Giustizia: "faremo la riforma"… quante (false) promesse in 20 anni di Luca Rocca Il Tempo, 20 maggio 2014 Singoli provvedimenti, accelerazioni improvvise ed eterni rallentamenti. Ma soprattutto una lunga, interminabile scia di fallimenti. La tanto agognata riforma della giustizia, annunciata da decenni e mai varata, viene ora rilanciata, dopo le promesse del premier Matteo Renzi, anche dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. Due giorni fa, il 18 maggio, è stato il 26esimo anniversario della morte, per "malagiustizia", di Enzo Tortora. Nessun governo, neanche in sua memoria, è mai riuscito a portare a casa quel "miracolo". Ora il "fiorentino" si è impegnato a "cambiare verso" anche alla giustizia italiana. Ce la farà? Difficile, molto difficile, se si pensa che, limitandoci alla sola Seconda Repubblica, è dal 1994 che se ne parla e nessuno è mai riuscito nella titanica impresa. Quella riforma si è rivelata il vero "tallone d’Achille" di ogni coalizione, ogni maggioranza, ogni premier. Silvio Berlusconi un paio d’anni fa ha rivelato che è dal 1994 che pensa a una riforma organica, cioè da prima dell’"assalto giudiziario" subìto. Nel giugno del 1995 alcuni deputati di Forza Italia, tra cui Antonio Martino, propongono le prime leggi sulla responsabilità civile dei magistrati e la riforma del Csm. Tentativo vano. Ma è dopo la caduta del governo Berlusconi, nel settembre del 1995, sotto il governo di Lamberto Dini, che l’allora Ulivo presenta un documento sulla distinzioni delle funzioni fra pm e giudici e sul rafforzamento del ruolo del difensore nelle indagini. Nel novembre dello stesso anno Giovanni Maria Flick, che poi diventerà Guardasigilli, annuncia, presentando un documento di 85 pagine, che sui temi della giustizia "è necessario un intervento organico e globale". Da ministro della Giustizia del primo governo di Romano Prodi, nel gennaio del 1997, Flick torna a dire che occorre "porre mano ad un disegno globale di riforma della giustizia" da realizzare con riforma ordinaria. Nel dicembre del 1996 Pietro Folena, responsabile giustizia dei Democratici di sinistra, annuncia una "terapia shock" sulla giustizia che "porterà a dei rivolti". Nel gennaio 1997 parte la bicamerale di Massimo D’Alema. Si arriva vicinissimi a una riforma sulla base della "bozza Boato", ma tra diktat dei magistrati, divisioni insanabili nella maggioranza di centrosinistra e "giochini furbeschi" nel centrodestra, si finisce contro un muro. Nell’aprile del 1997 a casa di Gianni Letta si tiene un super vertice coi responsabili giustizia di Pds, Forza Italia, An e Ppi per rilanciare la riforma ormai bloccata. Nel luglio dello stesso anno l’ex Pds, ora Democratici di sinistra, si riuniscono a Napoli e lanciano, di nuovo, una "riforma globale" della giustizia. Tutti tentativi falliti. Ad Ottobre di quell’anno Prodi cede il passo a D’Alema a palazzo Chigi. Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione giustizia alla Camera, annuncia che è necessario "portare avanti la riforma della giustizia". Non lo farà. Prima delle elezioni c’è tempo per Giuliano Amato al governo: "È l’ora di smettere di intervenire a pezzi e bocconi sul nostro codice", auspicando una riforma complessiva della giustizia. Francesco Rutelli, che si accinge a sfidare Berlusconi alle elezioni del 2001, afferma, pure lui, che se lo lasceranno lavorare per cinque anni varerà la riforma della giustizia. Ma perde. Anche in questo caso nulla di fatto. Berlusconi torna al governo con una maggioranza schiacciante. Guardasigilli diventa il leghista Roberto Castelli e promette di rispettare il programma che prevede la riforma. Se ne parlerà molto, quasi ogni mese per cinque anni, ma non se ne farà niente. Nel maggio del 2006 rivince Prodi. Ministro della Giustizia è Clemente Mastella, che promette il varo di una riforma che ponga fine allo scontro fra politica e giustizia. Sembra la volta buona, ma Mastella rimane impigliato in una "tempestiva" vicenda giudiziaria, si dimette e il governo va casa. Nel 2008 rivince Berlusconi. Da quel momento e fino al 2011, parlerà centinaia di volte di riforma della giustizia. Non arriverà mai. Nel novembre del 2011 a palazzo Chigi va Mario Monti. Il Cavaliere continua a parlare di riforma della giustizia, Pierferdinando Casini è convinto che con Paola Severino come Guardasigilli e Michele Vietti al Csm, la riforma è a portata di mano. Anche Pier Luigi Bersani, segretario Pd, afferma che "si può e si deve fare". Alfano, segretario Pdl, conferma: "Abbiamo detto a Monti che è il momento buono". Conferma pure Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera: "La riforma è necessaria". E Danilo Leva, responsabile Giustizia Pd, spiega: "La vogliamo più noi del Pdl". Solo parole. Nell’aprile 2013 al governo approda Enrico Letta. Quattro mesi dopo interviene Napolitano: "Serve una prospettiva di serenità e coesione, per poter affrontare problemi di fondo dello Stato e della società, compresi quelli della riforma della giustizia da tempo all’ordine del giorno". Letta è titubante: "Riforma della giustizia? Dipende quale, discuteremo". Non ne avrà il tempo. Intanto Berlusconi firma i 6 referendum radicali sulla giustizia. Falliranno per mancanza di firme. Il guardasigilli, Anna Maria Cancellieri, la rilancia: "La riforma della giustizia è una priorità che non può più attendere". Renzi e Alfano la promettono, ma intanto gli italiani la stanno ancora attendendo. Giustizia: Napolitano; "rischio di imbarbarimento", come mostra l’emergenza carceraria Ansa, 20 maggio 2014 "Legalità e umanità della pena sono sanciti dalla Carta Costituzionale, che ne sottolinea la funzione rieducativa del condannato, e costituiscono principi irrinunciabili, tanto più in un contesto come quello attuale, in cui le criticità del "sistema giustizia" rischiano di scivolare verso un indegno imbarbarimento, come ci mostra purtroppo l’emergenza carceraria che il nostro Paese si trova ad affrontare". Lo ha sottolineato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio di saluto inviato al presidente dell’Unione delle Camere Penali, Valerio Spigarelli, in occasione del convegno di Livorno sul tema "250 anni dei delitti e delle pene". "Merita vivo apprezzamento - ha aggiunto il capo dello Stato - l’iniziativa di celebrare i 250 anni dalla pubblicazione in Livorno del saggi di Cesare Beccaria: la sua opera ha potentemente influenzato lo sviluppo della scienza penalistica europea e rappresenta una pietra miliare lungo il cammino verso lo stato di diritto". Giustizia: l’Europa, le nostre carceri e le multe da centinaia di milioni di Luca Rocca Il Tempo, 20 maggio 2014 Siamo il fanalino di coda. Anzi no, dopo di noi c’è la Serbia. Magrissima consolazione. Il sovraffollamento delle carceri, che fa dell’Italia il "paese reietto" d’Europa, ha portato la Corte Europea dei diritti dell’uomo ad infliggerci multe su multe. E ora è in arrivo il "colpo fatale". Dopo che nel gennaio 2013 la stessa Corte ha emesso la cosiddetta "sentenza Torreggiani", dal nome di uno dei sette detenuti che hanno fatto ricorso, vincendolo, vedendosi riconoscere un risarcimento complessivo di 100mila euro per aver "vissuto" in meno di tre metri quadrati di spazio, l’Italia ha avuto più di un anno per mettersi in regola. Ora il tempo è scaduto. Il 27 maggio la Corte di Strasburgo si pronuncerà sui progressi compiuto dallo Stato italiano per eliminare il "trattamento inumano e degradante" che infliggiamo ai detenuti. I ricorsi pendenti sono fra i 4 e i 5mila. Per il Dap le situazioni che hanno portato alla condanna sono state azzerate grazie ai provvedimenti deflattivi varati dai governi. Per i Radicali è pura fantasia. Ad oggi i detenuti sono 59.728. Secondo Rita Bernardini, leader dei Radicali, i posti disponibili sono 43.547, e non 48.309, come sostiene l’Amministrazione Penitenziaria. Non solo. Sempre secondo Bernardini, dai 43.547 ne vanno sottratti altri 2739. Questo perché "alcuni istituti penitenziari hanno più posti dei detenuti presenti", inutilizzati "o perché i padiglioni non stati ancora aperti per carenza di personale o perché si tratta dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari". Questo porta la cifra a 40.808 posti "legali" per quasi 60mila detenuti. Se la Corte di Strasburgo ci condannerà a cosa potremo andare incontro? L’Italia ha pagato 100mila euro di multa per sette detenuti. Significa che per ognuno di essi ha tirato fuori 14.285 euro. Se questa cifra la moltiplichiamo per i detenuti in "eccesso", cioè 20mila, fa quasi 300 milioni di multa. Ma se si moltiplica per tutti i 60mila detenuti (se 60mila stanno in prigioni che ne possono contenere solo 40mila, a vivere in condizioni inaccettabili non sono certo solo quelli in eccesso) potremmo ritrovarci a pagare 850 milioni di euro di multa. Per Rita Bernardini è comunque "difficile ipotizzare una cifra". In ogni caso, afferma, "la Corte ha intimato al governo di dimostrare di aver ottenuto risultati" non solo riguardo ai tre metri di spazio. Per la leader radicale, infatti, "le multe scattano anche se non si rispettano, ad esempio, le condizioni igienico-sanitarie o la possibilità di accedere all’aria e alla luce naturale". Giudicherà un Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Lo Stato italiano ha depositato la sua memoria, i Radicali, convinti che nulla sia stato risolto, stanno per fare lo stesso. Giustizia: il "j’accuse" di Rita Bernardini a Strasburgo, smentiti tutti i dati del ministero di Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 20 maggio 2014 Altro che "appunti che ci ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo cui abbiamo puntualmente risposto". Non c’è più spazio per eufemismi e ipocrisia su carceri e giustizia. E se ne accorgerà già domani il ministro guardasigilli del governo Renzi, Andrea Orlando, quando leggerà il dossier di 53 pagine che verrà depositato in tre lingue, italiano, francese e inglese, davanti alla Cedu dai Radicali italiani per informare i giudici che dovranno condannarci