Giustizia: fine dell’ora d’aria…. perché le galere italiane se la meritano, la condanna di Cristina Giudici Il Foglio, 27 maggio 2014 Un anno dopo (oggi) la sentenza Torreggiani. L’ottimismo del Dap e un dossier dei Radicali che lo smentisce. Ai piani alti dell’Amministrazione penitenziaria, dove si attende con un po’ d’ansia il giudizio del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, previsto per il 4 giugno, si ribadisce che l’Italia riuscirà a evitare l’esecuzione della sentenza pilota Torreggiani per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta la tortura. Oggi, 27 maggio, scade infatti la proroga concessa al governo italiano dalla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, per risolvere la grave questione penitenziaria. Eppure, nonostante l’ottimismo di facciata, l’Italia meriterebbe di essere condannata. Senza se e senza ma. Perché se i numeri sono scesi - i detenuti ora sono 59 mila grazie ad alcuni provvedimenti legislativi approvati per favorire le misure alternative al carcere, un minor ricorso alla custodia cautelare e una politica penitenziaria deflattiva degli istituti di pena più sovraffollati - le condizioni delle patrie galere non sono nel frattempo migliorate. O almeno, non al punto da soddisfare le richieste contenute nel severo monito della Cedu, definito dal capo dello stato, Giorgio Napolitano, "mortificante". Lo sostiene un dossier preparato dai Radicali italiani - il Foglio lo ha consultato in anteprima - inviato a Strasburgo per dimostrare la non congruità della road map di riforme messe in atto dal governo italiano dal giorno in cui fu emessa la condanna: l’8 gennaio del 2013. Sono 54 pagine redatte dalla segretaria dei Radicali italiani, Rita Bernardini, in cui si spiegano in modo dettagliato le condizioni ancora disumane delle carceri italiane. Innanzitutto i numeri. Secondo i vertici del Dap, è sufficiente aver ridimensionato il sovraffollamento e garantito i 3-4 metri quadri di spazio vitale (nel resto dei paesi dell’Eurozona lo spazio è però di circa 7 metri quadri) a ciascun detenuto, per impedire alla Corte europea di rendere esecutiva la condanna, che prevede l’esame di tutti i ricorsi dei detenuti arrivati a Strasburgo, circa quattromila. Eppure basta leggere la sentenza Torreggiani per capire che le richieste non sono state esaudite. Nel libro dei sogni della Cedu, ogni detenuto avrebbe diritto a una cella singola, condizioni igieniche e sanitarie adeguate, diritto alla luce naturale, possibilità di stare all’esterno di una cella almeno per 8 ore al giorno, un percorso formativo e un lavoro. Così non è, perché la maggior parte degli istituti di pena sono ancora fatiscenti e degradati. "Le condizioni delle carceri sono diffusamente inaccettabili", spiega il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, al Foglio, "ma sono stati approvati alcuni provvedimenti, come per esempio la legge per aumentare la concessione degli arresti domiciliari o l’attenuazione della legge Giovanardi-Fini, che potrebbero indurre il comitato dei ministri europei a dare una valutazione positiva sull’operato del governo italiano. Anche perché il giudizio sarà complessivo, con uno sguardo al futuro, non solo focalizzato sulla situazione attuale". Quindi, se le misure prese contengono un embrione per garantire un graduale miglioramento del sistema penitenziario, la sentenza Torreggiani potrebbe non diventare esecutiva. Di conseguenza tutti i ricorsi dei detenuti giunti a Strasburgo non verranno esaminati. Eppure molte promesse, necessarie per modificare lo stato vessatorio e iniquo della detenzione in Italia, non sono state realizzate. L’apertura delle celle almeno 8 ore al giorno in tutte le sezioni di media sicurezza? Un miraggio. In media è stato attuato solo nel 10 per cento dei 205 istituti di pena. Nel resto delle carceri, i blindati rimangono chiusi in celle ancora sovraffollate: in alcuni casi 22 ore su 24, come accade per esempio nel peggior carcere d’Europa, a Poggioreale; 18 ore invece negli istituti gestiti con maggior "flessibilità", da direttori più sensibili, bontà loro. La sorveglianza cosiddetta "dinamica", concetto introdotto dalla riforma penitenziaria in corso per indurre gli agenti penitenziari a superare la prassi "sorvegliare e punire" in vista di un ruolo più (ri)educativo? Applicato a macchia di leopardo, solo in alcuni istituti. Anche perché la sorveglianza dinamica può essere utile solo se dalle celle aperte, o meglio semi-aperte: si esce non solo per un fabbisogno standard di ossigeno, bensì anche per studiare, partecipare ad attività e lavorare. Purtroppo, anche per mancanza di fondi, il lavoro dietro le sbarre è un privilegio (e merce di scambio) concesso solo a 14.456 detenuti. "In base ai dati aggiornati al 31 dicembre 2013 lavoravano in carcere 14.546 detenuti, il 23,26 per cento della popolazione detenuta. Tra questi, 12.268 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 2.278 per datori di lavoro esterni", si legge nel memoriale dei Radicali. "Le scarse possibilità di lavoro offerte ai detenuti vengono ripartite attraverso il sistema della turnazione. Inoltre la qualità del lavoro offerto dall’amministrazione penitenziaria non garantisce la possibilità di acquisire specifiche professionalità spendibili sul mercato del lavoro, vanificando così uno dei princìpi cardine dell’ordinamento penitenziario secondo cui il lavoro all’interno degli istituti rappresenta l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale, che assegna alla pena funzione rieducativa", scrive Rita Bernardini. Perché a fare lo "scopino", lo "scrivano", lo "spesino" o il cuoco di una cucina penitenziaria, non si impara granché. Certo, in molti istituti ci sono le scuole, attività rieducative, ma per via della riduzione drastica dei fondi i corsi professionali sono pochi: 576 nel secondo semestre del 2013. E poi, i seminari di scrittura creativa si trovano persino a Poggioreale, dove però di notte si viene puniti o picchiati nelle celle "zero", per tutto e per niente. Infatti la procura di Napoli ha recentemente avviato un’indagine, dopo aver ricevuto le denunce di 70 detenuti per i maltrattamenti subiti. Qui le condizioni igieniche sanitarie sono inaccettabili, come ha evidenziato il severo rapporto pubblicato il 9 aprile da una delegazione di parlamentari europei dopo una visita alla casa di reclusione napoletana. Certo, molti istituti sono stati ampliati, ristrutturati, ma le condizioni critiche e inique sono ancora diffuse in tutt’Italia. Per un carcere che apre le celle e prova a garantire un percorso formativo, previsto dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario, ce ne sono altri dieci immobilizzati nelle paludi penitenziarie. Cambia davvero qualcosa se i detenuti, ora 59 mila, hanno più spazio nelle celle se poi, al 31 marzo 2014, quelli con condanna definitiva erano in tutto 37.297? Cambia qualcosa se ancora non esiste un osservatorio epidemiologico nazionale, per poter assistere in modo adeguato i detenuti malati? Secondo i dati disponibili, i tossicodipendenti sono il 32 per cento, il 27 ha un problema psichiatrico, il 17 ha malattie osteoarticolari, il 16 cardiovascolari e circa il 10 problemi metabolici e dermatologici. Tra le malattie infettive, la più frequente è l’epatite C (32,8 per cento), seguita dalla tubercolosi (21,8), epatite B (5,3), Hiv (3,8) e sifilide (2,3). Ecco perché la Cedu, se rileggesse quanto da lei stessa scritto un anno fa, dovrebbe rendere esecutiva la sentenza Torreggiani. Non tanto per svuotare le casse esangui dell’Italia che, in caso di un responso negativo, dovrebbe risarcire migliaia di detenuti, ma perché un nulla di fatto spegnerebbe i riflettori finalmente puntati sulle carceri, con la loro umanità dolente. E la sorveglianza "dinamica" resterebbe una barzelletta. Giustizia: illegale o europea? L’Italia in attesa del verdetto della Corte di Strasburgo di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 27 maggio 2014 La tortura in Italia non è