Giustizia: Commissione Senato, entro il 15 maggio il Testo Unico su amnistia e indulto di Andrea Spinelli Barrile www.polisblog.it, 1 maggio 2014 Nessun parere dal ministro della Giustizia Orlando su provvedimenti di clemenza ma la Commissione Giustizia del Senato tira dritto. Di sovraffollamento carcerario, e soprattutto dell’imminente condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che si pronuncerà il 25 maggio se il governo italiano non avrà trovato una soluzione al dramma carceri), si continua a parlare poco e male, soprattutto sui giornali. In realtà questa volta la politica sembra (condizionale obbligato) voler affrontare la questione, seppur in colpevole ritardo: mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando sembra non voler proprio parlare del problema sovraffollamento e della riforma del diritto penale (molto più attivo sul civile), la Commissione Giustizia al Senato, presieduta da Francesco Nitto Palma (ex guardasigilli) ha fissato per il 15 maggio 2014, alle ore 18, il termine per la presentazione di un testo unificato in materia di indulto e amnistia, già chiesti con due messaggi alle Camere (ed altri tre meno formali) del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Andrea Orlando, audito ieri in Commissione, non ha menzionato né fatto riferimento in alcun modo all’adozione di eventuali provvedimenti di clemenza, soffermandosi in particolare sulla riforma del diritto civile al vaglio dei tecnici ministeriali in queste settimane: nulla di nuovo, anche il primo ministro Renzi non aveva fatto menzione del problema carceri nei suoi discorsi a Camera e Senato per il primo voto di fiducia al suo governo, ma il problema resta, seppur nascosto. Dopo essere andato in Europa a snocciolare dati quantomeno sbagliati (per non dire fasulli) il ministro si è infatti quasi eclissato sul fronte carcerario, per concentrare le sue attenzioni sulla (sacrosanta) riforma del diritto civile: sarà forse questo un modo alternativo per pungolare il Parlamento a lavorare, chi può dirlo, sta di fatto che la Commissione Giustizia al Senato ha fatto oggi il primo passo avanti serio per la redazione e la votazione di un eventuale provvedimento di clemenza (amnistia o indulto che sia). Secondo la Commissione presieduta da Nitto Palma a fronte di una capienza regolamentare pari al massimo a 44 mila unità, nelle carceri italiane siano reclusi circa 60 mila detenuti; un dato che, da solo, rende necessario un provvedimento: "Tenuto conto della persistente situazione di sovraffollamento, dell’obbligo imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al nostro Paese di ovviare entro il 28 maggio all’emergenza detentiva e del recente, reiterato monito del Presidente della Repubblica, invita i relatori a predisporre entro il 15 maggio alle ore 18, un testo unificato sulle proposte legislative in titolo". Se il Pd spinge, in Commissione Giustizia, per affrontare il problema solo dopo il voto delle europee ("per evitare strumentalizzazioni" dicono i senatori democratici), così come anche l’unico componente di Ncd in Commissione, Carlo Giovanardi: alla fine il Presidente Nitto Palma ha confermato la scadenza del 15 maggio per la presentazione del Ddl, precisando tuttavia che il seguito dell’esame potrà aver luogo dopo lo svolgimento delle consultazioni elettorali per il rinnovo del Parlamento europeo. È sempre la carta Berlusconi, nonostante nessuno lo dica, a rappresentare la vera discriminante: fino a quando il Cav sarà in politica, attiva o passiva che sia, riformare la giustizia italiana sarà cosa ardua. Soprattutto nel mondo carcerario. Giustizia: i detenuti sono in calo, ma non basta di Luigi Pagano (Vicecapo del Dap) Il Manifesto, 1 maggio 2014 Il Dap risponde. I numeri sono in calo. Ma la vera sfida per evitare la condanna di Strasburgo non è limitarsi ad aumentare i metri quadri nella cella, bensì incidere sul regime penitenziario per adeguarlo ai precetti costituzionali. Molto è stato fatto, molto resta da fare. In relazione all’articolo "Guerra di cifre sui detenuti" pubblicato il 29 aprile mi permetto alcune osservazioni. La Corte di Strasburgo nel gennaio del 2012 con la sentenza Torreggiani ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante perché, all’inizio del 2012, almeno 17000 detenuti vivevano in uno spazio minimo pari o inferiore ai 3 metri quadri. La condanna suona come una censura alla politica penitenziaria nel Paese, con conseguenze, non irrilevanti, anche di natura economica in relazione ai possibili risarcimenti a cui la Corte potrebbe condannarci al termine dell’anno concesso per presentare un credibile piano d’azione. Per modificare questo stato di cose bisognava mettere mano a una riforma sostanziale dell’attuale regime penitenziario, ma, contestualmente, come assoluta necessità, anche aumentare lo spazio di fruibilità per singolo detenuto, e farlo in fretta nell’imminenza della scadenza del maggio 2014. Della difficoltà degli interventi da operare, l’Amministrazione era, ed è, ben consapevole, ma si è cercato di utilizzare quella sentenza come occasione di cambiamento. Ci siamo fatti forza del messaggio del Presidente Napolitano, ci hanno agevolato le riforme varate dal Parlamento, abbiamo avuto la possibilità di disporre di nuovi istituti. È stato un lavoro in collaborazione costante con le altre istituzioni, e da parte nostra, avendo a disposizione risorse limitate, abbiamo dovuto chiedere, e lo abbiamo ottenuto, un impegno senza precedenti a tutto il nostro personale. Credo che un primo obiettivo sia stato raggiunto, le leggi varate negli ultimi due anni hanno portato alla diminuzione degli ingressi in carcere e a un aumento delle misure alternative, per cui il numero delle presenze è calato, in un anno, da 66.000 circa alle 59.717 attuali, e il dato è in calo, permettendo di azzerare le situazioni critiche al di sotto dei tre metri quadri. Basta questo? Per evitare la condanna a Strasburgo possiamo dire di essere moderatamente ottimisti, ma, prevenendo obiezioni, chiarisco: il sovraffollamento permane. A fronte di 59.717 detenuti presenti, abbiamo a disposizione solo 44.369 dei 49.131 posti esistenti nei nostri istituti, 4.762 non risultano agibili e stiamo cercando di recuperarli con interventi di manutenzione nonostante la scarsezza delle risorse. Questi i dati reali, verificabili in ogni momento e, d’altronde, mi chiedo, che interesse avremmo a dare cifre alterate? Potremmo, forse, ingannare l’opinione pubblica, non certo la Corte di Strasburgo. E, sull’argomento della loro pubblicità, vorrei tentare di chiudere una polemica insorta con gli amici di Antigone. Riconosco che la nota diramata in periferia, con cui si riportava al Dipartimento la competenza a fornire i dati, poteva generare equivoci, ma se nel contempo non è stata mai negata una sola autorizzazione all’ingresso negli istituti, a loro come ad altre associazioni, ai giornalisti, come si può ipotizzare un intento censorio? I dati devono essere sottoposti a continuo vaglio non potendo più ammettersi approssimazioni o contraddittorietà, per cui è essenziale che sia un’unica fonte a fornirli e questa fonte non può che essere l’organo centrale. Un’ultima considerazione, la vera sfida non è evitare la condanna di Strasburgo o limitarsi ad aumentare i metri quadri a disposizione del detenuto nella cella, bensì incidere sul regime penitenziario per adeguarlo ai precetti costituzionali. Lo sappiamo e su questo si è appena iniziato a operare nel verso giusto, ideando la realizzazione di circuiti regionali e differenziando gli istituti, cercando di riportare la cella a mero luogo di pernotto con il prolungamento dell’orario di permanenza all’aperto, incrementando le attività trattamentali, aumentando gli orari dei colloqui, le attività sportive, ma il più, con onestà, è ancora da realizzare. Noi manteniamo tutto il nostro impegno, ma è fondamentale che l’attenzione mostrata dalle altre istituzioni e dalla società esterna non vengano meno, perché l’Amministrazione penitenziaria da sola non può creare nulla, il carcere, così, rimarrebbe confinato nel limbo di sé stesso. La speranza è che le sinergie di oggi vadano oltre l’emergenza, diventino sistema. Solo così Strasburgo si trasformerà da un momento amaro per il nostro Paese a una raggiunta occasione di riscatto. Giustizia: le sovraffollate carceri italiane, bocciate dall’Europa e... rimandate da Renzi di Ermes Antonucci www.agenziaradicale.com, 1 maggio 2014 Il Consiglio d’Europa conferma la situazione di flagranza criminale dello Stato italiano, ricordando, ancora una volta, che il nostro Paese è il primo tra i 28 dell’Ue per sovraffollamento carcerario e numero di detenuti in attesa di giudizio. Un doppio record della vergogna, che, però, nonostante il clima da campagna elettorale europea, continua a non suscitare alcuna reazione da parte della politica e dei media. Secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, nel 2012 - dunque un anno prima che la Corte di Strasburgo condannasse, con la nota sentenza Torreggiani, il nostro Paese per il sovraffollamento carcerario e stabilisse un ultimatum per il ritorno nella legalità fissato al prossimo 28 maggio - nelle carceri italiane vi erano 66.271 detenuti per 45.568 posti disponibili, con un rapporto quindi di 145 carcerati per ogni 100 posti. Peggio dell’Italia fa solo la Serbia, con un rapporto di quasi 160 detenuti per ogni 100 posti (mentre la Grecia, seconda nel rapporto 2011 non ha inviato i dati per il 2012 e non compare così nella classifica). Il secondo primato riguarda, come dicevamo, il numero dei detenuti in attesa di giudizio. Anche qui l’Italia è prima tra i 28 paesi della Ue (terza tra i Paesi del Consiglio d’Europa), con 12.911 detenuti in attesa di giudizio. Un altro doppio record, peraltro, riguarda la popolazione carceraria straniera: l’Italia nel 2012 è stato il primo Paese per numero di detenuti stranieri nelle sue carceri (23.773) e per numero di detenuti stranieri in attesa di giudizio (10.717). Il merito di tutto ciò, come sappiamo, è da ricondurre in buona parte alle scellerate leggi Fini-Giovanardi e Bossi-Fini (che gli ignorati referendum radicali, tra l’altro, si proponevano di abolire). La violazione dei diritti umani di chi vive nelle carceri, insomma, continua. A rendere ancor più sconfortante il quadro disastroso della giustizia italiana dipinto dal Consiglio d’Europa ci pensa anche un’inchiesta dell’Espresso sulla corruzione che ormai si starebbe diffondendo a macchia d’olio nei tribunali nostrani. L’inchiesta sul "mercato delle prescrizioni", per citarne solo una, su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea, ha tracciato una situazione paradossale in cui imputati e funzionari del palazzo di giustizia mercanteggiano un rinvio dell’udienza, un "ritardo" nella trasmissione di atti importanti, o persino la sparizione di carte compromettenti. "Prezzi trattabili, dottò…", e via con soldi, mazzette, trattative. La Commissione Europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ) conferma, seppur indirettamente, la diffusione della corruzione nelle aule di giustizia italiane: su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. La situazione incivile e disumana del