il prossimo 28 maggio per la violazione dei diritti dell’uomo. Un dossier depositato "ai sensi dell’articolo 9 comma 2 del Regolamento del Comitato dei Ministri per la sorveglianza dell’esecuzione delle sentenze e dei termini di conciliazione amichevoli". Di amichevole però non ci sarà quasi niente. Perché lo stato italiano che in materia di giustizia e di condizione dei detenuti viene considerato ormai uno stato criminale (che sta portando la propria infezione nel resto d’Europa) è l’imputato numero uno di questo processo che si concluderà con una sentenza il prossimo 28 maggio salvo altri rinvii. Il fulcro della memoria stessa presentata da Rita Bernardini, segretario di Radicali Italiani, da Debora Cianfanelli, avvocato e membro della direzione di radicali italiani e da Laura Arconti, presidente della stessa entità politica, è che l’Italia sta imbrogliando con i dati e con i numeri. Per prendere altro tempo ed evitare la condanna esemplare che invece proprio tre giorni dopo le elezioni europee arriverà inesorabile a suggello di anni di inerzia. E di demagogia contro eventuali provvedimenti di indulto che lo stesso capo dello stato ipotizzò nel famoso messaggio alle camere dell’8 ottobre 2013. Proprio un bel viatico per il semestre di presidenza europea che a luglio il governo Renzi spera di condurre in porto. La denuncia è corredata da tabelle precise al millimetro sulla reale entità del sovraffollamento carcere per carcere. Dati presi con fatica dai radicali dopo che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria un mese fa emise quella vergognosa circolare che proibiva di dare i numeri sul sovraffollamento alla meritoria associazione Antigone, una delle ong che aiuta i detenuti a reinserirsi già durante la loro espiazione di pena. La chiusura a riccio della burocrazia ministeriale, già denunciata anche dai sindacati degli agenti penitenziari, deve d’altronde essere sembrata una maldestra e non onesta intellettualmente forma di auto difesa anche alla Cedu se è vero come è vero che cinque giorni dopo quel due aprile, quando Orlando andò a Strasburgo a parlare di 48 mila posti e rotti disponibili, mentre una circolare dello stesso Dap lo smentiva clamorosamente e parlava di poco più di 43 mila, il parlamento europeo di sua iniziativa ha mandato una delegazione in visita ispettiva a sorpresa nelle carceri di Poggioreale e Rebibbia riportando impressioni spaventose. Ridicolo anche il tentativo di uniformare la questione Cedu ai tre metri quadrati previsti dalla sentenza Torreggiani del gennaio 2013 come limite minimo per ciascun detenuto: nel dossier radicale si parla di mancata assistenza sanitaria di igiene da terzo mondo con i gabinetti e le cucine riuniti nello stesso locale per prassi consolidata, di mancanza di riscaldamento e di assenza totale di qualsivoglia forma di rieducazione. Insomma un disastro che non si sa come fronteggiare e su cui gli uomini di Renzi cercano di metterci una toppa burocratica che ovviamente risulta peggiore del buco. A proposito dei numeri, nel documento che pubblichiamo in esclusiva si legge che "la Segretaria di Radicali italiani però confuta anche la cifra finalmente resa nota dei 43.547 posti. Sono infatti da prendere in considerazione alcune realtà penitenziarie che hanno più posti detentivi rispetto all’effettiva presenza di detenuti. Si consideri, per esempio l’isola della Sardegna, dove a fronte di 1.800 posti regolamentari abbiamo 1.100 reclusi: a meno di pensare ad una deportazione di massa nell’isola, continueranno ad esserci 700 posti inutilizzati che però il Dap fa rientrare nella capienza regolamentare complessiva. Lo stesso vale per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in via di dismissione, seppure rallentata da una recente imbarazzante proroga: anche nel caso degli Opg, abbiamo altri 400 posti in più inutilizzabili che il Dap fa rientrare nella capienza regolamentare generale". Per la cronaca "nel corso del 2013 sono stati 59.390 gli ingressi in carcere dalla libertà, di cui 4.535 donne e 25.818 stranieri". Pesante anche il capitolo delle madri e dei bambini in carcere: "sono in totale 40 le detenute madri con figli minori di tre anni in carcere. I bambini che vivono in istituto sono 40, le detenute in gravidanza 17. In totale sono 15 gli asili nido in attività nelle carceri". Tutte cose che il ministro Orlando a Strasburgo il 2 aprile si è ben guardato dall’affrontare. Ma si potrebbe continuare all’infinito, con la mancanza di assistenza medica e psicologica, con i numeri sui suicidi in carcere anche di agenti di custodia (oltre 100 negli ultimi dieci anni, una vera strage di lavoratori del settore, malpagati, sfruttati e costretti al silenzio sindacale, visto che da quasi dieci anni non è stato loro rinnovato il contratto, ndr). Tutte cifre fornite da "Ristretti Orizzonti", giacché per Dap e via Arenula su certe cose andrebbe messo il segreto di stato. Ci sono anche dati aggiornati sui detenuti stranieri che sono il 34% (20.521). Di questi, il 18,1% viene dal Marocco, il 16,7% dalla Romania, il 13,3% dalla Albania, l’11,6% dalla Tunisia. Delle detenute straniere presenti il 28,6% viene dalla Romania, il 9,4% dalla Nigeria. Inoltre i Radicali e le Onlus a loro collegate, o con cui collaborano, hanno fatto quello che nessuno si era sinora degnato di eseguire: un vero e proprio censimento dei carcerati anche per classi di età. Al 31 dicembre 2013 la fascia d’età più rappresentata in carcere era quella compresa tra i 30 e i 34 anni (10.200 di cui 4.879 stranieri), seguita da quella compresa tra i 35 e 39 (9.970 di cui 3714 stranieri), 597 gli ultrasettantenni. Censimento che ha riguardato anche il titolo di studio: al 31 dicembre 2013, 576 erano i detenuti in possesso di una laurea, 3.297 coloro che avevano un diploma di scuola media superiore, 20.333 quelli con la licenza di scuola media inferiore, 677 gli analfabeti. Insomma i giudici di Strasburgo dopo che avranno letto questa memoria radicale confrontandola con i documenti forniti dall’amministrazione di via Arenula, potranno essere presi anche da un dubbio amletico: ma in Italia lo stato e la legalità chi li rappresenta? Solo i radicali? O anche le istituzioni? E purtroppo si tratterà di un dubbio che sottintende una domanda retorica. Giustizia: Falanga (Fi); testo ddl pronto, Renzi e Grillo si esprimano su amnistia e indulto Adnkronos, 20 maggio 2014 "Renzi e Grillo dicano se concordano o meno sulla proposta di amnistia e indulto. Non c’è altro tempo da perdere se vogliamo davvero fronteggiare con strumenti concreti e di immediata attuazione ed efficacia le gravissime problematiche dovute al sovraffollamento delle carceri, in cui sono costretti a vivere, meglio a sopravvivere, i detenuti". Lo dichiara il senatore di Forza Italia, Ciro Falanga. "Il testo base del disegno di legge di cui sono correlatore, che prevede la concessione dell’amnistia e dell’indulto -conclude Falanga - sarà pronto domani e sarà disponibile per essere subito esaminato. Ma è necessario che Renzi e Grillo si esprimano al riguardo". Giustizia: il processo penale inizia la dieta, è vigente la "messa alla prova" dell’imputato di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2014 In vigore dall’altro ieri la messa alla prova dell’imputato e la sospensione del procedimento contro gli irreperibili. Entro diciotto mesi i decreti delegati sulle pene domiciliari e la depenalizzazione. Dall’altro ieri è in vigore la legge 67/2014, che - nelle intenzioni del legislatore - dovrebbe rappresentare un punto di svolta nel sistema penale, con la messa a punto di meccanismi per deflazionare l’eccessivo numero di processi e profonde modifiche al sistema sanzionatorio, con l’introduzione di una nuova tipologia di pena principale (la "pena domiciliare"), così da riservare alla pena detentiva carceraria il ruolo di rimedio estremo dell’ordinamento. Per raggiungere questi obiettivi, l’intervento si sviluppa su tre direttrici: modifica del sistema sanzionatorio e depenalizzazione; sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato; sospensione del processo nei confronti degli irreperibili. A queste linee di indirizzo corrispondono specularmente i tre capi in cui è suddiviso il testo. Il primo di essi contiene due deleghe al Governo, rispettivamente in materia di pene detentive non carcerarie e di depenalizzazione. Si introduce, tra le pene principali, la "reclusione domiciliare" e "l’arresto domiciliare", mentre, sul fronte della depenalizzazione, tra le novità più significative si segnalano la trasformazione in illecito amministrativo di tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, a eccezione di alcune fattispecie (ad esempio in materia di edilizia e urbanistica). Diventano, inoltre, illeciti amministrativi alcuni reati (fattispecie di scarso allarme sociale - ad esempio gli atti osceni - ma anche l’omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali e il reato di clandestinità di cui all’articolo 10bis del Testo unico immigrazione. In alcuni casi (ad esempio ingiuria, danneggiamento punibile a querela) si ha, inoltre, una vera e propria abolitio criminis. Molto promettente ai fini deflativi è, infine, la nuova causa di non punibilità, in relazione a fatti-reato puniti con la sola pena pecuniaria o con pene detentive edittali non superiori, nel massimo, a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità del fatto e la non abitualità del comportamento illecito. Il Governo dovrà esercitare la delega entro il termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della legge. Immediatamente esecutive, invece, le disposizioni in materia di sospensione del procedimento con "messa alla prova" dell’imputato. Introdotta con una articolata novella (gli articoli 168 bis, 168 ter e 168 quater del Codice penale; gli articoli 464 bis e seguenti del Codice di procedura penale, di cui al nuovo Titolo V bis del libro VI, nonché il nuovo Capo X bis, Titolo I, disp. att. Cpp) e ispirata all’analogo istituto previsto per i