ancora reato e il Garante non è stato ancora nominato. Sono questi tutti buoni motivi per chiedere alla Corte di non rinunciare al suo sguardo. Ci sono due, tre, tante Europe. L’Europa che ha messo sotto osservazione il sistema carcerario italiano è un’altra Europa rispetto all’Europa del fiscal compact. Un anno fa la Corte europea dei diritti umani, con una procedura non proprio ordinaria, di fronte alla sistematica violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, ha sospeso il suo giudizio e ha chiesto all’Italia di rientrare nella legalità internazionale. L’anno di tempo concesso scade oggi. Vediamo brevemente cosa è successo in quest’ultimo anno e se possiamo ritenerci un Paese "legale". Lo sguardo giurisdizionale europeo ha costretto i tre governi che si sono succeduti da gennaio 2013 (Monti, Letta e Renzi) ad avviare un percorso di deflazione e umanizzazione. Contemporaneamente era partita la campagna delle tre leggi di iniziativa popolare (droghe, tortura, carceri) per non far cadere il tema nell’oblio dove periodicamente e tristemente va a finire. Contro il sovraffollamento è innegabile che alcune cose sono state fatte: cambio delle norme sulla custodia cautelare, estensione della liberazione anticipata e delle misure alternative alla detenzione, più detenzione domiciliare e meno carcere, avvio di un percorso di depenalizzazione, introduzione della messa alla prova anche per gli adulti. La Corte Costituzionale ha abrogato la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. È infine stato abolito il reato odioso di immigrazione irregolare. Al fine di umanizzare la vita in carcere è stata prevista l’istituzione del garante nazionale delle persone private della libertà, ai detenuti è stata garantita più tutela davanti ai giudici di sorveglianza, non si è dato più per scontato negli uffici ministeriali che la pena carceraria dovesse coincidere con l’ozio forzato in celle maleodoranti. Gli ultimi due ministri della Giustizia (Cancellieri e Orlando) hanno finalmente adottato un linguaggio più europeo. Le domande a questo punto sono due. Sarebbe mai ciò avvenuto senza lo sguardo investigativo di Strasburgo? È comunque sufficiente per ritenerci a posto? La risposta è la stessa, ovvero no! Vediamo perché. 1) Lo spazio è ancora del tutto insufficiente. I detenuti sono ad oggi 59.683. Erano 6 mila in più ai tempi della sentenza Torreggiani. Ma siamo ancora lontani dal poter dire che nelle nostre galere ci sia spazio per tutti. 15 mila persone non hanno ancora un posto letto regolamentare. Il tasso di affollamento italiano è del 134.6%, ovvero 134,6 detenuti che devono spartirsi 100 posti letto. Prima dell’inizio della procedura europea eravamo secondi solo alla Serbia che aveva un tasso del 159,3%. Ora peggio di noi ci sono anche Cipro e Ungheria. Non è proprio un risultato entusiasmante se si tiene conto che la media europea è del 97,8%. 2) Il sistema di riforme messo in piedi è un patchwork disomogeneo che richiede una razionalizzazione e un’ulteriore accelerazione riformista e garantista. A breve dovranno essere emanati i decreti sulla depenalizzazione. Se non si tolgono di mezzo norme ingiuste e carcerogene come l’oltraggio tutto resterà invariato. Inoltre la legislazione sulle droghe in vigore è ancora un mix paternalista e autoritario. I detenuti condannati in base alla Fini-Giovanardi stanno ancora scontando una pena palesemente illegittima. 3) La qualità della vita in carcere, tra salute negata e rischi di violenza, è ancora ben poco normale. Mentre scrivevo quest’articolo mi ha chiamato la moglie di un detenuto dicendomi che il marito da tredici giorni è in carcere senza carta igienica. Le denunce di violenze non mancano. Questo scrive al nostro difensore civico un detenuto: "Dopo mi hanno trasferito nel peggior carcere in Sicilia che si chiama Casa circondariale di Agrigento dove lì le guardie penitenziarie distruggevano i detenuti maltrattandoli pesantemente fino al punto che a un detenuto tunisino gli è stato amputato un braccio perché una guardia gli ha chiuso il blindato sul braccio. Ha avuto un’infezione molto grave lo hanno lasciato così in quello stato fino al punto che ha scioperato tutto il carcere. Solo così lo hanno fatto uscire dal carcere per curarlo ma non ce l’hanno fatta in tempo a salvargli il braccio [… ] loro reagivano con delle squadrette da 15 guardie penitenziarie che ci venivano a chiamare in piena notte dicendoci di andare in infermeria o ci portavano in isolamento e ci distruggevano dalle manganellate. Poi ci mettevano in isolamento in celle lisce prive di tutto né materassi né coperte niente di niente in pieno freddo e ci lasciavano nudi solo con le mutande tutti gonfi e agonizzanti". Giustizia: nelle celle si vive 3mq a testa e questo potrebbe costare molto caro all’Italia di Vladimiro Polchi La Repubblica, 27 maggio 2014 L’8 gennaio 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani: si tratta della sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri 4 mila detenuti per un affollamento tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. L’anno è scaduto. Si può vivere in meno di 3 metri quadrati? Se stai dietro le sbarre, sì: nelle carceri italiane si contano 134 detenuti ogni 100 posti letto disponibili. Un sovraffollamento che può costare caro alle casse dello Stato. Domani, infatti, scade l’anno di tempo che la Corte europea dei diritti umani ha assegnato all’Italia con la famosa sentenza Torreggiani. Di cosa si tratta? La sentenza di condanna. L’8 gennaio 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani: si tratta della sentenza pilota Torreggiani, confermata dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo il successivo 27 maggio. Oltre al ricorso presentato da Torreggiani, ne sono piovuti altri 4mila per motivo analogo, ovvero l’affollamento tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. L’anno è scaduto. Nei prossimi giorni il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa valuterà le politiche penali italiane. Un risarcimento da 60 milioni. A fotografare la situazione carceraria del nostro Paese è l’associazione Antigone onlus. Sono circa 4mila i ricorsi presentati finora dai detenuti, tutti riguardanti le condizioni di affollamento. L’associazione Antigone chiede "che per ognuno di essi sia la Corte europea dei Diritti Umani a procedere a condanna con relativo risarcimento. Posto che in media il risarcimento è di 15mila euro, si potrebbe giungere a una cifra complessiva di 60 milioni. Chi ha subito un’umiliazione dallo Stato deve essere risarcito". Il sovraffollamento delle celle. "In un Paese democratico e civile non dovrebbe esserci alcun detenuto che non abbia un posto letto regolamentare. La pena non deve trasformarsi in un trattamento disumano e degradante. I detenuti sono ad oggi 59.683: 6mila in meno rispetto a un anno addietro. Il gap da recuperare è però ancora enorme. Secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria la capienza regolamentare sarebbe di 49.091 posti. Negli ultimi due anni abbiamo insistito nel ricordare come i posti realmente disponibili fossero ben meno visti i tantissimi reparti chiusi per manutenzione o altro motivo. Nelle statistiche ufficiali finalmente si ammette che sono ben 4.762 i posti attualmente non disponibili. La capienza regolamentare così scende a 44.329 posti. Dando pure per corretto questo dato (ma siamo certi che almeno altrettanti posti non sono comunque utilizzabili per altre ragioni) il tasso di affollamento italiano è del 134.6%, ovvero 134,6 detenuti per 100 posti letto. Prima dell’inizio della procedura europea eravamo secondi solo alla Serbia che aveva un tasso del 159,3%. Ora siamo stati superati anche da Cipro e Ungheria. Ma non è proprio un risultato entusiasmante se si tiene conto che la media europea è del 97,8%, ovvero in media in Europa vi sono meno detenuti rispetto ai posti letto a disposizione". Stranieri dietro le sbarre. Sono 20.521 gli stranieri nelle carceri italiane, pari al 34,3% del totale