Un figlio malato e non potergli neppure telefonare Il Mattino di Padova, 19 maggio 2014 Meno dieci: mancano dieci lunghissimi giorni e poi scadrà l’anno di tempo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha concesso per far fronte al sovraffollamento delle carceri. Ma noi questa volta non parleremo di numeri, parleremo piuttosto di qualità delle condizioni detentive, e di umanità. E lo faremo con due testimonianze, di una persona detenuta e di una operatrice che in carcere si occupa di uno sportello di segretariato sociale per i detenuti, accomunate da un problema: un famigliare che sta male. Solo che chi è rinchiuso in galera ha una pena aggiuntiva: i rapporti con i famigliari ridotti a una miseria, sei ore di colloqui e una telefonata di dieci minuti a settimana. A Padova il direttore ha concesso a tutti due telefonate straordinarie in più al mese, ma è sempre troppo poco. Se davvero vogliono umanizzare le carceri, che inizino dagli affetti, e tolgano questi limiti alle telefonate, come avviene in tanti Paese più civili del nostro: telefonare a casa non ha mai fatto male a nessuno, semmai ha salvato qualcuno dall’abbandono, dall’angoscia della galera, e gli ha ridato la voglia di cambiare vita. Perché ci separano dai nostri cari? I miei primi cinque anni di detenzione li ho passati nel carcere di Saint Gilles, Bruxelles, e posso dire che nonostante tante difficoltà non mi hanno separato mai dalla mia famiglia. I miei figli ancora mi dicono: quando ti trovavi in Belgio non ci sentivamo soli, oggi ci sentiamo orfani. Qualche giorno fa telefono a casa come faccio una volta a settimana, le prime parole che sento di solito sono "Pronto Papà!", e mi si apre il cuore. Ma questa volta, diversamente dal solito, sento una voce piena di ansia, al primo momento sembrava la linea disturbata, cosa normale visto che telefono all’estero, ma poi la voce mi dice: "Pronto, figlio mio come stai?" e io subito nel panico "Mamma, che cosa c’é che piangi?". Lei cerca di fare la voce normale, ma con le persone di famiglia si capisce quando c’é qualcosa che non va, e già non sentire la parola "papà" mi desta dei sospetti. Ed ecco che arriva la brutta notizia: "Sono da sola, non c’è nessuno, tua figlia ha avuto un incidente", nel frattempo la voce va via, cade la linea, scadono i dieci minuti consentiti, inizio a sudare freddo, cerco di chiamare l’agente per dirgli: "È successo qualcosa a mia figlia, potrei usufruire oggi della telefonata prevista per la settimana prossima?" Mi rispondono: "Purtroppo lei ha finito i suoi dieci minuti settimanali, ci dispiace, la potrà fare la settimana prossima". Mi sono sentito la persona più inutile al mondo. Sono un ergastolano, l’unico amore che potrei dare ai miei figli sono quelle telefonate che posso fare per dieci minuti a settimana, oltre alle sei ore di colloquio che potrei fare ogni mese, cosa per me molto difficile, dato che la mia famiglia abita in Belgio. In questi ultimi anni non sono stato mai presente nella crescita dei miei figli, neppure con un banale gesto d’affetto. In Belgio non è così, ecco perché loro mi dicono: quando eri in Belgio, non ci sentivamo orfani. La detenzione in quel Paese riguardo agli affetti è molto umana, molto attenta, se ti trovi in detenzione preventiva, in attesa di giudizio, ti lasciano fare i colloqui per tre ore a settimana, oltre a due colloqui affettivi di quattro ore al mese, e poi sei in possesso di una carta telefonica, che ti dà accesso ai numeri autorizzati, che puoi chiamare dalle 8:30 fino alle 18:30, anche più volte al giorno, e se hai figli minori fino al diciottesimo compleanno puoi fare, tutti i mercoledì dalle 14:00 fino alle 18:00, i colloqui senza la presenza degli agenti, ma seguito da un’educatrice, per fare i compiti di scuola insieme, giocare, parlare dei loro problemi. E poi sei anche sicuro che ti assegnano un lavoro, con uno stipendio mensile che ti permette di inviare qualcosa alla famiglia e di coprire le tue spese in carcere. Ma soprattutto, in Belgio ti lasciano fare il padre, il marito, il figlio, in modo che il giorno che rientri a casa non sei una persona estranea, che potrebbe "invadere" le vite dei tuoi famigliari spezzando i loro difficili equilibri. In Italia tanti detenuti, nel momento in cui finiscono di scontare la loro carcerazione, iniziano un’altra pena, quella determinata dalla difficoltà di riallacciare i rapporti con le famiglie, perché spesso la galera causa l’allontanamento dei figli e della moglie, e quando le persone escono e non hanno un lavoro, si scontrano con tutte le difficoltà che oggi ci sono nella società. Tanti di loro poi, se si ritrovano soli e senza nemmeno l’affetto della famiglia, rischiano di tornare presto a delinquere. Ma siamo sicuri che in Italia vogliano che la persona che esce dal carcere sia inserita nella società? Siamo sicuri che non ci siano tantissimi figli che finiscono per odiare quelle istituzioni, che hanno trattato anche loro come dei colpevoli? Siamo sicuri che tenere in carcere le persone in modo poco umano, e farle uscire più arrabbiate, aiuti a ridurre la criminalità? Ricordiamoci che siamo già stati condannati dall’Europa e fra qualche giorno potremmo esserlo di nuovo per le nostre carceri disumane. E se per fare i cambiamenti necessari a umanizzarle cominciassero proprio trattando più umanamente i nostri figli? Biagio Campailla Ho pensato a quello che farei io se non potessi chiamare a casa quante volte voglio Entro in carcere da dodici anni e a differenza delle persone con cui collaboro, ad una certa ora posso, anzi devo, uscire. Conosco il carcere da persona libera, e ne ho ovviamente una visione parziale, perché non vivo sulla mia pelle la quotidianità della vita in sezione e la continua privazione della libertà. Certo ci sono alcune regole, a cui chiunque entri in un carcere deve sottostare, ma sono sopportabili perché limitate alle ore in cui sei "dentro". Tra tutte, trascorrere le ore in carcere senza cellulare l’ho sempre vissuto con sensazioni contrastanti, a volte di liberazione, a volte di fastidio. Quest’anno purtroppo mio padre ha avuto un serio problema di salute e da quando è ricoverato in ospedale ci sono stati diversi episodi gravissimi e inaspettati, durante i quali per fortuna ho potuto sempre stargli vicino. Nei momenti in cui si è stabilizzato, ho deciso di riprendere le mie attività e quindi di ricominciare a entrare in carcere. La prima volta che sono rientrata, al momento di lasciare il cellulare all’esterno, mi è preso quasi il panico. E se succede qualcosa come mi avvisano? Come faccio a stare dentro sei ore senza avere notizie? Ogni tanto mentre sto facendo un colloquio mi viene il terrore che stia succedendo qualcosa e in un paio di occasioni, appena ho potuto, sono corsa fuori ad accendere il cellulare per chiamare a casa. Questa situazione mi ha avvicinato per un secondo alla sensazione di rabbiosa o rassegnata impotenza che deve provare una persona detenuta che ha una persona cara