sistema giustizia, tuttavia, non sembra preoccupare la politica italiana e anche il sistema mediatico (a parte, come si è visto, alcune eccezioni). Passate poche ore, ad esempio, la notizia relativa al disonorevole primato del nostro Paese è già sparita dalle prime pagine di alcuni grandi quotidiani italiani (come il Corriere della Sera e il Fatto, che preferisce dare lo scoop dell’ "ultimo detenuto in permesso premio evaso dal carcere di Bollate") o è comunque relegata ai loro margini (come su Repubblica, dove già in serata la notizia è ritenuta meno importante dei "10 consigli per postare foto "da acchiappo""). Dalla politica un silenzio tombale. L’iperattivo Renzi, impegnato a sistemare coraggiosamente, giorno dopo giorno, ogni male del Paese, neanche ritiene di dover commentare la notizia. Nessun tweet, nessun impegno sul prossimo calendario (riforma della giustizia, dunque, rimandata come da programma a giugno, cioè dopo il limite stabilito dalla Corte di Strasburgo). Insomma, l’unico modo per indurre il premier ad intervenire con il suo giovanile entusiasmo e la sua volontà rottamatrice su questo tema - la flagranza criminale dello Stato italiano contro i diritti umani e lo stato di diritto - sembra essere quello di lanciare una banana ai detenuti dietro le sbarre, sperando sempre che qualcuno immortali il momento. Altrimenti non è cool, e Renzi se ne frega. Giustizia: Orlando; sulle carceri raggiunti risultati significativi, anche se non risolutivi Public Policy, 1 maggio 2014 "Significativi anche se non risolutivi", così Andrea Olrando, nel corso di una audizione sulle linee programmatiche del suo dicastero davanti la commissione Giustizia della Camera, ha definito i risultati raggiunti sino ad ora riguardo la diminuzione della popolazione carceraria. "Il sistema è tornato sotto controllo - ha aggiunto Orlando, ribadendo la necessità di ripensare il sistema carcerario - ciò non vuol dire a regime e a norma, ma un andamento che non rischia più di sfuggire al controllo dell’amministrazione". Possibili riforme se cessano urla di guerra "Credo si possa fare molto per la giustizia, ma i temi sensibili, oggetto di scontro per anni, possono essere affrontati solo se si cessa la rissa permanente". Ad affermarlo è il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, condividendo le dichiarazioni rilasciate dal premier Matteo Renzi. "A prescindere da ciò ci sono temi su cui è necessario intervenire, ed il governo si sta muovendo - ha detto Orlando a margine di una audizione alla Camera, tra cui le carceri, la giustizia civile, l’organizzazione e l’architettura complessiva di funzionamento di un sistema su cui poi si può passare ai dettagli se cessano le urla di guerra". Misure siano coordinate, non contrapposte "Credo che tutte queste misure debbano essere tra loro coordinate e non contrapposte, spesso la polemica politica tende ad accentuare una proposta piuttosto che un’altra". Lo ha detto, riferendosi alle diverse misure per ridurre la popolazione carceraria, il ministro della Giustizia Andrea Orlando nel corso di una audizione sulle linee programmatiche del suo dicastero davanti la commissione Giustizia della Camera. Per Orlando i provvedimenti devono migliorare a "un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti" e per questo ho chiesto un "censimento delle carceri che indichi non solo i metri quadri disponibili ma anche le attività svolte nei singoli penitenziari". Censimento su dimensioni celle e attività svolte "Ho chiesto di realizzare un censimento non solo sulle dimensioni delle celle ma sulle attività che vengono svolte per la rieducazione". Lo afferma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso di un’audizione in commissione Giustizia alla Camera sulle linee programmatiche del suo dicastero. Giustizia: chi lavora non torna in carcere di Giovanni Tizian e Federico Ferrero L’Espresso, 1 maggio 2014 I detenuti con un’occupazione quasi sempre non ripetono il reato. Ecco come si può aiutare il loro recupero. I rifiuti erano l’oro della camorra, adesso sono il tesoro dei detenuti del carcere napoletano di Secondigliano. Ogni mattina trenta reclusi selezionano le bottiglie di plastica, di vetro e le I lattine di alluminio raccolte all’interno del penitenziario e in alcuni quartieri della città. Nelle stesse ore anche dietro i cancelli di Rebibbia avviene l’identica scena. Frammenti di vita quotidiana tra condannati, alcuni con sulle spalle la sentenza "fine pena mai", che così ottengono dignità e un’occasione di riscossa. Lavorare dovrebbe essere un loro diritto, non l’eccezione: la strada maestra di quella rieducazione che per la Costituzione resta lo scopo della prigione. Una missione ignorata: a sei mesi dal suo discorso al Parlamento, Giorgio Napolitano è tornato a chiedere misure urgenti per migliorare le condizioni dei reclusi. E la sentenza della Corte Europea che ha condannato il nostro sistema carcerario impone di dare risposte entro poche settimane. Offrire un impiego ai detenuti in un paese alle prese con una disoccupazione spietata può apparire come un’utopia, in realtà si tratta di una prospettiva sempre più apprezzata. Anche perché è l’unica che porta quasi sempre a un reale reinserimento quando si esce dalle mura dei penitenziari. Più lavoro meno reati Otto volte su dieci chi ha lavorato durante la detenzione non commette più crimini dopo la scarcerazione. Un risultato doppiamente positivo: quelli che non hanno questa opportunità, nell’80 per cento dei casi ricominciano a vivere di reati. Insomma, è la soluzione ideale. Ma per pochi, "Solo il 5 per cento lavora", spiega a "l’Espresso" Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, "purtroppo il livello è ancora molto basso ma puntiamo a raddoppiarlo per il prossimo anno. Contiamo di creare duemila nuovi posti aumentando le assunzioni da parte delle cooperative sociali e delle aziende private e grazie alle convenzioni con gli enti locali per i lavori di pubblica utilità. Infine, potremo garantirne altri con gli impieghi per la manutenzione all’interno degli istituti di pena". Le statistiche sono spietate. Nelle carceri vivono 61.449 persone ma soltanto 14mila hanno una qualche occupazione. Di questi, solo un quinto ha un vero contratto con aziende o cooperative: più di novemila si occupano delle attività interne ossia fanno i portantini, i magazzinieri, i cuochi. Dieci anni fa la situazione era di gran lunga peggiore: i reclusi con un impiego retribuito erano 644. A farli quadruplicare è stata una legge speciale, "la Smuraglia", che concede sgravi fiscali e contributivi agli imprenditori che li ingaggiano. Nel 2013 è stata un’opportunità colta da 150 tra aziende e coop, che hanno assunto 1.280 detenuti. Si sono creati posti in tutti i settori: dall’agricoltura al tessile, dalla ristorazione all’informatica. Una ditta metalmeccanica di Bologna ha selezionato nell’istituto cittadino ben 16 part rime. Eppur si muove Il fondo per incentivare i contratti negli ultimi due anni ha avuto a disposizione 20 milioni, calati a cinque nel 2014. Briciole, rispetto alla massa di persone costrette all’inattività nelle celle, che restano comunque una risorsa importante in una stagione di tagli feroci. Altre iniziative sono in cantiere. Rita Ghedini del Pd ha appena presentato un disegno di legge che aumenta i vantaggi per chi assume i detenuti, con una previsione di spesa di quattro milioni annui. E già operativo invece il protocollo firmato tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Legacoopsociali e Confcooperative. "L’accordo ha permesso di avviare nuove esperienze", spiega Giuseppe Guarini portavoce dell’Alleanza Coopera rive Sociali e presidente di Federsolidarietà (Confcooperative). "E di dettare delle linee guida per diffondere le buone pratiche di alcuni istituti", continua. Guarini è al vertice di una rete di 150 cooperative, presenti nella metà delle carceri del Paese, che hanno dato occupazione a 1.500 detenuti. Del network fa parte "Libera Mensa", che ne impiega più di trenta: sotto la guida di cuochi professionisti, preparano piatti con prodotti del territorio e organizzano catering in matrimoni, congressi, riunioni di affari e cene private. Tutto rigorosamente "fatto in casa", nel carcere della Vallette di Torino. Dà lavoro anche agli stranieri reclusi, molti dei quali però non hanno il permesso d i soggiorno. "Ed è un problema", denuncia Piero Parente responsabile della cooperativa, "perché due nostri ottimi collaboratori, uno marocchino e uno albanese, esaurita la pena hanno dovuto lasciare il Paese". Dal Piemonte alla Sicilia, passando per Umbria e Lazio proliferano esperienze di questo genere con nomi ispirati ironicamente al desiderio di fuga: una libertà però ottenuta con il sudore della fronte e non con rocambolesche evasioni. A Ragusa la neonata "Sprigioniamo sapori "occupa tre detenuti. Producono dolci di mandorla e torroni tipici dell’isola che vendono in tutta Italia, e a breve partirà anche nel femminile di Catania. A Terni impastano pane e biscotti con il "Forno solidale". A Perugia la cooperativa Gulliver coltiva frutta e verdura nel "Podere capanne". E poi c’è la produzione di caffè a Pozzuoli, quella della birra artigianale a Saluzzo, le biciclette "A piede libero" montate a Firenze Sollicciano. "E ancora uno sviluppo disomogeneo, in alcune carceri è complicato portare a termine i progetti, altri invece sono ben disposti. Per colmare questo gap è necessario avere delle regole comuni da seguire", osserva il presidente di Federsolidarietà. Ma bastano le "imprese sociali"? C’è chi le ritiene la migliore soluzione. Altri invece credono che per raggiungere numeri significativi serve l’appoggio dei colossi dell’economia nazionale, che con il loro turnover possono garantire la continuità delle mansioni anche dopo la fine della pena. Obiettivo società per azioni "Al momento mancano contatti con grandi aziende, più volte abbiamo tentato di portare dentro il carcere le catene di montaggio", racconta Tamburino, "ma dall’altra parte non c’è mai stata una risposta positiva. In prospettiva posso dire che i nostri sforzi andranno in questa direzione. Per ora in Italia nessuno vuole delocalizzare in carcere. A differenza di quanto avviene in Germania dove a Stoccarda la Mercedes impiega detenuti all’interno degli istituti". Un tentativo è stato portato avanti con Fiat per la produzione di tergicristalli, ma il progetto si è arenato perché andrebbe modificata la normativa. C’è chi invece vuole investire nella formazione dei reclusi per poi assumerli una volta scontata la sentenza. Lo ha fatto con Giuseppe, ex trafficante internazionale di droga, e ha intenzione di proseguire nel progetto. "Dovremmo diffondere queste esperienze anche al dì fuori delle imprese sociali", osserva Giuseppe D’Agostino funzionario del Garante dei detenuti del Lazio. "Solo così sarà possibile crescere. Non sono molte le grandi aziende che conoscono i benefici della Smuraglia. La soluzione è informare di più e meglio rispetto all’utilizzo di questi fondi". Pronto? Qui Rebibbia E quelle poche che hanno scelto di investire, con la crisi e le ristrutturazioni hanno tagliato. Come Telecom. Da dicembre, dopo 7 anni, ha chiuso il cali center a