della popolazione detenuta. I marocchini sono 3.714, i romeni 3.428, gli albanesi 2.728 e i tunisini 2.375. "Molta enfasi è stata data alla norma che prevede l’espulsione dei condannati quando sono in prossimità della fine della pena (residuo inferiore ai due anni) - scrive Antigone - È questa una norma che non produce risultati. Poco incidono gli accordi con i Paesi di provenienza, ovviamente poco propensi a farsi carico dei propri connazionali che commettono delitti all’estero. Tant’è che la percentuale degli stranieri è scesa solo dell’1% nell’ultimo anno". Giustizia: detenuti "vittime di sovraffollamento" scade l’anno per rimettersi in regola di Simona D’Alessio Italia Oggi, 27 maggio 2014 Sovraffollamento carcerario, s’avvicina l’ora della verità: domani, infatti, scadrà l’anno concesso dalla Corte Ue per i diritti dell’uomo al nostro paese, affinché offra condizioni non degradanti ai detenuti. E il ministro della giustizia Andrea Orlando, in missione a Strasburgo la scorsa settimana, confida che il calo dei reclusi (circa 59 mila, mentre a fine febbraio erano oltre 60.800) e i "progressi sul piano normativo" facciano sì che l’organismo valuti con attenzione la situazione, prima di aprire la procedura d’infrazione. Tutto nasce dalla sentenza Torreggiani, riguardante il trattamento cui sono stati sottoposti sette carcerati a Busto Arsizio (Varese) e a Piacenza, ai quali il governo è stato condannato a corrispondere un indennizzo complessivo di 100 mila euro; il pronunciamento, che evidenziava come per il rispetto della dignità dell’individuo fosse necessario garantire almeno 3 metri quadrati ad ogni persona, aveva imposto alla penisola di risolvere in un anno la situazione. La capienza regolamentare nei nostri 205 istituti di pena è pari a 47.857 posti, e attualmente i detenuti in attesa di primo giudizio sono poco più di 10 mila (dai 21 mila di fine 2009), mentre quelli ammessi a misure alternative alla permanenza dietro le sbarre sono saliti da 12 mila a oltre 29 mila. Il dicastero di via Arenula attende il responso del Consiglio d’Europa, di cui la Corte di Strasburgo fa parte, dopo aver sostenuto che le iniziative legislative adottate finora e quelle future fermeranno il flusso di ricorsi in arrivo dai reclusi italiani, che dopo la sentenza del maggio dello scorso anno si dichiarano "vittime del sovraffollamento"; il viaggio di Orlando era teso anche dimostrare che l’Italia è in grado, a livello nazionale, di porre rimedio agli appelli già giunti alla Corte Ue dei diritti dell’uomo, organismo che ha calcolato in 6.829, di cui 1.340 già pendenti davanti a una formazione giudicante, i ricorsi, mentre 19 si trovano già a uno stadio più avanzato, perché ritenuti ammissibili e comunicati a palazzo Chigi. Oggi, intanto, a Roma, l’associazione Antigone, alla vigilia della scadenza, illustrerà alla stampa "numeri, dati, storie e immagini sulla situazione penitenziaria". Giustizia: intervista a Mauro Palma "il cambiamento è cominciato… ora sì all’amnistia" a cura di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") www.huffingtonpost.it, 27 maggio 2014 Quando al termine di un buon percorso fatto di responsabilizzazione, crescita culturale, fiducia e aiuto concreto (famiglia, casa, lavoro) un detenuto diventa ex e tale rimane nel senso che in carcere non ci ritorna più, a me viene da pensare una sola cosa: la colpa ha sempre una causa, una volta tolta quella causa, addio colpa. Del resto non a caso le parole colpa e causa nel greco antico si pronunciavano e si scrivevano entrambe in un modo solo. E questo lo dico indipendentemente dal carcere (o modello di carcere), dove opero da anni come volontario, e da alcuni mesi anche come referente in Abruzzo per i radicali, perché non è mai il "carcere fine a se stesso la soluzione del problema". Bastano qui una serie di dati per confermare la mia idea: mentre sono progressivamente diminuiti i crimini, sono progressivamente aumentati i detenuti (erano 30 mila negli anni novanta, quasi 67 mila sono diventati nel 2013, gran parte tossicodipendenti, stranieri, poveri, solo un 12 per cento circa gli appartenenti alla criminalità organizzata). Premessa a parte, sul modello carcere italiano (inumano e degradante) la parola passa ora alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Scade infatti il 28 maggio il tempo concesso all’Italia per legalizzare la situazione delle carceri. La domanda a questo punto è: quale piano di azione ha messo in atto l’Italia per evitare le sanzioni previste dalla Cedu? L’ho chiesto al professor Mauro Palma, presidente della Commissione del Ministero della Giustizia per l’elaborazione degli interventi in materia penitenziaria, che ho incontrato a Pescara. La sentenza della Corte europea per i diritti umani oltre a essere stata un grave monito, è stata un’occasione per riesaminare il nostro sistema di detenzione, capirne le carenze non tanto e non solo sul piano delle condizioni materiali, bensì su quello della tipologia di detenzione che si attua nel nostro Paese. Una detenzione privata di una connessione con la vita reale, caratterizzata sostanzialmente da una afflizione imposta senza alcun legame reale con il positivo reinserimento al termine dell’esecuzione della condanna. L’alta percentuale di detenuti che hanno recidivato il reato dà un’indicazione della criticità del sistema attuale. Quindi, l’Italia non poteva rispondere alla sentenza di Strasburgo soltanto occupandosi di spazio minimo vitale da garantire - la Corte, come sappiamo, prevede un’automatica violazione dell’articolo 3 della Convenzione, quello che vieta tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti, se lo spazio minimo vitale per un detenuto scende al di sotto dei tre metri quadrati. Doveva rispondere con una riflessione più ampia e con provvedimenti non episodici, ma destinati a restare. E dunque, professor Palma, quali sono stati in questo anno, questi provvedimenti non episodici e destinati a durare nel tempo? La risposta è stata da un lato sul piano normativo: prevedere minori ingressi, depenalizzando alcuni reati minori e prevedendo percorsi non carcerari per altri reati anch’essi di minore offensività e soprattutto strettamente connessi alla condizione sociale del loro autore. In secondo luogo, la risposta è stata sul piano dell’organizzazione della giornata detentiva, cercando di riportare gradualmente il profilo della nostra detenzione nella direzione tracciata dalle Regole penitenziarie europee, approvate dal Consiglio d’Europa. In terzo luogo si è cercato di intervenire per interrompere un ciclo, stabilitosi da anni, di spese per un’edilizia carceraria di cattiva qualità e di forte disfunzionalità e si è cercato di recuperare fondi per la risistemazione dell’esistente e per l’apertura di quelle strutture che, quasi pronte da anni, non sono mai divenute operative. Infine, l’ultima linea di azione è stata quella di prevedere normativamente sia la possibilità di un reclamo all’autorità giudiziaria in grado di interrompere una violazione dei diritti fondamentali di un detenuto, nel caso questa si verificasse, sia la possibilità di avere una procedura interna per risarcire coloro che tale violazione dei propri diritti - e in primis del diritto al rispetto della propria dignità - hanno subito nel passato. Come è evidente un piano di azione ampio e certamente non concluso. La sicurezza dinamica, le celle aperte, l’aumento dello spazio per ciascun detenuto e i provvedimenti che hanno in questi mesi ridotto il numero delle persone ristrette vanno incontro a questo cambiamento strutturale richiesto da Strasburgo? E bastano? Queste misure sono proprio quelle che iniziano a delineare un diverso profilo della detenzione. Noi, nel Regolamento penitenziario approvato 14 anni fa, abbiamo chiamato le celle "camere di pernottamento", proprio a significare che il detenuto doveva spendere la giornata occupato in attività, dal lavoro all’istruzione, ai colloqui con i propri affetti e con gli operatori, e restare in cella