che sta soffrendo o che sta attraversando un momento difficile o anche semplicemente che ha bisogno per varie ragioni di sentire vicini i propri affetti. Ho pensato a quello che farei io se non potessi chiamare a casa quante volte voglio, una, dieci, venti al giorno, per sapere minuto per minuto come sta mio padre. Penso alle volte in cui quando telefono mi concentro così tanto sulla voce di mia madre, che una pausa in più, una parola incerta, un tono di voce stonato mi fa entrare in uno stato d’allarme tale che dopo cinque minuti richiamo per essere sicura che non mi stiano nascondendo qualcosa. E se non sono sicura, chiamo qualcun altro per confrontare le diverse versioni. Io credo che sia contro natura accettare un atto violento come la lontananza forzata dai propri affetti, con solo dieci minuti di telefonata a settimana. Io non so se in quella situazione riuscirei a mantenere l’autocontrollo, rispondere in modo educato, tenere una condotta "regolare e partecipativa" anche nel tempo, perché farei fatica a dissociare l’immagine di un’istituzione che dice di volermi rendere una persona migliore da quella di un’istituzione che mi tortura allontanandomi dai miei cari anche in momenti così delicati, quando si tratta della vita e della morte delle persone. E allora penso a quale stato d’animo possa aver generato alcuni rapporti disciplinari per reazioni violente di detenuti, certamente le emozioni, la frustrazione, l’ansia in quei casi sono esplose nel modo sbagliato, ma non deve essere facile gestire l’angoscia e la preoccupazione per una situazione che riguarda i propri cari, accettando di non poterli sentire. Perché 4 telefonate al mese significa non poterli sentire; io in questi mesi faccio almeno 4 telefonate al giorno, e non mi bastano. Io non capisco il senso della limitazione del numero e della durata delle telefonate: a chi nuoce che una persona detenuta possa sentire quante volte vuole le persone a cui vuole bene? A quale idea di rieducazione nuoce esattamente? Francesca Rapanà, operatrice dello Sportello di Segretariato sociale in carcere Giustizia: carceri affollate, la metafora dell’Italia di Aldo Masullo Il Mattino, 19 maggio 2014 Tra pochi giorni scadrà il termine, entro cui lo Stato italiano deve adeguare il sistema carcerario alle norme europee. L’inadempienza comporta forti penalità pecuniarie ma, ancor peggio, l’infame marchio di "torturatore" al paese di Cesare Beccaria. A nulla sono valsi i temerari digiuni di Marco Pannella, le parole severe del Presidente della Repubblica, i forti segnali del Papa Francesco, e in non pochi uomini politici e privati cittadini una sempre più acuta sensibilità al dolore degli uomini umiliati e alla legalità costituzionale. Il dramma collettivo, che non senza significativa semplificazione va sotto il nome di questione carceraria, non è un’emergenza settoriale per quanto gravissima, ma la pesante metafora della Italia stessa. Da anni sul nostro Stato pende la spada dell’inesorabile scadenza, ma tutto è rimasto fermo, nessuna decisione politica è stata presa, salvo qualche timido e inadeguato passo negli ultimi tempi. Perfino il parlarne sembra ancora la mania di pochi. Carcere è l’Italia stessa. Tutto vi si ripete stancamente: il gioco dei partiti, le poltrone dei boiardi, il proliferare di leggi o inapplicate o fuorvianti, l’arcigna impotenza della giustizia, l’imperversare della corruzione, il tempo che scorre senza decisioni fino alla stretta delle urgenze, grasso formaggio pubblico per i topi dell’illegalità affaristica. Così la società italiana si è trovata ad affrontare il ciclone finanziario mondiale nelle condizioni peggiori, consumata dalla sua autofagia e al tempo stesso preda di una nevrotica coazione a ripetere gli errori. L’Italia è ferma nell’impotenza. Se dal carcere giudiziario è assai difficile evadere e alla fine o ci si rassegna o si muore, dal carcere sociale molte sono le evasioni. Si dice che i nostri giovani emigrino perché non c’è possibilità di lavoro. Raramente ci si rende conto che l’inoccupazione è la condizione del carcere, dove si mortifica la più propria esigenza dell’uomo, il bisogno di realizzarsi modificando sia pur per poco il mondo. I giovani, ricchi di energia e di desideri attivi, non ancora corrotti o resi indifferenti, questo paese che li costringe all’inoccupazione lo vivono come un carcere. Non vi si può lavorare, e neppure studiare, scuole e università ridotte sempre più povere e sconquassate dall’improvvido affastellarsi d’insensate decisioni. Sbatti il (falso) mostro in prima pagina a cura di Francesco Billi Il Foglio, 19 maggio 2014 Da Rignano a Gravina, breve ripasso di alcune delle favole horror scritte a quattro mani da media e inquirenti. A Rignano Flaminio gli orchi non c’erano. Lo hanno confermato, venerdì scorso, anche i giudici del processo d’appello: nessun abuso sessuale nella scuola materna "Olga Rovere" e per tutti gli imputati (tre maestre, il marito di una di queste e una bidella) è stata confermata la sentenza assolutoria con la formula più ampia: "il fatto non sussiste" [1]. I cinque, nel 2007, erano stati mandati a processo e in galera, insieme a un benzinaio cingalese, con le seguenti accuse: violenza sessuale di gruppo, maltrattamenti, corruzione di minore, sequestro di persona, atti osceni, sottrazione di persona incapace, turpiloquio, atti contrari alla pubblica decenza [2]. Titoli dei giornali tra aprile e maggio 2007: "Il racconto delle vittime: "Dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre"" (Corriere). "Quei pedofili ogni domenica a messa" (Tempo). "I bimbi dell’asilo: "Ci violentava il Diavolo"" (Messaggero). "Spariscano per sempre" (Corriere). "Il lungo silenzio nel paese dei "mostri"" (manifesto). "Nessuna pietà per gli orchi" (Stampa). "La difesa dei mostri: "Accuse incredibili"" (Tempo). "Gli orchi tornano a Rignano" (Stampa). "Quel giorno mia figlia mi disse: "Mamma, ho visto l’uomo nero"" (Repubblica). "I parenti degli arrestati in fuga dopo il lancio di monetine" (Messaggero). "I bambini dell’asilo drogati dalle maestre" (Stampa). "Le case dei "giochi", le sevizie, le percosse e gli orrori" (Repubblica) [3]. Dall’ordinanza del Gip: "Spogliavano completamente i bambini e li lasciavano fuori nudi al freddo; poi li mettevano dentro sacchi dell’immondizia e infilavano loro dei cappucci con le corna; li facevano quindi rientrare in casa e i "grandi" si vestivano di nero e da diavolo con cappucci […]. Una delle maestre aveva incendiato un crocifisso e detto ai bambini che Gesù era cattivo e il diavolo buono" [4]. Carlo Bonini fu uno dei pochi giornalisti a capire subito che a Rignano si stava celebrando un processo senza prove, un abbaglio da psicosi e contagio collettivi: "Non una testimonianza, non una prova documentale (che sia l’oscenità di una foto, di un diario, di un file custodito in qualche computer) o un’intercettazione telefonica. Non un’evidenza medica sui corpi dei piccoli, non una traccia biologica sugli oggetti