minorenni, la messa alla prova si applica ai procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria ovvero con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti previsti dall’articolo 550, comma2 del Codice di procedura penale. Estese le preclusioni, che limitano, in prospettiva, l’efficacia deflativa dell’istituto di nuovo conio: la sospensione del processo con messa alla prova, infatti, non può essere concessa più di una volta, né può essere applicata ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Sul piano procedurale, il beneficio presuppone l’istanza di parte, che va formulata, anche oralmente, nel corso delle indagini preliminari; fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 Cpp; fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio; ai sensi dell’articolo 458, comma 1 Ccp, nel giudizio immediato; con l’atto di opposizione, nel procedimento per decreto. La richiesta deve essere corredata da un programma di trattamento, predisposto d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, con indicazioni sul progetto di recupero sociale che l’imputato realizzerà nel corso della prova, inclusa l’eventuale attività di volontariato e gli altri impegni specifici che l’interessato intende assumere anche nei confronti della persona offesa, in relazione all’obbligo di risarcimento del danno provocato dal reato. Il cuore della misura è, tuttavia, l’effettuazione di un lavoro di pubblica utilità non retribuito, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, prestato a favore della collettività, anche presso organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria o dì volontariato. Giustizia: penalisti; una pseudo riforma-lampo, invece di quella "organica" annunciata Agi, 20 maggio 2014 "Ecco servita la pseudo riforma lampo della giustizia in luogo di quella vera: sei anni per chi auto-ricicla denaro sporco, cinque per chi falsa i bilanci delle imprese, prescrizione allungata per alcuni reati o magari bloccata dopo la sentenza di primo grado". L’Unione Camere Penali critica così gli interventi legislativi anticipati sulla stampa che prefigurano, "assieme all’immancabile stretta sanzionatoria sui reati di mafia, l’introduzione di ulteriori e più incisive ipotesi di sequestro e confische". "Al posto dell’auspicata e preannunciata riforma organica ecco servita la pseudo "riforma lampo" in tema di giustizia - sottolineano i penalisti - che sembra una cosa nuova ma è la solita politica penale d’emergenza, destinata a far maturare frutti avvelenati perché risponde soltanto alle ansie elettorali delle forze politiche". E non è un caso, infatti, "che questi preannunci - rileva l’Ucpi - intervengano proprio all’indomani della vicenda Expo, con il solito corredo di reazioni scandalizzate, di commissari ad hoc che rinverdiscono la tradizione italica dei taumaturghi, dal Prefetto Mori fino al pm Cantone, che subito si affrettano a chiedere poteri speciali, prima ancora di stabilire a cosa gli serviranno". Il tutto senza rendersi conto che "queste invocazioni, queste nomine straordinarie, questi inasprimenti di pena - aggiungono i penalisti, semmai certificano l’ennesima sconfitta della politica incapace di governare, ordinariamente, i fenomeni sociali e finanche quelli criminali". Ma, forse, "la pseudo riforma serve a far passare, incredibilmente, in secondo piano le notizie che vengono da Milano - afferma l’Ucpi - su come viene esercitata l’azione penale, su come vengono trattate le norme sulla iscrizione nel registro notizie di reato, ovvero su quanto contino gli ordini di ‘andare a fare la pipi" dati dai ras delle correnti in occasione delle nomine di vertice degli uffici giudiziari". Tutte cose, conclude la nota, che dovrebbero suggerire ad un legislatore consapevole che "è arrivato il momento di farla la riforma della giustizia, ma quella vera, e che per questo è necessario discuterne in Parlamento, con una sessione ad hoc e non con le concessioni intimorite al forcaiolo che strepita di più. La riforma del sistema costituzionale, quella del titolo Quarto inspiegabilmente accantonata in questa legislatura, che dovrebbe assicurare giudici terzi, procure trasparenti nell’esercizio dell’azione penale, magistrati responsabili dei propri errori, e finalmente un Csm non governato dal manuale Cencelli. E magari delle carceri decenti in un sistema penale moderno, e provvedimenti coraggiosi, come quell’indulto che la sentenza Torreggiani ci impone a tempo ormai scaduto". Giustizia: abrogazione Fini-Giovanardi, su sconto di pena ai detenuti decide la Cassazione di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 20 maggio 2014 Nelle prossime settimane alcune migliaia di detenuti potrebbero vedere fortemente ridotta la loro pena e il sovraffollamento carcerario ridursi significativamente. La palla è nelle mani delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che il prossimo 29 di maggio dovrà decidere che fare di tutte quelle condanne esito della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, abrogata dalla Corte costituzionale lo scorso 25 febbraio 2014 per violazione dell’articolo 77 della Costituzione. Il tema è di controversa soluzione. La legge Fini-Giovanardi trattava allo stesso modo attività aventi a oggetto droghe leggere e droghe pesanti con un range punitivo dai 6 ai 20 anni di carcere. Con la sua abrogazione è andata a rivivere la precedente legge Jervolino-Vassalli del 1990 che invece prevedeva nel caso di droghe leggere pene molto più basse, ovvero dai 2 ai 6 anni. Il recente decreto legge del governo, in fase di conversione al Senato, ha tenuto distinte le tabelle nella convinzione che hashish ed eroina sono sostanze non assimilabili. Il decreto legge però non fa altro. Non rilancia le politiche di riduzione del danno. Non dice nulla su come sanare gli eccessi di pena avvenuti nel passato. E qui si scontrano varie scuole di pensiero giuridico. C’è chi sostiene che la sentenza passata in giudicato sia sempre intangibile. Posizione che però pare scarsamente avallata dalla giurisprudenza della Consulta che tende ad applicare, ragionevolmente, il principio del favor rei. In tal caso saranno i giudici dell’esecuzione a dover ricalcolare la pena delle persone condannate. Ma anche in questo caso non è chiaro quale debba essere il criterio da applicare nella riduzione di pena. Un criterio aritmetico meramente proporzionale oppure una nuova valutazione qualitativa dei fatti che tenga conto della minore offensività penale? Infine c’è chi afferma che la pena vada cancellata per intero essendo stata dichiarata illegittima dai giudici della Corte Costituzionale. Tra le più recenti pronunce vi è da segnalare quella del Gip del Tribunale di Pisa dello scorso 15 aprile che in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione ha accolto il ricorso di un detenuto condannato per spaccio di hashish e gli ha ridotto significativamente la pena da espiare. Giustizia: Congresso Simspe; tra Epatiti, Hiv e Tbc… le carceri italiane sono polveriera Prima Pagina News, 20 maggio 2014 Il XIV Congresso Nazionale vuole sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica fornendo nozioni di base, a medici non specialisti ed infermieri, sulle principali patologie carcerarie, con i Corsi Precongressuali, sia sviluppando temi di comune interesse, sia per il personale medico ed infermieristico, con le sessioni congressuali congiunte e con le sessioni dedicate alla documentazione clinica, alle responsabilità professionali, alla prevenzione del suicidio. Lo sforzo volto a fornire alla popolazione detenuta la migliore assistenza possibile, in coerenza con quanto offerto al cittadino "non detenuto" passa dalla conoscenza delle principali problematiche di salute, all’intesa con gli operatori penitenziari, all’integrazione con la società civile. In un’epoca caratterizzata da carenza di fondi e da frammentazione dei sistemi sanitari delle varie Regioni, che rende difficile ricreare modelli omogenei di assistenza, quale quello che, pur con evidenti e molteplici limiti, era precedentemente offerto dal Ministero della Giustizia, quando unico erogatore del servizio. L’epilogo, lancio per il congresso del 2015, vedrà la costituzione di piccoli gruppi di lavoro, interprofessionali che, formati e stimolati dagli argomenti affrontati, vorranno lavorare nell’ottica dell’omogeneizzazione dell’offerta assistenziale nelle carceri italiane. La Simspe, da sempre impegnata come società scientifica, ma anche operativa, si sente investita da questo gravoso compito, che deve passare anche dalla progettazione di comuni linee operative da sperimentare e proporre nelle varie realtà penitenziarie italiane. La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’80%. Tuttavia, spazi e strutture sono rimasti sostanzialmente invariati, rendendo le condizioni dei carcerati ai limiti dell’invivibilità. La maggior parte delle carceri hanno dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. L’assistenza sanitaria, come si può facilmente intuire da questo quadro, risulta di pessima qualità. Una delle cause della difficile situazione delle carceri italiane può essere individuata nelle norme che ne attribuiscono il controllo agli enti locali. Le leggi attuali, infatti, delegano il sistema sanitario alle Asl locali, generando così sistemi organizzativi disomogenei nei 205 Istituti Penitenziari Italiani; il Congresso dovrà sensibilizzare proprio su questo, rilevando come si tratti di un problema comune. Le Asl, inoltre, non hanno né i mezzi, né il know how necessario per operare nei luoghi di restrizione della libertà. In epoca di spending review, con la sanità pubblica che subisce grossi tagli, le carceri appaiono come vittime predestinate ad appartenere ad un sistema sanitario di serie B se non di serie C. Serve dunque una cabina di regia nazionale e non una frammentazione delle organizzazioni. "La vera emergenza delle carceri italiane è la mancanza di dati certi, che si traduce nella mancanza della possibilità di pianificare un intervento" ha