Rebibbia lasciando in cella ventiquattro operatori che prima rispondevano alle chiamate del 1254. Ma il merito è stato premiato: visto l’ottimo lavoro svolto, sei della squadra sono stati ricollocati e ora si occupano delle prenotazioni dell’ospedale Bambin Gesù. "Hanno risultati migliori, sono motivati dalla voglia di dimostrare a familiari e società che possono recuperare", sottolinea D’Agostino. Nella casa circondariale di Civitavecchia c’è un altro esempio virtuoso. Da pochi mesi è attiva una falegnameria. Cinque fabbri assunti dal consorzio Solco - lo stesso dei call center di Rebibbia - si preparano a realizzare porte, laminati, mobili, per committenti esterni. Puntano in alto, e stanno tentando di proporre a Ikea una collaborazione. "La legge Smuraglia è per noi vitale, ci permette di abbattere della metà il costo del lavoro e di avviare così progetti altrimenti impensabili", racconta Mario Monge, presidente di Solco che riunisce 37 imprese sociali. Tra queste c’è la New Horizons, nata alla fine degli anni 80 come officina meccanica dall’esperienza maturata all’Asinara da un detenuto. Oggi è specializzata nella raccolta dei vestiti usati. Da sei anni si è trasferita nel quartier generale del cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti confiscato dallo Stato. Quello che era il luogo per antonomasia dei romanzo criminale è diventato uno spazio dove ex detenuti e disabili costruiscono il loro futuro. Confrontarsi con la pubblica amministrazione spesso però significa essere pagati dopo un anno o in tempi ancora più lunghi. Lo sa bene la coop 29 giugno, che dall’alto dell’ultimo fatturato di 60 milioni, vanta crediti per 20: una condanna a morte per le imprese sociali. Anche la cooperativa Terre dì Mezzo opera con per gli enti locali: impiega otto carcerati nella falegnameria delle Vallette e dà una seconda chance ai reclusi dell’istituto minorile di Cagliari. Tra i loro dipendenti c’è un ex trafficante di droga arrestato come socio del calciatore Michele Padovano, considerato un fenomeno nel suo nuovo mestiere di ebanista. Il lavoro porta risparmio C’è uno squadrone di 750 detenuti che fa risparmiare allo Stato oltre mezzo miliardo di euro. Si occupa della piccola manutenzione degli istituti e rispetto a operai esterni, che costano al mese 1.500 euro al mese, la loro busta paga è la metà. Questa manodopera low coste richiesta dai Comuni, che affidano a semi liberi (vedi box qui sopra) la cura del verde, la raccolta dei rifiuti, il portierato e la manutenzione delle strade. A Palermo la giunta ha firmato il mese scorso un accordo con il ministero per inserire i reclusi in percorsi di occupazione. E nei laboratori tessili femminili c’è grande fermento. Il successo di alcune iniziative - come Made in Jail a Rebibbia, Extraliberi alle Vallette e O’ Press a Marassi - ha spinto a creare anche un certificato etico per abiti e gadget prodotti dalle donne recluse: il marchio "Sigillo". Gatti Galeotti, Filo dritto, Ora d’aria, Impronte di libertà: sono alcune delle coop nate tra San Vittore, Bollate, Enna, Como, Torino, Vigevano, Venezia. E stanno per partire nuove sartorie a Santa Maria Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Catania, Genova e Monza. Un settore in espansione, sul quale il ministero punta molto per far crescere l’occupazione nelle sezioni femminili, ancora a livelli molto bassi. Per due motivi: "(direttori delle carceri ci segnalano principalmente uomini", spiega Carlo Guarani, vicepresidente della cooperativa 29 giugno, "e poi ci sono lavori manuali, faticosi, che sono considerati più adatti agli uomini". Solimene è una delle fortunate. All’alba di ogni mattina lascia Rebibbia per andare in uno dei mercati rionali della periferia romana. Ripulisce la zona dagli scarti di frutta e verdura: quelli che per altri sono rifiuti, per lei sono il futuro. Giustizia: la corruzione passa per il tribunale, tra mazzette, favori e regali di Emiliano Fittipaldi L’Espresso, 1 maggio 2014 Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C’è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso". A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per "un ritardo" nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. "Prezzi trattabili, dottò...", rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul "mercato delle prescrizioni" su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ‘ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. Business giudiziario "Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale", scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo "Elogio dei giudici scritto da un avvocato". A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: "La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge". Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. "Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti". Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. "Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010", ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, "si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6". Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Giudici criminali Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle "Toghe Sporche" di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle "lungaggini" dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la "sorveglianza speciale" dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, "dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo". I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. "Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati" aggiunge Rossi. "Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere". Quante tentazioni Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. "Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!", si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di "Corruzione a palazzo di giustizia", pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. "Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice", ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose ("Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!", dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe "aiutato" la potente ‘ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’"illecita acquisizione di notizie e di informazioni" di processi penali in corso. Come in un nido di vespe Secondo Cantone "nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico". I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. "Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente", ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta "Gibbanza" ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. "Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione", spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della "Voce.info". Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno "dilagante" nel Paese. "Mai visto una città così corrotta", protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: "Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!". Come dargli torto? Giustizia: Telecom Italia; sprint del "braccialetto elettronico", con più di mille attivazioni di Antonello Salerno www.corrierecomunicazioni.it, 1 maggio 2014 All’inizio di marzo erano operativi 200 dispositivi: quintuplicati nel giro di due mesi. L’obiettivo è di farne funzionare contemporaneamente 2mila. I tribunali ricorrono sempre più spesso a questa misura alternativa alla detenzione per gli imputati in attesa di giudizio, come previsto dal decreto "svuota carceri". Il braccialetto elettronico è ripartito dopo un inizio stentato e costellato dalle polemiche. I tribunali sono sempre più favorevoli a disporne l’uso per i controllo dei detenuti in attesa di giudizio a cui è possibile comminare gli arresti domiciliari. I numeri dicono che sono state superate le mille attivazioni, e che quindi è stato ormai fatto il giro di boa verso l’obiettivo delle 2mila fissato dall’allora ministro Angelino Alfano con Telecom Italia, la società che fornisce il servizio. A dimostrare che il braccialetto elettronico stia prendendo piede rapidamente sono i numeri: se infatti nei primi sei mesi del 2013 erano stati attivati 26 braccialetti, e nella seconda metà dell’anno si era arrivati a 86 attivazioni, un’accelerazione significativa si era già notata nel primi tre mesi del 2014, con oltre 140 nuovi braccialetti attivati, che portavano a più di 220 il numero dei dispositivi operativi. Il superamento dei mille vuol dire quindi aver ulteriormente quintuplicato i dispositivi attivi nel giro degli ultimi due mesi. A contribuire alla diffusione della misura anche l’adozione del decreto svuota carceri, che prevede espressamente l’utilizzo di questa misura, ma anche la campagna di informazione e di formazione che Telecom Italia ha avviato presso i tribunali della penisola. E ne frattempo sono allo studio le evoluzioni del servizio, che potrebbero portare ad applicarlo all’aperto, quando vengano prescritti divieti di avvicinarsi a persone o zone, come nel caso dello stalking. Per ovviare al fatto che fino a poco tempo fa molti magistrati non fossero a conoscenza delle procedure per utilizzare il braccialetto, Francesco Gianfrotta, presidente della sezione dei Gip del tribunale di Torino, aveva messo nero su bianco tutti i passaggi, le cosiddette "modalità operative", per disporre l’utilizzo del braccialetto, mettendoli a disposizione dei colleghi in tutta Italia con tanto di modello prestampato da compilare a seconda delle necessità. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è composto anche da una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Giustizia: Uil-Pa; suicidi agenti penitenziari sono problema, ma no a strumentalizzazioni Ansa, 1 maggio 2014 "Quello di Padova di ieri è il terzo suicidio di un appartenente alla polizia penitenziaria nell’anno in corso, che porta alla stratosferica cifra di 123 suicidi di baschi azzurri negli ultimi 14 anni. è del tutto evidente che occorre investigare presto e a fondo le cause del tasso suicidario all’interno della polizia penitenziaria, nel contempo non bisogna strumentalizzare queste tragedie che spesso sono originate da motivazioni non sempre direttamente connesse alla tipologia di lavoro". Ad affermarlo è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari. "Sarebbe ingiusto - prosegue Sarno - non sottolineare lo sforzo del Dap per recuperare condizioni dignitose della detenzione. Ma aver assicurato almeno tre metri quadri ad ogni detenuto non può, e non deve, essere considerato il raggiungimento di un obiettivo. Deve essere considerato il primo passo verso una normalizzazione delle condizioni detentive in cui il ruolo della polizia penitenziaria sarà determinante e non solo perché legato a nuove forme di sorveglianza". Uil-Pa ricorda che nel 2001 l’organico del corpo della Polizia Penitenziaria fu determinato in circa 47 mila unità con circa 43mila detenuti presenti. A distanza di circa tre lustri i detenuti sono aumentati di circa il 50% mentre i poliziotti penitenziari (a fronte di circa 8000 posti detentivi in più) marcano, una deficienza organica di circa il 18% (settemila unità in meno). "Noi confidiamo nel ministro Orlando - conclude Sarno - e nell’attuale dirigenza dipartimentale a che i confronti in corso portino a quelle soluzioni possibili, molte delle quali sono soluzioni di buon senso senza costi aggiuntivi". Giustizia: Sdr; suicidio agente di Polizia penitenziaria sardo forte monito su sistema Ristretti Orizzonti, 1 maggio 2014 "Quando una persona rinuncia alla vita ci sono sempre molteplici motivazioni. Un simile atto compiuto però da un Agente di Polizia Penitenziaria o da un detenuto fa riflettere. È un forte monito sul sistema detentivo che evidentemente non funziona". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al suicidio dell’Agente Marco Congiu, originario della provincia di Oristano, in servizio nella Casa Circondariale di Padova. "Lo sconcerto - sottolinea Caligaris manifestando solidarietà alla moglie e ai figli - è anche legato ai dati dei suicidi dietro le sbarre che collocano l’Italia al secondo posto tra i Paesi europei senza tuttavia dimenticare che non vengono conteggiati quelli relativi alla tragica fine degli Agenti penitenziari, vittime il più delle volte dello stesso clima e dello stress indotto da condizioni di lavoro logoranti. Il sistema purtroppo non sembra più rispondere alla funzione rieducativa della pena. A parte qualche lodevole eccezione, il segnale più forte è quello del contenimento del disagio sociale da parte di uno Stato che si presenta incapace di offrire risposte soddisfacenti ai bisogni dei cittadini. Ciò si ripercuote negativamente su tutti gli attori. Innanzitutto gli Agenti ma anche gli educatori e gli assistenti sociali". "A meno di un mese dalla scadenza imposta dall’Europa per garantire trattamenti non disumani e azzerare il sovraffollamento si parla ora insistentemente di chiedere una proroga. Ha già provveduto in tal senso mantenendo in piedi di Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Adesso insiste pensando forse - conclude la presidente di Sdr - che si possa accettare di prorogare trattamenti degradanti verso cittadini, molti in attesa di giudizio, condannati alla perdita della libertà". Giustizia: morte di Riccardo Magherini, indagati quattro carabinieri e cinque sanitari di Carlo Lania Il Manifesto, 1 maggio 2014 Nove persone sono indagate per la morte di Riccardo Magherini, il quarantenne deceduto il 3 marzo scorso dopo essere stato fermato dai carabinieri a Firenze. La procura del capoluogo toscano ha infatti iscritto a registro degli indagati i nomi dei quattro carabinieri e dei cinque sanitari intervenuti quella notte in Borgo San Frediano. L’accusa nei confronti dei militari è di omicidio preterintenzionale, mentre gli appartenenti al 118, un medico, un infermiere e tre volontari, devono rispondere di omicidio colposo. Intanto il presidente della commissione Diritti umani del Senato, il democratico Luigi Manconi, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia sottoscritta da 29 parlamentari di tutti i gruppi in cui si chiede di effettuare una nuova autopsia sul corpo dell’ex calciatore della Fiorentina. La decisione di emettere gli avvisi di garanzia arriva dopo la denuncia presentata dai familiari di Magherini e in seguito alla ricostruzione della sequenza di oltre 50 minuti di telefonate che precedono, accompagnano e seguono l’arrivo dei carabinieri, avvenuto alle 1,15, e dei soccorritori all’1,33. "I quattro carabinieri sono innocenti" ha detto ieri l’avvocato Francesco Maresca, difensore del militari dell’Arma. "Hanno fatto il loro dovere nel pieno rispetto delle procedure del protocollo, finalizzato soprattutto ad accertare i problemi di salute esistenti in quel momento per il Magherini, che era in stato confusionale". Nella denuncia presentata al tribunale di Firenze il padre e il fratello di Magherini accusano invece i militari di aver immobilizzato l’ex calciatore "con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine" e anche quando, secondo le testimonianze, "Riccardo era divenuto silenzioso e immobile… i quattro militari hanno invece deciso di continuare a tenerlo immobilizzato nella medesima posizione continuando altresì a esercitare pressione sul dorso". Sempre secondo i familiari, inoltre, i primi sanitari intervenuti, in attesa dell’arrivo del medico, "pur non essendo riuscita la valida acquisizione dei parametri vitali proprio in ragione della immobilizzazione con le manette dietro la schiena… non hanno provveduto nemmeno a rimuovere Riccardo da quella posizione né a liberarlo delle manette al fine di consentirgli quantomeno una migliore respirazione". Lettere: l’involuzione della specie. di Giulio Starnini* Ristretti Orizzonti, 1 maggio 2014 Non ci sono solo le banane di Dani Alves ma anche i gabbioni. I preconcetti o semplicemente le brutte consuetudini sono dure a morire. Ho già i scritto su questi argomenti e sono rassegnato a disturbare ancora per molto tempo consapevole che solo il tempo e l’insistenza anche di pochi , se basata su principi in cuoi i credi, alla fine riesce ad essere compreso. Certamente non si può accusare Vendola di indifferenza nei confronti dei detenuti ma viene da chiedersi perché quando si legge sui giornali il reparto per i detenuti della sua Regione - Bisceglie ma sembra anche a Bari - viene chiamato con naturalezza "gabbione" la cosa passi inosservata. Ora se il gabbione è un reparto ospedaliero figuriamoci cosa possono essere le carceri. Si dirà è semplicemente un appellativo locale dialettale , contano i fatti. Si , ma le parole servono a trasmettere il pensiero e a volte lo rivelano e un gabbione trasforma gli uomini in animali. In verità i gabbioni pugliesi non sono neanche reparti ospedalieri o "repartini" - altra perla di una subcultura penitenziaria che pretende di infantilizzare tutto ciò che a che fare con il detenuto che non redige la domanda ma la domandina, non ha il permesso di scegliere se mangiare una mela o un melone - dipende dal regolamento dei differenti 207 istituti penitenziari. Tali inutili strutture sono spesso squallidi locali trasformate in camere di sicurezza dove l’offerta ospedaliere è un optional. Le persone vengono condotte in ospedale perché necessitano di assistenza non possibile in carcere e arrivano in un luogo dove immediatamente si percepisce la distanza: la distanza dagli altri pazienti , la distanza dai medici, la distanza dalla polizia penitenziaria. Provate a immaginare come può sentirsi una persona malata alla quale non si fa mistero cha costituisce un fastidio; per gli altri degenti, per i medici e gli infermieri che hanno i loro pazienti , per gli agenti distolti dal lavoro in carcere . Forse non è cosi strano che una persona, se non in fin di vita, preferisca tornare in carcere . Allora? Questo Paese è stato capace di esprimere idee e realizzarle e si chiamano reparti di Medicina Protetta e li potete trovare all’Ospedale San paolo di Milano, Belcolle di Viterbo, Pertini di Roma . In tali strutture lavorano medici, infermieri agenti di polizia dedicati, che svolgono il loro ruolo nel rispetto del paziente, con servizi interni di buon livello e soprattutto la disponibilità di tutte le specialistiche e la stessa assistenza assicurata agli altri degenti Tutto risolto ? No perchè le limitazioni anche in questi reparti sono tante - l’isolamento forzato, l’eccessiva paura di evasione degli agenti di Polizia (non si è verificata una fuga in nessuno dei raparti citati), il disagio psichico che rende tutto più difficile, ma sono comunque luoghi pensati per curare le persone e non per metterli in gabbia. I gabbioni non si possono mangiare come le banane ma si possono abbattere. Come i pregiudizi. *Direttore Reparto Medicina Protetta - Malattie Infettive Ospedale Belcolle Viterbo Fondatore Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria Consultant Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Campania: dalla Regione cinque milioni di euro per piano di reinserimento dei detenuti Il Velino, 1 maggio 2014 L’Assessorato regionale all’Assistenza sociale, guidato da Ermanno Russo, ha stanziato 5 milioni di euro per consentire il reinserimento sociale di 1.500 detenuti tra adulti, minori e militari, con percorsi formativi direttamente nelle carceri per favorire il conseguimento di una qualifica professionale e per accumulare crediti da poter "spendere" in futuri corsi di formazione. La somma, derivante dalla riprogrammazione delle risorse comunitarie del Fondo Sociale Europeo (Fse), servirà a far fronte al fabbisogno formativo indicato dai direttori dei Penitenziari. Per la prima volta in Campania, si interviene con un piano che coinvolge in attività di reinserimento sociale tutti gli Istituti di Pena: sono previsti 147 interventi, tra le 60 e le 600 ore. Di questi 123 risultano rivolti all’area adulti, 19 a quella minorile e 5 ai detenuti del carcere militare. In totale saranno formate circa 1500 persone, così divise: 1340 adulti, 100 minori e 44 militari. L’unico precedente in regione per attività di questo tipo risale al 2009, quando ad essere formati, in via sperimentale, furono 240 detenuti per un investimento complessivo di 700 mila euro, utili a finanziare in totale 26 corsi. "Siamo già nella fase della progettazione esecutiva. L’obiettivo finale del percorso messo in campo in questi mesi - sottolinea l’assessore Ermanno Russo - è il reinserimento sociale della persona reclusa, che potrà contare, grazie ad un intervento programmato e studiato nei minimi dettagli con i direttori delle carceri, su una qualifica finita o su un credito spendibile all’interno della società e del mercato del lavoro. Favorire dinamiche di questo tipo - ha ribadito Ermanno Russo - riducendo il rischio di rientro nel circuito dell’illegalità, è alla base di quel welfare produttivo e non più residuale e riparativo che la Giunta Caldoro ha inteso promuovere sin dal suo insediamento, mettendo a punto un Piano per la governance dei servizi alla persona, di cui questa misura è parte integrante". Per creare figure professionali all’interno delle carceri, in grado poi di potersi rapportare concretamente con il mercato del lavoro, i responsabili dei Penitenziari hanno comunicato alla Regione il proprio fabbisogno formativo, scegliendo poi, da un catalogo aggiornato di recente, il corso più adatto alle esigenze dei detenuti disponibili a formarsi. Gli interventi sono stati vagliati ad uno ad uno da uno specifico Comitato di pilotaggio, costituito, oltre che da dirigenti regionali, dal Provveditorato della Campania del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dal Centro di Giustizia minorile campano e dal Garante dei Detenuti della Campania. I corsi sono stati scelti dai Direttori delle carceri. Tra le qualifiche previste per i detenuti adulti, a Bellizzi (Avellino) e Carinola (Caserta) quella di "addetto alla lavorazione artistica di pelli e cuoio", al carcere femminile di Pozzuoli quella di "addetto all’attività manutentiva di spazi verdi", a Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) quella di "istruttore operativo di sala e personal trainer". Quanto all’area dei minori, 600 ore di formazione consentiranno di conseguire la qualifica di "addetto alla panificazione ad Airola (Benevento), così come a Nisida (Napoli), dove sono previste altre due qualifiche, quella di "pizzaiolo" e di "artigiano del presepe". Per i detenuti del carcere militare le qualifiche saranno di "addetto alla panificazione" e di "impiantista termoidraulico". Tutti i dettagli sono reperibili sul Burc del 31 marzo scorso, alla voce decreti dirigenziali (n. 283 del 2014, sezione "Politiche sociali"). "Una misura utile e concreta - ha spiegato il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro - la formazione di qualità rappresenta una occasione per tutti. L’assessore Russo, d’intesa con gli esperti del settore, ha individuato un percorso virtuoso. In linea con le scelte fatte - ha concluso il governatore - in questi anni dalla Giunta e con gli stimoli che da più parti, dalla Chiesa alle parti sociali fino all’associazionismo, arrivano alle Istituzioni". Umbria: da tutta Italia i detenuti scrivono ai frati di Assisi, richieste di aiuto e di ascolto Adnkronos, 1 maggio 2014 Sono decine le lettere di detenuti delle carceri italiane che ogni mese arrivano al Sacro Convento di Assisi e alla rivista San Francesco. Nelle lettere - scritte a mano, mittente "Casa circondariale di..." - tanti racconti: dall’esperienza alla richiesta di un piccolo aiuto anche per comprare una "misera dentiera", dalla voglia di ricominciare a vivere una volta fuori al desiderio di essere ascoltati, di stabilire un contatto con i frati per uscire dalla sofferenza della solitudine. Alcune di queste lettere indirizzate ai "cari fratelli" vengono pubblicate sulla rivista San Francesco e sul sito sanfrancesco.org. "Grazie, mille volte grazie per la mia storia che avete pubblicato, non ho parole, almeno so di essere ascoltato. Di nuovo grazie a lei e al buon Dio", scrive un detenuto del carcere di Alessandria. Napoli: a Poggioreale autolesionismo e cure al ralenti, è allarme assistenza per i detenuti di Claudia Procentese Il Mattino, 1 maggio 2014 "Il progetto di equiparare la sanità carceraria a quella dei cittadini liberi sì è trasformato in un’ingiustizia: lunghe le liste di attesa per una visita medica, con l’impossibilità da parte del detenuto di rivolgersi altrove come può fare, invece, chi non è in carcere. Il Centro clinico San Paolo di Poggioreale non funziona per l’immediatezza delle cure e l’assistenza è insufficiente". Don Franco Esposito, cappellano dell’istituto, fa sua la denuncia di chi è rispetto. "Sostituire un direttore non serve, se non cambia la sostanza - sottolinea il sacerdote. A Poggioreale ne-gli ultimi mesi si è scesi da 2.800 detenuti a 2.200, ma i reclusi restano chiusi in cella tutto il giorno senza alcuna attività di socializzazione e di formazione". A diventare la voce del disagio sono ormai gli innumerevoli episodi di protesta, dallo sciopero della fame a quello della terapia, agli atti di autolesionismo. Ingerire chiodi, rasoi, pile, accumulare i farmaci salvavita per poi inghiottirli tutti insieme, diventano un modo per attirare l’attenzione e possono trasformarsi in drammi annunciati. "In questi giorni abbiamo presentato - continua don Franco - il progetto "Io ci sto" sulla prevenzione di tali gestì, sovvenzionato dalla Curia, che prevede un’equipe di psicologi pronta ad ascoltare il detenuto, facendosi anche da ponte con la famiglia d’origine". Intanto, per la cura a Poggioreale resta il Centro diagnostico terapeutico San Paolo, con una capienza di 60 posti letto, che arrivano anche ad 80 sotto emergenza. Sei infermieri, una guardia medica che garantisce le urgenze nelle 24 ore e un medico addetto al giro di visite nelle varie sezioni. Quasi tutte le branche specialistiche sono presenti in visite, come il cardiologo, il dermatologo o l’oculista. Per le altre branche, quando si raggiunge un numero di richieste, è il distretto Asl 33 a fornire lo specialista. Due soltanto, invece, i reparti detentivi per il ricovero: il padiglione Palermo all’ospedale Cardarelli e il reparto di medicina infettiva del Cotugno. "Le problematiche - spiega Antonella Guida, direttore sanitario dell’Asl Napoli 1 Centro - nascono dal sovraffollamento e dall’interfacciarsi di un’organizzazione pubblica come l’Asl con un’altra che ovviamente ha vincoli che dipendono da requisiti di sicurezza. Abbiamo due milioni di euro in cantiere per l’acquisto di nuove attrezzature diagnostiche, ma spesso sono i locali dove ubicarle che vanno adeguati. Il nostro sforzo è teso a ricondurre la sanità penitenziaria a una dimensione di normalità e attualmente le cure specialistiche sono garantite in modo più che dignitoso considerato il contesto locale". Ma la sanità penitenziaria, le cui competenze sono passate al servizio sanitario nazionale nell’ottobre 2008, conta ancora parecchie critiche e difficoltà, in un istituto dove capita che per fare una doccia, oltre alle tre settimanali concesse (nelle celle sprovviste di doccia), deve essere il medico a prescriverla, in base alle esigenze igieniche del detenuto. "Poggioreale strutturalmente -denuncia Mario Barone, di Antigone Campania - è un carcere inadeguato a preservare la salute degli individui, per la contiguità fisica degli igienici con gli spazi destinati alla cucina in cella e per la presenza solo in pochi padiglioni delle docce in stanza. Ci preoccupa la presenza, poi, di una sezione, definita "infermeria", in cui transitano centinaia di detenuti all’anno, allocati in stanze singole "fino ad ulteriore valutazione psichiatrica". È lecito dubbio che qui si sia praticato o si pratichi l’isolamento per ragioni psichiatriche, vietato dall’ordinamento penitenziario". Perugia: direttrice "Eravamo tra carceri peggiori Italia, ora non più. Come? Aprendoci" www.umbria24..it, 1 maggio 2014 "Nel 2010 e 2011 avevamo il triste primato di quarto carcere in Italia per eventi critici. Oggi non è più così. Come abbiamo fatto? Con più aperture all’interno e all’esterno". Ricorda come un incubo, la direttrice Bernardina Di Mario, quei mesi in cui a Capanne erano stipati 630 detenuti, di cui 130 "dormivano con i materassi a terra". Ora le cose sono cambiate, grazie allo svuotamento dettato dalla procedura di infrazione Ue contro l’Italia, certo, ma anche da una serie di scelte interne. Di Mario ne ha parlato in occasione dell’incontro sulla Carta di Milano (le regole deontologiche che l’Ordine dei giornalisti ha adottato per tutelare i diritti dei detenuti), ospitato nella casa circondariale perugina. "Nel 2010 eravamo in una situazione di forte sofferenza - racconta Di Mario - ma sfido, 630 detenuti di razze, religioni, culture diverse, chiusi in spazi pensati per 500 non potevano non portare a ciò. Molti dormivano a terra, in tre dentro celle singole, non serviva la sentenza della Corte europea di Strasburgo del 2013 per ricordarcelo. Quella situazione era frutto di leggi, come quella sugli stupefacenti, che hanno portato a 1.500 ingressi in un anno, oltre il 60% di stranieri. Non avevamo neppure le risorse per le esigenze di tutti, per fortuna ci hanno dato una mano le associazioni di volontariato". Dopo la sentenza, però, qualcosa si è mosso. La procedura di infrazione dell’Ue ha accelerato i provvedimenti per lo svuotamento, con l’incremento delle pene alternative. Oggi a Capanne ci sono 430 detenuti. "Non c’è più sovraffollamento - afferma la direttrice - e noi, dal canto nostro, abbiamo iniziato ad agire su due variabili che regolano la vita dei detenuti: spazio e tempo". Spazio Di Mario spiega che "abbiamo iniziato con il selezionare i detenuti, scegliendo quelli che in situazioni critiche ci hanno dato una mano a mantenere una situazione di sicurezza. Così chi aveva solo 2 ore di passeggiata al giorno ne ha avute 4, in alcune sezioni abbiamo tenuto le celle aperte fino a 14 ore, 8 nelle altre (minimo di legge, come i 3 metri quadri di spazio vitale). In questo modo, aprendo con criterio, la sorveglianza della Polizia Penitenziaria è passata da un controllo a persona a un controllo dinamico, possibile tenendo sotto osservazione i comportamenti da chi è "libero" di muoversi". Il risultato di questa responsabilizzazione di chi ha dimostrato di meritarla, "è stato - spiega la direttrice - un calo del 60% degli eventi critici (atti di autolesionismo, risse, scioperi della fame) nel 2013 e quest’anno sono calati ancora. Molti hanno aderito anche ai controlli a campione sull’uso di oppiacei, che ci ha dimostrato una diminuzione dell’uso di droga che, purtroppo, ancora entra facilmente in carcere". Tempo Messo un tampone sullo spazio, però, c’è l’altro scoglio: il tempo. "Questo è un problema non del carcere ma della società intera - puntualizza Di Mario -. Dobbiamo fare i corsi di formazione, li facciamo con l’aiuto di Regione e Provincia: ad esempio abbiamo fatto corsi di cuoco, abbiamo messo su un’azienda agricola (ci lavorano in 16), un allevamento di polli, 4 escono la mattina e fanno lavori socialmente utili per il comune di Perugia (prima gratis poi sono stati talmente apprezzati che ora vengono pagati 250 euro al mese per le spese giornaliere, se la sono guadagnata questa possibilità)". Oggi, secondo la direttrice "il carcere è più aperto, c’è più scambio col territorio. Nessuna misura alternativa dopo un percorso ben formato è stata revocata, si è abbassata la recidiva. Ma occorre fare di più perché il problema del carcere è di tutti, come la sicurezza è un problema di tutti e un detenuto recuperato e reinserito è un accrescimento della sicurezza. Va incrementata l’attività lavorativa, stiamo facendo cene a Perugia (130 persone nella prima, nella seconda 240) per finanziare due borse lavoro per detenuti. Abbiamo tante attività, ci apriremo ancora anche grazie ad aiuto istituzioni, Polizia Penitenziaria, associazioni di volontariato. Ma vorrei lanciare un appello alle imprese, che spesso non sanno che la legge Smuraglia consente sgravi per percorsi lavorativi dei detenuti. Il provveditorato ha 100 mila euro lì a disposizione che non vengono utilizzati: fatevi avanti, chiamatemi". Catania: nella relazione della Uil-Pa i tagli al personale penitenziario e stato delle carceri www.blogsicilia.it, 1 maggio 2014 I tagli di personale, le polemiche sullo stato delle carceri - "disumana per i detenuti, ma anche per gli agenti di cui nessuno parla mai abbastanza" - rilanciate in queste ore dalla tragedia avvenuta nella casa circondariale di Giarre, l’assurda chiusura di Tribunali e strutture penitenziarie, saranno al centro della relazione di Armando Algozzino, il segretario della Uil-Pa che ieri ha aperto al "Nettuno" il Congresso dei lavoratori della Pubblica amministrazione. Nell’intervento di Algozzino, anche una denuncia sullo stato economico e sociale dei dipendenti pubblici a Catania, in Sicilia, in Italia: "Il 60 per cento - afferma il segretario Uil-Pa - è costretto a ricorrere a prestiti personali per poter sopperire a inderogabili problemi di vita familiare. Oggi, mediamente, i pubblici dipendenti (figure intermedie) percepiscono circa 1.150/1.300 euro mensili, insufficienti per sostenere un nucleo familiare monoreddito, costretto a eliminare tutte le spese. Talora, persino quelle di prima necessità". Al congresso Uil-Pa, presieduto dal segretario territoriale della Uil Angelo Mattone, sono previsti gli interventi di Francesco Cocuzza, Stefano Guarnera, Giuseppe Milano. Conclusioni di Nicola Turco, segretario