Giustizia: la politica della paura che affolla le nostre carceri di Glauco Giostra* Pagina99, 25 maggio 2014 Mercoledì l’Europa deciderà sulle sanzioni all’Italia. Molto è stato fatto, ma la questione resta soprattutto culturale. Solo una maggioranza coesa e coraggiosa potrà cambiare le cose. Stanno scorrendo gli ultimi giorni nella clessidra della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il 28 maggio scade il termine concesso dalla famosa "sentenza Torreggiani" che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieto di tortura) a causa del trattamento inumano e degradante inflitto ai ricorrenti detenuti, ristretti in meno di tre metri quadrati pro-capite: una scudisciata etica, prima ancora che giuridica. Molto è stato fatto in questo anno sia a livello legislativo, sia a livello logistico-organizzativo. Ancora molto, tuttavia, resta da fare: non tanto per assicurare almeno, in un prosaico calcolo geometrico della sofferenza, i fatidici tre metri quadrati ai nostri detenuti, ma per garantire loro condizioni carcerarie non indegne di un uomo e opportunità di graduale reinserimento sociale. Non si tratta di facile buonismo: alcuni reati meritano pene severe, prolungatamente privative della libertà. Ma niente può mai autorizzare lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza. A preoccupare di più non sono le persistenti inadeguatezze normative e organizzative, ma una diffusa resistenza culturale a porvi mano. Quella resistenza che verosimilmente - dopo aver contrastato l’iter dei recenti provvedimenti legislativi in materia penitenziaria, peggiorandoli - renderà anche mollo difficoltosi i passi ulteriori e precari quelli già compiuti. Alla base, più o meno esplicitata, c’è questa convinzione: ogni breccia aperta nel carcere creerebbe un grave problema di sicurezza sociale. Considerazione di facile presa sull’opinione pubblica, ma destituita di fondamento. Le indagini di vittimizzazione hanno ormai appurato che. nei Paesi occidentali almeno, i condannati detenuti costituiscono soltanto il 2-3% di coloro che delinquono, e che quindi la liberazione di quelli più meritevoli ha poco a che fare con la sicurezza sociale. Le misure alternative alla detenzione, per contro, abbattono drasticamente il fenomeno della recidiva. Nel 2011 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato al Governatore della California di liberare 46.000 detenuti (sostanzialmente l’intera nostra popolazione penitenziaria nella sua dimensione fisiologica) per risolvere un problema di sovraffollamento. Prima di adottare una così drastica misura, per valutarne l’impatto sociale, la Corte ha acquisito dati statistici e accreditate valutazioni socio-criminologiche, concludendo che il provvedimento avrebbe potuto avere persino conseguenze positive, ove lo Stato avesse avuto cura di rilasciare anticipatamente solo quei detenuti che presentavano il minor rischio di recidiva e di fare ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione. È inutile provare a vincere con argomenti e dati, che vengono sempre scrupolosamente ignorali, questa cicca renitenza a ogni riforma penitenziaria. Più importante è tentare di capirne le ragioni profonde. Da quando, con la globalizzazione, lo Stato non è più in grado di sviluppare una propria politica economica, né di garantire le rassicuranti protezioni sociali della seconda metà del secolo scorso, la collettività avverte un senso di permanente precarietà e di disarmata vulnerabilità; si è ormai rassegnata a ridurre le proprie istanze di protezione alla mera tutela della sua incolumità, rispetto alla quale ritiene che lo Stato possa ancora offrirle garanzie. Questo "subconscio collettivo" di irrimediabile insicurezza costituisce un giacimento inesauribile di redditizie opportunità politiche. Gli stentorei manifesti imperniati sulla fermezza della repressione e sulla "tolleranza zero" si rivelano, puntualmente, un ottimo strumento di procacciamento di consensi. Tanto che ci si imbatte spesso in politicanti che lutto ignorano, tranne quanto sia remunerativa la retorica della sicurezza pubblica. Quasi a ogni stagione meteorologica ne corrisponde una securitaria in cui viene agitato l’allarme di turno (pedofilia, stupefacenti, furti in appartamento, immigrazione clandestina, omicidio colposo stradale, eccetera). Troppo spesso il potere politico, non volendo, non potendo, non sapendo apprestare rimedi socio-economici o culturali, mette mano alla fondina legislativa. E le "munizioni" sono sempre le stesse: più carcere, più reati, meno garanzie processuali, meno benefici penitenziari. Si tratta di un investimento a costo zero, a bassissimo rischio e ad alto rendimento in termini elettorali. Il fenomeno non è soltanto domestico, naturalmente. Nei Paesi occidentali è diffuso e studiato. Da noi però ha una carattere endemico, perché la "politica verbale" - fatta di preannunci, spot, ipertrofia legislativa - non è solo una componente della politica penale, ma tende sostanzialmente ad esaurirla. Fenomeno acuito dalla frequenza degli appuntamenti elettorali, durante i quali la cifra demagogica di ogni soluzione ventilala o adottala cresce a dismisura. Nel nostro Paese, poi, a questa "politica verbale" si accompagna, risultandone a un tempo causa ed effetto, o comunque oggettivamente sinergica, una "informazione verbale", in cui troppo spesso le parole commentano le parole. Un’informazione, oltretutto, molto più sensazionalistica e allarmistica che negli altri Paesi, massicciamente occupata da notizie relative ai più efferati misfatti, con morbose spettacolarizzazioni del dolore. Un’informazione banalizzarne, emotiva ed ansiogena, quasi sempre disgiunta da un attento studio del dato di realtà e da un’intelligenza del suo significato: non si potrebbe predisporre terreno più adatto su cui far prosperare il "populismo penale". Intendendo, con questa locuzione, la tendenza politica ad apprestare placebo legislativi che fingano di rimuovere le cause delle ansie collettive suscitate da episodi di cronaca nera, ma che in realtà mirano soltanto a captare facili consensi: il governo dell’insicurezza sociale. Si pensi al termine "svuota carceri", con il quale sono stati giornalisticamente etichettati i provvedimenti che hanno di recente cercato di evitare la permanenza o l’ingresso in carcere di chi non avrebbe dovuto, in base alla nostra Costituzione e al buon senso, né restarvi, né entrarvi. Il "messaggio" mediatico, diretto a suscitare ansiosa attenzione, ha spacciato l’idea di una sorta di cicco "sversamento" nella società del temibile contenuto dei penitenziari. La realtà, come si è detto, era ben diversa: si trattava di concedere limitate riduzioni di pena o misure alternative alla detenzione a soggetti di cui la magistratura di sorveglianza aveva accertalo caso per caso la mancanza di pericolosità e la meritevolezza. Ma, nell’odierna informazione fast-food, le parole-concetto contano più della realtà che rappresentano e ne segnano in qualche modo il destino: la tossina della mistificazione, una volta inoculata nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace. Se permane un tale contesto politico-culturale, quindi, non solo è difficile immaginare ulteriori riforme, pur necessarie, ma è da temere che persino quelle realizzate siano precarie. Al primo reato commesso da un soggetto in misura alternativa o al riacutizzarsi, reale o mediatico, di un certo fenomeno criminale, si riapriranno i consueti scenari: cubitali titoli di giornali e insistite zoomate sulla disperazione delle vittime confermeranno molti cittadini nei loro latenti timori, alimentandoli; timori che troveranno non disinteressata udienza in quei politici specialisti nel cogliere con prontezza felina ogni opportunità demagogica offerta dalla nostra "democrazia emotiva". Il carcere tornerà ad essere la metafora architettonica dove stipare le nostre ansie e le nostre paure. Le cose potranno davvero e stabilmente cambiare soltanto quando una maggioranza politica forte nei numeri e culturalmente coesa - sostenuta da una stampa meno sensazionalista e più tecnicamente provveduta - avrà il coraggio di spiegare che la criminalità non si fronteggia infierendo sui criminali già individuati e puniti, ma ponendo le premesse socio-economiche per ridurre al minimo le ragioni del delinquere e fornirà alle forze dell’ordine strumenti per prevenire e contrastare le manifestazioni delittuose, nonché per accertarne le responsabilità. Di spiegare che le misure alternative alla detenzione che accompagnano il percorso di recupero del condannato non rappresentano un modo per rendere ineffettiva la pena, bensì per renderne effettiva la funzione assegnatale dalla Costituzione. Di spiegare che la prospettiva di attenuazioni graduali dello stato detentivo motiva psicologicamente il condannato a sottrarsi alle suggestioni di chi gli prospetta il sodalizio criminale come l’unico modo per tutelarsi, all’interno e al di fuori del carcere. Di spiegare che l’evasione o l’azione criminosa di un soggetto ammesso a una misura alternativa (evenienza statisticamente molto rara, ancorché amplificata a dismisura dai media) non è necessariamente frutto di un errore del magistrato che l’ha concessa o di una disfunzione del sistema, ma è il tributo che si paga a una scelta di politica penale che, dati alla mano, offre enormi vantaggi, tra l’altro, proprio in termini di sicurezza (drastico abbattimento delle ipotesi di recidiva). Di spiegare alla collettività su quali principi si basa la politica della pena seguita, quali possibili prezzi comporti, quali inaccettabili effetti produrrebbe un diverso approccio fobo-demagogico al problema. Spiegazione agevole, quest’ultima: basterà ricordare. *Ordinario di procedura penale all’Università La Sapienza di Roma e Componente laico del Csm Giustizia: Orlando; Corte europea apprezzerà risultati ottenuti ma bisogna lavorare ancora Ansa, 25 maggio 2014 "Sono fiducioso che la Corte sarà attenta a valutare i risultati che il Paese ha ottenuto finora e dell’impegno per ulteriori sforzi che saranno fatti nelle prossime settimane". Così il ministro per la Giustizia Andrea Orlando sulla scadenza dell’ obbligo imposto dalla Corte europea dei diritti umani all’ Italia sull’ adeguamento del sistema carcerario. "Abbiamo prodotto progressi sul piano normativo - afferma - ed indicato le azioni amministrative che sono state realizzate in collaborazione con le Regioni, con il coordinamento delle Procure generali per il rimpatrio dei detenuti". "Abbiamo indicato i numeri che sono migliorati - ha concluso Orlando - ma che ancora naturalmente necessitano di un ulteriore lavoro". Occorre umanizzare pena e renderla utile "Occorre provare a umanizzare la pena, renderla utile e intervenire sui tassi di recidiva". Lo ha detto Andrea Orlando, ministro della Giustizia, a Napoli per una visita nel carcere minorile di Nisida. "Il sistema carcerario ha un costo elevato per ogni cittadino - ha sottolineato il ministro - ma ci sono tassi di recidiva altissimi, ogni euro speso frutta meno rispetto ad altri Paesi". "In questo senso ci sono istituti che hanno funzionato - ha precisato Orlando - come la messa alla prova, sperimentato nell’ambito minorile, abbassando notevolmente la recidiva". "Questa è la strada che dobbiamo percorrere - ha concluso il ministro della Giustizia - seguendo il senso comune, provando a dimostrare che i presupposti di chi dice che serve buttare via la chiave, non solo non rispondono al dettato costituzionale, ma nemmeno a un bene comune né a un interesse generale". Percorsi di recupero per i minori detenuti avanti fino a 25 anni "Introdurremo nei prossimi giorni una norma che consenta a chi ha iniziato percorsi di recupero, negli istituti di pena, di non interromperli a 21 anni, ma di arrivare fino a 25". Lo ha detto Andrea Orlando, ministro per la Giustizia, nel corso della sua visita al carcere minorile di Nisida, a Napoli. "Talvolta percorsi di recupero che hanno dato risultati vengono inficiati dal fatto che a 21 anni si va nel carcere dei grandi. Oggi ho annunciato che proseguiranno fino ai 25 anni per non vanificare lo sforzo di tutti". "Questo significa - ha aggiunto - non buttare via un percorso positivo". "In questi