Giustizia: ripensare l’edilizia penitenziaria… per ripensare la reclusione di Alessandro De Rossi L’Opinione, 14 maggio 2014 Quando parliamo di "Giustizia" non dimentichiamo che essa si esercita (anche) all’interno di strutture edilizie che si chiamano carceri. A seconda di come queste sono costruite, gestite e mantenute verifichiamo nello stesso tempo la qualità e l’efficienza del servizio-giustizia. Non tutti sanno che l’attuale patrimonio edilizio penitenziario italiano è costituito da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 e il 1500 (praticamente tra il Medioevo e il Rinascimento!); da un 60% costruito tra il 1600 e il 1800; e solo il rimanente 20% è stato realizzato successivamente. Questi dati aprono scenari inquietanti se consideriamo anche il "valore" storico di questi edifici, la loro qualità architettonico-ambientale e la loro effettiva, quanto tragicamente bassa corrispondenza funzionale a quelle che dovrebbero essere le finalità di una pena rispettosa dei diritti umani e conforme al dettato costituzionale che, al terzo comma dell’art. 27, fissa il principio di umanizzazione della pena: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". La Costituzione con questo articolo ha inteso bandire ogni trattamento disumano e crudele che non sia inscindibilmente connesso alla restrizione della libertà personale. Edilizia penitenziaria dunque: manufatti spesso di qualità, abbandonati a fronte di un inevitabile e progressivo degrado, assolutamente inadatti ad ospitare la funzione penitenziaria ad essi attribuita nel tempo passato. Quasi l’ottanta per cento di queste costruzioni risale a edifici realizzati oltre duecento anni fa. Castelli medioevali trasformati in penitenziari, conventi ed antichi edifici, spesso presenti nei centri storici delle nostre città, forzatamente destinati alla detenzione; complessi edilizi presenti su molti dei territori delle nostre isole più belle destinati ad avvilire, con la loro funzione inadatta, ambienti naturalistici di grandissimo pregio. A parte l’enorme costo che comporta la manutenzione di questi edifici, lo spreco ambientale e la difficoltà di un reale collegamento funzionale col territorio, sussiste di fatto una strutturale incompatibilità con le nuove concezioni della funzione e con la finalità della pena. Funzione e finalità che, alla luce della normativa vigente, nel rispetto dei diritti dell’individuo e delle esigenze di un corretto recupero riabilitativo del detenuto, debbono trovare quelle attrezzature, spazi, ambienti e dotazioni che consentano a chi è detenuto un’effettiva reintegrazione, un miglioramento comportamentale e, se del caso, una concreta occasione per imparare un lavoro. Nonostante i ripetuti appelli del Presidente Giorgio Napolitano, le sanzioni della Corte Europea e le tante proteste che provengono da quella parte della società più sensibile, emerge con tutta chiarezza l’incapacità di saper rispondere con criteri innovativi alla domanda di nuovi modelli funzionali nella concezione del carcere. Questa incapacità è il prodotto di un intricato complesso di competenze, di poteri consolidati, di inadeguatezze culturali di saper compiere scelte innovative anche in questo campo. Si preferisce il più comodo mantenimento dello status quo con ciò consolidando, oltre gli altissimi costi umani per le condizioni di rassegnazione in ambienti non idonei per i detenuti, anche pesanti oneri destinati alla manutenzione per la quotidiana gestione dell’impianto carcerario, con bassissimi rendimenti funzionali in termini di qualità. Rinunciando irresponsabilmente alla sicurezza per coloro che scontano la pena, da un lato, e per coloro che lavorano all’interno delle carceri, dall’altro. Si pensi ad esempio al gravissimo problema delle misure antincendio, collegato alla mancanza di ambienti protetti o alle scale di sicurezza; si pensi al fattore della funzionalità destinata alla componente impiantistica, molto carente quando se non addirittura inesistente. Si pensi ad esempio all’uso irresponsabile di bombolette a gas usate nelle celle dai detenuti per preparare cibi o talvolta per inalare. Tali problematiche di cui poco o nulla si parla, perché spesso nella questione dell’edilizia carceraria all’interno del Dap controllore e controllato coincidono anche per ciò che riguarda il rispetto della normativa antincendio, interessano