 3 maggio 2014 Clayton Lockett, il detenuto vittima dell’esecuzione shock in Oklahoma, è stato colpito con il taser dal personale del carcere il giorno in cui è stato giustiziato e prima dell’alba si era auto-procurato ferite da taglio al braccio. Lo affermano le autorità carcerarie dell’Oklahoma citato dai media statunitensi. Nel corso dell’esecuzione, il personale medico ha avuto difficoltà a trovare una vena adatta per iniettare i farmaci letali, e ha dovuto utilizzare la zona inguinale di Lockett; che era condannato a morte per aver ucciso una ragazza di 19 anni nel 1999. Mentre il boia iniettava il mix di veleni, una vena si è rotta e l’uomo è morto di infarto dopo 43 minuti di agonia. Dopo l’esecuzione, che anche la Casa Bianca ha definito disumana, il direttore del Dipartimento di Correzione, Robert Patton, ha deciso di rimandare a tempo indeterminato l’esecuzione di un altro detenuto condannato a morte, Charles Warner, che doveva essere giustiziato poche ore dopo Lockett.