anni, il minorile è stato l’ambito dove è stato sviluppato un modello poi esteso a tutto il servizio giustizia - ha proseguito - anche in questi casi ci sono stimoli molto importanti". Per annunciare questa novità il ministro Orlando ha scelto Nisida, dove si è recato stamane in compagnia del suo capo di gabinetto, Giovanni Melillo. Scelta non casuale, visto che parlando, il guardasigilli, ha promosso l’operato dell’istituto penitenziario minorile: "Qui si sta realizzando un progetto importante, non semplicemente l’esecuzione della pena". Attraverso i progetti, "si recupera la vita dei ragazzi", cosa che, ha aggiunto il ministro, "non ha minor valore di quando i privati investono per il recupero di opere d’arte", anche perché, come ha affermato, "recuperare un giovane è recuperare un’opera d’arte". Nel corso della mattinata è stato presentato il volume "Il diario di Nisida, parole e immagini", realizzato dai ragazzi del carcere minorile. Giustizia: sul sito internet del ministero consultabile banca dati degli istituti penitenziari Asca, 25 maggio 2014 Da oggi è possibile entrare nella realtà degli istituti penitenziari attraverso la consultazione delle schede trasparenza pubblicate su www.giustizia.it. Il progetto, fortemente voluto dal ministro Andrea Orlando, è stato realizzato dalla redazione del sito internet ministeriale insieme all’Ufficio Stampa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Le schede consentono un accesso immediato alle informazioni sull’organizzazione, le attività e i servizi presenti in ciascun istituto penitenziario, comprese tutte quelle regole, anche le più dettagliate, che in molti casi sono specifiche di ogni struttura. Sarà così possibile per tutti i cittadini, e in particolar modo per i familiari dei detenuti, gli avvocati e i visitatori, conoscere come raggiungere il carcere, gli orari e le modalità dei colloqui, i generi alimentari e di vestiario che possono essere portati ai reclusi, le indicazioni su come inviare e ricevere lettere, telefonate, fax, telegrammi, mail, pacchi e denaro, così come ovviamente le informazioni sulle attività e i servizi riguardanti scuola, lavoro, formazione e iniziative culturali della singola struttura. Le schede rendono immediatamente visibile la specificità di ogni istituto penitenziario e l’impegno professionale svolto all’interno dai suoi operatori, offrendo inoltre, all’Amministrazione l’opportunità di una più semplice attività ricognitiva rivolta, in prospettiva, ad uniformare a livelli qualitativamente migliori, la vita nelle carcere. Le schede sono raggiungibili dal relativo pulsante posizionato sulla home page di www.giustizia.it, nonché dalla nuova versione del servizio Giustizia Map, aggiornato a seguito della revisione della geografia giudiziaria - che entro breve tempo sarà completato con i dati di tutte le 203 strutture italiane tra istituti e ospedali psichiatrici giudiziari. Il progetto contiene al momento i dati di 154 istituti. In breve tempo sarà completato con le schede delle restanti 49 strutture. Giustizia: Sappe; il contratto di lavoro poliziotti penitenziari è scaduto da ormai 7 anni Ansa, 25 maggio 2014 Sollecito al Governo per calendarizzare la riapertura del tavolo per il rinnovo del contratto di lavoro delle Forze di Polizia e dei Vigili del Fuoco, fermo da 7 anni. Lo formalizza Donato Capece, Presidente della Consulta Sicurezza, la principale organizzazione di rappresentanza del Comparto per numero di iscritti, costituita dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, dal Sap (il Sindacato autonomo di Polizia), dal Sapaf (sindacato autonomo Polizia ambientale forestale) e dal Conapo, il sindacato autonomo dei vigili del fuoco. "L’invito al Presidente del Consiglio Matteo Renzi si rende necessario per le reiterate sollecitazioni che ci pervengono da tantissimi operatori di sicurezza del nostro Paese, aderenti alla Consulta Sicurezza, che ci hanno sottolineato in più occasioni l’acuirsi del divario esistente tra la consistenza dei nostri stipendi ed il costo della vita", sottolinea il presidente della Consulta Sicurezza Capece. "Credo che il Governo non possa non tenere nel debito conto la necessità di rendere dunque dignitosi gli stipendi di coloro che quotidianamente rischiano la vita per la sicurezza del Paese e per la salvaguardia delle Istituzioni così come la necessità di evitare tagli indiscriminati agli apparati di sicurezza in ragione di contenimento della spesa che, di fatto, graverebbero sui cittadini. Spero infine che si dia finalmente corso - concretamente - a un riordino di tutte le carriere per una reale omogeneizzazione tra le varie Forze di Polizia del Paese, non dimenticando la soluzione delle annose problematiche dei vigili del fuoco che devono avere parità di trattamento rispetto agli altri Corpi dello Stato". Giustizia: caso Dell’Utri, "ok" definitivo all’estradizione dal presidente libanese Sleiman Corriere della Sera, 25 maggio 2014 Il presidente della Repubblica libanese Michel Sleiman ha firmato il decreto di estradizione per Marcello Dell’Utri poco prima della scadenza del suo mandato. Lo ha riferito all’Ansa il giudice Ahmad al Ayubi, che segue la vicenda per il ministero della Giustizia. Il giudice ha precisato che il decreto di estradizione diventerà esecutivo al momento della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale libanese, il cui prossimo numero dovrebbe uscire giovedì, "a meno di edizioni straordinarie in caso di necessità". Una volta che la decisione sarà stata ufficialmente comunicata ai ministeri degli Esteri, della Giustizia e dell’Interno italiani, verranno avviate le procedure per la consegna, che secondo fonti informate dovrebbero richiedere qualche giorno. Gli uffici dell’Interpol a Roma e Beirut dovranno concordare la data della consegna e a quel punto alcuni agenti dell’Interpol saranno inviati dall’Italia con un aereo di linea per prelevare l’ex senatore di Forza Italia, condannato con sentenza definitiva a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa Dopo il via libera del Consiglio dei Ministri all’estradizione, il 16 maggio scorso, si erano allungati più del previsto i tempi per la firma definitiva del decreto dalla massima autorità del Paese. Di conseguenza l’ex senatore azzurro, del quale era stato annunciato il rientro in Italia già per giovedì della scorsa settimana, era invece stato trattenuto in Libano. Il presidente Suleiman ha approvato il decreto in extremis, poche ore prima di lasciare, oggi, il palazzo presidenziale di Baabda, sulle colline a nord di Beirut, alla fine del suo mandato. In precedenza il documento era stato firmato dal ministro della Giustizia, Ashraf Rifi, e dal primo ministro, Tammam Salam, come richiesto dalla normativa. Ma se il capo dello Stato non avesse dato anch’egli entro oggi luce verde al provvedimento, i tempi per la consegna all’Italia si sarebbero potuti allungare di molto. Le forze politiche libanesi, infatti, non hanno ancora raggiunto un accordo per fare eleggere dal Parlamento il suo successore e quindi la carica di presidente sarà da domani vacante. Dell’Utri, arrestato il 12 aprile all’Hotel Phoenicia di Beirut e dal 16 aprile ricoverato in stato di detenzione all’ospedale Al Hayat, nel sud della Capitale, ha detto lunedì scorso di non volere ritardare l’estradizione e di non essere venuto in Libano per sottrarsi alla Giustizia. Ma ha annunciato che i suoi legali faranno ricorso presso la Corte europea per i diritti umani contro la sentenza con la quale la Cassazione ha confermato il 9 maggio la condanna inflittagli dalla Corte d’Appello di Palermo. Il 9 maggio scorso la Cassazione ha confermato la condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di Marcello Dell’Utri. Il caso giudiziario è durato 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, apertosi il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. Giustizia: caso Magherini; Riccardo è morto per asfissia dopo il fermo dei Carabinieri di Carlo Lania Il Manifesto, 25 maggio 2014 Periti concordi nello stabilire le cause della morte dell’ex calciatore della Fiorentina, deceduto dopo essere stato fermato dai carabinieri "C’è stata una forte situazione di paura, di agitazione, di dolore, di sofferenza e poi, preponderante, l’asfissia. C’è un’importante presenza di elementi univoci sull’asfissia riconosciuti da tutti, non sono stati contestati neanche dai consulenti della difesa. E allora se Riccardo Magherini è morto di asfissia, di cosa stiamo parlando, di una morte spontanea?". Sono arrivate a una svolta le indagini sulla morte dell’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina morto la notte del 3 marzo a Firenze dopo essere stato fermato da due pattuglie di carabinieri. L’avvocato Fabio Anselmo, che assiste la famiglia Magherini, ha reso pubblico il verbale steso dai consulenti tecnici della procura, degli indagati e della famiglia in cui si spiega come le cause della morte del quarantenne toscano siano "legate a un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale, cardiaco e asfittico". Un risultato che, come ricorda il legale, è stato sottoscritto da tutti i consulenti che chiedono anche al pm Luigi Bocciolini, titolare delle indagini, di mantenere il sequestro della salma dell’ex calciatore. Sono undici le persone indagate per la morte di Magherini: oltre a quattro carabinieri, accusati di omicidio preterintenzionale, nel registro degli indagati della procura fiorentina sono finiti anche i nomi di cinque operatori del 118 intervenuti con l’ambulanza dopo il fermo dell’ex calciatore e due centralinisti del 118. Per loro l’accusa è omicidio colposo. L’ipotesi sulla morte di Magherini è che ci sia stato un uso eccessivo della forza da parte dei carabinieri indagati. Ipotesi smentita dal legale dei militari, l’avvocato Francesco Maresca, per il quale il verbale dei consulenti "esclude segni di lesioni derivanti da traumi in seguito a percosse o addirittura pestaggio", facendo invece risalire la causa della morte "all’uso di stupefacenti". Non ci sarebbe nessuna violenza, per il legale, neanche dietro i traumi e le emorragie riscontrate sul corpo di Magherini, nonché la frattura di una costola che Maresca ritiene possa essere stata causata dal massaggio cardiaco a cui l’ex calciatore venne sottoposto. Tesi duramente contrastate dal legale della famiglia Magherini. "È falso dire che i periti hanno escluso il pestaggio. Il pestaggio c’è stato", spiega Anselmo. "È scorretto dirlo perché i periti non si sono occupati del pestaggio, ma della causa della morte". Che non è scritto da nessuna parte si possa attribuire all’uso di sostanze stupefacenti. È vero che Magherini faceva uso di cocaina, ma la dose trovata nel suo sangue, prosegue il legale, "è 0,4, una componente minima: seppure ne avesse determinato l’agitazione, non sarebbe possibile che una persona in perfetta forma fisica muoia perché è agitata". Per quanto riguarda i traumi ne discuteremo: se siano avvenuti per pugni, calci o schiacciamento al suolo sempre di un trauma si tratta. Bisogna smetterla di dare informazioni sbagliate - conclude Anselmo - tali da poter disorientare i numerosi testimoni che fino a oggi hanno raccontato dei calci inferti al povero Riccardo Magherini. Questa disinformazione va stigmatizzata". Ieri Guido Magherini, padre di Riccardo, ha lasciato un messaggio sulla pagina "Gli amici di Maghero" di facebook dedicata al figlio: "Ciao a tutti , sono Guido il babbo di Riccardo. Oggi è un giorno molto triste, perché abbiamo saputo quanto Riccardo abbia sofferto prima dio morire. Questo però ci darà ancora più forza per andare avanti per far sapere a Brando chi era suo padre, un uomo fantastico, unico che solo degli incapaci, per il momento poi vedremo come chiamarli, gli hanno tolto. A voi tutti grazie". Lettere: quando Claudia incontrò l’assassino del marito di don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) Il Mattino di Padova, 25 maggio 2014 Gli idioti scarabocchiano Acab ("gli sbirri sono tutti bastardi") sui piloni della luce come sui muri della città: alcuni di loro ne sanno il significato, altri lo ignorano, per altri va bene scriverlo anche senza saperne l’origine e l’ignoranza. Antonio Santarelli è un