non solo coloro che sono nelle carceri per scontare la pena ma interessano molto da vicino anche tutte quelle figure che per motivi di lavoro vivono nelle carceri condividendo disagi, pericoli, rischi e responsabilità di altissimo livello. Interventi determinati in una nuova cultura della pianificazione, se non scoraggiati dalla burocrazia, se ben governate da un Centro decisore e da efficienti e qualificati apparati dello Stato, eventualmente sostenuti dall’intervento privato nei modi e nelle forme tutte da studiare, possono rappresentare oggi una grande opportunità per la futura soluzione strategica del problema penitenziario, del sovraffollamento, della stessa qualità degli edifici e degli ambienti destinati alla detenzione. La complessità delle problematica destinata alla costruzione di nuovi moderni istituti, unita allo stato attuale del patrimonio penitenziario esistente e alle scelte che riguardano in generale il "piano carceri", evidenziano la necessità di organizzare un Centro di coordinamento (possibilmente) interdisciplinare in grado di sovrintendere, pianificare, modulare e indirizzare secondo il contributo sistemico delle diverse specifiche competenze, tutti gli interventi all’interno di un quadro unitario di riferimento. L’urgenza di soluzioni per l’oggi non deve escludere programmi e scelte più coraggiose per il domani. Il compito del "Soccorso azzurro" per la detenzione, problematica della quale da molti anni mi occupo come responsabile del settore per la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, intende svolgere in questo campo il doppio ruolo di evidenza critica e di contributo di idee per soluzioni alle quali l’Amministrazione penitenziaria può guardare con interesse. Mai dimenticando in tale impegno che se la detenzione ha uno scopo deve sussistere il principio che la vera cura per la riabilitazione è il lavoro. Ci auguriamo che le prossime misure che tratteranno la sicurezza e il recupero del detenuto diano spazio a tutta una serie di provvedimenti finalizzati a trovare situazioni di lavoro dignitose alle persone in carcere. Non per un fatto di buonismo o per un malcelato rispetto al politicamente corretto. No, proprio perché va sempre più aumentando la domanda di sicurezza dentro e fuori le carceri, per usare meglio le poche risorse a disposizione, occorrerà trovare effettive opportunità di lavoro alla persona detenuta che sia disposta a mettersi in gioco. Solo questo può garantire la migliore sicurezza permanente che lo Stato possa dare. Ormai è dimostrato che ogniqualvolta si è riusciti a trovare delle risposte lavorative serie nei confronti delle persone detenute, esse non sono più tornate in carcere. Concludo domandando quanto costerà allo Stato e alla sicurezza sociale tenere in carcere una persona, per poi metterla fuori in condizioni peggiori di quando è entrata. Noi saremo vigili attenti sospingendo lo Stato a rispettare se stesso e la propria Carta costituzionale. Giustizia: Orlando; presto porterò a Strasburgo banca-dati sui detenuti tossicodipendenti Ansa, 14 maggio 2014 "Non abbiamo un quadro chiaro di quanti siano esattamente in Italia i detenuti ammessi i programmi di recupero per tossicodipendenti: anche per questo ho chiesto al Dap di stilare una banca dati che dia conto dell’insieme di questi progetti e con quali interlocutori si sono realizzati". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel corso della conferenza stampa per la firma del protocollo tra la Regione Umbria, il ministero, l’Anci e il Tribunale di sorveglianza di Perugia per sviluppare percorsi di collaborazione nelle carceri che migliorino il sistema detentivo. Riguardo ai tempi, Orlando ha spiegato che "la banca dati è in corso di elaborazione e dovrebbe essere pronta entro la fine di maggio, perché sono dati che vorrei proporre a Strasburgo" prima della scadenza del termine che la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha imposto all’Italia per affrontare l’emergenza carceri. L’annessione a programmi di recupero per i tossicodipendenti passa sempre per il via libera del magistrato di sorveglianza. "Ma non sempre il provvedimento del magistrato di sorveglianza è comunicato all’amministrazione - ha specificato il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, Giovanni Melillo - e questo spiega perché il numero complessivo delle