dichiarato il dottor Guido Leo, Dirigente Medico di malattie infettive all’Ospedale Amedeo Savoia di Torino e Presidente del Congresso. Quando questo compito spettava al Ministero della Giustizia, i dati, seppur scientificamente non rigorosi, erano comunque disponibili fornendo una base su cui ragionare; oggi il sistema delle Asl genera frammentarietà e, conseguentemente, confusione. L’unica fonte che si occupa attivamente di una raccolta dati a livello nazionale è la Simspe, una Onlus che si occupa proprio di tutelare la salute dei detenuti. La Simspe è una società scientifica a livello nazionale, in cui le varie regioni danno un contributo in diversa misura. La Simspe elabora studi e numeri su questo tema; si occupa inoltre della formazione di infermieri, psicologi, medici che operano nei 205 istituti penitenziari italiani. Si tratta dunque di un’attività formativa: viene garantito annualmente, ad esempio, il contributo alle linee guida per chi è affetto da Hiv, da virus epatici o da malattie sessualmente trasmissibili. Chi percepisce i bisogni dei singoli detenuti sono gli infermieri che provvedono a girare l’informazione ai medici, unica professionalità non militare con cui i detenuti sono in costante contatto; vanno quindi preparati in maniera specifica. In questi giorni i dirigenti della Simspe stanno presentando i risultati delle loro ricerche, evidenziando i numeri sorprendenti: l’incidenza della tubercolosi in carcere, per esempio, è maggiore dalle 25 alle 40 volte rispetto alla prevalenza che ha nella popolazione generale; discorso simile per l’Hiv (10 volte) e le epatiti. Su questo aspetto si è soffermato il professor Sergio Babudieri, Professore associato di malattie infettive all’Università di Sassari e Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe), che ha rilevato come nella popolazione carceraria tra il 30 e il 40% delle persone abbiano l’epatite C, mentre l’epatite B attiva è intorno al 7%; oltre la metà dei detenuti (56%), inoltre, ha avuto contatti con l’epatite B; l’infezione della tubercolosi è oltre 50% nei detenuti stranieri. "Questi numeri dovrebbero essere raccolti dallo Stato, serve un Osservatorio Nazionale di Studi sulla Sanità in carcere" afferma Babudieri. "Uno degli scopi del Congresso è proprio quello di iniziare a ragionare sulla creazione di Raccomandazioni che possano poi essere presentate all’interno di un documento ufficiale e consegnate alle Istituzioni. Alcuni gruppi di lavoro si stanno già attivando su questo". Questo consesso di Torino, alla vigilia delle elezioni europee, è quindi un momento importante per portare avanti le iniziative sull’assistenza sanitaria nelle carceri. Il prossimo 28 maggio, inoltre, è un anno dalla sentenza Torreggiani, un richiamo della Corte Europea all’Italia per allinearsi a livelli comunitari. Alcuni risultati sono stati raggiunti: il sovraffollamento è sceso dal 50% al 20%, ma l’Europa vuole vedere riforme strutturali. Il passaggio della Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Regionale è un evento epocale che ha comportato un enorme cambiamento nell’assistenza ai pazienti detenuti, purtroppo non sempre e non da tutti recepito. Chi entra in carcere più facilmente può contrarre malattie come Aids, tubercolosi, epatiti, malattie sessualmente trasmissibili e altre patologie infettive. I prigionieri sono spesso soggetti all’obesità, sono fumatori e costretti ad una cattiva alimentazione. L’attività della Simspe risiede pure nel creare consapevolezza negli individui, ponendoli di fronte ad eventuali terapie e diagnosi. A questo proposito, il carcere rappresenta un osservatorio straordinario per coinvolgere delle fasce di popolazione che altrimenti non terrebbero mai in conto il bene salute. "Il detenuto di oggi è il cittadino di domani; in carcere si riesce ad intercettarlo, fuori come si fa?" si domanda Babudieri per far capire quanto sia importante intervenire in questo contesto. "L’importanza di una simile azione è poi testimoniata dai numeri: vari studi dimostrano che i pazienti positivi all’Hiv non consapevoli trasmettono il virus sei volte di più di quelli che sanno di esserne infetti" ha proseguito Babudieri. Da non sottovalutare poi gli aspetti psicologici: l’inevitabile depressione di chi è detenuto, ma anche alcuni rischi specifici. Ad esempio, per alcune categorie vi è la necessità di un approccio tipo psichiatrico: è il caso dei sex offender, autori dei reati più ignominiosi, soggetti per una sorta di contrappasso a trattamenti massacranti da parte degli altri prigionieri; bisogna intervenire per tutelarli e curarli e per questo servono professionisti di altissimo livello. La Simspe è già intervenuta nel marzo scorso, in Senato al convegno "Salute in carcere oggi", con il quale si è chiesto con forza a livello politico un Osservatorio nazionale; servono infatti i numeri esatti per poter allocare efficientemente le risorse. La Simspe può avvalersi dei contributi di altre associazioni, come la Simit, la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, co-patrocinante dell’iniziativa. Elemento di raccordo tra le due entità è Roberto Monarca, Direttore Scientifico e coordinatore dei corsi di formazione nella Simspe, e coordinatore Simit per gli studi sulle malattie infettive in carcere. Il suo impegno ha dato anche una proiezione europea al problema: il 15 ottobre 2013, a Londra, ha contribuito alla fondazione della Federazione europea Hwb (Health Without Barriers) e ne è stato nominato presidente. Recentemente l’Hwb è stata inserita nel network Health Imprison Programme all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, assieme ad altre organizzazione come la Croce Rossa. "Il prossimo Convegno di Torino" spiega Monarca "servirà per fare il punto sulle principali problematiche del carcere, dalle malattie infettive alle questioni psichiatriche, passando per le numerose patologie che interessano questa realtà". All’interno del Congresso ci sarà anche il primo meeting internazionale: sarà votato il Consiglio Direttivo, si formeranno gruppi di lavoro su varie tematiche, saranno valutati i progetti europei che si stanno seguendo e quelli per cui si chiederanno finanziamenti; per il momento esistono una segreteria, un sito web in costruzione e sono stati compiuti i primi passi per una strategia di funzionamento. "Con questo meeting vanno distribuiti i compiti per portare avanti i progetti di federazione: fare salute in carcere, non solo per popolazione detenuta, ma per tutte le persone che lavorano in ambiente" ha sottolineato ancora Monarca. "Il carcere è generatore di patologie, come lo stress da lavoro correlato di molti poliziotti che lavorano in carcere. La polizia penitenziaria, infatti, è il corpo con la maggior incidenza di assenze per la patologia di lavoro correlata dovuta allo stress". Giustizia: salute in carcere, per tubercolosi incidenza 25/40 volte maggiore che all’esterno Asca, 20 maggio 2014 L’incidenza della tubercolosi in carcere è maggiore dalle 25 alle 40 volte rispetto alla prevalenza che ha nella popolazione generale; discorso simile per l’Hiv (10 volte) e le epatiti. I dati sono stati forniti da Sergio Babudieri, Professore associato di malattie infettive all’Università di Sassari e Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe), nel corso del XV Congresso Nazionale Simspe, fino al 20 maggio a Torino. Babudieri ha ricordato come nella popolazione carceraria tra il 30 e il 40% delle persone abbiano l’epatite C, mentre l’epatite B attiva è intorno al 7%; oltre la metà dei detenuti (56%), inoltre, ha avuto contatti con l’epatite B; l’infezione della tubercolosi è oltre 50% nei detenuti stranieri. "Questi numeri dovrebbero essere raccolti dallo Stato, serve un Osservatorio Nazionale di Studi sulla Sanità in carcere", ha detto. "Uno degli scopi del Congresso è proprio quello di iniziare a ragionare sulla creazione di Raccomandazioni che possano poi essere presentate all’interno di un documento ufficiale e consegnate alle Istituzioni. Alcuni gruppi di lavoro si stanno già attivando su questo". Il consesso di Torino, alla vigilia delle elezioni europee, è quindi un momento importante per portare avanti le iniziative sull’assistenza sanitaria nelle carceri. Alcuni risultati sono stati raggiunti: il sovraffollamento è sceso dal 50% al 20%, ma l’Europa vuole vedere riforme strutturali. Il passaggio della Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Regionale è un evento epocale che ha comportato un enorme cambiamento nell’assistenza ai pazienti detenuti, purtroppo non sempre e non da tutti recepito. Chi entra in carcere più facilmente può contrarre malattie come Aids, tubercolosi, epatiti, malattie sessualmente trasmissibili e altre patologie infettive. I prigionieri sono spesso soggetti all’obesità, sono fumatori e costretti ad una cattiva alimentazione. L’attività della Simspe risiede pure nel creare consapevolezza negli individui, ponendoli di fronte ad eventuali terapie e diagnosi. A questo proposito, il carcere rappresenta un osservatorio straordinario per coinvolgere delle fasce di popolazione che altrimenti non terrebbero mai in conto il bene salute. "Vari studi dimostrano che i pazienti positivi all’Hiv non consapevoli trasmettono il virus sei volte di più di quelli che sanno di esserne infetti" ha proseguito Babudieri. Da non sottovalutare poi gli aspetti psicologici: l’inevitabile depressione di chi è detenuto, ma anche alcuni rischi specifici. Ad esempio, per alcune categorie vi è la necessità di un approccio tipo psichiatrico: è il caso dei sex offender, autori dei reati più ignominiosi, soggetti per una sorta di contrappasso a trattamenti massacranti da parte degli altri prigionieri; bisogna intervenire per tutelarli e curarli e per questo servono professionisti di altissimo livello. La Simspe è già intervenuta nel marzo scorso, in Senato al convegno "Salute in carcere oggi", con il quale si è chiesto con forza a livello politico un Osservatorio nazionale; servono infatti i numeri esatti per