maneggiati dagli "orchi" o nei luoghi indicati come teatro dei loro indicibili riti (peluche, automobili, abitazioni degli indagati)" [5]. Sempre Bonini, all’indomani dell’assoluzione in primo grado (tribunale di Tivoli, maggio 2012): "La storia di una catastrofe processuale, umana, civica, arriva così al suo inevitabile compimento. Con un’assoluzione che prende atto con coraggio e limpidezza di un vuoto probatorio macroscopico. Che mette a nudo l’ostinazione di una Procura della Repubblica e di un ufficio Gip che pur di non riconoscere i propri errori, di non arrendersi all’evidenza contraria del fatto che si intendeva provare, hanno trasformato questa storia in un’interminabile ordalia che ha schiantato per sempre le vite di chi ne è stato inghiottito" [6]. Tre settimane fa ci fu un brutto caso di cronaca, poco fuori Londra. Furono trovati tre bambini disabili morti nella villa dove abitavano con la madre, casalinga di 42 anni, mentre il padre - agente di borsa - era in visita da alcuni parenti all’estero insieme alla figlia grande. La mamma, che era a casa coi bambini, fu arrestata. L’indomani il Guardian gli dedicò l’intera pagina 3. Titolo: "Una donna è stata arrestata dopo che tre bambini disabili sono stati trovati morti a casa". Incipit: "Una donna di 42 anni è stata fermata perché sospettata di omicidio, dopo che tre bambini sono stati trovati morti in un’abitazione. I corpi sono stati trovati in una camera da letto di una grande proprietà a New Malden, sud ovest di Londra, dove abitano Gary Clarence, finanziere della City, sua moglie Tania, e i loro quattro figli" [7]. Francesco Costa: "Immaginare come verrebbe trattato un caso del genere dalla stampa italiana: la famiglia ricca e benestante, la villa, il bel quartiere; la moglie sola a casa che ammazza i figli disabili; il padre che lavora nella finanza e passa più tempo in ufficio che a casa. Immaginare i titoli, le figure retoriche, le analisi da quattro soldi, le interviste agli psichiatri, i sociologi scatenati, gli editoriali sui soldi che non fanno la felicità e cose del genere" [7]. In Italia il solito sospetto è una prassi. Forse incentivata da inquirenti talora non così infallibili, l’informazione preferisce al dubbio la risposta più facile e tendenziosa. Scanzi: "Insegue il titolo a effetto, quello che titilla la pancia e garantisce condivisione massima: la prima ipotesi è sempre la migliore, ancor più se ha del morboso" [8]. Il 3 gennaio 2014, in una villetta di Caselle Torinese vennero uccisi con un tagliacarte due coniugi e la madre della donna. Buona parte dei media lasciò subito intendere che il colpevole non poteva che essere Maurizio Allione, figlio e nipote delle vittime. Gli inquirenti in conferenza stampa dissero che i suoi rapporti con la famiglia "non erano intensi". I giornali cominciarono a stringere il cerchio: "Svolta nelle indagini, interrogato il figlio per 5 ore"; "C’è un buco di 70 minuti nel suo alibi"; "È lui il naturale sospettato". Quando si recò sul luogo del delitto i vicini, invece di fargli le condoglianze, lo invitarono a "comportarsi bene", una gli fece delle foto con il telefonino [9]. Mohammed Fikri abitava a Brembate di Sopra, dove a fine 2010 scomparve la tredicenne Yara Gambirasio. Due gli indizi che lo portarono in carcere. Un’intercettazione telefonica in cui avrebbe detto "che Allah mi perdoni, io non l’ho uccisa" e un biglietto per la Tunisia. Durante la permanenza di Fikri in carcere, a Brembate alcune persone esposero cartelli contro i marocchini. Dopo pochi giorni è venuto fuori che il viaggio in Tunisia era stato prenotato da molto tempo e concordato col datore di lavoro. E che la traduzione della frase di Fikri - che comunque diceva di non avere ucciso la bambina - era del tutto errata: aveva detto semplicemente "Allah, per favore, fa che risponda" [10]. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia la notte tra l’1 e il 2 novembre del 2007, nell’appartamento che divideva con altre tre ragazze. I primi sospetti si diressero sull’americana Amanda Knox e il fidanzato Raffaele Sollecito (condannati in primo grado, assolti in appello, rimandati dalla Cassazione un’altra volta in Corte d’appello e da questa nuovamente condannati ma, per adesso, senza misure cautelari). Terzo sospettato Patrick Lumumba, un uomo congolese proprietario del locale dove lavorava la stessa Knox. Fu lei ad accusarlo e dire di averlo visto sul luogo del delitto. Lumumba rimase in carcere per quattordici giorni, al termine dei quali venne rilasciato e sollevato da ogni accusa. Lo Stato lo ha risarcito con otto mila euro [11]. L’11 dicembre del 2006 scoppiò un incendio in un appartamento, a Erba. I pompieri arrivano e trovano quattro cadaveri, tra cui un bambino e sua madre. Le indagini e i sospetti arrivarono su Azouz Marzouk, tunisino, padre e marito di due delle vittime. Per giorni fu il sospettato numero uno, in un clima di caccia all’immigrato. Marzouk, al momento del reato, era in Tunisia [10]. Filippo Pappalardi, di Gravina. Padre di Francesco e Salvatore, due bambini scomparsi nel giugno 2006 e ritrovati morti nel febbraio 2008 in fondo a un pozzo a poche centinaia di metri da casa. Accusato da un bambino che disse di averlo visto con i figli poco prima della scomparsa, sospettato per alcune intercettazioni in gravinese stretto in cui secondo l’accusa diceva alla compagna "non lo dire a nessuno dove stanno i bambini. Come è vero Iddio, mi uccido" (trascrizione della difesa: "Se fanno del male ai bambini, mai sia, mi uccido!"), il Pappalardi fu arrestato nel novembre 2007 con le accuse di sequestro di persona, duplice omicidio aggravato e occultamento di cadavere. Ai domiciliari dal marzo 2008, in libertà definitiva dal successivo aprile. La sera stessa della scomparsa, Pappalardi raccontò agli agenti di aver saputo dalla mamma di uno degli amichetti che Ciccio e Tore erano nei pressi del municipio (non lontano da dove furono ritrovati cadaveri). Non venne creduto, nessuno andò a controllare: "Un chiaro tentativo di depistaggio", scrisse il gip ordinandone l’arresto [12]. Settembre 2006, una ragazzina di 12 anni confessò ai genitori di essere stata violentata da un marocchino. I militari ne arrestarono uno di 20 anni, con l’accusa di violenza sessuale aggravata: risalirono a lui sulla base della descrizione del suo abbigliamento fatta dalla vittima, cioè una maglietta nera Dolce&Gabbana. Non si trovarono altre prove a carico di Mehdi, che venne rilasciato il giorno dopo quando la ragazzina ammise di essersi inventata tutto [13]. Riccardo Arena: "Queste storie sono la realtà della nostra Giustizia penale. Una Giustizia che si manifesta oggi solo attraverso l’applicazione della misura cautelare. Misura cautelare basata sui gravi indizi e non sulla colpevolezza accertata dopo un dibattimento processuale, che viene fatta scontare in carceri a dir poco vergognose e che è peggiore della tortura" [15]. Tortura non solo per il degrado delle galere, ma anche per l’incertezza, e