persone ammesse è spesso sottratto alla possibilità di una ricognizione". Allo stesso tempo, capire quanti sono i soggetti che usufruiscono di tali misure è "un salto di qualità" secondo il ministro Orlando, che ha quindi chiesto una sorta di mappa in tal senso. Per quanto riguarda più in generale i soggetti ammessi a misure alternative, attualmente sono 31mila in base ai dati forniti oggi. Ma non sempre si tratta di effettive alternative al carcere, perché in alcuni casi viene sostituita la pena pecuniaria. Rispetto al totale della popolazione carceraria in Italia - attualmente poco meno di 60mila - la quota dei detenuti per reati connessi alla droga è pari a circa un terzo. Giustizia: il ministro Orlando dimostra di non aver compreso portata della sentenza Cedu di Rita Bernardini www.radicali.it, 14 maggio 2014 Con le dichiarazioni dell’altro ieri, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, dimostra ancora una volta o di non aver compreso la portata della sentenza pilota della Corte Edu e del messaggio alle Camere del Presidente Giorgio Napolitano, oppure, di voler insistere nella grottesca parte del "sordo del compare" che "ci sente quando gli pare". Dire - come ha fatto il Ministro della Giustizia - di aver risposto a quasi tutti gli "appunti" mossi da Strasburgo significa non aver compreso (o di far finta di non comprendere) che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza pilota dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani ed altri) ha condannato l’Italia per "trattamenti inumani e degradanti", cioè per violazione dell’art. 3 della Cedu che va sotto il titolo di "tortura". Corte che ha dato all’Italia l’ultimatum del 28 maggio prossimo per porre fine a questi reati gravissimi da Stato criminale. Reati fra i peggiori, non "appunti"! Quando poi il Guardasigilli afferma di aver "ridotto la tensione dei numeri" e che "si sono quasi azzerate le situazioni di detenuti con spazi al di sotto dei 3 metri quadri", ci fa rabbrividire in primo luogo perché dietro i numeri di cui parla ci sono esseri umani in carne e ossa e, in secondo luogo, perché la Corte di Strasburgo aveva ben precisato che i trattamenti disumani e degradanti dovevano avere come parametri per essere valutati non solo i metri quadrati (il cui metodo di misura da parte del Ministero lascia ancora molto a desiderare) ma anche - e soprattutto - la possibilità di curarsi dalle malattie molte delle quali si contraggono proprio in carcere, l’igiene, l’accesso alla luce e all’aria naturali, il trattamento rieducativo. Non farebbe male al Ministro Orlando, credo, ascoltare, con un pò di umiltà, quanto cercano di dire i radicali - in primo luogo Marco Pannella - con il loro lungo Satyagraha. Giustizia: con messa alla prova per il falso in bilancio "sospesi" i reati economici e fiscali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2014 Bollarlo come colpo di spugna sarebbe azzardato. Di certo è una via d’uscita che mette d’accordo i colpevoli e lo Stato, quella prevista dalla legge 67/2014, in vigore da sabato prossimo: per un nutrito elenco di reati (a fianco gli esempi più significativi per quanto riguarda la criminalità dei "colletti bianchi" ) scatterà la possibilità della messa alla prova. Sulla falsariga di quanto previsto nel caso dei minori, ma con caratteristiche peculiari, per i reati sanzionati con un massimo di 4 anni di detenzione, è prevista la chance di sospendere il processo e avviare un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti finiscono sia l’omessa dichiarazione sia la truffa, sia il falso in bilancio sia il furto. Con l’avvertenza che la sospensione può essere concessa solo una volta e ne sono esclusi comunque i delinquenti abituali. A dovere presentare la richiesta è sempre la parte interessata. Che potrà farlo sia durante il dibattimento, sino al momento della formulazione delle conclusioni, sia durante la fase delle indagini preliminari. Ma in quest’ultimo caso è previsto l’intervento del pubblico ministero per un parere da rendere entro un arco di 5 giorni. Insieme alla richiesta va presentato un programma concordato con l’ufficio dell’esecuzione. La messa alla prova prevede la prestazione di condotte indirizzate all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, e, se possibile, al risarcimento del danno. L’imputato è affidato al servizio sociale, per svolgere un progetto che può prevedere anche attività di volontariato di rilievo sociale. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita di durata non inferiore a 10 giorni, anche non continuativi, a favore della collettività. La prestazione è svolta con modalità che non devono pregiudicare le esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. Il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento, decide con ordinanza. Può farlo nella medesima udienza, sentite le parti e la per-sona offesa (che non ha però il potere di bloccare la concessione del beneficio), o in una specifica udienza in camera di consiglio, della cui fissazione è dato contestuale avviso alle parti e alla persona offesa. Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell’imputato. La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice considera idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. A tal fine, il giudice valuta anche che il domicilio indicato nel programma dell’imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato. Durante il periodo di sospensione, per scongiurare condotte dilatorie, è bloccato anche il decorso della prescrizione. Il beneficio è revocato nel caso di grave e ripetuta violazione del programma di trattamento o dei compiti previsti o quando, nel corso del periodo di messa alla prova, l’interessato commette un nuovo delitto non colposo oppure un reato dello stesso tipo per il quale si sta procedendo. Restano sanzioni e saldo del debito La possibile applicazione anche a taluni reati tributari della sospensione del processo con messa alla prova, può destare perplessità, almeno in prima battuta, per la peculiarità di tali illeciti. La norma, facendo riferimento alle fattispecie sanzionate con pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, li include certamente (si pensi a dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, omesso versamento di ritenute o di Iva, indebita compensazione, sottrazione fraudolenta non aggravata). Occorrerà però verificare in concreto se la misura, una volta richiesta, sarà concessa dal giudice: è una facoltà sia del reo (che può anche non chiederla), sia del giudice (che può non concederla) e il relativo provvedimento è soggetto ad impugnazione. È previsto poi che l’esito positivo della messa alla prova non pregiudichi l’applicazione delle sanzioni amministrative. Per i reati tributari ciò si dovrebbe tradurre nella possibilità di sanzioni accessorie (articolo 12 del Dlgs 74/00), come interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione e interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria. È necessario anche prestare condotte volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. È verosimile che per i delitti tributari, tra le condizioni poste dal giudice, vi sarà il pagamento del debito all’erario. Sul piano pratico occorrerà, a questo proposito, verificare se basterà la concessione di una rateazione piuttosto che il pagamento immediato dell’intera somma. Quest’ultima soluzione appare la più probabile, date le varie pronunce di legittimità che, sull’applicazione dell’attenuante relativa all’estinzione del debito tributario (articolo 13 del Dlgs 74/00), hanno sempre affermato la necessità di un’integrale estinzione del debito, non essendo sufficiente l’avvio del piano di rateazione. Da segnalare, infine, che la messa alla prova ricorre prima della condanna dell’imputato, quando ancora la sua colpevolezza non è stata accertata e, se si conclude favorevolmente, estingue il reato. Non si tratta, dunque, di un modo di scontare la pena una volta intervenuta la sentenza definitiva, ma di una sorta di "rieducazione" preventiva che fa evitare il processo (e la condanna). Va da sé che la richiesta dell’imputato terrà conto della valutazione del materiale probatorio raccolto dall’accusa e, quindi, della possibile condanna. In assenza di tale probabilità, è verosimile che ben difficilmente si avanzerà una richiesta dimessa alla prova, preferendo affrontare il processo. Giustizia: la Corte Europea impone a Google di rispettare il diritto all’oblio di Luigi Offeddu Corriere della Sera, 14 maggio 2014 Qualcuno brinderà alla "privacy", qualcun altro denuncerà un presunto complotto per imbavagliare Internet. Ma sia come sia, da oggi le cose stanno così: se il piccolo Davide europeo non vuole