nel tempo del riposo. In realtà quei principi che il Regolamento enuncia non sono mai stati applicati (è un metodo che ci caratterizza troppo spesso, quello di avere buone norme e lasciarle inapplicate). L’apertura delle celle comporta necessariamente la delineazione di un piano d’Istituto da elaborare in ogni struttura, comporta la necessità di proporre diverse modalità per organizzare la giornata e anche un diverso modello di sorveglianza più centrato sulla conoscenza del gruppo di detenuti, per esempio di una sezione, e delle dinamiche che si stabiliscono tra loro, piuttosto che basato sul mero controllo individuale. Sono misure che definirei "culturali" e non soltanto operative, perché vogliono avviare una diversa cultura della privazione della libertà, della necessaria sorveglianza, del fondamentale rispetto anche di chi è in esecuzione di una sentenza per reati, anche gravi, commessi. Amnistia e/o indulto potrebbero evitarci le sanzioni? Amnistia e indulto hanno poco a che vedere con le sanzioni. Anche se domani si dimezzassero i detenuti e ci fosse un gran numero di posti liberi, si sarebbe risolto il problema del non riproporsi situazioni di ricorso al giudice sovranazionale, ma resterebbe assolutamente in piedi il problema della sanzione di risarcimento verso coloro che nel passato hanno vissuto condizioni in violazione dell’articolo 3. Quindi le sanzioni rispetto al passato restano e sono un problema da risolvere: è meglio risolverle a livello nazionale, prevedendo appunto una forma risarcitoria, che lasciarle risolvere alla Corte di Strasburgo che peraltro rimarrebbe totalmente ingolfata per dover esaminare questi ricorsi seriali. Però, amnistia e indulto potrebbero aiutare considerevolmente, ora che i provvedimenti per reindirizzare il sistema sono stati presi, ad attuare il cambiamento in una situazione più contenuta, più rilassata, più semplice anche per chi opera nel carcere. Il rischio che amnistia e indulto potessero non facilitare l’approvazione delle riforme e di fatto si limitassero soltanto a rinviare il problema - rischio che taluni avevano paventato - è ormai superato dal fatto che il processo di trasformazione è stato avviato e i provvedimenti normativi approvati hanno tutti la fisionomia dei provvedimenti strutturali, non quella di soluzioni emergenziali. Ora, con questo discorso impostato e ben avviato, credo che si possa riflettere su un provvedimento di clemenza con maggiore tranquillità e serenità. E sarebbe bene avviare questa riflessione. Mi trovo spesso a fare i conti con storie di persone che mi parlano e mi scrivono di diritti negati. Persone che non si sentono più persone, "trattate" ma non responsabilizzate. Che cosa pensa in proposito? La dicotomia tra un sistema di esecuzione penale che responsabilizza e, quindi, considera il detenuto come un adulto, quale egli è, e un sistema invece che lo considera come soggetto da accudire in cambio di obbedienza e che, quindi, di fatto lo fa regredire a una incongrua infanzia, ha caratterizzato molte delle mie riflessioni sui diversi sistemi carcerari. Il nostro sistema di fatto fa regredire, chiede al detenuto di rispettare le regole e intanto si fa carico della sua sussistenza quotidiana, così come della cosiddetta offerta trattamentale. Questo avviene anche nelle situazioni migliori, quelle non affollate, dove l’offerta è ampia e variegata: cambia la tipologia della proposta, ma non la sua sostanziale struttura. Anche il linguaggio si adegua e così ogni richiesta prevede una "domandina"... ci si rivolge "alla signoria vostra" e così via. Un soggetto che ha vissuto per anni questa situazione di non responsabilità, che ha imparato a obbedire, ma non a cimentarsi con la costruzione della propria quotidianità, difficilmente sarà in grado di reinserirsi nel contesto sociale, al termine dell’esecuzione della pena. Non stupisce allora l’alta percentuale di soggetti che recidivano reati. Diversa è invece l’ipotesi di aiutare il detenuto a essere artefice della propria giornata, della costruzione del proprio percorso di ritorno al sociale; anche a misurarsi con l’organizzazione minuta della gestione del proprio denaro per le spese. Esperienze di questo tipo, di forte accentuazione sulla responsabilizzazione, si sono tradizionalmente sviluppate in Paesi del nord Europa, ma recentemente hanno coinvolto anche Paesi dell’area mediterranea, come la Spagna. Rappresentano la linea verso cui andare, anche se il percorso è lungo poiché richiede un cambiamento di tutti i soggetti coinvolti: i decisori politici, i responsabili amministrativi, gli operatori, i volontari, i detenuti e anche gli esterni che forse raramente si interessano del carcere. Senza una complessiva riflessione e riconsiderazione di quale valore e quale connotazione vogliamo assegnare alla pena, e alla pena detentiva in particolare, difficilmente il carcere potrà realmente mutare. Rischiando di restare afflittivo e inutile. Giustizia: se lo smaltimento dei rifiuti elettrici ed elettronici si fa in carcere www.galileonet.it, 27 maggio 2014 Un progetto che favorisce il recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici, e al contempo favorisce il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti ed ex-detenuti. Si tratta di Raee in Carcere, un progetto promosso dalla Regione Emilia Romagna, che lo scorso 22 maggio è stato premiato a Roma dal comitato italiano promotore della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti. Il progetto nasce nel 2005 nell'ambito dell'iniziativa Equal Pegaso promossa dalla Regione Emilia Romagna e dal Fondo Sociale Europeo, ed è diventato operativo nel 2009 con la partecipazione di detenuti a tre laboratori produttivi operanti all'interno delle carceri di Bologna e Ferrara ed all'esterno del carcere di Forlì. Il personale selezionato è stato formato e poi assunto dalle cooperative sociali che gestiscono le attività. Il progetto è operativamente e finanziariamente sostenuto dalla multiutility Hera Spa e da tre dei maggiori sistemi collettivi italiani per la gestione dei Raee (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), Ecodom, Ecolight e Erp, impegnati a remunerare le cooperative e a sostenere l'iniziativa. I risultati raggiunti finora in termini sociali sono importanti: più di 60 persone in esecuzione penale sono state coinvolte nei tre laboratori. Di queste, 22 sono state assunte dalle cooperative sociali che gestiscono i 3 laboratori: IT2 a Bologna, Gulliver a Forlì e Il Germoglio a Ferrara. L'accompagnamento formativo dei lavoratori, tramite tirocini d'inserimento e tutoraggio al gruppo dei lavoratori, e il raccordo con le istituzioni regionali è assicurato fin dall'avvio del progetto dagli enti di formazione Techne Forlì Cesena e Cefal Emilia Romagna. Dal 2012 il progetto ha ampliato inoltre il proprio raggio di azione: il sito web e la pagina facebook, cofinanziati da alcuni partner, sono gestiti da operatrici provenienti dall'esperienza del carcere rappresentando così un'occasione formativa e lavorativa. Giustizia: perché il minore non delinqua più, studio sulla recidiva negli autori di reato di Rosanna Biffi Famiglia Cristiana, 27 maggio 2014 Primo studio sulla recidiva nei minorenni autori di reato basato sulle storie di un campione rappresentato da 1.100 ragazzi. Chi ha seguito un progetto rieducativo fuori dal carcere delinque meno. Ma gli assistenti sociali sono troppo pochi. Eppure aumentarli non costerebbe di più. Dei 20 mila minorenni entrati nel sistema della giustizia minorile per aver commesso un reato, meno di 400 sono detenuti nelle carceri minorili, quasi 800 si trovano in comunità e circa 19 mila sono a piede libero, affidati al servizio sociale. "La magistratura minorile non crede più al carcere, vi manda poco i ragazzi", osserva Isabella Mastropasqua, responsabile dell’Ufficio studi e ricerche del Dipartimento per la giustizia minorile. In collaborazione con Concetto Zanghi, ha curato la prima ricerca longitudinale su "La recidiva nei percorsi penali dei