non la certezza, che contraddistingue la fase del dibattimento, del processo. Arena: "Processo che sostanzialmente non esiste più a causa dei tempi interminabili, quindi ingiusti, e a causa dell’epilogo imprevedibile, quindi evanescente. Ai limiti della casualità. È il caso, e non l’applicazione ferrea del diritto o la valutazione rigorosa della prova, che fornisce una risposta di giustizia ai tanti cittadini in attesa di giudizio. È il caso, e non la regola generalmente applicata, che, pur tardivamente, svela l’errore. Già il caso. Il caso di imbattersi in un giudice capace di affermare la verità dopo anni di misura cautelare, certificando così un errore che si poteva e che si doveva evitare prima. Questa è la Giustizia di oggi" [15]. In Italia, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non ha commesso il fatto. A esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato [13]. Vittime della giustizia italiana dal dopoguerra: 4 milioni. Risarcimenti pagati dallo Stato dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione (1988): 600 milioni di euro. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il fatto che aveva un’auto e una targa simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri [13]. Il giorno in cui fu arrestato Enzo Tortora (17 giugno 1983), finirono in carcere per la stessa inchiesta altre 855 persone. Qualche mese dopo i rinviati a giudizio furono molti di meno: 640. Novanta persone erano state arrestate soltanto per omonimia. Ridotti ulteriormente gli imputati: 243. Condannati finali: 77 [14]. Note: [1] Il Foglio 16/5; [2] Giacomo Galeazzi, La Stampa 17/5; [3] Claudio Cerasa, Twitter 16/5; [4] la Repubblica 26/4/2007; [5] il Post 16/5; [6] Carlo Bonini, la Repubblica 29/5/2012; [7] Francesco Costa, il Post 25/4; [8 ]Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 9/1; [9] Marco Imarisio, Corriere della Sera 9/1; [10] Francesco Costa, il Post 7/12/2010; [11] Corriere della Sera 1/9/2010; [12] cinquantamila.it; [13] Repubblica 29/3/2012; [14] Giorgio Dell’Arti, La Stampa 20/7/2013; [15] Riccardo Arena, il Post 11/12/2012. Giustizia: reati minori, arriva la semi-sanatoria di Matteo Indice Il Secolo XIX, 19 maggio 2014 Reati sulla carta "piccoli", in realtà spesso crimini tipici dei colletti bianchi, sui quali tanti riflettori si sono accesi in questi giorni. Sono quelli su cui calerà la mannaia della legge entrata in vigore fra la semi-indifferenza generale l’altro ieri, la 67/2014. È la norma che prevede, fra i vari rivoli, la possibilità di chiedere la "messa in prova" ai servizi sociali per chi si ritrovi imputato con accuse punibili al massimo con quattro anni. Se ci saranno "criteri soggettivi e oggettivi" (è insomma la prima volta che si chiede una soluzione del genere, non si è delinquenti abituali e l’ufficio esecuzione è in grado di approntare un programma di recupero decente) si potranno compiere lavori "di pubblica utilità" per un periodo non inferiore ai dieci giorni. E se il percorso "riabilitativo" secondo il giudice sarà andato a buon fine, ecco che il medesimo reato sarà "estinto" - quindi mai inserito nella fedina penale - insieme al processo fino a lì sospeso. Tanto per farsi un’idea sui numeri: i procedimenti penali pendenti in Italia al momento superano quota tre milioni e mezzo, e l’effetto-snellimento potrebbe essere significativo, coinvolgendo un buon 25-30% di situazioni secondo le più attendibili stime incrociate fra Ministero della giustizia, Associazione nazionale magistrati e Consiglio nazionale forense. Un altro 10% di "tagli" alle udienze dovrebbe arrivare stoppando le udienze a carico d’imputati irreperibili (sovente extracomunitari), altro caposaldo della legge già attiva. Altri sfrondamenti assortiti sono preventivati se andranno a regime nei prossimi diciotto mesi altri paletti del dispositivo che prevedono una serie di depenalizzazioni: in particolare la trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, ad eccezione di alcuni comportamenti specifici in materia di abusi edilizi e ambientali. Fin qui l’effetto "burocratico", ormai prioritario dato il patologico ingolfamento della macchina giudiziaria italiana. E però a focalizzare un minimo i riflessi concreti di quel che si è materializzato da poche ore (il tribunale di Bari, per dire, aspettandosi un’ondata di richieste ha creato un ufficio ad hoc) si può cogliere qualche contraddizione. Il caposaldo della lotta a corruzione e in genere ai reati compiuti dai colletti bianchi, come confermato da solidissime indiscrezioni filtrate dal Ministero degli Interni e della Giustizia, potrebbe essere rappresentato dal gran ritorno del falso in bilancio, depenalizzato da Silvio Berlusconi nel 2002. Cinque anni di pena massima, nella bozza allo studio del Guardasigilli Andrea Orlando, e quindi possibilità di riattivare le intercettazioni telefoniche. Una svolta? Sulla carta parecchio, se però teniamo solo metà della mela. Perché se da una parte si sventola l’imminente disegno di legge, che per avere effetti concreti necessiterà magari di un annetto, come una sorta di mannaia sui falsificatori di bilancio, dall’altra per gli stessi personaggi si spalanca una strepitosa exit strategy . Grazie proprio ai nuovi orizzonti forniti dalla legge già entrata in vigore, che allarga il ventaglio della messa in prova e soprattutto dell’estinzione del reato. Non va ovviamente dimenticato che la norma attiva da due giorni non è stata partorita originariamente dal governo Renzi, e nemmeno si può trascurare che al giudice resta comunque una discrezione assoluta, sulla concessione o meno della scorciatoia. Altri reati per i quali potrebbe essere usata - oltre che nei processi per furto non aggravato, diffamazione e danneggiamento - sono la bancarotta semplice e il ricorso abusivo al credito. Quest’ultimo è di grande attualità in Liguria, poiché potrebbe essere contestato a vari dirigenti dell’ex management di Carige in una delicata inchiesta condotta a Genova sui finanziamenti concessi a un costruttore "amico". Da Roma arrivano altri aggiornamenti importanti. Nel fine settimana il coordinamento dei vari ordini forensi ha incontrato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Per combattere il problema della cause-lumaca nel civile, dopo l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione "a monte", ora si prova a passare la palla agli avvocati pure "a valle". L’ipotesi allo studio è questa: se dopo tre anni il processo è impantanato, si va alla Camera arbitrale del l’ordine provinciale ed entro 180 giorni la controversia sarà definita con, appunto, un arbitrato. Ancora da definire, ovviamente, materie e soglia di danni richiesti, per i quali sia possibile praticare questa sorta di opzione all’americana. Giustizia: il ministro Orlando vuole una banca dati sulle misure alternative di Marzia Paolucci Italia Oggi, 19 maggio 2014 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando chiede al Dap del ministero la banca dati che mancava: non più solo lo scollamento tra i numeri di capienza e inserimento negli istituti di pena ma l’indicazione delle attività che vi svolgono, i trattamenti socio sanitari e quanti e quali affidamenti alle comunità di recupero per i tossicodipendenti. Quello che lo Stato può e deve fare per assolvere alla funzione rieducativa della pena e tirarli fuori da una situazione di sovraffollamento che rende gli istituti qualitativamente inadeguati agli occhi dell’Europa e del mondo intero. Condizione su cui Strasburgo ci soffia da tempo il fiato sul collo. L’occasione, duplice, arriva dalla firma a distanza di 24 ore di due protocolli, i primi, tra le regioni Umbria e Lazio e il Ministero per introdurre e promuovere sul fronte sociale, misure alternative alla carcerazione e favorire il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto e su quello sanitario, l’ingresso nelle comunità di recupero per i tossicodipendenti chiusi in carcere. I numeri, allo stato, sono quelli diffusi dal ministro Orlando alla firma del primo protocollo di intesa con la regione Umbria di martedì scorso: "31.061 detenuti ammessi alle misure alternative al carcere e circa un terzo dei 60 mila detenuti italiani in carcere per reati legati a fatti di droga". A loro, coinvolti in attività lavorative quotidiane fuori o dentro il carcere e ai detenuti tossicodipendenti a cui servono percorsi riabilitativi specifici, sono infatti rivolti i primi due protocolli di intesa siglati tra martedì e mercoledì scorso fra il Ministero della giustizia e le regioni Umbria, la prima ad aderire, e Lazio con ì relativi tribunali di sorveglianza e le rispettive rappresentanze Anci regionali. "Puntiamo a coinvolgere tutte le regioni perché abbiamo bisogno anche del sostegno amministrativo, siamo tra i Paesi in Europa che presentano il sistema di pene alternative più debole", ha affermato il ministro Orlando, intervenuto martedì alla firma del protocollo con la regione Umbria. Al suo fianco la presidente della Regione Katiuscia Marini e il magistrato di sorveglianza di Perugia Beatrice Cristiani con il presidente vicario Anci Umbria Francesco De Rebotti. "Abbiano chiesto alle regioni di costruire un percorso di collaborazione sul tema delle carceri in una situazione che alla scadenza della data del 28 maggio indicataci da Strasburgo - nuovo termine che la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha imposto all’Italia per affrontare l’emergenza carceri - ci porti alla costruzione di una banca dati che indichi l’insieme delle attività che si svolgono istituto per istituto, i trattamenti socio-sanitari", ha spiegato il ministro. Serve, ha incalzato, "una collaborazione non solo sul fronte istituzionale ma anche amministrativo, da parte delle regioni prima della scadenza, per contrastare il problema del sovraffollamento, di un sistema penitenziario che è costantemente in affanno". E, proprio, in un’ottica di umanizzazione della detenzione, arriva la risposta della presidente della Regione Umbria Marini: "Il progetto a due livelli", ha spiegato la presidente della Regione Umbria Katiuscia Marini, "ha due livelli: uno per lo svolgimento di lavoro volontario e percorsi di formazione in attività di pubblica utilità sostenuti con il Fondo sociale europeo e uno dedicato ai percorsi di recupero per tossicodipendenti presso le comunità finanziato dal Fondo sanitario nazionale che ci permetterà di aggiungere 40 nuovi posti a quelli esistenti". Quanto all’esito delle misure alternative e di recupero, Beatrice Cristiani, che svolge le funzioni di presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia, uno dei 4 magistrati di sorveglianza della regione con quattro strutture carcerarie (Spoleto, Terni, ad alta sicurezza e Perugia e Orvieto) sottolinea che "va bene nel 95% dei casi con l’estinzione della pena detentiva e pecuniaria". E se i numeri sono chiari a livello regionale, "i tossicodipendenti sono il 19% dei 1.564 detenuti totali per la sola Umbria", riportano i referenti regionali, a livello italiano ancora non si sa quanti sono i detenuti affidati alle comunità di recupero: "La banca dati che arriverà a fine mese risponderà anche a questo", risponde Orlando. Giustizia: Si.Di.Pe.; tagliare il personale penitenziario inficerebbe la tenuta del sistema Comunicato stampa, 19 maggio 2014 Diverse sono le voci che si sono espresse sulle competenze del Dap in merito al superamento dell’emergenza penitenziaria in Italia e al rientro del "Piano Carceri", anche Rosario Tortorella, Segretario Generale del Si.Di.Pe. ha a sua volta sottolineato che "il Si.Di.Pe. concorda con l’intendimento espresso nei giorni scorsi dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando circa il rientro del "Piano carceri" tra le competenze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’edilizia penitenziaria, anche per quanto riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri, è strategica ai fini dell’attuazione di un’efficace politica penitenziaria, quindi, non può essere fuori dal Dap che gestisce il sistema penitenziario e che meglio e più direttamente conosce le esigenze attraverso la dirigenza penitenziaria e il personale tecnico dell’Amministrazione. Un "Piano carceri" fuori dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si fonda su una gestione emergenziale del problema carceri che deve essere superata a favore di una visione progettuale e di programmazione ordinaria che, peraltro, sarebbe non solo più funzionale, cioè più rispondente alle esigenze concrete, ma anche più economica, in quanto una manutenzione costante e comunque programmata degli immobili garantirebbe meglio il mantenimento in efficienza del patrimonio edilizio dell’Amministrazione". "Riteniamo, però, - specifica Tortorella - che si debba uscire da una gestione emergenziale non solo per quanto attiene al "Piano carceri" ma anche in ordine all’intera gestione del sistema penitenziario, e per fare questo occorre creare le condizioni organizzative e di risorse che consentano di evitare che l’Amministrazione penitenziaria continui a operare nella costante emergenza. Per questa ragione occorre che il Governo intervenga affinché il personale della carriera dirigenziale penitenziaria e il personale penitenziario siano definitivamente esclusi, a tutti i livelli, dalla spending review cioè dalla "Riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni" prevista dal comma 1 dell’art. 2 del D.L. 6 luglio 2012 n. 95, rientrando evidentemente l’Amministrazione penitenziaria, nel suo complesso, nell’esclusione già prevista dal .comma 7 del precitato art. 2 D.L. n. 95/2012) per "le strutture e il personale del comparto sicurezza". Una spending review dei dirigenti penitenziari e del restante personale penitenziario, infatti, non solo contrasterebbe con gli obbiettivi di politica penitenziaria delineati dal Governo ma inficerebbe anche sulla tenuta del sistema, poiché un ulteriore depauperamento delle risorse umane inciderebbe negativamente sul perseguimento