appuntato scelto dei carabinieri; Matteo Gorelli è poco più che Un ragazzo, con annessi e connessi dell’essere tale. I due s’incontrano una sera: il primo è in servizio, il secondo è nello sballo completo. In prossimità di un rave party (i mercati della morte notturna), la paletta d’ordinanza di Antonio ferma Matteo e i suoi tre amici: c’è un ritiro della patente per guida in stato di ebbrezza. Il ragazzo deraglia: raccatta un palo di ferro della recinzione e cede alla follia. Colpisce Antonio ripetutamente: l’altro collega in servizio perderà un occhio, Antonio morirà dopo tredici mesi di coma in stato vegetativo, lasciando Claudia e Niccolò da soli a campare. Per Matteo s’aprono le sbarre della galera: dapprima l’ergastolo, poi vent’anni definitivi da scontare. Era appena maggiorenne, per l’anagrafe uscirà che sarà uomo. Fin qui la loro di storia: storia di due uomini che una notte hanno incrociato il loro destino. Complicandosi inesorabilmente le proprie esistenze. Dietro di loro, però, ci sono due donne straordinarie: Claudia, la moglie della vittima e Irene, la mamma del carnefice. La mamma di Matteo scrive una lettera a Claudia: la cerca per chiederle scusa, per guardarla negli occhi, perchè non si perdona d’essere stata incapace di comprenderei silenzi di suo figlio Matteo. Una madre che, parole sue, vuole diventare "gli occhi di suo figlio" che ora è in carcere: per vedere, per toccare, per raccontare. È il destino delle donne: tenere accesa l’ultima fiammella quando già tutti gli uomini sono scappati. È la loro missione, è ciò che le rende donne: cucire gli strappi di una vita che ci s’intestardisce a non voler vedere perduta. S’incontrano, si sfogano, s’abbracciano: l’una per l’altra dispiegano una storia, cercando di svelare la verità di quella storia e di quella notte, uniscono le forze per risalire la scarpata dovei loro amori - per vie opposte - le hanno scagliate. Non demordono, ricominciano. Daccapo, ancora una volta. Irene ha incontrato Claudia. Adesso tocca al sogno di Claudia: incontrare Matteo, il ragazzo che le ha strappato l’amore. Aspetta, spera, attende: le donne sono capaci di questi attimi snervanti che sono i preludi di certe mattinate di speranza. Il giorno in cui lo incontra in una comunità protetta di Milano lo guarda negli occhi, ha bisogno di guardarlo negli occhi quel ragazzo. Due sguardi che si confrontano: la ribellione come prefazione della riconciliazione. E gli dona tutta la sua fede, di donna prima ancora che di credente: "Non si tratta di perdono", racconta Claudia di fronte a dei detenuti sbigottiti e lacrimanti, "ma di una riconciliazione (…) Il mio non è buonismo, Matteo deve scontare la pena ma in un posto giusto. E deve farlo per Matteo non per Antonio". Riconciliare: riportare al cuore. Quasi un addomesticare l’uomo giovane: riportarlo verso casa. Verso la casa della propria storia. Oggi Claudia e Irene viaggiano appaiate: una provocazione insopportabile in faccia ad un mondo giustizialista. Si sono alleate, hanno fondato un’associazione, coltivano la speranza: "Per me Claudia è diventata importantissima", conclude Irene, "è una di casa nostra, ho fiducia in lei". Detto così, con trasparenza di cuore dentro le sbarre di una grigia patria galera. Per fomentare l’unica guerra che valga la pena di combattere: quella contro i luoghi comuni che anestetizzano il cervello. Ho sognato una città dove prendano in mano il microfono solo persone che abbiano qualcosa di autentico da dire. Lettere: anche noi detenuti, come ci ha detto Ratzinger, viviamo finché vive la speranza di Totò Cuffaro (Detenuto nel carcere di Roma Rebibbia) Tempi, 25 maggio 2014 Caro direttore, grazie. "La ballata del carcere di Reading", è certamente una delle opere che ben descrive la vita dei reclusi e la loro disperazione. Mi confonde e mi emoziona che tu abbia pensato alla magnifica opera di Oscar Wilde per parlare del mio umile e scarso libro. Il grande poeta per molti anni dopo la galera e persino anche dopo la morte dovette portare il marchio infamante che gli impose la giustizia del puritanesimo vittoriano. Prego Dio di avere migliore sorte, ci spero ma non ci credo. Dice la ballata: "E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me: perché colui che vive più di una vita deve morire anche più di una morte". Ed io vorrei aggiungere che nella ballata del carcere di Rebibbia, per dirla con Gabriel García Márquez, ho "imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi". Il carcere è simile al Fenrir, che è un feroce ed enorme lupo partorito dal mito scandinavo, famoso perché ostile e nemico del popolo e al popolo. È creatura cattiva e portatore di disgrazie. Sempre tenuto incatenato, si serve però delle sue stesse catene per palesare la sua forza e la sua ferocia. Quando si tenta di imbrigliarlo, lui, Fenrir il carcere, azzanna i suoi padroni. Rabbioso, l’orrida bestia, ulula e ringhia, e con la bava che esce dalla sua bocca si alimenta un lago, il lago "Attesa"; e in attesa la bestia e il suo padrone tengono sempre le loro vittime. I detenuti, come il Fenrir, sono carichi di rabbia, ma al contrario del Fenrir sono anche carichi di speranza, non coltivano astio ma cercano amore. Si sentono emarginati dalla società e sentono che crolla loro addosso il mondo, ma lottano per liberarsi da ogni catena, lottano per vivere, sanno di avere solo una vita. La battaglia è difficile, faticosa, cruda, ma non hanno alternativa, devono combatterla. Lottare per noi detenuti vuol dire scegliere, difendere la dignità, alimentare la speranza, non consentire a Fenrir di estinguerci. Quando un giorno si riusciranno a spezzare le catene, tutte la catene, anche quelle di Fenrir si scioglieranno e Fenrir senza le sue catene morirà. Allora, solo allora finirà il carcere luogo per emarginare i cattivi, lontani dai buoni, e potrà rinascere come un luogo dove vive, piange, soffre, prega e spera un pezzo della nostra società. Allora sarà più libero il popolo e libero e certamente più buono lo Stato. Abbiamo il dovere di sperarci e di attendercelo, perché come ci ha detto Ratzinger, "l’uomo vive finché vive la speranza, la sua statura si definisce da cosa attende". Lettere: i detenuti di Arghillà al lavoro per recuperare alcune parti di Reggio Calabria da Giuseppe Musarella (Portavoce di Ethos) www.scirocconews.it, 25 maggio 2014 Pochi giorni fa, si è appreso dalla stampa che alcuni detenuti presso la Casa Circondariale di Reggio-Arghillà, anche grazie alla disponibilità della locale dirigenza dell’Amministrazione Penitenziaria, hanno scelto di lavorare senza retribuzione per bonificare e sistemare un terreno che la Parrocchia S. Aurelio Vescovo destinerà a parco giochi per i bambini. Semplice e concreto esempio di come aiutare gli altri, anche per sentirsi più utili alla comunità, possa far crescere tutti. In tale ottica e con questo spirito, Ethos, pochi mesi or sono, ha presentato alla Provincia ed all’Amministrazione Penitenziaria il progetto denominato "Il carcere al servizio della Città", prevedendo l’impiego di persone detenute presso la Casa Circondariale di Arghillà per il recupero e la sistemazione di alcune aree particolarmente importanti per la Città, quali, oltre la stessa Arghillà, la Villa Comunale, il parco giochi per bambini del V.le Calabria (loc. Botteghelle), i siti archeologici cittadini a suo tempo individuati da Ethos, con la preziosa collaborazione del prof. Daniele Castrizio, ed inseriti nel c.d. "Percorso o Circuito Archeologico Reggino". Aree di indubbio valore sociale, culturale, ambientale ed economico per l’intera comunità reggina, anch’essi abbandonati, da anni, al loro destino ed all’incuria dei soliti incivili. Poche settimane fa, la Provincia di Reggio Calabria ha deliberato il contributo di 5000 euro per l’avvio di tale progetto. Ethos ha già informato di ciò tutte le parti coinvolte, chiedendo la rapida convocazione del previsto tavolo tecnico per impiegare velocemente questi fondi, iniziando l’attività programmata. Ovviamente, i fondi fin’ora stanziati non sono tantissimi, ma sono sufficienti affinché si possa partire, anche a Reggio, con questo esperimento sociale che ha già dato ottimi risultati in altre realtà territoriali. Sarà cura di Ethos informare la Città e chiunque vi abbia interesse circa tempi e modi di utilizzo di questi 5.000 euro pubblici. Puglia: gli agenti salvano due detenuti dal suicidio, nelle carceri di Lecce e di Bari Comunicato Cosp, 25 maggio 2014 La situazione già esistente presso i reparti detentivi delle Strutture Penitenziarie Nazionali e Pugliesi è all’attenzione da tempo del Quirinale, di palazzo Chigi e del Vaticano i cui interventi sono stati da sempre improntati sulle criticità e sulle difficoltà di vivibilità ambienti penitenziari. L’impegno dell’Onorevole Ministro della Giustizia alla Cedu sulle Carceri Italiane e le eventuali paventate differite misure sanzionatorie di Bruxelles aiutano il percorso del Governo come quello del Dipartimento, ma questo non basta dalle notizie che ci pervengono tutti i giorni dalle prigioni italiane. Carcere di Lecce, questa notte alle ore 01,15 il detenuto S.J., leccese con posizione giuridica giudicabile per reato art. 416 bis c.p. ed altro ristretto presso la Sezione Osservazione As ha tentato il suicidio tramite impiccamento utilizzando il lenzuola legato alla grata della finestra della stanza. I rumori hanno svegliato il compagno di cella che accortosi che il suicida era già appeso cianotico ha immediatamente dato l’allarme e fortuna ha voluto che in quel momento la Polizia penitenziaria si trovava in giro d’ispezione vicino alla stanza di ubicazione del recluso posizionata in fondo al corridoio ultima stanza. Sono stati attimi interminabili ma vitali per salvare la vita al detenuto Leccese immediatamente soccorso ed affidato alle cure dei medici del Penitenziario è stato poi curato e sottoposto a grande vigilanza. Questo è il terzo tentativo da parte dello stesso recluso, altre due volte precedenti aveva ingerito materiale liquido quale detersivo e detergenti da water. Carcere di Bari, con circa 400 detenuti rispetto alle 300 regolamentari e con una sezione seconda in apertura, alle ore 14,10 circa il detenuto S.A. barese di 30 anni in attesa di giudizio, ristretto presso la Sezione Protetti-Promiscua ha tentato di auto sopprimersi tramite impiccamento con l’utilizzo di un laccio rudimentale fatto dalle lenzuola legate intorno al collo legate alla grata della finestra del bagno della propria cella. Anche in questo caso, come quello di Lecce, solo grazie all’allarme del compagno di cella rivolto ad attirare l’attenzione dei Baschi Azzurri di servizio intervenuti immediatamente nella cella, hanno potuto salvare il suicida. Il Penitenziario di Lecce la cui capienza regolamentare di 650 posti letto questa notte la conta batteva 1.120 reclusi di cui oltre 400 ad Alta Sicurezza, la Polizia Penitenziaria circa una trentina per tutta la Città penitenziaria leccese, lavora in sotto organico occupando a volte due e tre posti contemporaneamente di servizio con non poche difficoltà ma sempre vigili, attenti, operativi ed altamente qualitativi e proprio a Loro gli "Angeli silenziosi" va il plauso del Cosp Coordinamento Sindacale Penitenziario per le tante vite che quotidianamente salvano nel silenzio più assordate della politica europea delle carceri. Il Sindacato segnala, sempre a Lecce Carcere in data 22 maggio u.s. nelle ore pomeridiane mentre fruivano dell’ora al cortile passeggio, alcuni reclusi avrebbero inveito contro altro detenuto procurandogli delle ferite lacero contuse all’altezza della fronte con più punti di sutura nell’immediato soccorso medico e di Polizia Penitenziaria. La Regione Puglia resta tra i primi posti nazionali per sovraffollamento detentivo al 77% rispetto alla propria capienza detentiva stimata in 2.450 posti sarebbero ospitati ben 3.600 detenuti in 10 strutture penitenziarie. Ecco perché bisogna sempre e comunque dialogare con l’amministrazione territoriale e regionale, solo con il dialogo si costruiscono nuovi e maggiori sentieri di interventi a favore dell’utenza come degli Operatori della Sicurezza, girarsi di "spalle" alla propria amministrazione, potrebbe questo indebolire il