minori adulti di reato": hanno cioè analizzato il percorso successivo al primo reato di un campione nazionale di 1.100 ragazzi, tutti nati nel 1987 e seguiti fino al 2010. In estrema sintesi, i dati della ricerca mostrano che il 69% del campione di ragazzi non ha più commesso altri reati, mentre il 31% è risultato recidivo, e precisamente: il 12% solo da minorenne, il 9% sia da minorenne sia da adulto, il 10% solo da adulto. Ma le percentuali variano moltissimo a seconda dei fattori: per esempio, tra gli italiani recidiva il 29% dei maschi e il 18% delle femmine; tra gli stranieri, il 45% dei maschi e il 55% delle femmine. "Spesso gli stranieri sono minori non accompagnati, hanno meno fattori di protezione rispetto a una ricaduta nella devianza", spiega Isabella Mastropasqua. La percentuale di recidiva è alta anche in chi non ha completato la scuola dell’obbligo, per chi non studia o non ha un lavoro stabile, per quanti non svolgono attività organizzate nel tempo libero o non hanno un gruppo di riferimento di coetanei. Anche le famiglie disgregate rappresentano un forte fattore di rischio. Nei casi in cui i minorenni hanno usufruito della misura della messa alla prova con successiva estinzione del reato, la recidiva si abbassa al 22%. "È un’opportunità positiva per il ragazzo", fa notare Mastropasqua, "che può contare su un progetto educativo personalizzato e viene seguito dall’assistente sociale in questo percorso che coinvolge scuola o tirocinio di lavoro, famiglia, volontariato e un eventuale supporto psicologico, più una serie di impegni per il risarcimento del danno sociale inflitto alle vittime. Rappresenta la possibilità di costruirsi un progetto di vita". La messa alla prova risulta dunque per i minorenni, come dimostra in modo scientifico la ricerca, un buon fattore di protezione dalla ricaduta nei reati. C’è però un grosso "ma": assistenti sociali ed educatori sono troppo pochi. "Gli assistenti sociali sono 350 per prendere in carico tutti i ragazzi che entrano nel circuito penale. Ne servirebbero il doppio", fa notare Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali. "Con questo organico, è difficile occuparsi di tutti in modi e tempi adeguati. Le scelte a un dato momento diventano politiche. Penso ai ragazzi del circuito penale, ma anche ai tanti giovani che vivono in povertà. Tra dieci anni avremo una generazione cresciuta nella sofferenza, e non potranno fare a meno di portarla avanti. Il servizio sociale taglia le gambe alla recidiva e investire su di esso significa risparmiare in costi reali". "Anche ora, in tempi di taglio della spesa, sarebbe possibile un rafforzamento del servizio sociale per i minori che hanno commesso reati e non sono in carcere", conferma Isabella Mastropasqua. "Basterebbe razionalizzare la spesa. Noi abbiamo strutture molto onerose che andrebbero riconvertite o chiuse. L’assistente sociale costa molto meno del collocamento in comunità o del fare un istituto penale. La giustizia minorile è veramente piena di buone pratiche: si tratta di fare il salto dall’opera dei bravi operatori a un progetto orientato in sede centrale verso la funzione educativa, pedagogica. La repressione e la rigidità non aiutano a crescere se non c’è un accompagnamento educativo. Oggi questi ragazzi sono fragili e bisognosi di direzione e quest’opera il servizio sociale e l’accompagnamento educativo riescono a svolgerla". Giustizia: l’emergenza penitenziaria e il "Piano carceri" nelle competenze del Dap di Lucia Brischetto La Sicilia, 27 maggio 2014 Tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria concorda con l’intendimento espresso nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, circa il rientro del "Piano carceri" tra le competenze del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Difatti l’edilizia penitenziaria, anche per quanto riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria degli istituti, è strategica ai fini dell’attuazione di un’efficace politica detentiva. Non può quindi essere gestita fuori dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che gestisce il sistema e che meglio e più direttamente conosce le esigenze del personale e dei detenuti. Un "Piano carceri" fuori dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si fonda su una gestione emergenziale del problema carceri che deve essere superata a favore di una visione progettuale e di una programmazione ordinaria che sarebbe non solo più funzionale ma anche più economica, in quanto una manutenzione costante e programmata degli immobili garantirebbe meglio il mantenimento in efficienza del patrimonio edilizio dell’Amministrazione. I funzionari e il personale ritengono infatti che le gestioni cosiddette straordinarie non hanno mai portato risultati concreti e che un piano carceri fuori dal dipartimento sia una schizofrenia che crea problemi. I dirigenti penitenziari che gestiscono le carceri lo hanno verificato già da tempo, a prescindere dall’impegno della struttura commissariale. Si ritiene pertanto che si debba uscire dalla gestione emergenziale non solo per quanto attiene al "Piano carceri", ma anche in ordine all’intera gestione del sistema penitenziario. Ma per fare questo occorre creare le condizioni organizzative e le risorse che consentano di evitare che l’Amministrazione penitenziaria continui a operare nella costante emergenza. Per questa ragione occorre urgentemente che il governo intervenga affinché il personale della carriera dirigenziale e il personale penitenziario siano definitivamente esclusi dalla spending review, cioè dalla "riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni" prevista dal comma 1 dell’art. 2 del Dl 6 luglio 2012 n. 95, rientrando l’Amministrazione penitenziaria, nel suo complesso, nell’esclusione già prevista dal comma 7 del precitato art. 2 Dl n. 95/2012 per " le strutture e il personale del comparto sicurezza". Una spending review del personale penitenziario non solo contrasterebbe con gli obiettivi di politica penitenziaria delineati dal governo, ma influirebbe negativamente anche sulla tenuta del sistema, poiché un ulteriore depauperamento delle risorse umane inciderebbe negativamente sul perseguimento dei fini istituzionali, sulla sicurezza e sul trattamento rieducativo, trattamento previsto quale funzione prioritaria demandata all’Amministrazione penitenziaria. Diversamente, si romperebbero i delicati equilibri del complesso sistema penale e penitenziario, indebolendo significativamente il generale sistema della sicurezza dello Stato a discapito dei cittadini. Tanto viene affermato a gran voce anche da tutta la dirigenza penitenziaria e da tutto il personale civile e militare del ministero della Giustizia. Lettere: carceri, ora chi paga? di Carlo Bruno La Prealpina, 27 maggio 2014 Cara Prealpina, gradirei informassi me e i tuoi fedeli lettori dove il governo, in questo momento presieduto da Matteo Renzi, prenderà i vari milioni di euro, se non sbaglio una settantina, che la Corte di Strasburgo ha inflitto all’Italia per mancata osservanza della sentenza emessa l’8 gennaio 2013 e passata in giudicato il 28 maggio 2013, quindi esecutiva, confermata dalla Suprema Corte Europea di Strasburgo in quella data, che intimava all’Italia di adeguare le carceri, come richiesto dalla Convenzione Europea, entro un (1) anno da quella data. Personalmente non mi risulta che ciò sia stato fatto. Quella sentenza, passata alla storia come sentenza Torreggiani, quale promotore, ed altri sei detenuti, che fecero ricorso contro il governo italiano per le pessime condizioni di vivibilità nelle prigioni italiane, è arrivata ormai alle "porte"! Tra una settimana, se non ci sarà un provvedimento da parte del governo, scatterà la sanzione; inoltre saranno automaticamente sbloccati gli altri 3.500 (circa) ricorsi che erano stati momentaneamente congelati, in attesa che il governo italiano provvedesse a trovare una soluzione al "pianeta" carceri... forse con un atto di clemenza, così come auspicato da parte del nostro