poter allocare efficientemente le risorse. Giustizia: gli stranieri detenuti nelle nostre carceri ci costano 3 milioni al giorno di Matteo Mion Libero, 20 maggio 2014 L’Italia ha il record europeo di detenuti stranieri, sono 23.773 gli immigrati assicurati alle patrie galere nel 2012. Il costo globale della popolazione carceraria è di tre milioni di euro al giorno e pro-capite di 124 euro. Gli stranieri da soli pesano sulle tasche della collettività per più di un miliardo di euro l’anno. I preoccupanti dati sono diffusi dal Consiglio d’Europa che segnala ancora la grave condizione delle carceri italiane, dove sono rinchiuse 66.271 persone a fronte di 45.568 posti disponibili. Il vergognoso 36% di "fuori quota" è già costato al nostro Paese la condanna della Corte di Giustizia europea. Oltre un terzo della popolazione carceraria è straniero e il primato di sovraffollamento spetta alla Lombardia con 4.000 detenuti e al Veneto, dove nei 10 istituti penitenziari gli stranieri sono 2.000 e rappresentano il 60% dei carcerati: quasi il doppio della media nazionale. "Ci cono 145 detenuti ogni 100 posti e peggio dell’Italia fa solo la Serbia con un rapporto di 160 a 100" commenta l’europarlamentare leghista Bizzotto. "L’unica strada per risparmiare risorse ed evitare il sovraffollamento degli istituti penitenziari è iniziare la politica di rimpatrio nei Paesi d’origine degli stranieri mediante la stipula di accordi bilaterali con Paesi come Marocco e Tunisia: tale strada è ritenuta percorribile anche dalla Ue". Inutile dire che con gli sbarchi di quest’estate la situazione diverrà insostenibile. Poiché prevenire è meglio che curare, è ora che l’Italia inizi una politica di respingimenti al largo delle coste dei Paesi di provenienza con o senza accordo bilaterale. Più che rimpatriare i carcerati è ora di respingere i clandestini, perché i costi insopportabili per lo Stato italiano iniziano quando gli immigrati mettono piede sul suolo italico. Vere e proprie task force di medici e avvocati attendono a Lampedusa e dintorni le navi dal sud Mediterraneo per dare immediata assistenza sanitaria e legale ai clandestini, mentre un italiano che paga le tasse da 30 anni aspetta tre mesi per una tac. Nessuno vuole negare solidarietà a chicchessia, ma sarebbe bene che il concetto solidaristico ritrovasse un equilibrio tra connazionali e stranieri. Dopo 20 anni di delirio catto-progressista che ha trattato l’italiano come un appestato e il clandestino come un Messia, potremmo permetterci anche di far funzionare meglio tribunali, ospedali e carceri italiani, se dessimo precedenza ai nostrani sugli stranieri. Molti delinquenti vengono preordinatamente a commettere reati in Italia, perché il nostro Paese è il bengodi dei furfanti. Possibile che costoro ci debbano costare un occhio della testa dietro le sbarre con record nel Lombardo-Veneto, dove gli imprenditori si suicidano a ripetizione per default economico delle imprese e del sistema sociale? Il problema non è più chi mangia la banana, ma di chi vogliamo salvare le chiappe. Giustizia: emergenza carceri, oggi a Roma sit-in del Sindacato Sappe davanti al Dap Comunicato Sappe, 20 maggio 2014 "Oggi il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, manifesterà a Roma davanti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per chiedere l’avvicendamento dei suoi vertici, nelle persone del Capo Dap Giovanni Tamburino e del suo vice Luigi Pagano. A più di 2 anni dal loro insediamento non sono infatti stati assolutamente in grado di risolvere i problemi e le criticità penitenziarie e, men che meno, quelle che più direttamente riguardano i poliziotti. E a soli 7 giorni dalla scadenza (28 maggio 2014) della sentenza Torreggiani, Tamburino e Pagano continuano a inseguire la favola della "vigilanza dinamica" e l’autogestione delle carceri da parte dei detenuti". È quanto comunica il Segretario Generale del Sappe, Donato Capece, che annuncia la presenza a Roma di rappresentanze del Sindacato dei Baschi Azzurri da ogni Regione d’Italia. "I vertici del Dap filosofeggiano e intanto i poliziotti continuano a sventare suicidi in carcere, a gestire eventi critici come gli atti di autolesionismo, le aggressioni, le risse, a circolare su mezzi vecchi e fatiscenti, nell’indifferenza assoluta dei vertici del Dap che vorrebbero persino mettere il bavaglio alle nostre proteste!", aggiunge, snocciolando i numeri di quel è accaduto nei nostri penitenziari lo scorso anno 2013: "6.902 atti di autolesionismo, 1.067 tentati suicidi, 42 suicidi, 111 decessi per cause naturali, 921 ferimenti, 3.803 colluttazioni: altro che vigilanza dinamica e, quindi, carceri più serene!". Il Sappe, che preannuncia una rumorosa protesta, manifesterà anche per il rinnovo del parco automezzi del Corpo di Polizia Penitenziaria ("fatiscenti e insicuri tanti mezzi che ogni giorno trasportano in tutta Italia detenuti e poliziotti"), per lo sblocco del pagamento degli assegni di funzione, degli scatti di anzianità e il rinnovo del contratto di lavoro ("scaduto da 7 anni"), per un riordino delle carriere che equipari la Polizia penitenziaria agli altri Corpi di Polizia e a favore di una dirigenza generale del Corpo "che sia davvero attenta, sensibile e vicina ai poliziotti". "Una cosa chiederemo domani durante il nostro sit-in al Presidente del Consiglio Matteo Renzi ed al Ministro della Giustizia Andrea Orlando" conclude Capece: "l’avvicendamento dalla guida del Dap di Tamburino e Pagano". Giustizia: Dell’Utri al suo arrivo in Italia destinato a carcere di Opera, Rebibbia o Parma Adnkronos, 20 maggio 2014 Potrebbe arrivare in Italia già in settimana, entro dieci giorni al massimo. Ma non è ancora stabilito in quale carcere sarà detenuto Marcello Dell’Utri, 73 anni, una volta estradato in Italia dopo essere stato espulso dal Libano. Condannato lo scorso 9 maggio dalla Cassazione in via definitiva a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, l’ex senatore di Forza Italia è stato arrestato lo scorso 12 aprile a Beirut e dal 18 aprile è stato trasferito nell’ospedale Al Hayat, nel sud di Beirut, dove è ricoverato, in stato di detenzione, e curato per un problema cardiaco. Per l’ex manager di Publitalia, come per altri detenuti che vengono estradati da vari Paesi, il Dap -riferiscono all’Adnkronos fonti qualificate- sceglierà soluzioni adeguate all’età e allo stato di salute. La procedura prevede che all’arrivo in aeroporto, Malpensa o Fiumicino, del velivolo proveniente da Beirut su cui l’ex senatore azzurro verrà scortato dagli agenti dell’Interpol, Dell’Utri venga consegnato direttamente agli agenti penitenziari che lo condurranno all’istituto più vicino o nella struttura penitenziaria designata. Milano Opera, Rebibbia o Parma sono al momento tra le possibili prime scelte, perché a seconda delle patologie il detenuto viene assegnato a strutture dove è possibile implementare un’attività diagnostica e di cura. Quanto al regime di detenzione, Dell’Utri potrebbe finire in regime di alta sicurezza, con la possibilità di usufruire di due ore d’aria al giorno, o essere assegnato a un regime di media sicurezza. La decisione spetterà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo verifiche sullo stato di salute del detenuto e un eventuale parere chiesto all’autorità giudiziaria di Palermo. Nei giorni scorsi, l’ex senatore ha affermato di considerarsi "un prigioniero politico" e di voler "essere affidato ai servizi sociali" nel caso fosse stata concessa la sua estradizione. Giustizia: nuovo processo per la morte di Giuseppe Uva, imputati carabinieri e poliziotti di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 maggio 2014 Grazie ad una testimone, esteso il capo d’imputazione per i due carabinieri e sei poliziotti imputati. È un nuovo inizio per l’inchiesta sulla morte di Giuseppe Uva. A sei anni dall’ultima notte del 42enne artigiano, era il 14 giugno del 2008, i due carabinieri e i sei poliziotti che lo arrestarono e lo trattennero per ore nella caserma di via Saffi siedono sul banco degli imputati, indagati di omicidio preterintenzionale, abuso dei mezzi di contenzione, arresto illegale e abbandono d’incapace. Cade così il velo di omertà e silenzi che da sempre circonda questa vicenda: per arrivare questo punto, infatti, è servito che il gip ordinasse l’imputazione coatta degli agenti due mesi fa, mentre per anni la procura aveva negato che ci fosse una relazione tra la morte dell’uomo e quanto accaduto durante il suo arresto. In un’ora e mezza di udienza preliminare c’è stato il tempo per scoprire un nuovo tassello del mosaico accusatorio: secondo il procuratore Felice Isnardi - che ha sostituito il contestatissimo Agostino Abate, finito sotto inchiesta al Csm per come ha condotto le indagini - "le misure di rigore e contenzione sono state applicate non solo nella caserma, ma anche all’ospedale". È il frutto dell’ultimissimo segmento delle indagini: gli investigatori hanno infatti ascoltato nei giorni scorsi tutti i medici e gli infermieri presenti all’ospedale la notte in cui Uva morì. Tra questi, l’operatrice socio-sanitaria Assunta Russo, che ha dichiarato di aver sentito due agenti dire: "Adesso gli diamo una menata di botte", riferendosi alla vittima. Lei lo aveva visto circondato da cinque o sei persone, mentre urlava e si dimenava, all’ingresso del pronto soccorso. Poi, due agenti si sarebbero chiusi in bagno con Giuseppe, che ne sarebbe uscito con un evidente segno sul naso. La testimone, però, non è stata in grado di dire se l’ecchimosi fosse presente o meno in precedenza. Durante l’udienza, è stata anche stralciata la posizione di uno dei due carabinieri imputati che ha chiesto e ottenuto il dibattimento con giudizio immediato. Posizione condivisa anche dalla famiglia Uva, rappresentata dall’avvocato Fabio Anselmo. In questo caso, però, la celebrazione rapida del processo viene richiesta a causa del troppo tempo sprecato sin qui, dal 2008. Il rischio, infatti, è che i reati cadano in prescrizione: con la ex Cirielli si può