confronto civile e democratico come il raccordo tra Mondo Sindacale e quello Penitenziario, un rischio che il Cosp non vorrebbe mai correre. Un Grande meritato plauso seguito doverosamente dal nostro ringraziamento lo dedichiamo Polizia Penitenziaria Pugliese in sotto organico di 600 unità rispetto agli attuali numeri d.m. 22.3.2013 stimati in 2.448 unità, come un particolare sentito ringraziamento agli attori principali di queste ultime ore che hanno salvato più vite umane sono i Baschi Azzurri delle carceri di Lecce e Bari. Preoccupazione viene esternata dal Vice Segretario Regionale Cosp Alessano Pasquale in servizio nella sede di Lecce Carcere per la carenza di polizia e di risorse economiche al settore, una preoccupazione condivisa dalla Segreteria Generale Nazionale che si farà portavoce nelle giuste sedi. Treviso: detenuto per mesi e poi assolto, fa causa al carcere per lo spazio ridotto della cella La Tribuna di Treviso, 25 maggio 2014 Si è sempre dichiarato innocente. Ma, per mesi, in attesa della sentenza, ha dovuto condividere una cella di venti metri quadrati con altri cinque detenuti del carcere Santa Bona. Uno spazio vitale di poco più di tre metri quadri, di fatto dimezzati al netto di mobili e bagno. Il 14 maggio il giudice ha emesso nei suoi confronti una sentenza di assoluzione: non era colpevole dei reati di furto e ricettazione. Ora è un uomo libero, ma non ha dimenticato. Assistito dal suo avvocato, Enrico Villanova, del foro di Treviso, ha deciso di rivolgersi al magistrato di sorveglianza per denunciare le "condizioni inumane in cui è stato costretto a vivere la custodia cautelare in carcere". Di fatto, ha portato alla sbarra l’istituto di pena in cui è stato detenuto. Il 22 maggio, nel corso dell’udienza, il magistrato ha ascoltato il racconto di V. S. e degli altri detenuti che, come lui, hanno deciso di denunciare lo stato in cui versa il carcere di Treviso. "L’amministrazione penitenziaria ha dimesso memorie", ha spiegato l’avvocato Villanova, "giustificandosi di non essere nella condizione di limitare l’accesso al carcere e di non avere sistemi alternativi in relazione agli spazi". "Secondo l’amministrazione penitenziaria poi lo spazio utile andava conteggiato al lordo dei servizi igienici e dei mobili presenti nella stanza e non al netto", continua il legale del ricorrente. Detenuti ed ex detenuti, forti di una modifica della legge sull’ordinamento penitenziario, possono rivolgersi al magistrato di sorveglianza per presentare eventuali reclami sulle condizioni di vita in carcere. Il magistrato ha chiesto all’amministrazione del carcere di Santa Bona di Treviso di presentare al più presto la documentazione relativa agli spazi in cui sono detenute o sono stati detenute le persone che hanno presentato il ricorso. Su Venezia invece la situazione è ancor più delicata: il magistrato ha previsto per il prossimo giugno un’ispezione dello Spisal. Cagliari: Uil Penitenziari; al Buoncammino detenuto aggredisce agente e si autolesiona Ansa, 25 maggio 2014 Aggredisce un agente della Polizia penitenziaria, poi si lascia andare all’autolesionismo ferendosi con una lametta e sputa sangue in faccia alla guardie. Ancora momenti di tensione all’interno del carcere cagliaritano di Buoncammino. Un detenuto ha aggredito un agente e si è ferito, mentre un altro - lo stesso individuo dell’incendio di pochi giorni fa - ha allagato la sua camera. Gli episodi sono avvenuti giovedì. A renderlo noto è il coordinatore provinciale di Cagliari della Uil Penitenziari, Raffaele Murtas. "Dopo pochi giorni dall’incendio appiccato da un detenuto con problemi psichiatrici, dobbiamo segnalare un altro episodio che ha creato tensione. Anche in questo caso gli agenti hanno dimostrato grande professionalità nel gestire la situazione". Il detenuto bloccato dai poliziotti è stato poi ricoverato nel reparto di psichiatria di un ospedale cittadino. Sempre giovedì lo stesso detenuto che aveva appiccato il rogo ha allagato la propria camera. "Ci stupisce l’immobilismo dell’Amministrazione - spiega Murtas - è stato comunicato che presumibilmente a giugno avverrà il trasferimento nel nuovo istituto di Uta, ci chiediamo come si possa iniziare la sorveglianza dinamica con dei detenuti ingestibili". Sassari: processo morte di Marco Erittu. Il pm "progettava il suo futuro… non il suicidio" di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 25 maggio 2014 È proseguita ieri la requisitoria di Giovanni Porcheddu: ma quale suicidio, l’hanno ammazzato perché sapeva troppo. Marco Erittu voleva uscire dal carcere e riprendere in mano la sua vita. Stava già cercando una casa dove andare a vivere una volta fuori da San Sebastiano, aveva progetti per il futuro. "Non si sarebbe mai ucciso - avevano detto le sorelle, sentite dagli inquirenti dopo la morte del detenuto - Voleva curarsi i denti, occuparsi della famiglia. L’autolesionismo? Erano solo atti dimostrativi che gli consentivano di restare in isolamento". Lontano, quindi, dalle paure che negli ultimi tempi lo assillavano. La seconda parte della requisitoria. Ha toccato questi e altri aspetti il pubblico ministero Giovanni Porcheddu durante la seconda parte della requisitoria nel processo per la morte del detenuto Marco Erittu (trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007). Lunedì scorso il pm ha parlato per otto ore, ieri per altre quattro. E non ha ancora concluso, le richieste sono rinviate a lunedì prossimo. La tesi della Procura. La pubblica accusa è convinta che il detenuto non si sia ammazzato. Il caso, archiviato in un primo momento come un suicidio, era stato riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella. Quest’ultimo si era autoaccusato dell’omicidio e aveva chiamato in causa Pino Vandi come mandante e Nicolino Pinna come suo "assistente" nell’esecuzione materiale del delitto. Mentre Mario Sanna, l’agente di polizia penitenziaria addetto quel giorno alla sorveglianza, avrebbe aperto la porta della cella al commando. Altri due agenti sono imputati per favoreggiamento: Gianfranco Faedda e Giuseppe Soggiu. E, sempre stando alla versione del reo confesso, Erittu sarebbe stato ammazzato perché voleva raccontare ai magistrati i particolari sul (presunto) coinvolgimento di Vandi nella scomparsa del farmacista di Orune Paoletto Ruiu e del muratore di Ossi Giuseppe Sechi. Le ansie della vittima. Proprio per questo "Erittu si sentiva in pericolo - ha spiegato ieri il pubblico ministero - Annotava nei suoi quaderni tutto quello che succedeva in carcere. Ripeteva sempre: "Mi vogliono ammazzare, mi fanno i dispetti". Il riferimento in particolare è al giorno in cui le guardie trovarono un grammo di cocaina nella sua scarpa, in cella: "Disse: "Me l’hanno messa loro la droga". In seguito a questo ritrovamento Erittu fu denunciato e sottoposto a un provvedimento disciplinare che gli impedì di ottenere i domiciliari. Rimase molto scosso per questo. In carcere aveva la nomea del confidente delle forze dell’ordine, tanto che i detenuti lo chiamavano "il finanziere". "Ma lui non si voleva arrendere ai soprusi - ha spiegato il pm - Giurava che chi gli aveva messo la droga nella scarpa l’avrebbe pagata cara". La lettera scomparsa. È un nodo cruciale dell’inchiesta. Era risaputo che la vittima volesse un incontro con l’allora procuratore capo della Repubblica Giuseppe Porqueddu. "La richiesta di colloquio - prosegue il pm - era stata inoltrata con modello 13 (una particolare procedura che configura il carattere d’urgenza e che passa attraverso l’ufficio matricola del carcere ndr) e aveva un busta chiusa come allegato. Ma quella lettera non solo venne spedita con un giorno di ritardo contrariamente a quanto prevede la prassi ma non arrivò mai a destinazione". Ed entra nuovamente in scena Bigella che racconta agli inquirenti: "Vandi un giorno era molto agitato, mi disse che Erittu era andato all’ufficio matricola per consegnare il modello 13, glielo aveva riferito "l’agente corrotto" grazie al quale erano riusciti a prenderla loro la richiesta". Quella lettera, secondo l’accusa, testimoniava il fatto che la vittima volesse riferire davvero a Porqueddu particolari scottanti sulla scomparsa di Ruiu e Sechi. E ci sarebbe un apposito registro dal quale emerge nero su bianco che dei 16 atti partiti quel giorno dal carcere e destinati alla Procura, tre erano con modello 13 ma solo due di questi furono recapitati (appartenevano ad altri detenuti), quello di Erittu invece non arrivò mai a destinazione. I sequestri Ruiu-Sechi. "Due fatti legati indissolubilmente - dice il pubblico ministero Giovanni Porcheddu - Il giorno dopo la scomparsa di Sechi (22 marzo 1994) venne mandato un orecchio ai familiari di Ruiu (sequestrato il 22 ottobre del 1993)". Era la prova in vita del loro caro che serviva per ottenere il riscatto. Ancora una volta Bigella racconta: "Erittu mi disse di aver visto persone che seppellivano Sechi". Anche un altro detenuto, Massimiliano Pilo, sentito in aula durante il processo, confermò di aver saputo da Erittu il luogo in cui era seppellito il muratore di Ossi: un terreno nella località Tana di Lu Mazzoni, a Sassari. Da qui ripartirà la requisitoria del pm che si concluderà lunedì mattina. Porto Azzurro (Li): i sindacati chiedono la chiusura di un padiglione del carcere Il Tirreno, 25 maggio 2014 "Il padiglione terzo reparto del carcere di Porto Azzurro deve essere chiuso". La richiesta arriva dalle organizzazioni sindacali Sippe, Cgil e Uil che hanno scritto al provveditore regionale Carmelo Cantone e al direttore del carcere per segnalare, per l’ennesima volta, le condizioni critiche dell’sitituto penitenziario di Porto Azzurro. "Le criticità alla casa di reclusione di Porto Azzurro sono oramai arrivate ad un livello insostenibile - spiegano i sindacati - gli impianti (idrici, fognari ed elettrici) sono vecchi e si ripetono spesso delle interruzioni che indirettamente vanno a minare l’ordine e la sicurezza con continui malcontenti tra i reclusi che, purtroppo, sfociano in vere aggressioni al personale di polizia penitenziaria". Di recente, aggiungono i sindacati di polizia penitenziaria presenti nel carcere di Porto Azzurro, "si è verificato un danno alle tubature da cui dovrebbero defluire i liquami nella rete fognaria". Pur in mancanza di un direttore titolare, i lavori sono stati affidati a una ditta esterna. "Ma sarà necessario attendere varie settimane - spiegano i sindacati - intanto però ci sarà maggior carico di lavoro per il personale, il rischio che siano messi in atto tentativi di evasione considerata l’area interessata dai lavori e la compromissione della sicurezza sotto il profilo igienico-sanitario". Per questi motivi le organizzazioni sindacali, con una nota congiunta diretta al provveditore, hanno chiesto la riduzione del numero di detenuti, proponendo la chiusura del padiglione terzo reparto, che a causa delle condizioni strutturali (docce, scale, impiantistica, inferriate), si mostra meno adatto al contenimento, in condizioni di sicurezza minima, di soggetti detenuti. Trieste: detenuto di 76 anni con una gamba rotta, è senza casa… quindi resta in carcere di Matteo Unterweger Il Piccolo, 25 maggio 2014 Respinta dal giudice di sorveglianza Bigattin la richiesta dei domiciliari per un anziano condannato per bancarotta che ha bisogno di cure. Non ha un’abitazione dove andare, né le risorse economiche per potersi pagare le rate da ospite in una casa di riposo. Così, a 76 anni abbondanti e con problemi di ipertensione e difficoltà deambulatorie, rimane in cella. Nel carcere di via del Coroneo. A scontare la condanna inflittagli per concorso in bancarotta fraudolenta, con sentenza del Tribunale di Trani del 3 maggio 2012, e in emissione di fatture per operazioni inesistenti, con pronuncia del Gup del Tribunale di Trieste. Ha iniziato a espiarla nell’ottobre scorso, con fine pena ad agosto 2017. Ma l’età, le condizioni di salute e la tipologia di reati per cui è stato giudicato colpevole, unite al problema nazionale cronico del sovraffollamento delle carceri, non dovrebbero indurre a ritenere consona la misura alternativa degli arresti domiciliari? In effetti, l’avvocato Sergio Mameli, legale del triestino classe 1937 Vincenzo Varesano - il