stimatissimo Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Sua Eccellenza il Papa, Marco Pannella e i vari sodalizi a favore dei "reclusi". Il mio pensiero è che gli italiani non siano disposti a fare una colletta per racimolare il "peculio" succitato, né tanto meno pagare con le loro tasse, quindi prego tutti i "forcaioli" di fare nelle piazze dei gazebo per racimolare la somma necessaria per pagare al momento la somma di una settantina di milioni di euro quale ammenda, ed in seguito di fare un’altra colletta per pagare gli indennizzi ai vari ricorrenti che hanno fatto ricorso al tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo... perché l’Italia verrebbe automaticamente condannata a risarcire ognuno dei reclusi che ha proposto istanza contro il governo italiano. Ancona: detenuto si uccide impiccandosi, un altro ingerisce varechina e viene salvato Corriere Adriatico, 27 maggio 2014 Un suicidio portato a termine e uno tentato. È il drammatico bilancio di una giornata nera per il carcere di Montacuto. Un detenuto è morto impiccato nella sua cella intorno alle 14 e 30. Si tratta di Giovanni Aireti, 64 anni, originario di Frosinone ma da tempo residente a Civitanova Marche. Era detenuto dal 13 gennaio scorso con l’accusa di tentato omicidio, per aver accoltellato al culmine di una lite domestica a Civitanova Alta la moglie Daniela Martini, ferita a una scapola, a un ginocchio e a una mano. Per soccorrere il detenuto è accorsa un’ambulanza della Croce Rossa, ma non c’era nulla da fare. In mattinata un altro recluso della casa circondariale aveva tentato il suicidio. Attorno alle 10,30 un tunisino di 21 anni ha tentato il suicidio.Da una prima ricostruzione il giovane avrebbe ingerito della varechina assieme alle lamette da barba. Prontamente soccorso dal personale della Polizia Penitenziaria il detenuto è stato trasferito in infermeria. Nel frattempo la direzione del carcere aveva provveduto ad allertare la centrale operativa del 118. In carcere sono arrivati l’automedica e un mezzo della Croce Gialla di Ancona. Le condizioni di salute del detenuto sono apparse subito gravi. Immediato il trasferimento al Pronto soccorso dell’ospedale regionale di Torrette. Sottoposto ad una serie di accertamenti il giovane è stato ricoverato in ospedale. A preoccupare i medici non tanto le lamette ingerite, ma la quantità di varechina che il ragazzo ha ingerito in quei drammatici momenti quando ha tentato il suicidio. Ipoclorito di sodio che potrebbe aver causato delle lesioni irreversibili alle mucose della bocca e dell’esofago. Solo nelle prossime ore i medici saranno in grado di valutare le reali condizioni del detenuto. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; nuovo tentativo suicidio nel carcere di Buoncammino Ansa, 27 maggio 2014 "Un giovane quartese, R. S., affetto da una grave depressione, ha tentato di togliersi la vita la notte scorsa in una cella del Centro Diagnostico Terapeutico della Casa Circondariale di Cagliari, dov’era ricoverato. A evitare il peggio è stato il pronto intervento degli Agenti della Polizia Penitenziaria. È indispensabile riconsiderare la presenza nelle celle di persone con importanti patologie psichiatriche o in condizioni psicologiche particolari altrimenti i rischi di autolesionismo estremo non possono essere sempre scongiurati con la tempestività". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando la necessità di "rafforzare le occasioni di socialità e di affettività soprattutto quando il privato della libertà non gode del sostegno della famiglia o si sente abbandonato". "Il peso di situazioni così delicate non può ricadere sugli Agenti, è opportuno invece che il Dipartimento rafforzi il numero delle figure professionali degli Educatori e degli psicologi. Dentro Buoncammino il grave disagio sociale e l’assenza di prospettive all’esterno inducono spesso a perdere la speranza negando - conclude la presidente di Sdr - l’efficacia di qualunque intervento per il reinserimento nella comunità. Pesano soprattutto la mancanza di lavoro e l’impossibilità di accedere alle pene alternative in assenza di familiari. Sassari: caso Erittu, il Pm chiede tre ergastoli, per due detenuti e un agente loro complice di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 27 maggio 2014 L’accusa: fu Pino Vandi a ordinare il delitto in cella con la complicità dell’agente Mario Sanna e del detenuto Nicolino Pinna. "L’ultima immagine che lascio a voi, signori della corte, è quella di Marco Erittu disteso sul letto della sua cella con lo sguardo rivolto verso la finestra, mentre pensa al giorno in cui riavrà la sua libertà. Qualcuno, però, ha spezzato il suo sogno e lo ha ammazzato". A commissionare quel delitto - ne è certo il pubblico ministero Giovanni Porcheddu - fu Pino Vandi. Fu lui a chiedere a Giuseppe Bigella (reo confesso e già condannato a 14 anni in abbreviato) di uccidere Erittu con la complicità dell’altro detenuto Nicolino Pinna e dell’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna. Le richieste. A mezzogiorno e dodici minuti, dopo 19 ore di requisitoria spalmate in tre giorni, il sostituto procuratore, davanti alla corte d’assise presieduta da Pietro Fanile (a latere Teresa Castagna e i giudici popolari), ha chiesto tre ergastoli per i tre imputati di concorso in omicidio: Vandi, Pinna e Sanna. Una condanna a quattro anni di reclusione, invece, è stata sollecitata per gli agenti Gianfranco Faedda e Giuseppe Soggiu, accusati di favoreggiamento. Ha poi rinviato gli atti alla Procura per valutare la posizione dei sovrintendenti del carcere Luciano Piras e Pierpaolo Cuccuru - e in particolare le loro deposizioni - profilando per entrambi l’ipotesi di reato di falsa testimonianza e per Cuccuru anche la rivelazione di atti d’ufficio (le intercettazioni nella fattispecie). La vittima. "Erittu non sentiva le voci, non vedeva fantasmi, i suoi erano timori fondati, reali. Le sue richieste di aiuto non sono state valutate a dovere - è stato uno dei passaggi conclusivi della requisitoria. È stato eliminato proprio come lui temeva. Appena si è sentito sicuro è stato sopraffatto da assassini che hanno agito su mandato, con la collaborazione di un agente di polizia penitenziaria". Porcheddu ha ricostruito la personalità della vittima che a un certo punto, dentro l’inferno di San Sebastiano, "ha deciso di ribellarsi ai soprusi". Come? Voleva parlare con il capo della Procura, raccontargli del coinvolgimento di Vandi nei sequestri di Paoletto Ruiu e di Giuseppe Sechi. "Per questo non doveva arrivare al lunedì successivo". Il pentito Bigella. È stato lui, con la sua confessione, a far riaprire le indagini su un caso che era già stato archiviato come suicidio. Lui a chiamare in correità Vandi, Sanna e Pinna. "Il racconto di Bigella è dettagliato, coerente, segue un filo logico - dice il pm - Lo abbiamo sezionato. Bigella non ha mai nascosto né sminuito la propria responsabilità". L’inquinamento delle prove. La prima ricostruzione dei fatti "era frutto di un pesante inquinamento delle prove. Basti pensare alla sparizione della coperta dalla cella, della lettera di Erittu e della sua richiesta di colloquio. Abbiamo ritenuto realistico il coinvolgimento di Vandi nei sequestri e realistico che la vittima fosse in possesso di informazioni su questi fatti. È stata accertata la volontà di Erittu di collaborare, ci sono i suoi scritti che raccontano le paure e il desiderio di rifarsi una vita appena ottenuti i domiciliari". Invece non gli vennero concessi perché nella sua cella gli agenti trovarono cocaina. "Erittu sapeva che era stato Vandi ad architettare tutto per intimorirlo e convincerlo a chiudere la bocca". Gli altri imputati. "Sanna era il detentore delle chiavi della cella - ha spiegato il pm - Bigella è credibile quando lo accusa, se il reparto fosse stato controllato non avrebbero potuto commettere il delitto. E Soggiu e Faedda mentono per coprire il collega. Sanno che se dicessero la verità, tutta la verità, Sanna finirebbe nei guai". Nicolino