lasciare le sue orme nella grande arena di Internet, il Golia (o i Golia) che la governa deve obbedirgli, e cancellare quelle orme, dovunque esse si siano disperse. Volendo esagerare un po’ e tradurre tutto in termini di mito, è questo il senso della sentenza emessa ieri dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nei confronti di Google. I magistrati hanno dato ragione a un avvocato spagnolo che, appunto, chiedeva di "scomparire" dal web. E hanno sentenziato: sia Google, sia gli altri motori di ricerca sul web devono rispettare il "diritto all’oblio" di qualunque cittadino, che non voglia più trovare sul web questo o quel segno della sua biografia, della sua opera, dei suoi contatti sociali o delle sue attività economiche (e magari dei suoi reati), insomma di qualunque cosa anche risalente a molti anni prima, che possa parlare agli altri di lui. Se lo stesso cittadino lo richiederà espressamente, i motori di ricerca dovranno dunque intervenire per fare tabula rasa sulla propria rete o premere sulle altre dove quel pezzetto di privacy sia eventualmente approdato, anche solo per un casuale contatto e senza alcuna responsabilità del motore originario. La sentenza vale ovviamente solo per i cittadini Ue: ma siccome i "Davide" d’Europa a spasso sul web sono potenzialmente 500 milioni, se solo la metà di essi protestasse richiedendo l’attivazione delle costose procedure di ricerca e cancellazione dei dati, i bilanci di Google e colleghi ne avrebbero probabilmente a soffrire. Ecco infatti le prime reazioni da un portavoce del colosso: "Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che diverga così recisamente dall’opinione espressa dall’avvocato generale Ue. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni". Per l’Ue è comunque una sentenza che farà storia. Tutto ha avuto inizio da quando l’avvocato spagnolo Mario Costeja, nel 2009, cercando sulla rete il suo nome, lo ha trovato sul sito di un giornale quotidiano della Catalogna, che lo associava a un elenco di debiti, nel frattempo cancellati. Nonostante le proteste dell’avvocato, sia Google sia il giornale rifiutarono di eliminare quei dati. Seguì una lunga battaglia giudiziaria. Conclusa con quella che oggi Viviane Reding, Commissaria Ue alla giustizia, chiama una vittoria: "Ora le società non potranno più nascondersi dietro i loro server in California o altrove". E il diritto all’oblio non sarà più uno strano animale a rischio di estinzione sul web. Giustizia: che succede dopo la sentenza della Corte Europea sul "diritto all’oblio"? Il Post, 14 maggio 2014 Le implicazioni e complicazioni, dicono i primi commenti alla sentenza della Corte europea, sono assai maggiori di quel che sembra ai sostenitori del diritto stesso. La decisione della Corte di Giustizia Europea sul cosiddetto "diritto all’oblio" e i motori di ricerca sta raccogliendo molte reazioni e commenti in tutto il mondo e molti dubbi e preoccupazioni, soprattutto da parte di chi si occupa di diritto della comunicazione, per le ricadute pratiche che potrebbe avere su come è usata Internet e su come funziona in Europa. In breve, la Corte ha stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di chiedere ai motori di ricerca di eliminare dalle loro pagine dei risultati i link che rimandano verso "contenuti non più rilevanti" che li riguardano. La decisione, come è spiegato più estesamente qui, è nata da una causa sulla privacy in Spagna contro Google, il più grande motore di ricerca al mondo e il più utilizzato in buona parte dell’Unione. In una analisi pubblicata sul Financial Times, Alex Barker e James Fontanella-Khan spiegano che la sentenza della Corte non può essere appellata e sancisce un principio che potrà essere ripreso dai tribunali dei singoli stati membri, sia con difficoltà di attuazione che con implicazioni potenzialmente enormi e non solo per Google. I motori di ricerca dovranno ripensare il modo in cui gestiscono i link e rimandano verso i contenuti dei siti che indicizzano. Di fatto, la sentenza rende Google e gli altri motori di ricerca responsabili per la visibilità dei contenuti che circolano online, anche se li hanno solo aggregati per inserirli nei loro indici e nelle loro pagine dei risultati. Se riceveranno da singoli cittadini la richiesta di rimuovere i link verso particolari contenuti ritenuti non più rilevanti, dovranno