protagonista di questa vicenda, aveva presentato lo scorso 7 gennaio istanza per la concessione provvisoria della detenzione domiciliare. Peraltro, dieci giorni dopo, il 17 di gennaio, al Coroneo, Varesano si era fratturato il femore destro cadendo. Dopo le cure era stato accolto in una Rsa per la riabilitazione. Infine, ritrasferito in carcere. Ad aprile, era giunta la decisione del magistrato di sorveglianza Emanuela Bigattin, che aveva rigettato la richiesta dell’avvocato Mameli proprio per l’assenza di alternative di accoglienza e di risorse economiche di Varesano, specificando come dovessero essere le assistenti sociali Uepe a verificare eventuali altre soluzioni per trovare un tetto all’uomo. Il quale, però, è ancora in carcere. "È inconcepibile non si possa trovare una sistemazione - tuona l’avvocato Mameli, sottolineando anche l’assenza di gravi esigenze cautelari a carico del proprio assistito, non disponendo il signor Varesano di un alloggio. Perché in tre mesi non sono stati in grado di arrivare a una soluzione?". Il Garante dei diritti dei detenuti, Rosanna Palci, è a conoscenza del caso: "In generale, se vi sono case disponibili o riferimenti di parentela, le situazioni sono diverse - spiega Palci. La circostanza, qui, non aiuta. Per un mese la persona è stata in una Rsa: dopo il periodo di permanenza gratuita, è subentrato il problema del pagamento. Sarebbe possibile il trasferimento in casa di riposo, dove è però necessario pagare. Il sanitario dell’istituto (penitenziario, ndr) sta vedendo: ci sono centri clinici dove poter inserire i detenuti per gravi patologie. Certo è - conclude - che effettivamente questo è un caso limite. E il magistrato deve avere parametri di certezza" per applicare misure alternative. Così, l’assessore comunale alle Politiche sociali, Laura Famulari: "Sarebbe corretto ci fossero finanziamenti ad hoc, statali e regionali, per poter intervenire anche su tali problematiche. Il Comune non ha le risorse per farlo". Frosinone: una giornata nelle patrie galere… aspettando la decisione di Strasburgo di Radicali Frosinone www.radicali.it, 25 maggio 2014 Resta difficile riassumere quanto effettivamente accaduto a noi Radicali ciociari nella visita di quasi 4 ore tra i detenuti del carcere circondariale di Frosinone, in quanto migliaia sono le emozioni ed i sentimenti provati e tutti difficilissimi da tradurre in un report. Ovviamente il ns primo pensiero e sincero ringraziamento va al ns segretario nazionale, Rita Bernardini, che con i suoi uffici ha permesso a noi di poter fare questo "viaggio" in questo sistema parallelo al ns ove vengono spinti coloro che hanno sbagliato dimentichi poi che, presto o tardi a seconda le pene inflitte e scontate, questi ritorneranno e saranno i ns vicini in autobus, in metropolitana, col carrello della spesa. Spesso tra i mass media, talvolta con fare troppo disinvolto, sentiamo accordare a svariate persone capacità e doti subliminali rivendicando a queste le "le famose, connaturate , implicite peculiarità del popolo italiano". Se per sbaglio uno solo di questi giornalisti avesse il tempo di recarsi dentro un carcere nostrano troverebbe le tanto decantate "capacità italiche" altissimamente concentrate tra queste 4 mura, evidenti proprio ed in primis nel personale ispettivo che lì dentro opera e si spende nella sorveglianza. Sono senza alcun dubbio persone normalissime ma con uno straordinario senso del dovere e del sacrificio e seppur in un organico sistematicamente insufficiente riescono a coprire ogni funzione a loro assegnata, e per di più in un luogo che non potremo definire facile, con un’abnegazione e capacità che ci è impossibile descrivere se non invitando tutti a viverla almeno un giorno al loro fianco. Encomiabili ci sono apparsi sotto ogni punto di vista. Sempre disponibili al dialogo coi detenuti, al confronto, alla battuta, aperti alla comprensione talvolta non proprio meritevole, veramente buoni padri di famiglia, mai irritati o irritanti. Il merito di avere un corpo di vigilanza così specializzato ed altamente consapevole passa ovviamente per le enormi capacità di governo ed indirizzo esercitate dalla dirigenza dello stesso istituto che, come abbiamo potuto appurare, sa bene cosa, dove e quando applicare il suo governo di regola ed indirizzo. In una situazione nazionale caotica, convulsa al limite di una crisi sempre imminente vedere come si tenti e almeno si riesca nella stragrande maggioranza delle volte a esercitare le funzioni riabilitative che lo Stato deve obbligatoriamente esercitare nei confronti di chi ha commesso anche enormi errori nella propria vita, riconcilia e corrobora nella fiducia nelle stesse istituzioni. Inutile riportare le mille e uno voci che tra i detenuti si sono rivolte a noi: varia e dolorosa umanità, direbbe il poeta, che per principio rifiuta l’autocommiserazione e reclama solo il suo diritto ad un vivere civile, seppur ristretto, nelle carceri e di poter dire la propria. Certamente in questa realtà si sono oramai persi, e per fortuna, tutti quei modi ruvidi e poco civili che hanno caratterizzato l’ambiente nei decenni passati: possiamo affermare appunto che non esiste più un approccio tra le parti presenti di superiore e subalterno. Lo diciamo con forza: meno male! Qui, forse, questa nuova pagina è stata scritta proprio grazie a noi radicali e alle ns continue e ripetute visite e proposte: tentiamo di dire che se le cose non sono degenerate, vista l’oramai cronica insufficienza di spazio all’interno del settore carcerario italiano, alle carenze in educatori, alla latitanza della magistratura di sorveglianza etc., un po’ lo si deve proprio alla prodiga e sentita partecipazione del ns movimento nel sistema carcerario italiano. Purtroppo però le cifre sono catastrofiche. 530 detenuti stipati in una struttura che ne può ospitare 250, il sottodimensionamento della polizia penitenziaria è preoccupante, mancano almeno cinquanta guardie carcerarie con tutto ciò che ne consegue in termini di stress lavorativo, la struttura si presenta decadente ed ha bisogno di ingenti attività manutentive, nella sezione 4 dove vengono ospitati oltre cinquanta detenuti è presente una sola doccia funzionante e un solo lavabo, la raccolta differenziata è un’utopia e solo una percentuale ridotta è coinvolta in attività lavorative. Le educatrici sono solo cinque che non riescono a far fronte alle innumerevoli richieste, la modulistica per reclami e denunce scarseggia, i materassi sono spesso inidonei per qualsiasi attività di riposo. Un nuovo padiglione è già pronto per poter ospitare altri 250 detenuti, ma è da oltre un anno che si aspetta il collaudo, anche se il personale e lo stesso direttore sono fiduciosi sulla ormai imminente apertura. La struttura infermieristica può valersi di un valido e volenteroso dirigente medico che però ha a che fare con scarsità di mezzi interni e personale che varia in continuazione e che non riesce a garantire modus operandi e efficacia all’azione sanitaria. Un caso particolare ha carpito la nostra attenzione, quello di un 45enne romano, seminfermo di mente e incontinente che, con amore familiare viene accudito dal suo compagno di cella; il dirigente sanitario ci ha rassicurato che a breve verrà trasferito in una struttura sanitaria adeguata alla sua condizione di salute, speriamo che quel presto si trasformi in subito. Le mancanze sanitarie spesso dipendono dalle liste d’attesa della sanità nostrana che impediscono esami accurati in tempi ragionevoli. L’impegno per migliorare le cose certo non manca al nuovo direttore, ma è oggettivamente difficile migliorare una situazione deficitaria come questa. Il nostro impegno dichiarato sarà quello di ripresentarci appena possibile in questa e nelle altre strutture di sorveglianza presenti nella ns provincia con l’intento di poter essere utili con le ns segnalazioni non solo ai detenuti ristretti in quelle mura ma al "mondo parallelo" delle carceri italiane in genere, impegno da assolvere solo per trasmettere, quasi fotografare nella maniera più veritiera possibile, quello che veramente succede in "quest’altra parte del ns mondo" in modo che un domani da parte delle istituzioni non si possa semplicemente dire "non sapevo, ero all’oscuro di tutto". Padova: Boscoletto (coop. Giotto); portare il lavoro in carcere è la nostra unica via di fuga Il Mattino di Padova, 25 maggio 2014 Boscoletto: i detenuti con un’ occupazione hanno una recidiva dal’1 al 10%, gli altri restano fra il 70 e il 90% e un carcerato costa in media 250 € al giorno. Oggi si vota per l’Europa, tuttavia nelle campagna elettorale appena terminata poco si è parlato di Europa, del fatto che molte leggi che governeranno il nostro futuro saranno europee e molte regole in diversi settori verranno stabilite dall’Unione dei 28 Paesi e andranno rispettate. E niente si è detto di una imminente scadenza, quella del 28 maggio, quando scadrà l’ultimatum all’Italia per la condizione in cui versano le nostre carceri. O l’Italia si mette in regola o fioccheranno multe di decine e decine di milioni di euro. Nicola Boscoletto da 25 anni opera nelle carceri facendo lavorare i detenuti. Grazie a questa e ad altre attività presenti nella Casa di reclusione Due Palazzi di Padova ha permesso alla città del Santo di esprimere un’eccellenza a livello nazionale e internazionale. È a lui che chiediamo: cosa succederà dopo il 28 maggio, dopo che l’Europa ha concesso un anno di tempo all’Italia per rientrare nei parametri previsti dall’Unione? "Certo, l’Italia in questo anno non è stata a guardare, ha iniziato a rimuovere alcune macerie. Quello che si è fatto negli ultimi due anni, prima con il Ministro Paola Severino e poi con il Ministro Annamaria Cancellieri non si era mai fatto. Rimane molto da fare, moltissimo soprattutto per quanto riguarda il cuore delle funzione del carcere e cioè il trattamento, la funzione rieducativa che ci detta l’ormai famosissimo e pluricitato art. 27 della Costituzione". Scusi Boscoletto, l’Italia non sarà stata a guardare ma mi sembra che lei stia dando un credito eccessivo ai ministri quando invece tutto il terzo settore che opera nelle carceri è infuriato per le condizioni in cui sono i nostri istituti di pena al punto che il processo di infrazione sembra proprio inevitabile. "Il primo ad essere arrabbiato sono io e se si riferisce alla lettera-appello firmata da tutto il mondo del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione italiana, stia tranquillo ci siamo anche noi. Però è più forte di me non riesco a essere negativo, stiamo assistendo tutti i giorni a urla, tutti si offendono tutti si attaccano, tutto va male, mai vista così tanta gente che vuole il bene del popolo. Poi in Italia c’è questo fenomeno particolare che quando una cosa non va è sempre colpa degli altri, anche quando sei solo a fare una cosa". Va bene, ma il 28 maggio è qui e le condizioni dei carcerati non sono migliorate, i metri quadri per detenuto calano ogni giorno per un affollamento che ha raggiunto proporzioni inaccettabili. "Certo, ma ridurre tutto ad una questione di metri quadri è un errore. Sia chiaro è importantissimo avere un minimo di spazio vitale, ma non fare niente in 3 metri quadri e non fare niente in 7 metri non cambia molto. Se non diamo una risposta vera, seria, rispettosa dello scopo della pena a chi esce e a chi in carcere vi rimane, rischiamo di essere degli ipocriti burocrati e di perdere questa grande occasione in cui l’Europa ci ha costretto a riprendere in mano il nostro sistema penitenziario". Siamo, stando agli ultimi dati, al penultimo posto in Europa, dopo la Serbia! "In questi anni ho conosciuto e approfondito il tema carcere a livello europeo e mondiale. Il problema delle persone rinchiuse nelle carceri è una piaga e una vergogna europea e mondiale. Prendiamo i tanto citati paesi nordici, Svezia, Norvegia, Danimarca. In alcuni casi spendono anche 500 euro al giorno a detenuto, 15.000 euro al mese, per avere quali risultati? Quando va bene una recidiva tra il 40 e il 30% da una parte e un tasso di suicido dopo il fine pena molto più elevato della media. Non è oro tutto ciò che luccica. Certo le cose in Italia vanno male, molto male, ma non da oggi o da quando ci ha