Pinna, invece, per il pm avrebbe aiutato Bigella a compiere materialmente l’omicidio: "La sua non era una presenza necessaria - dice - eppure viene indicata da Bigella. Aveva il compito di tenere ferma la vittima, preparare il cappio e metterglielo al collo. E tracce di afferramento sulla gamba di Erittu sono state effettivamente rilevate dai medici legali". Per la Procura il segnale della presenza di un complice. Tutti riscontri che hanno motivato la richiesta degli ergastoli. Le prossime udienze Terminata la lunga e articolata requisitoria del pubblico ministero, il presidente della corte d’assise ha predisposto il calendario delle prossime udienze fino alla conclusione del processo. In particolare il 29 maggio a discutere saranno gli avvocati di parte civile Marco Costa, Lorenzo Galisai, Nicola Satta che assistono i familiari di Marco Erittu. Il 5 giugno sarà la volta di Luca Sciaccaluga, difensore di Nicolino Pinna, e dei legali Gabriele Satta e Giulio Fais che assistono i due imputati di favoreggiamento Faedda e Soggiu. Il 9 giugno la parola passerà agli avvocati Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu, difensori dell’agente Mario Sanna, che hanno già annunciato di aver bisogno di un’intera giornata per esporre l’arringa. Concluderanno il 12 giugno i legali di Pino Vandi: il primo a prendere la parola sarà Patrizio Rovelli, seguirà Pasqualino Federici. Un calendario intenso che avvierà il processo verso il termine con la sentenza che sarà pronunciata dal presidente Fanile presumibilmente prima dell’estate. Napoli: "carceri inumane"… la Camera Penale decide 3 giorni di astensione dalle udienze di Claudia Sparavigna Roma, 27 maggio 2014 Da anni ormai si parla di riforma della Giustizia in Italia, anche l’Europa ce lo impone, ma la situazione resta immutata. Considerata la situazione di stallo, che rende inumana la vita in carcere, l’Assemblea della Camera Penale ha deciso di operare tre giorni di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria del settore penale per i giorni 28,29 e 30 maggio 2014 e di convocare l’assemblea degli iscritti per il 28 maggio 2014, giorno in cui scade il termine previsto dalla sentenza Torreggiani della Ceda Nonostante la scadenza del 28 maggio 2014, imposta dalla nota sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si avvicini, nessun passo verso la regolarizzazione delle carceri italiane è stato fatto. Eppure questa sentenza rappresenta il verdetto di condanna più umiliante che uno Stato membro dell’Unione Europea abbia mai subito. L’Italia è responsabile di far funzionare le carceri in permanente violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani e le libertà fondamentali, in cui si proibisce la tortura e ogni trattamento inumano e degradante. Sì, molti degli Istituti di Pena del Belpaese sono posti in cui nessun essere umano dovrebbe mai mettere piede, dove troppo spesso si entra delinquenti e si esce professori di criminalità. Questi Istituti non hanno nessuna funzione rieducativa, riabilitante o che consenta un reinserimento consapevole all’interno della società. Non è stato risolto né il drammatico sovraffollamento delle carceri italiane, più volte denunciato in documenti, delibere, dibattiti e convegni dalla Camera Penale di Napoli e dall’Unione delle Camere Penali Italiane, e non solo, né le condizioni disumane in cui versano i detenuti in molti penitenziari. Basti pensare che sono circa quattromila i ricorsi di detenuti pendenti presso la Corte Europea per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani e le libertà fondamentali, centinaia le denunce di maltrattamenti, troppi i suicidi che ogni anno si verificano dietro quelle sbarre dove le giornate sono infinite e resta troppo tempo per pensare. Una situazione inaccettabile per un Paese che vuole definirsi civile, che si considera una democrazia avanzata. Nelle nostre carceri sopravvivono pratiche che ledono la dignità umana e luoghi, come il Carcere di Poggioreale, definiti medievali dal Presidente della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento Europeo. Una situazione che nel tempo si è aggravata grazie a un uso strumentale del diritto penale che da 1999, data dell’ultimo indulto, ad oggi ha dato luce a ben 321 nuove fattispecie penali e per la quali lo Stato ha deciso di non concedere né amnistie né indulti. Nemmeno gli appelli del Presidente della Repubblica e del Sommo Pontefice sono serviti ad accelerare le riforme, a garantire vivibilità delle carceri e dignità per i detenuti. Intanto la scadenza data dall’Europa è vicina e, con essa, si avvicinano le sanzioni economiche che l’Italia dovrà pagare. Sanremo (Im): la Uil Penitenziari denuncia l’ennesima aggressione ai danni di un agente www.riviera24.it, 27 maggio 2014 "Al carcere di Sanremo si è verificata l’ennesima brutale aggressione ai danni di un agente della Polizia Penitenziaria, impegnato nell’adempimento del proprio dovere". A darne notizia è il Segretario Regionale Aggiunto della Uil Penitenziari, Vincenzo Cipro. L’episodio verificatosi venerdì, durante l’ ora d’aria, nel momento di immissione dei detenuti ai passeggi, un detenuto marocchino, vittima da lì a poco di regolamento di conti, ha trovato riparo e scudo dietro il corpo del poliziotto, che senza esitare ha fatto scudo, mentre un gruppo di detenuti di altra etnia, si diretto con aggressività e fare minaccioso verso il poliziotto. Un detenuto albanese del gruppo, senza esitazione e con ferocia inaudita, ha sferrato un violentissimo pugno al volto del poliziotto, colpendolo più volte all’ altezza dell’ orecchio. Pur aggredito e dolorante il collega ha prontamente evitato il peggio riuscendo, nell’impresa a chiudere l’ area passeggi. "La prognosi - dice il sindacalista della Uil - per il malcapitato poliziotto penitenziario di turno, trasportato al Pronto Soccorso è di 20 giorni. Questione di fortuna aggiunge Cipro - una tragedia sfiorata, gli organi Superiori devono adottare immediati provvedimenti deflattivi per il sovraffollamento della Liguria". "La brutale aggressione - continua il sindacalista - è avvenuta il giorno in cui si è celebrata a Sanremo la festa del corpo di Polizia Penitenziaria, per la Uil Penitenziari non c’è nulla da festeggiare , un clima quello di Sanremo, dove la Pol.Pen. subisce continue aggressioni e si spera che l’ Amministrazione Penitenziaria possa trovare le giuste e immediate soluzioni". Bolzano: Kompatscher e Tommasini in visita al carcere, nuova struttura all’avanguardia www.provincia.bz.it, 27 maggio 2014 Visita al carcere di Bolzano per il presidente della Provincia Arno Kompatscher e per il suo vice Christian Tommasini. Assieme alla direttrice Maria Rita Nuzzaci e al comandante della Polizia penitenziaria, Angelo Fratacci, Kompatscher e Tommasini hanno visitato l’intera struttura, garantendo tempi brevi per la costruzione del nuovo carcere. "Il vincitore della gara - hanno spiegato - sarà reso noto in autunno, i lavori verranno completati nel giro di 2-3 anni e l’opera sarà all’avanguardia a livello europeo". Sovraffollato e inadeguato alle esigenze di detenuti e lavoratori. Che il carcere di Bolzano versi in condizioni piuttosto difficili non è certo una novità, ma le cose potrebbero cambiare nel giro di pochi anni. Lo hanno ribadito oggi (26 maggio) il presidente della Provincia Arno Kompatscher e il suo vice Christian Tommasini, che hanno fatto visita alla struttura di via Dante. Dopo aver preso visione delle celle all’interno delle quali vengono ospitati i detenuti, ma anche degli uffici, della mensa e degli altri spazi comuni, i due rappresentanti della Giunta provinciale hanno offerto prospettive rassicuranti sul futuro. "Entro la fine di questa settimana - ha spiegato Kompatscher - verranno aperte le buste con le offerte che hanno fatto seguito al bando di gara per la realizzazione del nuovo carcere, e il vincitore sarà reso noto in autunno. Da quel momento in avanti si partirà con i lavori di costruzione che si dovrebbero concludere nel giro di 