dei fini istituzionali, di sicurezza e di trattamento rieducativo, che sono demandati all’Amministrazione penitenziaria, - conclude il Segretario Generale del Si.Di.Pe. - alterando i delicati equilibri del complesso sistema penitenziario e indebolendo significativamente il generale sistema della sicurezza dello Stato, a discapito dei cittadini". Giustizia: la voce di Scajola dal carcere "In cella finché chiarisco tutto…" di Luca Fazzo Il Giornale, 19 maggio 2014 La nuova vita da detenuto dell’ex ministro: tv, solo tre giornali e studio degli atti d’inchiesta. "Resterò dentro per il tempo necessario. I giudici capiranno, ho aiutato una donna disperata". Si guardano per un attimo, l’eurodeputata e il suo leader, senza parlare. Claudio Scajola è arrivato al suo undicesimo giorno di cella a Regina Coeli. Susanna De Martini temeva di trovarsi di fronte l’uomo scosso, quasi stralunato, che le immagini dei Tg e dei siti web rimbalzano da allora senza interruzione, mentre viene portato via dagli uomini della Dia. Invece è lui, lo Scajola di sempre. "Susy, devi provare a immaginare - dice l’ex ministro dell’Interno - mi sono arrivati a prendere in tredici. In tredici! L’unica cosa che riuscivo a vedere in quel momento erano le pettorine con su scritto Dia. Io sono stato ministro dell’Interno, la Dia so bene che cos’è, in quei momenti riuscivo solo a domandarmi cosa potessi avere io a spartire con una indagine della Dia. Adesso che ho capito di cosa mi accusano sono molto più sereno". Le carte dell’inchiesta sulla latitanza di Amedeo Matacena, e sull’aiuto che Scajola avrebbe dato alla fuga del compagno di partito, sono lì, impilate sui due tavolini della cella dell’ex ministro, costellate di post-it gialli. "Il mio lavoro in questo momento è cercare di capire come si sia arrivati ad accusarmi di questi reati", dice il detenuto. "Da un paio di giorni mi hanno messo la televisione e posso leggere i giornali. Non tutti, solo tre". Abbastanza per seguire in diretta gli sviluppi mediatici dell’indagine che lo riguarda, capire come alle accuse per la latitanza di Matacena adesso si stiano aggiungendo altre ipotesi, altri sospetti, come quello sul suo archivio sequestrato dagli inquirenti, e che ora si trova chiuso in una cassaforte della Dia di Genova, oltre cento faldoni che (fanno sapere ieri gli investigatori) richiederanno un lungo lavoro di analisi. E altro lavoro servirà agli hacker della procura per forzare password e recuperare file cancellati nei computer pure sequestrati. Ma Scajola non ha fretta. E alla De Martini annuncia una decisione inattesa: "Voglio restare qui dentro, in galera, per tutto il tempo necessario. Ho fiducia nei giudici, e so che quando avranno finito di fare tutte le verifiche dovranno prendere atto che io non ho fatto assolutamente niente di male. Ho aiutato una donna, la moglie di un amico, che era in difficoltà drammatiche. Niente altro. Si prendano tutto il tempo di cui hanno bisogno. Io ora non voglio uscire perché non voglio che quando la verità verrà a galla qualcuno pensi che sono stato io a condizionare l’inchiesta, a inquinare le indagini. Uscirò dopo, a testa alta". Scajola è rasato di fresco, golfino blu. "Stamattina l’ho dedicata a pulire la cella", sorride. Chiede del partito, delle elezioni imminenti. La De Martini gli racconta la battutaccia che le avrebbe fatto il coordinatore regionale del partito in Liguria, quando l’ha vista preoccupata per le sorti dell’amico arrestato ("Perché non ti metti al braccio la fascia a lutto?"). "Eh, Susy - commenta Scajola - ognuno ragiona con la testa che ha...". "Ma tu come ti spieghi tutto questo - chiede l’eurodeputata - pensi anche tu che l’abbiano fatto per bilanciare l’inchiesta Expo?". Lui sorride, non risponde. "Stai tranquilla - le dice - io di questi magistrati ho fiducia". Dalle carte si scopre che i pm lo accusano persino di avere invitato la moglie di Matacena a non frequentare un armatore siciliano conosciuto in crociera, perché inquisito "per cose complicate". "Mettiti nei miei panni - dice ieri Scajola alla De Martini - la moglie di Matacena è una donna disperata con due figli, il marito a migliaia di chilometri. L’ho aiutata, le ho dato dei consigli, e non me ne vergogno. Verrò assolto anche stavolta, vedrai". Giustizia: Dell’Utri verso un carcere di Alta Sicurezza, prima tappa Opera o Rebibbia di Silvia Barocci Il Messaggero, 19 maggio 2014 Il suo rientro è previsto non prima di una decina di giorni. Ma cosa accadrà a Marcello Dell’Utri una volta messo piede in Italia con la prospettiva di dover scontare sette anni di condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa? Di certo, per l’ex senatore si apriranno le porte di un carcere: Milano o Roma, a seconda del luogo in cui atterrerà il velivolo proveniente da Beirut su cui verrà scortato dagli agenti dell’Interpol. Sceso dalla scaletta dell’aereo, sarà preso in consegna dalla polizia penitenziaria. Gli istituti di Opera o di Rebibbia, però, saranno un transito. L’assegnazione definitiva del condannato dell’Utri spetterà all’Amministrazione penitenziaria, dopo una serie di verifiche (anche sullo stato di salute) e dopo aver eventualmente chiesto un parere all’autorità giudiziaria di Palermo che lo ha tenuto sotto processo per una ventina d’anni. Un fatto è certo: l’ex fondatore di Forza Italia, pur avendo 73 anni, non potrà ottenere i domiciliari previsti dalla legge ex Cirielli del 2005, perché il reato per il quale è stato condannato è escluso dalla lista dei benefici per gli ultrasettantenni. Non solo. Tecnicamente, Dell’Utri dovrebbe finire in regime di alta sicurezza, vale a dire in una cella singola o al massimo con un altro detenuto, con il diritto a due ore d’aria al giorno. Il precedente Cuffaro Tuttavia, il concorso esterno in associazione mafiosa non implica una partecipazione piena a Cosa Nostra. E dunque - fanno notare fonti penitenziarie - non è escluso che Dell’Utri vanga assegnato a un regime più blando, di media sicurezza: di giorno potrà svolgere attività in carcere ma fuori dalla cella, dove sarà obbligato a rientrare solo di notte. Un precedente, d’altronde, già esiste. È quello dì Totò Cuffaro, condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia. L’ex governatore della Sicilia, una volta divenuta definitiva la condanna, nel 2011, si consegnò ai carabinieri. Sarebbe dovuto finire in alta sicurezza, ma i magistrati di Palermo diedero in nulla osta al regime meno restrittivo, nel carcere romano di Rebibbia. Il condannato per reati di stampo mafioso, infatti, deve essere assegnato in luoghi diversi da quelli in cui è stato commesso il delitto. Milano e Palermo, almeno sulla carta, risulterebbero "off limits" per Dell’Utri. Sempre che le condizioni di salute dell’ex senatore, in passato sottoposto ad alcuni interventi al cuore, non rendano necessario il suo trasferimento in carceri che garantiscono la presenza di centri diagnostici e terapeutici. In tal caso, rientrerebbe in gioco Milano Opera, che