scritto l’Europa: vanno male da 30 anni. Però ci sono anche cose buone, poche ma ci sono". Quali? "Ad esempio tutto quello che in questi anni il volontariato, l’associazionismo e la cooperazione hanno fatto versando sangue e lacrime e spesso ostacolati da chi doveva fare le cose o aiutare chi le faceva. Senza togliere nulla all’importanza di tante altre cose, l’esperienza di far lavorare i detenuti attraverso la collaborazione qualificata del mondo delle imprese sociali è sicuramente il fiore all’occhiello che l’Italia ha sviluppato e che è oggetto di studio e riproduzione in molti paesi del mondo. Certo sono pochi esempi e piccoli numeri ma rappresentano una strada collaudata. Rappresentano una speranza. I numeri sono piccoli in quanto solo il 4%, (2.250 detenuti) ha un lavoro degno di questo nome. Il tasso di disoccupazione è del 96%. La recidiva sul 4% (quelli che lavorano) si attesta, in base ai percorsi, tra il 10 e l’1%, mentre per il restante 96% (quelli che non lavorano) si attesta tra il 70 e il 90%. Se aggiungiamo che un detenuto costa alla collettività complessivamente 250 euro al giorno il conto è presto fatto". Diceva di processi ostacolati da chi doveva fare le cose e doveva aiutare, a chi si riferisce? "Non è semplice dare un nomee cognome perché quando è un sistema - la solita burocrazia, gli apparati, gli interessi, le cose consolidate - che non va, che non funzione, fai fatica. È come entrare in autostrada e immettersi nella direzione prescelta, appena fatta la curva che ti immette nel rettilineo vedi tutte le macchine che ti vengono contro, allora pensi, oh Dio sono in contromano. Ti fermi, guardi bene e ti rendi conto che hai scelto la direzione giusta e che sono tutti gli altri contromano. Eppure se non ti tiri via tu, ti asfaltano". Cosa bisogna fare per fermare il flusso contro senso? "Una cosa semplice, nello specifico rispettare le leggi più belle che il nostro sistema penitenziario ha, rispettare lo scopo che la nostra costituzione si è data. La legge Smuraglia, ad esempio incentiva le cooperative sociali e le imprese ad occuparsi di lavoro per i detenuti, è la migliore che ci sia e non perché lo diciamo noi, anzi spesso noi siamo bravissimi a fare le cose migliori e poi a distruggerle, mentre il resto del mondo ce le copia". Ma come si fa con la crisi e la disoccupazione spendere soldi per dar lavoro ai detenuti? La gente si infuria… "Non si tratta di spendere ma di investire. Ogni milione di euro investito nella rieducazione attraverso il lavoro, che ricordo essere per legge un obbligo nei confronti dei detenuti, se ne risparmiano nove, ripeto nove. Quindi vuol dire che a chi fuori non ha il lavoro, alla scuola, alla sanità, al sociale, agli esodati, agli anziani possiamo dare non 1 milione di euroma8, 80, 800 milioni di euro. È un problema di mala informazione e di un uso del tema della sicurezza per scopi diversi da quelli previsti". Rimane tuttavia la scadenza del 28 maggio e il presidente Napolitano continua inascoltato a incalzare il Parlamento perchè intervenga, prenda decisioni. Amnistia e indulto sono la soluzione? "Ho espresso di recente il mio pensiero in merito all’amnistia e indulto e ho detto che da sole non bastano. Senza prevedere soluzioni, percorsi di reale accompagnamento per chi esce e di reale rieducazione per chi rimane, prendiamo tutti in giro. La pena come ci ricorda Sant’Agostino ha una duplice finalità, la conservazione della società e la correzione del reo. Oggi abbiamo creato un sistema che crea insicurezza sociale a un costo folle, miliardi di euro ogni anno". Abbiamo tempo? La scadenza incombe. "Abbiamo tutto, basta volerlo e assumersi la responsabilità. Lo sa che oggi con le leggi attuali almeno 5000 detenuti sono nei termini per ottenere i cosiddetti benefici, cioè modi diversi di espiare la pena facendo un percorso rieducativo e non regalie, quali i permessi, l’articolo 21, la semilibertà e l’affidamento ai servizi sociali? Per non parlare di tutti i detenuti con problemi di tossicodipendenza". Resta il fatto che al momento la situazione è insostenibile: oltre alle condizioni inumane vanno messi in conto i suicidi in carcere, compreso quello degli agenti di polizia penitenziaria, come avvenuto di recente al Due Palazzi. "Quando si suicida una persona, un agente o un detenuto è sempre un dolore e una sconfitta, una pesante sconfitta dello Stato, cioè della società tutta, che con questi fatti dimostra di ottenere il contrario di quello che persegue. Sono tragedie su cui non si può speculare come qualcuno ha fatto e continua a fare. Se un’azienda va male, non funziona, almeno una piccola parte dei problemi che ci sono dipendono anche da chi in azienda ci lavora, questo vale per tutti, non può essere sempre e e solo colpa degli altri". Nel Veneto la situazione è la stessa che nel resto del Paese In Veneto esistono dieci istituti di pena. Fino a pochi mesi fa a Belluno, a fronte di una capienza regolamentare di 92 posti, erano presenti 136 detenuti (5 dei quali donne). A Padova i numeri più allarmanti: nella casa di reclusione il limite è stato doppiato. Oltre 915 detenuti contro un numero dichiarato di 439 posti. Limite raggiunto anche nella casa circondariale, con 208 "celle" occupate su spazi sulla carta per 210 persone. Tutto esaurito anche a Rovigo, con 76 carcerati. Stessa situazione a Treviso, con 293 persone detenute contro spazi per solo 128 carcerati. È l’istituto di pena femminile della Giudecca l’unico carcere del Veneto a non patire il sovraffollamento: a fine 2013 erano 75 le detenute, contro una capienza di 104 persone. Al "Santa Maria Maggiore" di Venezia, 284 detenuti a fronte di 168 posti dichiarati. A Vicenza 319 persone in carcere, contro un limite di 146. E a Verona 865 carcerati rinchiusi i una struttura che ne potrebbe contenere al massimo 594. Teramo: nel carcere di Castrogno, un agente per 100 detenuti Il Centro, 25 maggio 2014 Nel giorno della festa del Corpo grido d’allarme del comandante: "L’emergenza è quotidiana, siamo ignorati da tutti". È un altro grido d’allarme che si leva da Castrogno quello che il comandante della polizia penitenziaria lancia nel giorno in cui si celebra il 197° anniversario della fondazione del corpo. Nel carcere più affollato d’Abruzzo e con il più basso numero di agenti in servizio, il comandante Osvaldo Vaddinelli non usa mezzi termini quando dice: "Qui a Teramo, forse più che altrove, sulle istanze del personale di polizia e, quindi, del comandante, il silenzio è assordante, tale è lo stato di abbandono. Per dirla in altro modo l’impossibile già lo stiamo facendo, ma per i miracoli dobbiamo attrezzarci. In questa struttura penitenziaria l’emergenza, ormai da tempo, è la quotidianità". E allora eccolo il comandante ringraziare "gli uomini e le donne della polizia penitenziaria per la professionalità, il senso del dovere e di umanità che contraddistinguono il loro agire istituzionale". E i dati elencati sono lì a testimoniare una realtà sempre più difficile: "La carenza di personale si attesta ben oltre il 25% della pianta organica fissata in 209 unità, il sovraffollamento detenuti si attesta sul 50 %. Una emergenza che gli agenti vivono ogni giorno. Basti pensare che un solo agente deve assicurare la vigilanza e l’osservazione di un intero piano con circa 100 detenuti. "Dispone", dice Vaddinelli nel suo discorso, "solo di un mazzo di chiavi e di un telefono cordless acquistato, peraltro, con una colletta tra colleghi". Una carenza che porta gli agenti a saltare giorni di riposo e ferie. "Ad oggi", precisa Vaddinelli, "sono ben 4.270 le giornate di congedo ordinario del 2013 che devono ancora essere fruite dal personale di polizia penitenziaria ed addirittura 1749 che risalgono al 2012". Ed è con questi numeriche nei giorni scorsi gli agenti hanno sventato l’ultimo suicidio dei detenuti: in questo caso quello di Luca Varani, l’avvocato marchigiano condannato a 20 anni in primo grado con l’accusa di essere il mandante dell’aggressione alla ex fidanzata Lucia Annibali sfigurata al volto con dell’acido. E sul grido d’allarme lanciato dal comandante, interviene il segretario provinciale del Sappe Giuseppe Pallini che dice: "Prendiamo atto con soddisfazione che anche dal comandante arrivi l’allarme per la drammatica carenza di personale nel carcere di Castrogno che ormai da tempo il sindacato denuncia all’amministrazione penitenziaria sia regionale che nazionale". I premiati hanno salvato molti reclusi Sono 23 gli agenti di polizia penitenziaria che ieri mattina sono stati premiati e con lode e note di merito. Undici sono coloro che hanno ricevuto il conferimento della Lode per l’impegno nel salvare i numerosi detenuti che due anni fa rischiarono di morire a causa di un incendio appiccato in una cella da un recluso con problemi psichiatrici: si tratta dell’ispettore capo Andrea Volpi, del sovrintendente capo Salvatore Della Tomasa, degli assistenti capo Massimiliano Contasti, Giovanni Di Bernardo, Pierluigi Feliciani, Gianni Recciuti, Franco D’Angelo, Raffaele Spano, Maurizio Marino, Stefania Crocetti, Giuliana Di Paolantonio. Questa la motivazione: "In servizio all’interno di una sezione della casa circondariale, unitamente ad altro personale, mettendo in luce non comune professionalità ed elevate doti operative, interveniva per domare un incendio appiccato da un detenuto a scopo di protesta". Note di merito, invece, sono state assegnate all’assistente capo Francesco Pulcini, all’assistente capo Pasquale Tarli, all’assistente capo Silvana Matalucci, all’ispettore capo Antonio Murrone, all’assistente capo Roberto Cerquitelli, all’ispettore capo Alfonso Brillante, al sovrintendente Mario Zanda, agli assistenti capo Daniel Giancamillo, Renzo Lanci, Roberto Di Giangiacomo, Pasquale Parabella, Roberto Cerquitelli. Tutti si sono distinti per aver impedito di far entrare droga o telefoni cellulari nelle celle della casa circondariale "questo", si legge nelle motivazioni, "offrendo un prezioso contributo per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza interna". In molti casi, infatti, l’intervento degli agenti ha sventato l’ingresso di sostanza stupefacente in carcere occultata nei vestiti e anche in sostanze alimentari. Voghera: i detenuti come restauratori nel progetto museo-carcere La Provincia Pavese, 25 maggio 2014 I detenuti di via Prati Nuovi diventano restauratori: lavoreranno infatti alla riqualificazione di una collezione milanese di animali impagliati. Il progetto del laboratorio "Ritrovare la luce, riscoprire la luce", che il museo di scienze naturali vogherese porta avanti da anni, ha raggiunto un nuovo traguardo. Ieri Marina Azzaretti, assessore alla Cultura del Comune, Simona Guioli, direttore del museo cittadino, Maria Gabriella Lusi, direttore del carcere, Stefania Cucciniello, comandante della polizia carceraria, Adele Ianneo, educatrice, Carla Maria Arienti, dirigente del liceo artistico di Brera e la docente Marina Nova hanno presentato il lavoro dei detenuti. L’assessorato e il museo di scienze naturali, in collaborazione con la casa circondariale e gli istituti Brera e Cattaneo di Milano, hanno portato avanti il progetto: 5 detenuti hanno recuperato una collezione di animali impagliati che necessitava di pulizia. In totale sono stati restaurati 270 esemplari di animali. "Questo progetto ha testimoniato la volontà di fare rete tra enti e impresa - ha commentato Lusi - Si dà la possibilità al carcere di mostrarsi all’esterno", realizzando anche un’iniziativa, come ha spiegato Arienti dell’istituto di Brera, che era in cantiere da anni. "I detenuti sono stati molto bravi dimostrando capacità per un progetto in cui la cultura era alla base", ha aggiunto Azzaretti. "Il progetto è iniziato anni fa e siamo giunti a far manipolare materiali di un certo tipo accrescendo le responsabilità", ha concluso Guioli. Pavia: pregiudizi sul carcere? Al Liceo classico Foscolo si vincono con il teatro La Provincia Pavese, 25 maggio 2014 Nella mattinata di ieri Davide Ferrari, attore e regista professionista, ha presentato agli alunni della II B del Liceo classico Foscolo la sua esperienza di responsabile del laboratorio di teatro al carcere di Voghera: "Queste occasioni sono utili ad abbattere i pregiudizi che si sono creati sul carcere - spiega Ferrari, spesso vittima di un immaginario collettivo lontano dalla realtà. Ho cercato di mostrare ai ragazzi la realtà più vera del carcere partendo dal lato emotivo dei reclusi, dai sentimenti che il teatro riesce a far emergere". Durante la lezione, Davide Ferrari ha proiettato dei video girati durante il laboratorio di teatro del 2012, quando i detenuti hanno messo in scena le "Nuvole" di Aristofane, una commedia classica in cui si dibattono i temi del bene e del male, del Discorso giusto (che dovrebbe educare il protagonista) e del Discorso ingiusto (che può invece salvarlo dai guai): "Il testo propone delle tematiche assolute: i detenuti si sono appassionati molto alla critica della società proposta da Aristofane, alle sue invettive contro politici ed avvocati, e, ripartendo dal testo, hanno riflettuto a loro volta sul significato delle regole e sul senso della giustizia; spesso le regole sono confuse con la punizione, in realtà le regole sono una possibilità per tutti, anche se utilizzate come mezzo di potere". "L’immagine del carcere che ci hanno mostrato oggi è completamente diversa da quella che sono abituato a vedere in televisione - ha commentato Samuele, uno degli studenti della IIB. Non ero abituato a considerare il lato umano dei detenuti". All’invito che l’attore ha rivolto ai ragazzi per seguire quella via di cultura e creatività tracciata dalla scuola per sfuggire al pregiudizio e cogliere la realtà nelle sue sfaccettature di vita vera, gli studenti hanno risposto con entusiasmo. Giovanni Vescovi Varese: studenti e detenuti in cucina insieme… per combattere i pregiudizi www.varesenews.it, 25 maggio 2014 L’iniziativa "Percorsi a confronto" che mette la scuola e il carcere è arrivato alla settimana edizione. 