organizzativo Uil-Pa. Milano: detenuto domiciliare si barrica in casa e si ferisce con un coltello www.milanotoday.it, 1 maggio 2014 I carabinieri sono stati impegnati in una complicata trattativa durata 9 ore, dalle 18 di martedì alle 3 di mercoledì, con un uomo con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici, agli arresti domiciliari che, improvvisamente, ha dato in escandescenza ed ha lanciato diverse suppellettile dal balcone e poi si è tagliato con un coltello da cucina in diverse parti del corpo. Il fatto è avvenuto in un’abitazione al centro del comune di Corsico (Milano). L’uomo, Andrea F. di 47 anni, che sta scontando una pena per droga (era stato beccato a trasportare 20 chili di cocaina), secondo quanto dichiarato dai militari è affetto da un disturbo di doppia personalità. Per placare il detenuto è stato necessario l’intervento di un negoziatore scelto. Si tratta di un carabiniere specializzato nelle tecniche di trattativa addestrato al Gis (Gruppo intervento speciale) di Livorno. Il militare, dopo una lunga e estenuante negoziazione, è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’uomo ed ha farlo desistere evitando che si facesse ancora del male. Il detenuto che si è tagliato le braccia e l’addome, è stato portato per un trattamento sanitario obbligatorio all’ospedale San Carlo di Milano. Ora spetta ai giudici trovare una collocazione più adatta per le sue condizioni psico-fisiche. Milano: detenuto omicida non rientra in carcere dopo un permesso premio di Andrea Galli e Giacomo Valtolina Corriere della Sera, 1 maggio 2014 Moncef Ballouti è un detenuto speciale, o almeno lo è stato, come ce ne sono tanti nel carcere modello di Bollate: aveva un lavoro, uno dei più ambiti, all’interno dello stesso istituto; poi aveva la possibilità di uscire, durante la giornata, e di andare nella sede di un’associazione di volontariato e, magari, di dedicarsi a una sua grande passione: la poesia. Eppure domenica sera, Ballouti, tunisino, quarantenne, sposato, una figlia, non ha fatto rientro a Bollate. È ricercato. E ricercato è un altro detenuto, questo sfuggito dal carcere di Monza ugualmente non tornando in cella, nel primo pomeriggio di ieri, dopo aver usufruito d’un permesso premio. Sono due fatti rilevanti, certamente: ma in questi giorni forse acquistano maggiore eco mediatica perché sono altri casi che vanno ad aggiungersi a un già nutrito elenco. Per esempio dell’altro ieri è la notizia della scomparsa (avvenuta però il 21 aprile) di Filippo De Cristofaro, il meglio noto "killer del catamarano", condannato all’ergastolo per aver ammazzato una skipper; De Cristofaro aveva in testa di prendersi il suo catamarano e di partire per un improbabile viaggio nel mondo con destinazione la Polinesia. Anche Ballouti aveva eliminato una persona, parecchio tempo fa, nell’ambito di un regolamento di conti per storie di droga. Il tunisino era a Bollate dal 2007. Aveva via via intrapreso il canonico percorso che, per appunto, l’aveva infine condotto a usufruire di parecchi benefici. Niente gli era stato regalato, per carità: Ballouti aveva ottenuto il lavoro e la possibilità di uscire grazie all’ottima condotta in prigione e al superamento dei vari passaggi previsti dalle leggi e dalla direzione dell’istituto di pena. Direzione che ricorda gli attuali 150 carcerati che hanno un’occupazione all’esterno e gli altri 200 che godono di permessi di premio. Come a dire: i numeri sono ingenti, il volume di carcerati che gestiamo anche, gli incidenti di percorso sono una percentuale molto, molto ridotta, qualcheduno potrebbe perfino dire fisiologica. Però, e di nuovo torniamo all’inizio, l’episodio c’è stato. A renderlo noto è stato il sindacato della polizia penitenziaria Osapp, con il segretario generale Leo Beneduce, il quale ha invitato chi di dovere "a una riflessione". Del resto "l’evasione riguarda un carcere definito modello. Questo dimostra come il sistema penitenziario non sia esente da gravissime carenze anche dal punto di vista del reinserimento dei detenuti". Vero è che Ballouti aveva avuto fin lì mille altre possibilità di andarsene. Quale la ragione della improvvisa partenza? A Bollate non sanno dare una risposta. Il diretto interessato non aveva recentemente comunicato problemi, magari della famiglia originaria in Tunisia. Il tunisino sarebbe dovuto uscire nel 2020, anche se non è escluso che, fruendo di sconti, avrebbe potuto anticipare i tempi. In carcere lavorava per una ditta di call center. La direzione ha escluso che dalla sua cella sia scomparsa qualcosa di particolare. Le forze dell’ordine lo stanno cercando. Sotto torchio la moglie e la cerchia di conoscenti. Caccia serrata anche al detenuto fuggito da Monza, un marocchino di 39 anni, arrestato per reati legati alle sostanze stupefacenti. Bisogna vedere quanto in anticipo sono stati eventualmente preparati i piani di fuga e se dunque è stato creato il dovuto contorno : i complici, le macchine, i falsi documenti, l’ingente denaro che serve per tenere in piedi una latitanza, le basi logistiche, le tane dove nascondersi. Pordenone: costruzione del nuovo carcere a San Vito, aziende friulane in gara di Andrea Sartori Messaggero Veneto, 1 maggio 2014 Ci sono anche aziende friulane tra quelle in gara per la progettazione definitiva ed esecutiva e la conseguente costruzione del nuovo istituto penitenziario da 300 detenuti di San Vito al Tagliamento. Si prevede di annullare il ritardo sinora accumulato, mentre emerge la possibilità di insediare nel carcere una classe del liceo. Imprese in gara. Ieri, all’indomani dell’apertura delle dieci offerte in gara, si è potuto apprendere da dove sono giunte. L’unica esclusivamente friulana è quella della Rizzani de Eccher di Cargnacco. Tra le associazioni temporanee di imprese compare un’altra friulana: in quella che vede come mandataria la Sqm consorzio stabile di San Giovanni La Punta (Catania), c’è come mandante la Spagnol di Fiume Veneto. Le altre due Ati sono quelle formate da A L consorzio stabile di Torino (mandataria) e Gemmo (mandante) e da Cifolelli edilizia di Roma (mandataria) e Rigel impianti (mandante). Le altre imprese singole sono Pizzarotti & C. di Parma, Cividini Ingeco di Dalmine (Bergamo), Coveco di Marghera (Venezia), Cmb di Carpi (Modena), Siteco di Reggiolo (Reggio Emilia) e Cgf costruzioni generali di Roma. La commissione esaminatrice delle offerte si è insediata con un mese di ritardo, ma incrementando le sedute per esaminare il contenuto delle buste "almeno tre settimane saranno recuperate". Lo ha riferito ieri il commissario straordinario del governo alle Infrastrutture carcerarie, prefetto Angelo Sinesio, a margine di un incontro con gli studenti al liceo Le filandiere, su "Carcere a San Vito: pena come recupero delle persone e rispetto della legalità alla luce dell’articolo 27 della Costituzione". E ha aggiunto: "La prima fase della commissione, quella dell’ammissione alla gara, terminerà il 5 maggio". Già lunedì prossimo si saprà se tutte le offerte, o solo alcune, saranno ammesse alle fasi successive (esami delle offerte tecnica ed economica). Salvo ricorsi, il via ai lavori è programmato in autunno, con la conclusione nel 2016. Scuola nel carcere. Stante l’intenzione di perseguire sino in fondo, nel carcere di San Vito, le finalità di recupero del detenuto con tanto di "aperture" a realtà esterne alla struttura, ieri, al liceo, è emersa un’ipotesi, tutta da approfondire: insediare, nel carcere, una "sezione P" del liceo Le filandiere, per quei detenuti che volessero completare gli studi. Idea rilanciata dalla dirigente liceale, Carla Bianchi (ciò è già realtà, ad esempio, nel carcere-modello di Bollate). Il sindaco, Antonio Di Bisceglie, dal canto suo ha preannunciato ulteriori incontri come quello di ieri, per affrontare il tema carcere con la comunità. Cinema: Daniele Segre e le sue voci dentro le Sbarre di Silvana Silvestri Il Manifesto, 1 maggio 2014 In fatto di record negativi l’Italia ne vanta parecchi, è recentissimo il risultato del primo posto in classifica per suicidi in carcere nel nostro paese: "Sbarre", a cura di Daniele Segre, film realizzato dagli studenti del Centro Sperimentale arriva con le sue straordinarie testimonianze a porre il problema al centro di qualunque dibattito politico. Anche l’anteprima del film si è svolta in un contesto eccezionale, nel corso del festival del cinema europeo di Lecce, all’interno del carcere circondariale che possiede alcune caratteristiche che lo differenziano da altri: da un lato carcere di massima sicurezza per delitti di particolare gravità, dall’altro artefice di interessanti iniziative che coinvolgono i detenuti, come le manifatture tessili, capaci ormai di esportare i prodotti, i lavori di giardinaggio, e i lavori di scoperta e bonifica dei terreni dove sono occultati rifiuti tossici. Il festival da tre anni porta in carcere alcune giornate della manifestazione, ma questa è stata un’anteprima eccezionale perché arrivava la voce dei detenuti del Nuovo complesso penitenziario di Firenze Sollicciano, dove il film è stato realizzato. Un messaggio di dolore il loro rivolto a tutti, incontro di umanità intensa e dolente, di storie non esplicitate ma che si possono indovinare attraverso i volti e le parole, sezione maschile e sezione femminile a cui, fatto ancora più inedito, si aggiunge la voce delle guardie carcerarie. Alcune di loro sono "casermate" - come dicono in gergo a indicare l’alloggio in caserma che significa condividere i problemi dei carcerati, le piccole stanze dove cucinare, lavare, l’incontro forzato con i colleghi, i periodi ben più lunghi di permanenza. Il "trattamento" Segre, come lo definisce lui stesso, è passato sul film come un marchio di fabbrica di etica cinematografica. Gli studenti che hanno fatto parte di questo laboratorio particolare nel luglio del 2013 erano del secondo anno di regia, sceneggiatura, suono e montaggio: "Gli ho solo dato come regola principale quella di non chiedere per nessun motivo ai detenuti le ragioni che li hanno portati in carcere, non si doveva violare la loro intimità. Il rispetto verso le persone è qualcosa che si avverte e che porta ad aprirsi con fiducia. Questo si può imparare" spiega Daniele Segre. I ragazzi hanno saputo utilizzare al meglio questi consigli, tanto che il lavoro ha un andamento intensissimo, da una testimonianza all’altra secondo tutte le problematiche della vita quotidiana. Le celle anguste si diceva, "piccole come bagni" dove devono stare tre persone e tre letti a castello; la coabitazione forzata, la mancanza assoluta di socializzazione con i detenuti delle altre celle se non per brevissimo tempo (nel carcere di Lecce invece, in alcuni settori, le porte restano aperte per tutta la giornata). Dal primo giorno "quando l’unica cosa che vuoi fare è dormire e non ci riesci", ma "devi cercare di capire dove sei e non fare sciocchezze, non pensare al suicidio", ai tre anni passati "e allora non si fa più caso alle grida, al rumore delle chiavi, all’unica apertura verso l’esterno che è lo spioncino". E poi l’ansia di poter uscire fuori da quei tre metri, l’accorgersi del venir meno delle parole perché si parla sempre delle stesse cose e si arriva all’assurdità