2-3 anni. Si tratta di un investimento importante per tutto l’Alto Adige dal punto di vista sociale e della sicurezza, e vogliamo che il nuovo penitenziario diventi una struttura all’avanguardia a livello europeo". La direttrice Maria Rita Nuzzacci, ha infatti ribadito che "con la nuova struttura si potranno migliorare le condizioni di vista all’interno del carcere, a tutto vantaggio del recupero sociale delle persone detenute". In quest’ottica si inquadrano anche le molteplici attività formative svolte da tempo nella casa circondariale e finanziate dalla Provincia di Bolzano. "Vi sono detenuti - ha commentato Christian Tommasini - che hanno ottenuto l’attestato di bilinguismo, e sono convinto che grazie ai nuovi e più adeguati spazi che saranno a disposizione in futuro, si potranno raggiungere traguardi anche migliori". Napoli: Progetto sociale della Fondazione Vodafone per minori detenuti all’Ipm di Nisida www.corrierecomunicazioni.it, 27 maggio 2014 Un libro con foto e testi dei giovani detenuti e un laboratorio per insegnare l’arte dolciaria: è il progetto "Nisida, parole e immagini" realizzato dalla Fondazione. Saverio Tridico, direttore affari pubblici Vodafone Italia: "Investiamo con fiducia nel Paese". Fondazione Vodafone aiuta i detenuti del carcere minorile di Nisida. Oggi la Fondazione e l’Istituto Penale per Minorenni dell’isola hanno presentato, alla presenza del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il progetto Nisida, parole e immagini, che si articola in tre parti. Innanzitutto un libro, che è una sorta di diario realizzato con le testimonianze e gli scatti dei ragazzi che hanno frequentato i laboratori di fotografia e scrittura creativa all’interno della struttura penitenziaria. Alcune di queste foto - è la seconda iniziativa - sono state inoltre inserite a corredo iconografico del Bilancio di Sostenibilità di Vodafone Italia e del Fond of Life 2012-2013. La terza iniziativa riguarda il progetto La Dolce Isola, un laboratorio di pasticceria ancora in corso, per il quale sono stati ristrutturati alcuni locali per offrire ai giovani detenuti un’opportunità professionale e formativa e per lanciare un’impresa sociale che possa esportare la propria produzione al di fuori del carcere. Presenti all’evento, oltre a Orlando, il direttore dell’Istituto Penale di Nisida Gianluca Guida, il direttore Affari Pubblici e Legali di Vodafone Italia e membro del Cda Saverio Tridico ed altre personalità istituzionali. "Gli spazi tra generazioni, i vuoti tra diritti e doveri, le distanze tra chi sta fuori e chi sta dentro si sono allargati - ha affermato Saverio Tridico - e colmare questa distanza è una responsabilità non solo delle istituzioni, ma anche di chi come Vodafone sta investendo con fiducia e con coraggio in questo Paese, nella convinzione che queste situazioni, soltanto se affrontate in una cornice di responsabilità collettiva possano restituire valore alla società". "Si sta realizzando un progetto importante che prende in carico i ragazzi che hanno sbagliato e non semplicemente infligge una pena - ha detto il Guardasigilli - ma è un’esperienza che deve indurre a una riflessione più ampia". Attraverso i progetti "si recupera la vita dei ragazzi", cosa che "non ha minor valore di quando i privati investono per il recupero di opere d’ arte", anche perché "recuperare un giovane è recuperare un’opera d’arte. L’Italia che migliora fa meno notizia di quella che non ce la fa - ha aggiunto - ma credo che sia giusto raccontare le esperienza in cui lo Stato ce la fa". Come le esperienze di recupero dei ragazzi, "che incontrano la disponibilità dei privati". Il direttore del carcere, Gianluca Guida, ha assicurato che "questi ragazzi hanno tante potenzialità da mettere in campo, che possono essere valorizzate con iniziative del genere". Impegnata da oltre 12 anni a fornire il proprio contributo per attutire le problematiche sociali, Fondazione Vodafone Italia ha dato vita nel corso del tempo a progetti di produzione partecipata a sostegno delle fasce sociali più svantaggiate. I risultati di tali progetti, da qualche anno, confluiscono nelle presentazioni dell’annuale attività di rendicontazione sociale della Fondazione e di Vodafone Italia. È con questo spirito che è nato il progetto Nisida, parole e immagini. Dalla produzione partecipata ai laboratori sul territorio. L’iniziativa è stata finalizzata a diffondere tra i ragazzi, ospiti di Nisida, una serie di competenze in grado di attenuare la condizione di forte disagio sociale in cui vivono. Tale obiettivo è stato raggiunto attraverso l’attivazione di due laboratori - il primo di fotografia e video, il secondo di scrittura creativa - che hanno permesso ai ragazzi di apprendere le tecniche base della fotografia, delle riprese video, del montaggio e della scrittura creativa. I laboratori, realizzati in collaborazione con Scuola Holden (la scuola di scrittura creativa fondata a Torino da Alessandro Baricco) e Imagine Factory (realtà non profit specializzata nell’attivazione di laboratori multimediali), hanno avuto una durata complessiva di due settimane. Molto più di un progetto di produzione partecipata, si sono rivelati un’esperienza umana fortissima di collaborazione e di crescita reciproca tra i ragazzi e i formatori. Bolzano: avviso urgente; il Convegno "Dentro le mura, fuori dal carcere" è stato rinviato di Alessandro Pedrotti (Caritas Bolzano) Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2014 A tutti gli/le invitati e interessati al Convegno "Dentro le mura fuori dal carcere" organizzato dalla Caritas Diocesi di Bolzano Bressanone in data 04 giugno 2014, si comunica che, per motivi non dipendenti dagli organizzatori, il Convegno è stato annullato e verrà spostato a data ancora da concordarsi con la Provincia Autonoma di Bolzano. Ci scusiamo per il disagio causato. Pakistan: autorità annunciano rilascio 151 detenuti indiani come gesto di "buona volonta" Aki, 27 maggio 2014 Le autorità pakistane hanno annunciato il rilascio di 151 detenuti indiani in concomitanza con la visita del premier Nawaz Sharif a Nuova Delhi per partecipare alla cerimonia di giuramento del suo omologo Narendra Modi. Lo riferisce una nota dell’ufficio di Sharif, secondo cui il provvedimento è un gesto di "buona volontà" nei confronti del nuovo governo indiano. I detenuti che saranno scarcerati sono tutti pescatori che erano stati sorpresi in acque contese. Da anni pescatori indiani e pakistani finiscono in carcere con l’accusa di aver sconfinato in quelle che sono considerate acque territoriali dell’altro Paese. Venezuela: vittoria elettorale per mogli Sindaci in carcere, conquistano Comuni dei mariti Ansa, 27 maggio 2014 Le mogli di due sindaci oppositori destituiti e attualmente in carcere in Venezuela sono state elette trionfalmente al posto dei loro mariti a San Cristobal, capitale dello stato di Tachira (est), e San Diego, nello stato di Carabobo (centro-ovest). Patrizia Gutierrez, moglie di Daniel Ceballos, ha vinto con il 73,69% a San Cristobal, da dove è partita nel febbraio scorso l’ondata di protesta studentesca che ha messo in crisi il governo di Nicolas Maduro, e ha lasciato un bilancio di 42 morti. A San Diego Rosa Brandonisio, moglie di Enzo Scarano, si è imposta con un impressionante 87,68% dei voti. Ceballos e Scarano sono stati condannati a un anno di prigione dal Tribunale Supremo di Giustizia (Tsj) con una sentenza molto discussa: l’alta corte ha dapprima emesso un’ordinanza perché garantissero l’ordine nei loro comuni, e cioè impedissero le manifestazioni antigovernative, e poi li ha processati per aver "disubbidito". Prima ancora di conoscere i risultati elettorali, Maduro ha avvertito l’opposizione che riconoscerà qualsiasi autorità scelta nelle urne, ma ha aggiunto che "se poi fanno i pazzi e ricominciano a incendiare i comuni, allora agirà la giustizia, e se c’é da destituire, si destituirà e si convocheranno nuove elezioni. Se necessario, ci saranno elezioni ogni tre mesi, finché ci sarà la pace".