42 gli alunni coinvolti per un totale di cinque scuole. C’è una giusta soddisfazione negli occhi degli operatori che ieri hanno festeggiato la settima edizione di "Percorsi a confronti". Da sette anni l’iniziativa mette a confronto gli studenti delle scuole superiori e le persone detenute nel carcere di Varese. Due mondi solitamente molto distanti e completamente staccati fra loro, ma più vicini grazie a questi progetti che nel tempo sono cresciuti sia come numeri che come iniziative. Quest’anno sono stati 42 gli alunni coinvolti da cinque scuole: Maria Ausiliatrice, Isis Newton, Isis Gazzada, Liceo Artistico di Varese e Isis Bisuschio. Per sei mesi hanno frequentato il carcere di Varese, parlato con i detenuti, gli operatori e gli agenti di polizia penitenziaria. Novità di quest’anno sono stati i laboratori che hanno frequentato insieme, come quello di cucina. I sei mesi di percorso si sono chiusi venerdì con un momento di festa a cui hanno partecipato anche molti genitori. Ad animare il pomeriggio l’attore Stefano Chiodaroli che porta così a tre il numero di spettacoli realizzati nell’istituto di Varese. Roma: negato il permesso di laurea per un detenuto-studente dell’Università Tor Vergata La Repubblica, 25 maggio 2014 L’uomo, 56 anni, era inserito nel progetto di teledidattica. Lettera del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, al presidente del tribunale di Sorveglianza. Doveva discutere la tesi di laurea davanti ai professori dell’Università di Tor Vergata, ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma gli ha negato il permesso. La vicenda - che ha per protagonista un detenuto di 56 anni, da oltre 20 recluso a Rebibbia Nuovo Complesso e condannato al "fine pena mai" - è al centro di una lettera scritta dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ad Alberto Bellet, presidente del tribunale. Il 56enne sarebbe stato il primo laureato del progetto "Teledidattica - Università in carcere": esperienza classificata come "buona pratica" dallo stesso ministero della Giustizia e iniziata nel 2006 con l’Università di Roma Tor Vergata e che oggi è arrivata a coinvolgere oggi 107 detenuti-studenti iscritti alle università della Regione (erano 16 appena 8 anni fa). "Non è mia consuetudine intervenire nel merito dei provvedimenti del Tribunale di Sorveglianza - spiega il Garante - Nel caso di specie ritengo la decisione assunta ingiusta, frutto di una interpretazione restrittiva di una norma dell’ordinamento penitenziario. Per questo ho ritenuto opportuno sottolineare l’accaduto, auspicando che il Tribunale possa mutare la propria giurisprudenza evitando rigidità interpretative che non contribuiscono in alcun modo alla tutela della sicurezza dei cittadini e finiscono per mortificare positive esperienze trattamentali". Superati tutti gli esami e in vista della discussione della tesi, l’uomo aveva chiesto un permesso di necessità ex articolo 30 dell’ordinamento penitenziario. Vistasi respinta la richiesta, il 56enne aveva presentato ricorso, rigettato il 30 aprile dal Tribunale di Sorveglianza con la motivazione che "l’articolo in questione prevede la concessione del permesso in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o in casi di eccezionale gravità". Casistica all’interno della quale non ricade, secondo i giudici, la laurea. "Una interpretazione - secondo il Garante - non uniformemente seguita dalla giurisprudenza. In un caso analogo, a Reggio Emilia è stato concesso il permesso in quanto si trattava di un evento teso a valorizzare l’individualità del detenuto e il suo percorso trattamentale. Il provvedimento di Roma rischia invece di vanificare un percorso che il detenuto ha avviato durante la detenzione. Lo studio, infatti, è divenuto strumento di riscatto sociale e un’importante occasione per dimostrare a sé stesso e agli altri che nella vita è possibile ottenere successi anche senza ricorrere al reato. Impedire al detenuto di discutere la tesi fruendo di poche ore di permesso è una decisione eccessivamente punitiva, che non può trovare giustificazione in nessuna esigenza di sicurezza". De Pasquale (Fi): detenuti devono potersi laureare "Trovo profondamente ingiusto che non sia stato permesso ad un detenuto di 56anni del carcere di Rebibbia di sostenere l’esame di laurea presso la commissione dell’Università di Tor Vergata. Si parla tanto di reinserimento nella società e di rieducazione dei condannati, ma nei fatti poi viene impedito". Lo dichiara in una nota Federica De Pasquale responsabile Pari Opportunità di Forza Italia per la Regione Lazio. "Mi associo alla richiesta fatta dal bravissimo Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - aggiunge - e attendo di conoscere dal Tribunale di sorveglianza le motivazioni di tale divieto, considerando anche l’ottimo risultato che il detenuto aveva ottenuto durante tutto il percorso formativo. Conosco bene l’impegno e la passione profusa da tutti coloro che lavorano a Rebibbia - prosegue Federica De Pasquale. Più volte anche nel mio ruolo di vice presidente della Consulta Femminile per le Pari Opportunità della Regione Lazio, ho avuto modo di sostenere le loro iniziative culturali e di visitare i vari padiglioni, compreso quello che mi sta più a cuore dove si trovano i bambini fino a tre anni detenuti con le madri". "Quella carceraria - conclude De Pasquale - è una realtà difficile, al di là dell’annoso problema del sovraffollamento. Uno Stato civile ha il dovere di ricordarsi che parliamo di persone e che anche se nella vita hanno sbagliato va garantita loro una vita dignitosa". Monza: un "giardino" nel cortile del carcere, dove i detenuti possono incontrare i figli di Marco Galvani Il Giorno, 25 maggio 2014 Un giardino per giocare con i propri figli. Un tavolone in legno su cui fare i compiti o anche solo un disegno da appendere alle pareti della cella. Nel "cortile" del carcere, circondato dalla scatola di grigio cemento armato, c’è un tocco di colore e calore. Un angolo dove i detenuti possono incontrare i figli all’aperto, in estate. Un giardino per giocare con i propri figli. Un tavolone in legno su cui fare i compiti o anche solo un disegno da appendere alle pareti della cella. Nel "cortile" del carcere, circondato dalla scatola di grigio cemento armato, c’è un tocco di colore e calore. Un angolo dove i detenuti possono incontrare i figli all’aperto, in estate. La ludoteca resta comunque operativa per garantire incontri protetti, in un luogo meno triste di una fredda sala colloqui. Ma continuerà a essere utilizzata d’inverno o quando il meteo non permette di uscire all’aperto. Mentre pochi metri prima della palazzina del detentivo maschile, accanto al campetto da calcio dei detenuti, la direzione della casa circondariale di via Sanquirico ha voluto ritagliare un terreno di circa 1.200 metri quadrati arredati con gazebo, giochi per i bambini, tavoloni, panchine e cestini oltre a una casetta con i servizi igienici realizzati dai detenuti-falegnami che lavorano nel laboratorio interno del carcere. Un progetto nato per "alleviare le condizioni di vita dei reclusi e creare un clima più sereno, nell’ottica di umanizzare il più possibile la pena", il commento del direttore del carcere, Maria Pitaniello. La situazione in via Sanquirico è migliorata sul fronte sovraffollamento: nel 2011 i reclusi erano 888, oggi sono meno di 700. La loro gestione è difficile ma "grazie al prezioso lavoro di squadra di tutte le componenti che lavorano nell’istituto cerchiamo di creare condizioni migliori". A cominciare dall’iniziativa nata dalla collaborazione con la Cooperativa sociale 2000 con la sua Falegnameria Legnamee e il Gruppo Pari Opportunità della Rai di Milano insieme al Centro di Produzione. E infatti il tocco artistico è arrivato proprio dai decoratori e scenografi della Rai che hanno offerto il proprio aiuto per la progettazione dello spazio: sono così nate idee per realizzare e installare nell’area elementi scenografici colorati e decorati con un tema dedicato ai bambini, utilizzando prevalentemente materiale di scarto riciclato. Al resto ci hanno pensato i due detenuti che portano avanti la falegnameria di via Sanquirico. Un laboratorio della Cooperativa sociale 2000 nella quale sono nati tutti gli arredi del "parchetto giochi". "Certamente questa è un’occasione per migliorare le difficili condizioni dei detenuti, dando loro la possibilità di trascorrere momenti con la propria famiglia in un contesto meno triste e angusto della classica sala colloqui - le parole di Virginio Brivio, presidente della Cooperativa -. Si tratta di una iniziativa che adegua l’istituto monzese ad altre carceri, come San Vittore a Milano, dove già da tempo i piccoli possono incontrare i loro genitori reclusi usufruendo di uno spazio a misura di bambino. Ma che dev’essere d’esempio da copiare in tutte le carceri". Ieri il taglio del nastro con tanto di buffet finale sfornato dai due detenuti che portano avanti il nuovo laboratorio di pasta fresca oltre le sbarre. La dimostrazione che con la disponibilità del direttore della casa circondariale "si possono creare grandi opportunità per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti", continua Brivio. La cooperativa che lui gestisce, all’interno dei confini di via Sanquirico ha attivato anche un laboratorio per realizzare bancali e cassette di vino mentre è ormai storico il servizio di lavanderia. Avviato 15 anni fa, è stato il primo esempio in Italia a occuparsi anche della biancheria personale dei detenuti. "Un progetto che occupa 8 persone su due turni da 6 ore ciascuno - spiega Brivio -. Ma quello che ci interessa è spingere sulla falegnameria. Ai tempi d’oro erano molti di più i detenuti coinvolti. Adesso sono soltanto due ma l’auspicio è che possano arrivare due, tre nuove commesse che ci permettano di riuscire a chiudere il bilancio in regola. La nostra falegnameria è attrezzata per qualsiasi tipo di lavorazione. Per questo invitiamo enti pubblici e privati a contattarci all’indirizzo carcere.lavoro@consorzioexit.it per dare al laboratorio del carcere un’occasione di futuro". Napoli: in un libro parole e immagini dei ragazzi del carcere minorile di Nisida Ansa, 25 maggio 2014 Parole e immagini dei ragazzi del carcere minorile di Nisida, a Napoli, tutto raccolto in un volume, frutto di un progetto finanziato dalla Fondazione Vodafone Italia. Si intitola proprio "Il diario di Nisida, parole e immagini", ed