farlo, anche se i siti che concretamente ospitano quei contenuti potranno continuare a mantenerli online. Semplificando, la Corte ha stabilito che in particolari circostanze alcuni contenuti non potranno essere più linkati sui motori di ricerca, anche se questi contenuti sono legittimati a esistere. La sentenza è abbastanza generica e ne consegue che moltissime cose possano rientrare sotto la estesa definizione del "non più rilevante": link verso fotografie della propria adolescenza, commenti ingiuriosi sui social network, allusioni maliziose, provvedimenti giudiziari ormai scontati, documenti aziendali sulle assunzioni e così via. A valutarlo, stando alla sentenza, è l’utente stesso che può chiedere la "deindicizzazione" di quei contenuti, e se il motore di ricerca non acconsente può rivolgersi a una corte nazionale chiedendone il giudizio a partire dalla sentenza europea di oggi. Il Financial Times si chiede se sarà mai possibile mettere in pratica quanto deciso dalla Corte, e se tutto questo non porterà a una serie infinita di richieste e ricorsi da parte di singoli cittadini, che vogliono rendere impossibili da trovare cose che ritengono di occultare del loro passato. A tutto questo si aggiunge un secondo problema, forse ancora più grande e di natura etica. Per come è fatta la sentenza, di fronte a eventuali richieste Google e gli altri motori di ricerca saranno messi nella posizione di decidere che cosa sia di pubblico interesse ed ancora rilevante e cosa non lo sia. La Corte ha stabilito che nel caso in cui siano coinvolti "personaggi pubblici", i motori di ricerca abbiano la facoltà di opporsi alla richiesta di rimozione e di rinviare il caso al tribunale nazionale competente o una autorità per la tutela della privacy. Ma anche in questo caso ci sarebbe comunque un elemento di discrezionalità: Google, o un altro motore di ricerca come Bing o Yahoo, potrebbe decidere di opporsi ad alcune richieste e non ad altre, creando di fatto delle disparità di trattamento. Lasciando da parte i personaggi pubblici (e la confusione generata da quali siano le informazioni "pubbliche" sui personaggi pubblici), ci potrebbero essere problemi anche per quanto riguarda i singoli utenti privati. In alcuni casi rendere meno accessibili le informazioni "negative" sul passato di una persona può rappresentare un rischio per coloro che ci abbiano a che fare: di fatto, già nella vita reale regoliamo le nostre scelte e le nostre decisioni nei confronti degli altri a partire dalle informazioni che abbiamo su di loro, come è normale. Per fare un esempio, l’informazione su una condanna per atti violenti deve essere nascosta o resa accessibile a chi abbia successivi rapporti con la persona condannata? David Meyer di GigaOm osserva inoltre che la sentenza della Corte dimostra di essere poco lungimirante, perché fotografa la situazione per come è adesso, in cui fare una ricerca online equivale sostanzialmente a usare un solo motore di ricerca, Google, che detiene circa il 90 per cento del mercato europeo. Impedire a Google di linkare un determinato contenuto "non più rilevante" può avere senso, perché è sufficiente per rendere praticamente introvabile quel contenuto, ma in un mercato più aperto che cosa accadrebbe? Se in futuro ci saranno più concorrenti alla pari, si chiede Meyer, chi vorrà fare rimuovere determinati link dalle pagine dei risultati dovrà presentare una richiesta a ogni singolo motore di ricerca? E che succederà nel caso in cui in futuro ci dovesse essere un motore di ricerca che funziona in modo distribuito e non centralizzato come fa Google oggi? Chi diventerebbe il referente? Ce ne dovrebbe essere uno per ogni paese in cui c’è il motore di ricerca? E che senso ha comunque eliminare i link nelle pagine dei risultati se i contenuti in questione possono comunque rimanere online? Il risultato è che – stando al caso giudicato dalla Corte – se cercheremo su Google il nome della persona che ha fatto ricorso non troveremo elencata quell’informazione; se cercheremo sul sito del giornale il suo stesso nome, sì. Per non dire della zona grigia in cui si trovano proprio i motori di ricerca interni dei siti: l’utente spagnolo può chiedere che l’articolo che lo riguarda non compaia nemmeno nei risultati delle ricerche fatte sul sito che ospita l’articolo? Nelle prossime settimane Google e gli altri motori