assieme a Parma e Catanzaro ha strutture sanitarie adeguate. Palermo: ergastolano evaso da, Pagliarelli, in due trasferte la possibile chiave della fuga www.livesicilia.it, 19 maggio 2014 Due trasferte per assistere alle udienze dei processi in cui era imputato. Due trasferte su cui si concentrano le indagini sulla fuga di Valentin Frrokaj, l’albanese evaso il 7 maggio scorso dal carcere Pagliarelli di Palermo. Di lui non c’è più traccia. Gli investigatori stanno passando al setaccio la vita carceraria di Valentin, ergastolano con un passato da mercenario nella guerra in Kosovo, e hanno scoperto due parentesi dentro le quali potrebbe nascondersi la chiave della fuga. La prima trasferta a Milano, nel carcere di Opera, dal 7 al 24 gennaio scorso. La seconda, molto più breve, dal 5 al 7 marzo a Ferrara. A Palermo Frrokaj, da agosto scorso al giorno della fuga, non ha avuto colloqui con i parenti. Dai quali ha ricevuto un paio di vaglia da cento euro ciascuno. Cifre con le quali è escluso che abbia potuto "comprare" il favore di qualcuno. Le indagini coordinate dai pubblici ministeri Caterina Malagoli e Daniele Paci avrebbero fatto finora emergere un quadro di inefficienze piuttosto che di complicità. Falle nel sistema di sorveglianza. A Pagliarelli ci sono in servizio 696 agenti di Polizia Penitenziaria, a fronte dei 765 previsti dalla pianta organica. Dei 696 circa duecento sono impegnati quasi quotidianamente nella traduzione e nel piantonamento dei detenuti durante gli spostamenti per assistere alle udienze. Spetta al personale di Pagliarelli sobbarcarsi anche l’onore dei trasferimenti da e per le carceri Ucciardone e Cavallacci di Termini Imerese. Di certo Frookaj, ha approfittato del vuoto, colposo o meno, nei controlli. La sua fuga sarebbe stata messa in atto in circa 15 minuti. Pochi, pochissimi se si considera che ha scavalcato due muri e due cancellate. Lo ha fatto servendosi di una corda fatta con federe e lenzuola e di un gancio realizzato con una sbarra di ferro, recuperata chissà dove. Frrokaj è un tipo atletico che in cella trascorreva parecchio tempo ad allenarsi. Sicuramente aveva studiato ogni movimento attorno a sé. Nel frattempo si era comportato in maniera impeccabile tanto da meritarsi un regime detentivo meno rigido del 14 bis a cui era sottoposto fino a poco tempo prima della fuga. Il primo risultato era stato il passeggio in un locale all’aperto e senza copertura. La vecchia ala in cui aveva trascorso per mesi l’ora d’aria, invece, era una gabbia. Se dentro il penitenziario Frrokaj potrebbe avere fatto tutto da solo, non è escluso che all’esterno qualcuno lo abbia aiutato. Ecco perché ci si concentra anche sulle due trasferte a Milano e Ferrara. E lì che avrebbe potuto imbastire i contatti decisivi per mettere su la rete di protezione? Spetta agli inquirenti trovare le risposte. Napoli: emergenza carceri, questa mattina presidio dei Radicali davanti a Secondigliano Roma, 19 maggio 2014 Durante la manifestazione il senatore Luigi Campagna effettuerà un sopralluogo nel penitenziario. Questa mattina alle ore 10 l’associazione radicale "Per la Grande Napoli" terrà una manifestazione presso il penitenziario di Secondigliano con l’obiettivo di rilanciare la lotta per l’amnistia, l’indulto e la riforma della giustizia e portare alla conoscenza della opinione pubblica la drammatica la situazione degli istituti di pena campani. Contemporaneamente, all’interno dell’istituto si terrà una visita ispettiva, condotta dal senatore. Luigi Compagna che sarà accompagnato da Luigi Mazzotta membro della giunta di segreteria nazionale di Radicali Italiani. All’uscita (prevista per le ore 12.30) la delegazione terrà una Conferenza Stampa. Durante la manifestazione saranno raccolte segnalazioni in merito ai detenuti ammalati. Intanto a fine maggio arriveranno le salate multe da parte dell’Unione Europea per le condizioni in cui versano le carceri italiane. Sovraffollamento, condizioni igienico sanitarie pessime, negazione dei diritti per i detenuti sono alcune delle motivazioni delle multe che l’Italia sarà, da qui a breve, condannata a pagare. La manifestazione di questa mattina segue quella fatta la scorsa settimana sempre da una delegazione di militanti dell’associazione Radicale Per la Grande Napoli, insieme ai parenti dei detenuti che si è riunita davanti alla Casa Circondariale di Poggioreale per dare vita ad un presidio non violento, voluto per continuare le lotte in favore dell’amnistia e per il ripristino della legalità all’interno delle carceri per evitare i provvedimenti disciplinari dell’Europa e garantire livelli migliori di vita ai detenuti. "La manifestazione - spiega Luigi Mazzotta, segretario dell’Associazione Radicale Per la Grande Napoli - è stata voluta soprattutto per raccogliere gli appelli dei detenuti ammalati, che sono rinchiusi in delle catacombe, senza l’adeguata assistenza medico sanitaria". Roma: tre agenti penitenziari a processo per il pestaggio di un detenuto romeno di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 19 maggio 2014 Secondo l’accusa, l’uomo fu immobilizzato in cella e colpito con una sbarra di ferro, calci e pugni. Bastonato alla testa con una spranga in ferro, colpito a calci, schiaffi e pugni fino a fratturargli mascella e zigomo. Sarebbe questo il benvenuto dato a un detenuto romeno, Romica Ceausu, nel carcere di Regina Coeli da parte di tre agenti della penitenziaria la notte del 28 settembre 2007. Lo ritiene il procuratore aggiunto, Francesco Caporale, che ha ottenuto l’imputazione per concorso in lesioni personali per i tre agenti difesi di fiducia dagli avvocati Domenico Naccari e Stefano Fusco. Il giovane romeno era stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona e violenza sessuale. E poi condannato a 23 anni di carcere, considerato il capo della banda ritenuta responsabile delle aggressioni alle coppiette nel quartiere di Tor Vergata. Quel che accadde la notte del 28 settembre 2007, secondo la procura, fu un vero pestaggio. Con uno dei tre agenti, scrive il procuratore aggiunto Francesco Caporale nel capo d’imputazione, che "percosse il detenuto alla testa con un tubo in ferro" mentre gli altri due poliziotti lo colpivano "con calci, schiaffi e pugni". Catanzaro: oggi il convegno "La scommessa della rieducazione: Recluso o pRecluso?" www.cmnews.it, 19 maggio 2014, 19 maggio 2014 L’Università degli Studi "Magna Graecia" di Catanzaro si confronta sul tema delle carceri in un incontro seminariale che si terrà lunedì 19 maggio alle ore 15.00 presso l’aula Salvatore Venuta dell’edificio di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali di Catanzaro. Continua quindi il ciclo di tavole rotonde "Justice & Legality Umg", giunto al suo ottavo appuntamento, a conferma della vivacità e delle enormi potenzialità presenti all’interno dell’Università. L’iniziativa infatti nasce dal basso, dall’impulso di alcuni rappresentanti della Consulta degli studenti e del Presidente Emerito della Fuci - Sebastian Ciancio, incontrando il pieno sostegno del Magnifico Rettore il Prof. Aldo Quattrone e del Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche il Prof. Luigi Ventura. La studentessa Merilisa Del Giudice sarà la promotrice e moderatrice della nuova tavola rotonda dal titolo "La scommessa della rieducazione: Recluso o pRrecluso?" e che vedrà gli interventi di qualificati relatori come il Prof. Andrea Lollo (docente di giustizia costituzionale Umg), il Prof. Andrea Porciello (docente di filosofia del diritto Umg), la dott.ssa Angela Paravati (direttrice della casa circondariale di Catanzaro "U. Caridi") e il Notaio Marcella Clara Reni, Presidente PFI (Prison Fellowship Italia Onlus), associazione con sede a Roma che si occupa di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie, federata all’organizzazione internazionale "Prison Fellowship International" con sede a Washington e presente in 135 Paesi distribuiti nei cinque continenti. Al centro della discussione di questa nuova tappa del seminario il problema del sovraffollamento delle carceri, un vero e proprio problema sociale sul quale interrogarsi a fondo per giungere a soluzioni in grado di favorire il reinserimento nella società attraverso un’incisiva rieducazione alla legalità del condannato. L’incontro sarà introdotto da Damiano Carchedi (coordinatore della Consulta degli studenti area giuridica Umg). La frequenza di questo ciclo di seminari conferirà agli studenti crediti formativi utili al percorso di studi. Cosenza: visita delegazione turca nell’ambito programma per il reinserimento di detenuti Gazzetta del Sud, 19 maggio 2014 È a Cosenza la delegazione turca che partecipa al programma per il reinserimento di detenuti che vede come partner la cooperativa Dignità del Lavoro. La cooperativa sociale Dignità del Lavoro di Cosenza è partner del progetto europeo denominato "Vocational Training of arrested and convicteds in Europe, Rehabilitation programs in prisons, Analysis of the classification systems", finanziato nell’ambito del programma Leonardo Da Vinci e relativo al tema della formazione professionale dei detenuti. Il progetto ha come Capofila il Ministero della Giustizia della Turchia. Nell’ambito di tale progetto, la cooperativa sta ospitando la visita di una delegazione turca, composta da tre direttori di carcere, un ispettore capo, un magistrato, un esperto di servizi sociali, un rappresentante di Ngo ed un docente universitario. La visita, della durata di una settimana, ha lo scopo di favorire la conoscenza del sistema penitenziario italiano, con particolare riguardo per i processi di rieducazione che utilizzano la formazione ed il lavoro. Il Progetto nasce dalla presa d’atto che in Turchia molti detenuti sono giovani e disoccupati e che spesso il crimine è dovuto a un basso livello di istruzione e alla carenza di formazione professionale. Diventa prioritario quindi l’impegno per far sì che la detenzione sia finalizzata ad un "riadattamento" dei detenuti alla società. La pena necessita di individualizzazione e socializzazione, possibili solo attraverso formazione professionale, programmi di riabilitazione, con trattamenti individualizzati, che considerino personalità, percorsi, esperienze passate. Domattina alle 9.00, la delegazione turca effettuerà una visita al carcere di Cosenza; alle ore 12.30 sarà ricevuta presso il Comune di Cosenza per un benvenuto istituzionale. Nel pomeriggio presso il Liceo Classico "B. Telesio" il Convegno "I reati ambientali", in partenariato con la Sezione di Cosenza della Fidapa, con il contributo scientifico del Geologo Carlo Tansi, introdotto dalla presidente della Fidapa Silvana Gallucci, il presidente di Dignità del Lavoro Giovanni Serra, e il Dirigente Scolastico Antonio Iaconianni. Sulmona (Aq): il Vescovo Angelo Spina in carcere per la cresima di 20 detenuti di Maria Trozzi www.quintastrada.wordpress.com, 19 maggio 2014 Giornata davvero particolare, quella del 25 maggio, per una ventina di reclusi del carcere di Via Lamaccio a Sulmona (Aq). Il vescovo Angelo Spina amministrerà il sacramento della cresima. Pochissimi ospiti della struttura non sono soggetti al divieto perpetuo dai pubblici uffici così, mentre una manciata di reclusi (3) voterà per le elezioni in valle Peligna, sempre domenica prossima, all’interno della Casa di reclusione si celebrerà il rito della Confermazione per molti detenuti ad alta sicurezza che così riceveranno la grazia del sacramento della cresima direttamente da Monsignor Spina. È a dir poco eccezionale il numero di cresimandi registrato dentro le mura del carcere della valle Peligna che s’impone anche per questo record, con una cerimonia che vedrà in istituto alcuni familiari di coloro che riceveranno il sacramento. Un evento straordinario ed unico soprattutto se si fa riferimento all’estrazione criminale di chi riceverà lo Spirito santo. Parliamo di un fornito drappello di soldati di Cristo forgiati dalle mani di un vero e proprio artigiano della fede, il Cappellano del carcere, Padre Sante Inselvini, che con enorme dedizione ed appassionato lavoro ha saputo amministrare la catechesi ai detenuti guidandoli in un cammino di fede da primato per 20 persone che, nel corso della loro esistenza, si sono macchiate dei più gravi delitti contemplati dal codice penale. Loro, gli agenti del carcere, avranno un bel da fare per garantire, domenica prossima, ordine e sicurezza nell’istituto di detenzione. La polizia penitenziaria peligna è abituata a gestire eventi di grande portata nel penitenziario di massima sicurezza, tra i più grandi d’Italia, e gli agenti s’impegneranno, anche in questo caso, a garantire la conferma della grazia del Battesimo e la fortificazione ai valori cristiani per chi sente davvero il bisogno di cambiare. Brasile: liberati gli ostaggi, erano trattenuti da sabato dai detenuti di Aracaju in rivolta Ansa, 19 maggio 2014 Le persone prese in ostaggio dai detenuti di una prigione di massima sicurezza a Aracaju, nello Stato di Sergipe (nordest del Brasile) sono state tutte liberate dopo una negoziazione con i prigionieri, durante la quale si è appreso che in realtà erano 129, e non 122 come si era informato in un primo momento. Solo due delle quattro guardie catturate durante l’ammutinamento sono rimaste ferite, anche se non gravemente, durante l’incidente, che è durato poco meno di 24 ore: i restanti ostaggi -125 famigliari di detenuti che si trovavano all’interno dello stabilimento in visita, tra i quali 15 bambini- sono usciti illesi dal carcere. Secondo fonti della sicurezza citate dai media locali, in base all’accordo definito per liberare gli ostaggi un gruppo di detenuti nel padiglione dove è scoppiata la rivolta -dove si trovano 123 dei 479 prigionieri presenti nel carcere- saranno trasferiti verso un’altra località. Il responsabile della polizia militare di Sergipe, Mauricio Iunes, ha detto alla stampa che il numero e nomi dei prigionieri trasferiti non saranno divulgati "per motivi di sicurezza".