arrivare a guadagnare circa un anno e mezzo di tempo al massimo, non moltissimo per attraversare tre gradi di giudizio. Malgrado le molte incognite che ancora pesano sull’avvenire del procedimento, la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, è apparsa raggiante: "Finalmente un processo vero - ha detto -, finalmente respiriamo aria di verità". In aula era presente anche Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto il 30 giugno del 2011 a Milano, mentre lo arrestavano in via Varsavia. Il prossimo appuntamento è fissato per lunedì 9 giugno, quando il gup Stefano Sala dovrà pronunciarsi sul rinvio a giudizio degli uomini in divisa. Quattro giorni dopo, in tribunale sarà ascoltata Lucia Uva, per l’udienza preliminare che la vede indagata per diffamazione nei confronti dei carabinieri, insieme al documentarista Adriano Chiarelli, all’inviato delle Iene Mauro Casciari e Luca Tiraboschi. Tra i procedimenti che corrono paralleli al processo Uva, da segnalare quello a carico del poliziotto Luigi Empirio, arrestato nei giorni scorsi per un giro di mazzette all’aeroporto della Malpensa. L’agente dovrà rispondere dei reati di corruzione e atti contrari al dovere d’ufficio, con l’ipotesi di falso in atto pubblico. Nell’ambito dell’inchiesta, condotta dai carabinieri di Saronno, diciassette persone sono finite in manette, tra loro diversi pubblici ufficiali. Giustizia: bimbo ucciso e bruciato, la nonna scrive dal carcere a Corbelli (Diritti Civili) Il Giornale di Calabria, 20 maggio 2014 La nonna materna del piccolo Cocò, il bambino di 3 anni ucciso e bruciato a Cassano allo Ionio insieme al nonno e ad una donna marocchina, molto malata, ha scritto dal carcere di Castrovillari, dove è detenuta, una lettera a Franco Corbelli, del Movimento Diritti Civili, per chiedergli di aiutarla a incontrare, prima di morire, le sue due figlie, Antonia (mamma di Cocò) e Simona Iannicelli e i nipotini, che non può vedere da tre anni per disposizione dei giudici. Lo ha reso noto, con un comunicato lo stesso Corbelli. Maria Lucera, la nonna materna del piccolo Cocò, non può vedere le sue due figlie, Antonia e Simona, entrambe agli arresti domiciliari, in una casa famiglia, né può vedere la figlia Antonia quando questa, due volte al mese si reca al carcere di Castrovillari per incontrare il marito, Nicola Campolongo, detenuto anche lui. La donna, assai malata, ha scritto una commovente e drammatica lettera a Corbelli, che da più di un anno e mezzo continua ininterrottamente ad aiutare la famiglia del piccolo Cocò (che 17 mesi fa, il 21 dicembre 2012, era anche riuscito a far scarcerare insieme alla sua mamma, erano entrambi, la madre e Cocò, in carcere, da 40 giorni), pregandolo di aiutarla per farle incontrare in carcere le sue due figlie e i nipoti. La donna, nella missiva, racconta tutta la sua disperazione, la sua sofferenza per questa situazione. Chiede solo di poter vedere e abbracciare, prima che chiuda gli occhi per sempre, le sue due figlie, che non vede e non incontra più dal giorno del funerale del piccolo Cocò, e i suoi nipoti. Scrive Maria Lucera: "Egregio dott. Corbelli, io non ce la faccio più a vivere in queste condizioni, ad essere proibita di vedere i miei figli, i miei nipoti. Anche loro sono chiusi peggio di un carcere; i bambini non hanno più la possibilità di giocare con gli altri bambini, non frequentano la scuola. Mio figlio Giuseppe, che voi dott. Corbelli già conoscete, non sta più frequentando la scuola. Mi chiedo perché dobbiamo subire tutto questo. Perché non ci hanno aiutato prima che accadesse tutto questo, quando abbiamo chiesto di essere aiutati. E adesso che abbiamo subito questo dolore continuano ancora a tenerci lontano. Quando facciamo colloquio vengo bloccata per non incontrare mia figlia, Antonia. Dott. Corbelli mi si spezza il cuore sapendo che mia figlia è qui a far colloquio con il marito(Nicola) e io non posso abbracciarla e a mio genero gli impediscono di vedere le sue bambine, dopo tutta la sofferenza che hanno vissuto per la morte del fratellino. Io non vedo mia figlia Simona da tre anni e non conosco i miei ultimi nipoti. Non possono toglierci il diritto di vedere i nostri figli e i nostri nipoti, io ho bisogno di loro nella mia vita. Sono molto malata e prima di chiudere gli occhi chiedo solo di poterli abbracciare. Non chiedo nemmeno la libertà ma solo di poter vedere e abbracciare i miei figli e i miei nipoti. Vi prego dott. Corbelli, aiutatemi, mi sono rivolto a voi perché so che siete una persona umana e avete vissuto insieme a noi tutta la tragedia e potete capire il mio stato d’animo". Corbelli rivolge un appello ai giudici: "Chiedo, con grande rispetto dei giudici, che ci sia una giustizia giusta e umana per la famiglia del piccolo Cocò. Auspico che venga consentito alla nonna materna del piccolo Cocò, detenuta a Castrovillari e molto malata, di poter incontrare le sue due figlie, Antonia e Simona, e i nipotini. Rinnovo inoltre l’appello, ai giudici di Catanzaro, affinché venga permesso alle due sorelline di Cocò di poter vedere e abbracciare il loro papà, Nicola Campolongo, detenuto, anche lui, nel carcere della città del Pollino". Lazio: il piano di Regione e Ministero contro il sovraffollamento delle carceri www.regione.lazio.it, 20 maggio 2014 L’obiettivo è migliorare la qualità della vita dei detenuti: dalle misure alternative per detenuti tossicodipendenti al miglioramento dell’edilizia penitenziaria, fino al potenziamento dei presidi sanitari e all’avvio di percorsi di formazione per i detenuti. Il Lazio è la seconda regione in Italia per il triste primato dei pochi posti a disposizione nelle carceri. I penitenziari della Regione, infatti, ospitano 1889 detenuti in più della loro capienza massima, che è di circa 4900 detenuti. Un piano per migliorare le carceri. La Regione ha firmato un protocollo con il Ministero. Tante le iniziative adottate, che la Regione finanzia con un contributo di 600mila euro: dalle misure alternative per detenuti con problemi di tossicodipendenza al miglioramento dell’edilizia penitenziaria, fino al potenziamento dei presidi sanitari e all’avvio di percorsi di formazione per i detenuti. Ecco cosa prevede il piano. Misure alternative per i detenuti tossicodipendenti. Si tratta del 18% del totale dei detenuti. La Regione intende favorire il loro recupero e il reinserimento nella società, anche attraverso il ricorso a misure alternative alla detenzione. Edilizia penitenziaria, con l’individuazione di immobili di proprietà della Regione da destinare ad attività per il recupero e reinserimento dei detenuti. Per sostenere progetti rivolti ai detenuti sarà utilizzata anche una parte dei beni confiscati. Presidi sanitari. La Regione intende potenziarli e renderli più efficienti all’interno di tutti i penitenziari del Lazio, anche attraverso l’utilizzo della telemedicina. Progetti sociali e formazione, con tirocini e diverse attività di formazione e inserimento, anche attraverso incentivi alle imprese, per incoraggiare le aziende a far realizzare prodotti ai detenuti e ai soggetti più svantaggiati. Accordi con i comuni sotto i 3.000 abitanti, per coinvolgere i detenuti in lavori di pubblica utilità. "Finalmente riusciamo ad affrontare questo problema con un protocollo che impegna la Regione Lazio nel campo della formazione professionale e di opportunità nell’inserimento nel lavoro in collaborazione con il ministero - è il commento del presidente, Nicola Zingaretti, che ha aggiunto: verificheremo l’attuazione del protocollo con un tavolo operativo e una Cabina di regia presso il Ministero della Giustizia. E predisponiamo entro il primo bimestre dell’anno un piano integrato con i vari soggetti interessati". Campania: oggi il ministro della giustizia Orlando firma protocollo d’intesa sulle carceri Il Velino, 20 maggio 2014 Dopo quelle per le carceri dell’Umbria, del Lazio e della Liguria, proseguono le intese fra Ministero della Giustizia, Regioni ed Enti Locali per implementare un modello virtuoso di collaborazione inter-istituzionale in materia penitenziaria. Domani alle 14,30, presso la Sala Livatino di Via Arenula, firma del Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia, Regione Campania, Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Tribunale di Sorveglianza di Salerno e Anci Campania per il miglioramento delle condizioni del sistema detentivo regionale nella prospettiva di una sua più compiuta integrazione con il territorio e la comunità esterna. L’accordo viene sottoscritto dal guardasigilli Andrea Orlando, dal vice presidente della Regione Campania Stefano Caldoro, dai presidenti del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Carminantoni Esposito e Salerno Maria Antonia Vertaldi e dal presidente dell’ANci Campania Francesco Iannuzzi. Vibo Valentia: suicida poliziotto penitenziario, è il quinto caso dall’inizio dell’anno Ansa, 20 maggio 2014 Ennesima tragedia nelle fila dei Baschi Azzurri della Polizia Penitenziaria, dove dall’inizio dell’anno 4 poliziotti si sono tolti la vita. "È successo ancora, ancora un poliziotto penitenziario suicida per la quinta volta dal 1 gennaio 2014. Si è tolto la vita ieri a Vibo Valentia, nella sua auto ferma nel parcheggio del carcere, un Assistente Capo del Corpo, C.F., di anni 45, sposato e con due figli. Si sarebbe sparato un colpo d’arma da fuoco al petto con la pistola d’ordinanza", commenta affranto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Siamo tutti sconvolti e sgomenti, anche perché questo grave fatto avviene a poche settimane da analoghe tragedia, a Padova e a Siena. Ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile della famiglia, degli amici, dei colleghi". Capece torna a sottolineare come "una riflessione deve essere fatta sulla piaga dei suicidi tra i poliziotti: più di 100 casi dal 2000 ad oggi sono una enormità. È un fenomeno preoccupante e va fatto qualcosa. In Italia non esistono ricerche in questo ambito, forse per colpa dei tabù culturali che ostacolano l’analisi del problema, tanto che ancora oggi è difficile quantificare il numero dei suicidi e dei tentati suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia e compararne i dati con la popolazione di riferimento. Noi lo abbiamo detto e lo ripetiamo: la predisposizione di convenzioni con Centri specializzati di psicologi del lavoro in grado di fornire un buon supporto agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti anche dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria". "Su queste tragedie - conclude - non possono e non devono esserci colpevoli superficialità o disattenzioni, fermo restando che l’Amministrazione Penitenziaria trascura colpevolmente da anni il disagio lavorativo degli Agenti di Polizia Penitenziaria". Sarno (Uil-Pa): comunicato stampa Un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio presso l’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Vibo Valentia si è suicidato nel parcheggio del carcere sparandosi un colpo al petto con la propria pistola. L’evento si è verificato ieri i nel primo pomeriggio. L’uomo ha lasciato una lettera con saluti ai suoi cari ed ai colleghi. Le motivazioni dell’estremo gesto pare siano da riportare a dissidi con un fratello. Ne da notizia Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari "Siamo addolorati, affranti e costernati nel registrare questo suicidio. Il quinto di un basco blu nel 2014. Anche se le ragioni del gesto pare siano direttamente connesse a ragioni di carattere familiare questa ennesima tragedia ci segna profondamente. Il triste e preoccupante fenomeno dei suicidi nelle fila della polizia penitenziaria (124 dal 2000 ad oggi) va affrontato in profondità senza cedere a strumentalizzazioni di sorta. Il duro lavoro della polizia penitenziaria può certamente incidere in queste scelte estreme ma non sempre c’è correlazione diretta con l’ambiente lavorativo. Come hanno giustamente sottolineato, giovedì scorso, il Ministro Orlando ed il Capo del Dap Tamburino, durante la celebrazione della Festa del Corpo, il meritorio impegno degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria merita rispetto ed attenzione. Per questo - conclude Sarno - siamo certi che sia il Dap che il Ministero di Via Arenula dopo l’imminente scadenza del 28 maggio porranno al centro dell’agenda le possibili soluzioni alle difficoltà che oberano il personale di polizia impiegato nelle frontiere e nelle prime linee penitenziarie Moretti (Ugl): comunicato stampa "Esprimiamo il nostro cordoglio per la morte dell’assistente capo della Polizia Penitenziaria in servizio presso l’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Un altro suicidio che purtroppo si aggiunge al già triste elenco di colleghi che sono giunti a questo gesto estremo, talvolta perché sopraffatti dall’enorme peso del compito svolto e spesso perché non supportati in maniera adeguata". Lo dichiara in una nota il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, manifestando la propria amarezza "per la ridondanza di progetti di riorganizzazione della gestione detentiva che l’Amministrazione sta portando avanti senza tener conto delle difficoltà emergenti e, soprattutto, mentre continua ad essere relegata in secondo piano qualsiasi iniziativa riguardante il benessere del personale, come la necessità di attivare un efficace sostegno psicologico per aiutare gli agenti a sostenere il peso del servizio che svolgono". La nostra Organizzazione è da tempo impegnata con l’iniziativa "l’Ugl dà voce agli eroi silenziosi" per informare i colleghi sulle conseguenze dello stress da lavoro correlato e rinnova con perseveranza la richiesta di rimpinguare l’organico, oggi completamente carente, come ammesso dallo stesso ministro Orlando, e di rilanciare uno sviluppo formativo e professionale del personale più adeguato alle richieste dell’Europa, con l’auspicio - conclude Moretti - che l’Amministrazione intervenga al più presto in maniera fattiva. Sassari: dal pm requisitoria di 8 ore per ricostruire l’omicidio in cella di Marco Erittu di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 20 maggio 2014 Otto ore di requisitoria. Ma il pubblico ministero Giovanni Porcheddu ha solo iniziato la sua discussione nel processo che si sta celebrando davanti alla corte d’assise di Sassari per l’omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato morto in una cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. La requisitoria proseguirà venerdì pomeriggio quando il sostituto procuratore esporrà e analizzerà tutti gli altri elementi accusatori. Inizialmente il fatto fu archiviato come un suicidio ma in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che si autoaccusò del delitto indicando in Pino Vandi il mandante, le indagini furono riaperte. Vandi fu arrestato e Bigella condannato. Ai domiciliari, per gli stessi fatti, è finito l’agente di polizia penitenziario Mario Sanna indicato sempre dal reo confesso come colui che aprì la porta della cella al commando composto da Bigella e da un altro detenuto, Nicolino Pinna (imputato ma mai arrestato) che lo avrebbe aiutato a uccidere Erittu. Il movente? La vittima sarebbe stata a conoscenza di un coinvolgimento di Pino Vandi nel sequestro del farmacista di Orune Paoletto Ruiu e nella scomparsa del muratore di Ossi Giuseppe Sechi. L’ossatura del processo. Il pm lo dice a chiare lettere: "È rappresentata dalle dichiarazioni di Giuseppe Bigella". Ed è rappresentata soprattutto dall’esigenza di dimostrare l’attendibilità e la credibilità del supertestimone che ha chiamato altri in correità. "Un essere umano tende a non accusarsi - ha esordito Porcheddu - e invece in questo caso la naturale tensione alla libertà viene invertita. Bigella in primo luogo incolpa se stesso, si assume in pieno la responsabilità del delitto". Le dichiarazioni di Bigella. "È stato un omicidio - racconterà agli inquirenti - Lo abbiamo ucciso per evitare che parlasse con la magistratura". Il pubblico ministero legge alla corte d’assise presieduta da Pietro Fanile (a latere Teresa Castagna) le dichiarazioni più salienti della lunga confessione. "Erittu mi disse che sapeva dove era seppellito Giuseppe Sechi". Da allora sarebbero iniziate le minacce per convincere il detenuto a stare zitto: "Ma nonostante questo - continua Bigella - lui aveva chiesto un colloquio con un maresciallo e poi con il procuratore capo. Vandi seppe che Erittu voleva collaborare con la magistratura, per questo disse che non doveva arrivare al lunedì successivo. Mi disse che dovevamo ucciderlo, sapeva che io lo avrei fatto, avevo già una condanna per omicidio. Mi disse che mi avrebbe dato una mano Nicolino Pinna. Mi avrebbe dovuto aiutare ad appenderlo per simulare l’impiccamento". La lettura delle dichiarazioni del pentito va avanti: "Vandi mi spiegò come dovevo ucciderlo. Dovevo soffocarlo senza lasciare segni e se non fosse andata bene avrei dovuto tagliarli la gola con un taglierino. L’agente Sanna ci ha fatto entrare, Erittu era sdraiato supino sulla branda. Gli misi la busta in testa, rantolava e scalciava, Nicolino gli ha bloccato le gambe e le braccia e poi si è seduto sul suo stomaco. Allora ha vomitato, il suo vomito mi è finito addosso, era schiumoso. Ho tolto il sacchetto solo quando ho visto che non respirava più. Non lo dovevamo spostare dal letto. Poi sono andato via e ho lasciato Pinna dentro la cella perché doveva tagliare la striscia e simulare il suicidio". L’affidabilità del pentito. "A mio avviso - sostiene il pm - nella confessione c’è stata una coerenza espositiva dilatata nel tempo. Bigella è andato a rievocare un fatto quando era pacifico che si trattasse di un suicidio. Ha fornito indicazioni precise su modalità e movente, svelando dettagli inediti". La riapertura delle indagini. Ci sono degli elementi, a detta del pm, che vanno a sostegno della tesi omicidiaria e quindi del racconto di Bigella. Porcheddu li elenca: "L’assenza effettiva delle guardie nel braccio promiscui quel giorno, la posizione supina di Erittu dopo l’uccisione incompatibile con l’impiccamento, le tracce organiche sul volto riconducibili al vomito, la colatura delle tracce ematiche compatibile con la posizione supina, accertato un inquinamento probatorio (la cella sarebbe stata manomessa ndc) e accertata anche la volontà di Erittu di parlare con la magistratura. Ancora, i manoscritti e le lettere della vittima che confermano la tesi di Bigella. È inoltre realistico un coinvolgimento di Vandi nella scomparsa di Ruiu e Sechi così come lo è il fatto che Erittu ne fosse a conoscenza. E infine è stata accertata la posizione dominante di Vandi in carcere". Le intercettazioni. La requisitoria del pm ha poi toccato altri punti importanti come le intercettazioni ambientali che metterebbero a suo dire in luce le contraddizioni di Mario Sanna (addetto quel giorno alla sorveglianza della cella di Marco Erittu) ad esempio sulla posizione del cadavere al momento del ritrovamento. Ma anche le contraddizioni degli agenti Faedda e Soggiu (imputati per favoreggiamento) "perché dopo il delitto - sostiene l’accusa - aiutarono a eludere le investigazioni dell’autorità cambiando la posizione del cadavere che misero ai piedi del letto vicino alla finestra, facendo scomparire un taglierino dalla cella (utilizzato secondo Bigella per realizzare la striscia di coperta) e dichiarando di aver verificato che la striscia stringeva il collo della vittima". Consulenze e perizie. "A mio avviso il perito Francesco Maria Avato (che si era pronunciato a favore del suicidio) è caduto nel tranello, tutti sono caduti nel tranello dando per sicura e non discutibile la posizione a terra del cadavere. E questo ha inficiato la conclusione cui il perito è pervenuto". Milano: detenuto invalido resta nel carcere di Opera perché nessuna struttura lo accoglie Il Giorno, 20 maggio 2014 Il provvedimento di scarcerazione risale a otto mesi fa. Un uomo di 28 anni, detenuto a Opera, doveva essere scarcerato da ben otto mesi ma è ancora in carcere. L’assurda vicenda è stata denunciata dal direttore del penitenziario, Giacinto Siciliano, ascoltato a Palazzo Marino nella sotto-commissione carceri. Motivo, il giovane è totalmente invalido e non è ancora stata trovata una struttura in grado di accoglierlo. "È incapace di commettere un nuovo reato", ha affermato Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del comune di Milano spiegando che il 28enne, di origine romena, ha anche tentato due volte il suicidio. Roma: Regina Coeli carcere inospitale, ma immobile da valorizzare di Marco Panara La Repubblica, 20 maggio 2014 L’idea di recuperare l’edificio costruendo una struttura decentrata più moderna ed efficiente. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha detto che è il momento di creare un tavolo per valutare se l’utilizzo di Regina Coeli per un carcere sia ancora opportuna. Suggerisco al ministro di rileggersi lo studio che Gianfranco Imperatori, scomparso nel 2009 lasciando un grande vuoto, elaborò nel 2008: la proposta era di spostare le carceri dai centri delle città utilizzando capitali privati e il project financing per costruire le nuove con caratteristiche e in luoghi più opportuni, e per destinare a nuova funzione gli immobili che accolgono migliaia di detenuti al centro di Roma, Milano, Palermo. Il progetto non trovò la politica attenta e le lobby di avvocati e magistrati fecero in modo che lo fosse ancora meno. Sei anni dopo, con la situazione dei detenuti italiani all’attenzione indignata del mondo, è il caso di occuparsene con nuova determinazione. Regina Coeli, San Vittore e l’Ucciardone sono strutture storiche il cui ruolo di grande carcere è datato. L’Italia ha il dovere di rendere dignitosa la detenzione e dotarsi di strutture adeguate a questo scopo. L’effetto collaterale di questa scelta di civiltà è restituire alle città spazi dalle immense potenzialità. Basta immaginare cosa potrebbe diventare Regina Coeli nel cuore di quel quartiere magico che è Trastevere. Non c’è bisogno di un tavolo per valutare se l’utilizzo di Regina Coeli per un carcere sia ancora opportuna: non lo è. Verona: "Ludwig" fa ancora paura, per il giudice 30 anni dopo Abel rimane un pericolo di Andrea Priante Corriere di Verona, 20 maggio 2014 Mercoledì era l’anniversario della strage al cinema Eros di Milano: il 14 maggio 1983 un incendio appiccato nella sala a luci rosse provocò la morte di sei persone. Un paio di mesi prima, il 26 febbraio 1983, il sacerdote don Armando Bison venne trovato a Trento con un crocifisso piantato nel cranio. Più o meno la stessa fine di Gabriele Pigato e Giuseppe Lovato, i due frati settantenni del Santuario della Madonna di Monte Berico, a Vicenza, che il 20 luglio del 1982 furono massacrati a martellate. Delitti diversi, con un’unica firma: Ludwig, la formazione neonazista composta dai veronesi Marco Furlan e Wolfgang Abel che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo rivendicò una quindicina di delitti (dieci quelli che in seguito vennero accertati dal tribunale) compiuti nel nome del nazismo, con l’obiettivo di "liberare il mondo" da barboni, prostitute e omosessuali. A oltre trent’anni da quegli omicidi, Abel è da considerarsi ancora potenzialmente pericoloso. E quindi non può tornare libero. Il giudice del Tribunale di Sorveglianza di Verona, Lorenza Omarchi, giovedì aveva incontrato il serial killer che dal 2006 è sottoposto al regime della libertà vigilata, dopo aver scontato la condanna a 27 anni di carcere. Oggi vive sulle colline della Valpolicella assieme alla madre, con l’obbligo di rincasare tutte le sere e di non uscire dai confini della provincia di Verona. "Sto bene, anche se ho perso il lavoro di bracciante, e di questi tempi non è facile trovare un impiego", ha spiegato nell’attesa di incontrare il giudice che doveva valutare se era giunto per lui il momento di tornare a tutti gli effetti un uomo libero. Abel ci sperava; da tempo ripete che quello sarebbe l’unico modo per lasciarsi finalmente alle spalle il "marchio" di Ludwig e ricostruirsi una vita, magari trasferendosi all’estero, in Germania. Invece ieri mattina è arrivata la doccia fredda. Stando alla decisione depositata dal magistrato, il serial killer (difeso dall’avvocato Nicola Bonetti) rappresenta ancora un pericolo per la società, c’è il rischio di reiterazione del reato e quindi le misure vanno mantenute. In pratica vengono confermati i "legacci" tipici di chi, pur avendo scontato la pena, potrebbe tornare a colpire. E questo nonostante una relazione consegnata nel 2013 dai carabinieri al giudice di sorveglianza, nella quale si legge che la sua pericolosità sociale "va scemando". Evidentemente non basta. Anche perché in Abel non c’è alcuna traccia di pentimento: a distanza di trent’anni dai delitti, questo veronese figlio di un assicuratore tedesco continua a negare di essere "l’altra metà" di Ludwig. Quelle dieci morti - sostiene - non sono opera sua. E allo stesso modo ripete di non sapere nulla neppure dei presunti legami tra l’estrema destra veronese e la bomba di piazza della Loggia, tirati in ballo da Gianpaolo Stimamiglio, un pentito di Ordine Nuovo convinto che la strage di Brescia sia opera di giovani poi confluiti in Ludwig. È una scia di sangue infinita, quella che Furlan e Abel si sono lasciati alle spalle. E primo è già libero da tempo. A Wolfgang non resta che aspettare: tra dodici mesi il giudice riesaminerà il suo caso. Catania: se i detenuti diventano attori, al Musco "Vento di tramontana" www.catania.blogsicilia.it, 20 maggio 2014 Partire da un romanzo di formazione che alla durezza di un carcere di massima sicurezza associa l’ammaliante paesaggio mediterraneo dell’isola di Favonio, in realtà Favignana, sovente sferzata dal vento del Nord. Portare sul palcoscenico le pagine del racconto, con carcerati veri che affiancano attori veri. Un progetto che testimonia una volta di più il ruolo civile che il teatro può e deve svolgere nella società. Lo Stabile di Catania conclude così la stagione allestendo "Vento di tramontana", una nuova produzione tratta dall’omonimo best-seller di Carmelo Sardo (Mondadori, 2010). Una scelta densa di motivazioni non solo teatrali e letterarie, quella di portare in scena il primo romanzo del giornalista agrigentino, da anni in forza al Tg5 e attento osservatore della piovra mafiosa. Il suo è uno spaccato crudo e al tempo stesso tenero e profondo. La riduzione scenica è affidata a Gaetano Savatteri, giornalista e scrittore anch’egli di origine agrigentina, particolarmente attento alle tematiche sociali che affliggono la Sicilia. Il risultato è un alto esempio di teatro civile, che verrà rappresentato al Musco dal 20 al 25 maggio 2014. La regia è firmata da Federico Magnano di San Lio, le scene e i costumi da Angela Gallaro, mentre le musiche sono composte dal musicista ennese Mario Incudine, tra gli esponenti più rappresentativi della nuova world music italiana. Nel cast beniamini del pubblico come Mimmo Mignemi, David Coco e lo stesso Mario Incudine. E ancora Luca Iacono e Marina La Placa, due promesse uscite dalla prestigiosa scuola di recitazione del Teatro Stabile, intitolata ad Umberto Spadaro. Come sempre più spesso avviene, lo Stabile lancia così nuovi talenti di cui ha curato la formazione. Saranno coinvolti nell’azione scenica anche Gianluca Belfiore, Erminio Caruso, Davide Intravaia, Giuseppe Manuli, Guglielmo Quattrocchi, Salvatore Rapisarda, sei detenuti nell’Istituto Penitenziario di Giarre. Operazione che si inserisce all’interno della rete dei progetti di "teatro in carcere", attivi ormai da decenni in diverse zone della penisola, e per la quale si ringraziano Calogero Piscitello, Direttore Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Aldo Tiralongo, Direttore della Casa Circondariale di Giarre; Maria Rita Leotta, attrice e assistente volontaria alla regia; Gianluca Creazzo, Magistrato di Sorveglianza di Catania; lo staff dell’Area Educativa della Polizia Penitenziaria di Giarre e dell’Uepe di Catania. Al centro della vicenda troviamo un ragazzo di vent’anni, mandato nel supercarcere di un’isola siciliana per svolgere i nove mesi di servizio militare come agente di custodia. "Tra i reclusi - spiega Sardo - troviamo capi mafia, gregari, killer spietati, accomunati dallo stesso destino: ergastolo, fine pena mai. Federico, timido e spaesato, raccoglie le confidenze dei mafiosi e appunta tutto sul suo inseparabile diario. Particolare il rapporto con il capo mafia Carmelo Sferlazza: il boss ha bisogno di un complice per un singolare progetto, per una volta non criminale, ma anzi di riscatto. La loro amicizia, nonostante non si rivedranno più al di fuori del carcere, segnerà e condizionerà destini e passioni anche molti anni dopo". Il tempo del racconto è quello cupo e fosco delle stagioni di mafia in Sicilia, evocato dai suoni di sirene, spezzoni di tg, voci sovrapposte. Per Federico l’arrivo nell’isola è già di per sé una contraddizione: da una parte il mare vasto e abbagliante, dall’altro la clausura del carcere duro con le sue regole e la sua ferocia. "Carmelo Sardo - evidenzia Savatteri - parla della difficoltà di diventare adulti, confrontandosi con scelte etiche e personali non irrilevanti, con decisioni che avranno ripercussioni sul resto della propria vita. Colui che racconta è allo stesso tempo il protagonista in tempo reale rispetto a quanto avviene sulla scena, ma anche in qualche modo l’adulto che ricorda e racconta il suo approdo alla maturità, in un doppio registro di voce sconosciuto a chi osserva". "Il giovane - analizza il regista Magnano di San Lio - si ritrova a dover valutare se una cosa non consentita possa essere, invece, giusta. Se aggiungiamo che è obbligato a "accettare o rifiutare", il riferimento ad Antigone è spontaneo. A differenza del personaggio sofocleo, è però solo, non ha la possibilità di argomentare la sua scelta o il suo rifiuto. La mancanza di una polis di riferimento acuisce la solitudine delle sue decisioni e sembra mettere a dura prova le certezze accumulate fino a quel momento".