di augurarsi l’un l’altro "buona doccia". Il pericolo di allungare la pena sbattendo al muro certi che fanno perdere la pazienza. Il crescendo di intensità delle testimonianze tocca alle visite "che strappano il cuore", e provocano ancora commozione anche nelle coscienze più indurite, nei volti più scolpiti dalla vita. La pioggia in cella, le malattie non curate, l’impossibilità di avere un aiuto psicologico, il lavoro ancora più precario dentro che fuori. Un panorama che mostra come il progetto di riabilitazione non abbia nessun senso in situazioni del genere. Ci vengono in mente i personaggi che Daniele Segre ha osato avvicinare per la prima volta nella storia del documentario, invisibili all’intera società come queste persone rinchiuse, e che ora hanno la parola e in questo caso possono dialogare a distanza con altri (anche se, affermano, il carcere di Lecce è ben diverso). La reazione emotiva che abbiamo di fronte alle immagini è la prova che il film tocca tutte le corde più profonde, una visione che lascia il segno, con la consueta presenza dell’attore Salvatore Striano a fare da tramite caloroso, la sua stessa esperienza di vita lo sta a dimostrare. "Noi abbiamo chiesto la possibilità di incontrare detenuti - dice Segre - non abbiamo potuto scgliere, si sono presentati quelli che volevano farlo e con loro abbiamo realizzato il nostro viaggio. Le interviste sono state più numerose di quelle che si vedono, abbiamo selezionato in base alla qualità di comunicazione che emergeva dalle testimonianze. A Sollicciano ho chiesto di incontrare i detenuti senza la presenza della polizia e i ragazzi hanno potuto fare tutte le domande che volevano, anche questo è un fatto inedito. Se l’anteprima è stata fatta in questo carcere vuol dire che qualcosa deve cambiare, se non solo Napolitano ma anche il Papa sono intervenuti, significa che si può recuperare la dignità delle persone che qualche volta viene calpestata". Sbarre è coprodotto dalla Rai, aspettiamo di vederlo in programmazione. Cinema: al Festival di Lecce il film "Sbarre", protagonisti i detenuti di Sollicciano Radio Vaticana, 1 maggio 2014 Girato interamente all’interno del Carcere Penitenziario di Firenze Sollicciano, è stato presentato ieri al Festival del Cinema Europeo di Lecce il film "Sbarre" realizzato da sedici giovani allievi del Centro sperimentale di cinematografia, coordinati da Daniele Segre. Un incontro con il dolore e la sofferenza, la voce di chi chiede ascolto e condizioni di vita umane. Il cinema può contribuire a migliorare la società in cui viviamo ed è fondamentale trasmettere ai giovani che studiano quest’arte tale consapevolezza. Ne è convinta Caterina d’Amico, preside della Scuola Nazionale di Cinema, che ha affidato alle mani sensibili di Daniele Segre il progetto di "Sbarre", proiettato ieri in prima assoluta dinanzi a cento detenuti del Carcere Circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Un’esperienza che ha segnato tutti gli spettatori, chi dietro le sbarre sconta una pena, chi era ospite insieme a loro. Il film è un canto corale in cui volti anonimi e diversissimi si sono messi davanti a una telecamera per rispondere alle domande poste in assoluta libertà dai ragazzi, che hanno così maturato la consapevolezza della fragilità della natura umana e il bisogno di tutela dei valori in un ambiente che sembra respingerli: solidarietà, ascolto, rispetto della dignità della persona, nelle carceri italiane quasi totalmente assenti. Mentre le condizioni di vita risultano inaccettabili. Daniele Segre spiega le finalità di questo film e fa un auspicio: "Sbarre" questo film realizzato nel carcere di Sollicciano di Firenze, è per merito del Ministero della Giustizia, del provveditore delle carceri toscane, della disponibilità - ovviamente - della direzione del carcere, del Centro sperimentale di cinematografia. È stata un’esperienza umanamente straordinaria che ha coinvolto giovani allievi del Centro sperimentale del corsi di regia, sceneggiatura, montaggio, suono e ha permesso a questi giovani di vivere un incontro importante con un’umanità sofferente. L’obiettivo è che il film possa diventare uno strumento socialmente utile di intervento per riflettere su questa realtà molto difficile. E l’auspicio è anche che Papa Francesco possa vederlo per avere un elemento in più per una riflessione da comunicare a tutto il Paese, ma anche non solo all’Italia, per comprendere che la strada è lunga ma si può cambiare attraverso l’incontro e non la separazione". Droghe: Verini (Pd); decreto su tossicodipendenze… basta spaccio di demagogia e cinismo Il Velino, 1 maggio 2014 "Il Pd vota a favore del decreto sulle tossicodipendenza perché, anche se non è la soluzione del problema, è un passo avanti molto importante per combattere i delinquenti e aiutare le vittime. Siamo contro lo spaccio di cinismo, ipocrisia, propaganda e paura sulla pelle dei tossicodipendenti". Lo ha detto Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera, durante la dichiarazione di voto in Aula sul decreto sulle tossicodipendenze. "Abbiamo sentito anche in questa Aula - ha proseguito Verini - gli slogan di opposti estremismi che dimostrano l’equilibrio raggiunto nel lavoro in commissione. Noi vogliamo combattere seriamente il commercio di droghe in mano a bande criminali il cui crocevia è in Italia. Però per noi non sono sullo stesso piano le vittime, che hanno necessità di essere curate, e le organizzazioni criminali che si arricchiscono dallo spaccio di droghe. Mettere in carcere, e in particolare nelle carceri italiane, un piccolo consumatore di droga non è la soluzione. è inaccettabile incarcerare i giovani tossicodipendente; è un modo ipocrita e ben pensante di chi si illude di risolvere un problema nascondendolo; è la propaganda di bassa lega dei Lumbard. Per noi la strada è la prevenzione che passa attraverso il patto di tutti i soggetti coinvolti. Una società matura non ha bisogno di proibizionismo e di divieti per vincere questi drammi. La legge giustamente distingue tra droghe legge e pesanti e rimodula le tabelle e le sanzioni. E per combattere la cultura della droga e dello sballo servono prevenzione e interventi sul disagio e sulla solitudine della nuove generazioni". Droghe: Perduca (Radicali); adesso Renzi smantelli Dipartimento politiche antidroga Tm News, 1 maggio 2014 "Dopo aver posto, e ottenuto, la fiducia sulle (ahimè poche) modifiche alla legge sulle droghe, Matteo Renzi, che ha tenuto per sé le deleghe per la gestione del Dipartimento sulle politiche antidroga, dovrebbe prendere in seria considerazione la decisione di chiuderlo o riformarlo alla radice". Lo dichiara in una nota Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale. "Negli anni in cui è stato retto dal tandem Giovanardi-Serpelloni - prosegue - il Dpa s’è distinto solo ed esclusivamente per una gestione prepotentemente anti-scientifica arrivando a spendere milioni di euro per farsi pubblicità con decine di inutili siti web e altrettante inefficaci campagne di prevenzione". "Ci sarebbe da chiedere i danni ai due - sottolinea Perduca - ma, vista la grande attenzione del Presidente del Consiglio ai costi della pubblica amministrazione è a dir poco auspicabile che s’adopri affinché le attività del Dpa vengano portate avanti esternalizzandole verso eccellenze scientifiche, come per esempio il Cnr, al fine di elaborare dati reali e non desideri di questo o quel alleato politico, e rafforzando la collaborazione cogli operatori del settore che non hanno come missione la redenzione dei tossicomani ma la loro cura - cura da ricercare anche con l’uso medico delle stesse sostanze intossicanti. Quindi si cambi verso chiudendo il Dpa e tutto ciò che di inutile e dannoso ha sempre significato, e si crei un’Agenzia sulle politiche sulle droghe più snella e capace di far tesoro delle migliori pratiche nazionali e degli esempi di efficienza ed efficacia che ormai da anni danno risultati consolidati in mezza Europa". A Torino raccolta firme Radicali per uso terapeutico cannabis I Radicali torinesi iniziano oggi, in occasione del corteo del Primo Maggio, a raccogliere le 300 firme necessarie per una petizione sul tema dell’uso terapeutico della cannabis. La petizione sollecita il Consiglio comunale a far partire un progetto pilota dando così seguito all’ordine del giorno approvato nei mesi scorsi proprio su questo tema. "Chiediamo al Comune - spiegano il consigliere comunale Silvio Viale e Giulio Manfredi della direzione dei Radicali Italiani - di redigere un progetto per ottenere le autorizzazioni alla coltivazione della cannabis terapeutica nell’ambito delle aziende partecipate della Città, ad esempio l’Istituto Bonafous e l’Ipla. Il relativo prodotto terapeutico dovrà poi essere fornito gratuitamente ai malati che lo necessitino. E su questo tema vorremmo che si arrivasse a una legislazione nazionale e non a tante leggi regionali". Dal canto suo Igor Boni, candidato radicale nel Pd alle regionali ha assicurato che "in caso di una mia elezione questo sarà un tema che porterò all’attenzione della nuova giunta". I Radicali intendono avviare, in parallelo, anche una petizione a livello nazionale per chiedere al Governo di convocare la sesta Conferenza Nazionale sulle politiche antidroga e rivedere "le politiche proibizioniste visto il loro totale fallimento". Filippine: caso Bosio; rinviata udienza in seguito alla richiesta di cambio sede dell’accusa Ansa, 1 maggio 2014 È stata rinviata a data da destinarsi l’attesa udienza prevista oggi a Manila per il caso di Daniele Bosio, il diplomatico italiano arrestato lo scorso 5 aprile nelle Filippine con l’accusa di abuso minorile e traffico di minori. Lo ha riferito all’Ansa l’avvocatessa Elisabetta Busuito, parte del team legale che segue l’ambasciatore. L’udienza, ha spiegato la Busuito, è stata spostata in seguito alla richiesta di cambio di sede del processo presentata dall’associazione Balay Tuluyan, la cui presidente Lily Fiordelis è una delle due donne che hanno allertato la polizia dopo aver visto Bosio in compagnia di tre bambini di strada presso un parco acquatico alla periferia della capitale. Nella lettera, indirizzata al ministro della Giustizia, la Fiordelis cita "pressioni incalzanti" da parte dei legali della difesa. Un’accusa giudicata "indecorosa" da parte della Busuito, preoccupata della prospettiva di un trasferimento del processo - e quindi anche del carcere dove Bosio sarebbe detenuto - a Manila, dove "le condizioni di detenzione sono peggiori" rispetto a quelle attuali di Biúan. Famiglia Bosio: Daniele è innocente, devono liberarlo Si tratta di un "grosso errore", "Daniele è innocente e dovrebbero liberarlo". A parlare alla France presse è Mario Bosio, padre dell’ex ambasciatore italiano in Turkmenistan arrestato il 5 aprile scorso nelle Filippine per violazione della legge a tutela dei minori. "Credo nel sistema giudiziario, ma è molto chiaro che è una vittima del sistema di profiling (analisi comportamentale a fini investigativi). Si tratta di un adulto bianco con tre bambini e lo hanno subito visto come un pedofilo", ha detto il padre, 78 anni, davanti all’ufficio della polizia di Binan, poco dopo aver incontrato per la prima volta il figlio. Secondo