è stato presentato oggi a Napoli con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Si sta realizzando un progetto importante che prende in carico i ragazzi che hanno sbagliato e non semplicemente infligge una pena - ha detto il Guardasigilli - ma è un’ esperienza che deve indurre a una riflessione più ampia". Attraverso i progetti, "si recupera la vita dei ragazzi", cosa che "non ha minor valore di quando i privati investono per il recupero di opere d’arte", anche perché, come ha affermato, "recuperare un giovane è recuperare un’opera d’arte". "L’Italia che migliora fa meno notizia di quella che non ce la fa - ha aggiunto - ma credo che sia giusto raccontare le esperienza in cui lo Stato ce la fa". Come le esperienze di recupero dei ragazzi, "che incontrano la disponibilità dei privati" A Nisida, la Fondazione Vodafone ha già investito anche altri 40mila euro per un altro progetto, "L’Isola dolce", che prevede la ristrutturazione del laboratorio di pasticceria dei ragazzi dell’istituto di pena minorile. "Dal nostro osservatorio abbiamo visto che si sono ampliati i vuoti tra chi è dentro e chi è fuori e non è solo compito dello Stato riempirli, ma di tutti quelli che operano in questo Paese - ha spiegato Saverio Tridico, membro del Cda di Vodafone Italia - anche noi cerchiamo di fare la nostra parte e questo progetto che per la nostra Fondazione rappresenta la tappa di un cammino di avvicinamento, di ascolto e di condivisione delle voci del territorio". La Fondazione investe 5 milioni di euro l’anno e dal 2000 al 2013 ha finanziato 392 progetti per un totale di circa 75 milioni di euro. India: coppia di italiani in prigione da quattro anni, ricevono visita ambasciatore Mancini Ansa, 25 maggio 2014 L’ambasciatore d’Italia in India Daniele Mancini si è recato al District Jail di Varanasi per fare visita a Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i due italiani in carcere da quattro anni con l’accusa di avere ucciso l’amico Francesco Montis. Lo rende noto Marina Maurizio, madre di Tomaso Bruno, rientrata in Italia dall’India dove si reca spesso per essere vicino al figlio. "Li ha trovati bene, in forma sia fisicamente che psicologicamente, nonostante il caldo, 44 gradi, e l’attesa della prima udienza utile dopo la ripresa per la pausa estiva, che la Supreme Court ha fissato per il 9 settembre", ha riferito. È la terza volta che Daniele Mancini si reca nel carcere di Varanasi e queste visite infondono nei ragazzi tanta fiducia e speranza, ma soprattutto forza per continuare a lottare per ottenere finalmente giustizia", ha aggiunto Marina Maurizio. In primo e in secondo grado i due ragazzi italiani sono stati condannati all’ergastolo. Tailandia: imprigionati da esercito ex premier Yingluck Shinawatra e altri leader politici Tm News, 25 maggio 2014 L’ex primo ministro thailandese Yingluck Shinawatra è detenuta dalla giunta che ha assunto il potere giovedì con un colpo di stato. Lo hanno indicato fonti vicine al potere. "È confermato che è detenuto dall’esercito, dopo che venerdì si è presentato alla giunta", ha aggiunto una fonte in seno al partito Puea Thai, presente quando l’ex capo del governo è arrivato su convocazione della giunta. Gli Stati uniti hanno sospeso gli aiuti militari che avrebbero dovuto fornire a breve alla Tailandia, pari a 3,5 milioni di dollari, dopo il colpo di Stato nel Paese. Washington sta anche riflettendo sull’opportunità di sospendere anche le tranche di aiuti futuri, dopo avere versato alla Tailandia un totale di 10,5 milioni di dollari nel 2013, ha detto il portavoce del dipartimento di Stato, Marie Harf. Prigionieri politici, arresti fino a una settimana La giunta militare che ha preso il potere con un colpo di Stato in Tailandia ha annunciato che potrebbe trattenere in carcere i leader politici arrestati ieri "fino a una settimana". "Potrebbero essere detenuti fino a una settimana, secondo il loro grado di coinvolgimento" nella crisi politica che ha portato al colpo di Stato, ha detto il colonnello Winthai Suvaree, portavoce dell’Esercito. Egitto: sventato tentativo di evasione di 48 detenuti dalla prigione di Ashmon Nova, 25 maggio 2014 Le forze di sicurezza egiziane hanno sventato stamane nella contea di Monofeya, nella regione del Delta del Nilo, un tentativo di fuga da parte di 48 detenuti nella prigione di Ashmon. Lo riferisce l’agenzia di Stato "Mena" citando fonti della sicurezza egiziana. I prigionieri, nella circostanza, hanno dato fuoco a un gran numero di coperte per gettare l’istituto detentivo nel caos e riuscire a trovare una via di fuga. Il piano, però, non ha avuto successo. Stati Uniti: c’è tennis anche dietro le sbarre di Fulvio Nibali www.tennis.it, 25 maggio 2014 Una storia che parla di tennis, ma anche di razzismo e di integrazione. Un gruppo di amici detenuti, quattro vecchie racchette, un campo da tennis malandato in un penitenziario dello stato di New York. Prima il gioco e il senso di libertà, poi le accuse di razzismo e le continue intimidazioni: "La prossima volta che commetto un reato lo farò in California" l’amara e ironica conclusione. La stagione tennistica si avvia spedita verso il secondo slam, che si giocherà sui campi in terra battuta del Roland Garros di Parigi. Ma il tennis esiste anche senza slam, senza circuiti Atp e Wta, senza campioni blasonati e celebrati. Lo dimostra una storia che viene dagli Stati Uniti e che insegna che questo sport può essere praticato anche dentro le mura di un penitenziario. La testimonianza è di Daniel Genis, autore del romanzo Narcotica e traduttore di numerosi testi dal russo, ma dal 2003 al 2014 detenuto nel Groveland Correctional Facility, un penitenziario di media sicurezza dello stato di New York. La storia del rapporto tra tennis e vita carceraria è raccontata dallo stesso Genis sul sito fittish.deadspin.com e narra le vicende di un gruppo di amici detenuti e della loro passione per il tennis, non tralasciando le difficoltà con cui questa passione ha trovato declinazione. Tutto comincia trent’anni fa, quando al Groveland Cf, un operaio progressista decide di utilizzare il campo da pallacanestro del penitenziario in un campo da tennis, spostando i montanti dei canestri ai lati del campo e utilizzando una malandata rete da pallavolo come rete da tennis. Quello diventa il primo e unico campo da tennis carcerario dello stato di New York. Il tennis, purtroppo, è fra gli sport praticati in carcere quello che maggiormente subisce l’influenza di questioni di classe e di razza e questo si traduce in una notevole carenza di impianti ma anche di praticanti. Parola di detenuto: "Più facile giocare a basket o fare sollevamento pesi". Ad ogni modo Daniel Genis, al suo ingresso in carcere, si trova davanti il decadente campo da tennis di Groveland, caratterizzato da una superficie asfaltata e non certamente omogenea e piana e da linee tirate con una mano scarsa di vernice. Le racchette a disposizione per tutto il penitenziario sono appena quattro. Ma la passione per lo sport non dipende dalla bellezza dell’impianto su cui si gioca e dalle attrezzature a disposizione. In breve tempo Daniel trova anche alcuni amici, compagni di cella con cui fare ogni tanto qualche partita. "Mi sembrava un lusso poter giocare a tennis da detenuto. Non usavo una racchetta dai primi anni ‘90, ma mi sono rimesso a giocare con tutto il cuore, godendomi anche le prestazioni della stella del nostro piccolo gruppo". C’è anche un John McEnroe nel carcere di Groveland Cf. Daniel Genis lo chiama Jim. Un ragazzo che ha intrapreso una cattiva strada (è al terzo arresto) ma che ha passato la sua giovinezza stregando avversari e tifosi nei campi della periferia di Rochester e guadagnandosi persino una borsa di studio della Colgate. Un ragazzo diventato uomo nei carceri degli Stati Uniti ma, sebbene ormai quarantenne, ancora in grado di calcare con dignità un campo da tennis. A questa strana coppia si uniscono poi un broker di borsa finito in cattive acque, un medico violento e un avvocato sorpreso a rubare. E qui entra in gioco il fattore classista e razzista. Si tratta infatti di uomini provenienti dalle classi medio alte della società statunitense. Il divertimento è assicurato, ma presto il tutto si trasforma in una battaglia contro gli altri detenuti e contro i secondini del penitenziario. "Il primo problema era che noi ci divertivamo tantissimo pensando di giocare a Wimbledon, ma in realtà eravamo a Groveland per essere puniti. E in prigione, qualsiasi cosa che porta i detenuti a divertirsi diventa un problema" riflette Daniel Genis. Il secondo problema è invece ben diverso e ben più radicato nei meandri dell’immaginario comune statunitense: "Ogni persona che aveva messo piede in quel campo era un bianco e a quei tempi solo il 20% dei detenuti dello stato erano bianchi". La cosa mette in guardia la comunità nera del carcere nonostante il penitenziario sia quello con la più alta percentuale di bianchi in tutto lo stato. "Abbiamo provato a coinvolgere gli afroamericani e i latini, tra l’altro atleti di tutto rispetto. Ma i nostri sforzi non hanno trovato concretizzazione" confessa Genis. Così chi viene invitato a prendere parte ai match trova sempre una scusa e chi mostra un po’ di curiosità viene perentoriamente scoraggiato dagli altri detenuti. Il tennis è razzista si sente dire nei corridoi del penitenziario. Accadono anche episodi di intimidazione. Le palline vengono buttate lontano dai campi, quasi fuori dalla recinsione del carcere. Una racchetta viene trovata spezzata. Il campo inondato di urina e coperto con sputi e tabacco da masticare. "Se fosse stato solo questo il problema, sarebbe stato facile affrontarlo. Ma c’erano di mezzo anche le guardie" racconta Daniel Genis. In un primo momento la squadra di secondini sembra gradire la visione delle partite di tennis. Ma in una fase secondaria, quando serve una racchetta nuova, quando la vecchia rete da pallavolo viene strappata o quando le linee del campo vanno ritoccate la risposta è sempre una risata e un netto rifiuto. Di contro vengono sistemati i campi da basket, vengono montati canestri nuovi e comprati nuovi guanti da softball per chi pratica questi sport. "Non era difficile capire cosa stava succedendo. Tutto veniva visto alla luce dell’affermazione per cui il tennis è sport razziale e va ostacolato". Le cose degenerano quando la discussione su un punto dubbio viene deliberatamente interpretata dalle guardie come una rissa e sedata in maniera violenta. "La mia faccia è stata sbattuta contro il muro e mi è stato detto che i tennisti figli di puttana come me avevano bisogno di una lezione. Dopo poco tempo ho chiesto il perché di quella reazione ingiustificata e la risposta è stata incredibile. Le guardie non volevano vederci giocare a tennis vicino alla loro postazione" racconta ancora Daniel Genis. La reazione di Jim è molto determinata. Il McEnroe di Groveland tenta in tutti i modi di far capire che il tennis non è uno sport razzista e classista provando anche a coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti e convincendoli a prendere una racchetta in mano. Ma la resistenza della comunità carceraria risulta difficile da scardinare e l’aura razzista del tennis non viene mai del tutto eliminata. "Ogni scusa era buona per non farci giocare" dice ancora Daniel Genis. Infine l’amara conclusione: "La prossima volta che commetto un reato lo farò in California" dice ironicamente Daniel Genis. E ci sono motivazioni solidissime dietro questa affermazione. A San Quentin, nella baia di San Francisco, ci sono campi bellissimi e il tennis viene praticato da gente che sta scontando anche 20 anni di reclusione. Nel sistema carcerario californiano sembra quindi che il tennis sia ben tollerato e che le questioni relative a razzismo e classismo non abbiano importanza. Conclude così la sua testimonianza Daniel Genis: "In verità, il tennis può aiutare molto i detenuti. È uno sport di autocontrollo e la sua vivacità può aiutare a rompere la routine quotidiana. Ricorderò sempre il senso di libertà che ho provato quando cercavo di rispondere al temibile servizio di Jim o del mio amico medico violento. E poi i completini da tennis sono molto più eleganti delle uniformi da detenuto".