il fratello Andrea, il diplomatico è detenuto in una cella non più grande di un garage insieme ad altre 80 persone. La famiglia ha acquistato ventilatori elettrici, così come sacchi di riso. Al fratello, Daniele Bosio ha raccontato di aver incontrato i bambini lungo una strada di Manila, coperti di sporcizia; li ha lavati e portati a un parco acquatico per farli divertire: "Perché, è un crimine aiutare i bambini? La sua vacanza è diventata un incubo". Anche studenti e insegnanti di una scuola cristiana di Manila sostenuta da Bosio si sono recati all’ufficio della procura per offrire il proprio sostegno: "Daniele è stato una fonte di costante ispirazione per i bambini", ha detto Carlos Ilustre, l’amministratore della scuola che conosce da tre anni il diplomatico. Venezuela: detenuto nel carcere di Yare III il giovane italo-venezuelano Mantovani www.voce.com.ve, 1 maggio 2014 Il Giudice Pablo Fernando Mora, del "Tribunal 41 de Control", ha confermato lo stato di fermo di Javier Alessandro Manguilo Mantovani, il giovane italo-venezuelano catturato dalla Guardia Nazionale mentre, con l’irruenza dei suoi 18 anni, protestava nel quartiere di Santa Fe, dove abita. E ne ha deciso la reclusione nel pericoloso carcere di Yare III. È questa la prima conseguenza della restrittiva interpretazione, data dall’Alta Corte, all’Art. 68 della Costituzione che stabilisce che "i cittadini hanno diritto a manifestare pacificamente e senza armi, senza altri requisiti se non quelli che stabilisce la legge". Il "TSJ", invece, ha deliberato che la libertà di manifestazione non costituisce un "diritto assoluto". Quindi, ogni manifestazione di protesta deve essere autorizzata e può essere repressa dalle Forze dell’Ordine. Insieme a Javier Alessandro sono stati arrestati e inviati alle carceri di Yare III (maschile) e Inof (femminile) anche Aíran de Araujo 23 anni, Joaquín Roca 45 anni, Betania Farrera 22 anni, Javier Manguilo 18 anni, Marcos Torres 20 anni, José Manuel Tabares Vergara 18 anni, Jefferson PiñateAliyer, Gabriel Pacheco e Jhonny Hinojosa. La decisione shock del "Tribunal 41 de Control" non ha precedenti nella storia repubblicana e democratica del Venezuela. Da oggi in avanti chiunque protesti, anche se "pacificamente e senza armi", potrà essere arrestato e rinchiuso in quelle carceri che ospitano rei confessi, assassini e delinquenti incalliti. Il giovane italo venezuelano è studente di Ingegneria Elettrica presso l’Università Simòn Bolìvar. E, stando a chi lo conosce, con un ottimo rendimento accademico. La sua famiglia è assai nota e stimata nella Collettività. Il nonno materno, Francesco Mantovani, è milanese mentre la nonna, Maria Anna Ferrari, è nata ad Arrienzo, in provincia di Caserta. La madre, Gabriella, è nata invece a Caracas ma è in possesso anche della cittadinanza italiana. Javier Alessandro Manguilo Mantovani è accusato di istigazione e possesso di artefatti esplosivi e incendiari (non è stato specificato però quali). Un’accusa pesante che, comunque, mai prima d’oggi era stata castigata col carcere preventivo. La sorprendente decisione del Giudice Pablo Fernando Mora ha indignato la nostra Collettività che, ora, spera in un intervento della nostra diplomazia. Non appena sono venuti a conoscenza del caso i rappresentanti dell’Ambasciata e del Consolato si sono immediatamente attivati. La nostra Ambasciata ha precisato, però, che il giovane Mantovani non è giuridicamente in possesso di cittadinanza italiana mentre, a tutti gli effetti, è spagnolo dal lato di padre. In questi momenti in cui nella nostra comunità si alternano sentimenti di angoscia, rabbia e impotenza, si spera, comunque in un fermo intervento della nostra diplomazia che tenga conto della delicatezza del caso e dei riflessi umani a prescindere dagli aspetti puramente burocratici e strettamente giuridici. Intervento, questo, che verrebbe a coadiuvare quello che, ci auguriamo realizzi da parte sua la diplomazia spagnola. Non è nessun segreto che nelle carceri venezolane la vita e l’incolumità personali siano fortemente a rischio. Ecco perché non è esagerato affermare che, quello del giovane italo-venezuelano, possa essere considerato quasi un caso di "vita o di morte". Nella migliore delle ipotesi sarebbe un’esperienza che segnerebbe per sempre la sua vita con riflessi psicologici importanti. Gran Bretagna: scarica taser su detenuto per ubriachezza molesta, video inchioda agente di Andrea Spinelli www.crimeblog.it, 1 maggio 2014 Il Guardian mostra il video di sorveglianza di una cella: arrestato per ubriachezza molesta, viene calmato con una scarica di taser. Il video è stato divulgato dal quotidiano inglese The Guardian, nonostante il capo della polizia inglese avesse tentato inizialmente di vietarne la pubblicazione: mostra un uomo, arrestato per ubriachezza molesta, di nome Daniel Dove, 23 anni, in attesa di essere perquisito. L’uomo viene condotto in una cella di sicurezza della contea di Wiltshire, in Inghilterra, e fatto spogliare di tutto, boxer compresi: una richiesta che l’uomo deve non aver gradito, tant’è che, sfilandosi l’intimo, da una sferzata all’agente con l’elastico della mutanda. Un gesto di sfida immediatamente raccolto dall’agente, che di nome fa Lee Birch: il poliziotto, 31 anni, tira fuori il tuo taser, la pistola elettrica in dotazione, e spara al petto di Daniel Dove, che cade sul pavimento colto da convulsioni causate dalla scarica elettrica. Martedì scorso l’agente è stato prosciolto da una giuria dall’accusa di aver provocato danni fisici all’arrestato e di cattiva condotta, ma i guai potrebbero non essere finiti per l’agente Birch. L’Independent Police Complaints Commissione (Ipcc) sta infatti indagando sui cinque ufficiali, tra cui Birch, che in quel momento erano nel comando di Polizia, colpevoli di non aver informato alcun superiore di quanto accaduto. La storia ruota attorno al video perchè durante le fasi del processo non è stato possibile mostrarne la registrazione per tutelare la privacy degli attori chiamati in causa: a processo terminato sia la corte che la difesa si erano detti concordi nella divulgazione delle immagini da parte dei media, definite "di interesse pubblico". Tuttavia il capo della Polizia avrebbe interdetto il Guardian dalla pubblicazione, avvenuta grazie ad una terza fonte che ha fornito al quotidiano il video incriminato. Gran Bretagna: Radiohead guidano fronte contro divieto a detenuti di possedere chitarre www.105.net, 1 maggio 2014 I Radiohead, David Gilmour dei Pink Floyd e Johnny Marr degli Smiths hanno firmato una lettera aperta contro il divieto di possedere chitarre nelle prigioni britanniche. La lettera. Un gruppo di artisti che vede la presenza di David Gilmour dei Pink Floyd, l’ex chitarrista degli Smiths Johnny Marr, e Ed O’Brien e Philip Selway dei Radiohead, hanno firmato una lettera aperta, pubblicata dal Guardian, per permettere ai detenuti britannici di poter continuare a possedere delle chitarre anche dietro le sbarre. L’iniziativa è stata lanciata dal cantante e compositore Billy Bragg, che già nel nel 2007 aveva dato vita a Jail Guitar Doors, iniziativa voluta per fornire strumenti musicali per la riabilitazione dei detenuti. Ora Bragg e colleghi sono tornati a schierarsi in una lettera di protesta inviata al ministro della giustizia inglese, che nello scorso autunno ha vietato ai carcerati di tenere alcuni tipi di chitarre in prigione. "Come musicisti siamo preoccupati di sapere che alcune chitarre vengono vietate nelle carceri - si legge nella lettera aperta. Crediamo che la musica possa avere un ruolo importante nel processo di riabilitazione dei detenuti. E questa capacità sarà seriamente compromessa se i detenuti non hanno la possibilità di fare sessioni di gruppo". Musicisti a supporto. I 12 musicisti che hanno firmato la lettera sostengono che l’idea del governo di autorizzare solo chitarre con corde in nylon sia impraticabile, visto che molti dei musicisti usano strumenti diversi, con le corde d’acciaio. Una decisione, quella del governo britannico, che, secondo i musicisti, anziché tutelare la sicurezza sta andando nella direzione opposta: "C’è stato un preoccupante aumento del numero di morti auto-inflitte nel periodo da quando è stata introdotto questo divieto. Dallo scorso mese di ottobre ci sono stati circa 50 suicidi, oltre il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Vorremmo capire se le modifiche al trattamento dei prigionieri, che comprendono restrizioni sui libri e sugli strumenti a corda, possano essere alla base di questo aumento della mortalità". Egitto: condannati al carcere 21 bambini con l’accusa di far parte dei Fratelli musulmani Nova, 1 maggio 2014 Il tribunale correzionale di Ismailia, nel nord dell’Egitto, ha condannato 21 minorenni, tutti di età inferiore ai 14 anni e accusati di far parte del movimento dei Fratelli musulmani, a pene detentive che variano dai tra i 6 mesi e i due anni. Lo riferiscono fonti giudiziarie ai media di Stato egiziani. Nove dei bambini, secondo la fonte, sono stati condannati in abstentia. Dopo esser stata estromessa dal potere nel luglio del 2013, la Fratellanza musulmana è stata dichiarata fuori legge dalle autorità del Cairo nello scorso dicembre. Iran: riformista Mousavi, ai domiciliari dal 2011, ricoverato per complicazioni cardiache Aki, 1 maggio 2014 Il leader riformista dell’opposizione ed ex candidato alle elezioni presidenziali del 2009 Mir Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, è stato ricoverato in ospedale per complicazioni cardiache. Lo rende noto l’agenzia di stampa Irna. Mousavi, che ha 72 anni e soffre di problemi cardiaci, è stato trasferito nell’unità di terapia intensiva dell’Ospedale cardiologico di Teheran tra ingenti misure di sicurezza. I medici hanno spiegato che il leader dell’Onda Verde necessita di un intervento di angioplastica. "La vita di Mousavi è stata messa in pericolo dalla detenzione prolungata - ha dichiarato il direttore esecutivo della Campagna internazionale per i diritti umani in Iran, Hadi Ghaemi. Il governo iraniano e la magistratura stanno dimostrando disprezzo per lo stato di diritto. Devono liberare immediatamente Mousavi e gli altri leader dell’opposizione". Secondo kalame.com, sito dell’opposizione vicino a Mousavi, alcuni mesi fa i medici avevano chiesto cure urgenti per il leader dell’Onda Verde, ma la sicurezza iraniana si è rifiutata di concederle. Circa due mesi fa Mousavi si è sottoposto a esami medici dopo continui sbalzi di pressione e nausea, ma gli agenti non hanno messo a conoscenza la famiglia dei risultati dei test. "Il continuo rifiuto di cure mediche per i detenuti politici è una violazione del diritto internazionale e iraniano. Mousavi deve ricevere le cure di cui ha bisogno, come anche tutti gli altri prigionieri politici in Iran", ha detto Ghaemi, che ha chiesto alle autorità di non dimettere Mousavi prima che il suo ricovero sia completato. Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi canidati alle elezioni presidenziali del 2009 vinte da Mahmoud Ahmadinejad, e la moglie di Mousavi Zahra Rahnavard, sono agli arresti domiciliari dal febbraio 2011 per il ruolo che è stato loro imputato nelle proteste del movimento Onda Verde.