di ricerca dovranno trovare modi e vie legali per affrontare richieste analoghe a quelle che hanno portato alla sentenza della Corte di Giustizia Europea. Si dovranno inoltre confrontare con le decisioni dei singoli tribunali nazionali, che si muoveranno sulle basi della sentenza e senza un quadro legislativo ancora completo e coerente nell’Unione Europea. Nonostante l’entusiasmo di alcuni esponenti europei, che da tempo sostengono la necessità di normare il cosiddetto "diritto all’oblio", tra i principali osservatori ed esperti di diritto della comunicazione c’è una cospicua preoccupazione per le conseguenze che potrà avere la sentenza sulla rimozione dei link e le complicazioni della sua attuazione. Giustizia: caso Dell’Utri; il procuratore generale libanese dà il via libera all’estradizione di Cristiana Mangani Il Messaggero, 14 maggio 2014 Il primo sì all’estradizione di Marcello Dell’Utri è arrivato ieri. Ci ha impiegato pochissimo tempo il procuratore generale presso la Cassazione, Samir Hammud, a decidere che la richiesta di rimpatrio dell’ex senatore, inviata la scorsa settimana dal guardasigilli, aveva le carte in regola per essere autorizzata. A questo punto, la palla passa al potere esecutivo. La decisione che contiene le raccomandazioni della magistratura verrà ora vagliata dal ministero della Giustizia libanese che la presenterà in Consiglio dei ministri già venerdì prossimo. Qualora, poi, la richiesta sarà accettata, verrà preparato un decreto che dovrà essere firmato anche dal primo ministro e dal presidente della Repubblica. Insomma, il rientro del fondatore di Publitalia sembra avvicinarsi e potrebbe avvenire già la prossima settimana. La giornata di ieri era cominciata all’insegna della polemica, anche se in serata i toni si erano già ammorbiditi. Il giudice Ahmad al Ayubi, portavoce del ministero della Giustizia, sembrava voler replicare con le sue dichiarazioni a quanto detto nei giorni scorsi dal ministro Orlando, il quale auspicava "tempestività nella decisione da parte delle autorità libanesi". "Il Libano è uno Stato sovrano - ha ribattuto al Ayubi - abbiamo le nostre leggi e le istituzioni libanesi lavorano secondo le esigenze e gli approcci previsti dalla legge libanese. Naturalmente rispettiamo le leggi italiane, la sovranità italiana, le istituzioni italiane". E ha anche aggiunto: "Per noi l’Italia è sempre stata considerata un paese amico. La decisione sull’estradizione verrà adottata rapidamente, nei tempi sufficienti per studiare il dossier e formulare una convinzione giuridica in merito alla vicenda. I termini saranno il più brevi possibile". Da via Arenula, nel frattempo, anche il ministro Orlando aveva spiegato di essere stato frainteso. "Ho sempre riconosciuto l’importanza e l’autonomia della magistratura libanese. Non ho mai parlato di pressioni, e con la frase atteggiamento sospetto intendevo rivolgermi a quello tenuto da Marcello Dell’Utri in questa vicenda". La decisione della procura generale è arrivata un giorno dopo l’interrogatorio dell’ex senatore da parte della sostituta procuratrice Nada al Asmar. In teoria Marcello Dell’Utri potrebbe lasciare la clinica dove si trova agli arresti a strettissimo giro di posta. "Nulla lo impedisce - ha confermato ancora il giudice al Ayubi - anche se non ho conoscenze in merito". Giustizia: Affidamento ai Servizi Sociali e pappagallo, la seconda vita della vedova Gucci di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 14 maggio 2014 Dice di sentirsi "giovane". Che questi sedici anni sono "volati". Sedici anni da quel 31 gennaio 1997 quando Patrizia Reggiani venne arrestata dai poliziotti della Criminalpol con l’accusa d’aver commissionato a un killer l’omicidio dell’ex marito Maurizio Gucci. Ora la "dama nera" potrebbe essere affidata ai servizi sociali. Lo ha chiesto al Tribunale di sorveglianza il suo avvocato Danilo Buongiorno. E ieri il sostituto procuratore generale di Milano Federico Prati ha dato parere "favorevole". I giudici si sono riservati la decisione, il verdetto arriverà entro quattro giorni. Le relazioni degli assistenti sociali del carcere di San Vittore sono "positive". Patrizia Reggiani è stata in questi anni una "detenuta modello". Non ha mai abbandonato le relazioni con la propria famiglia e anche l’anziana madre e le figlie Azzurra e Allegra non hanno mai fatto mancare il loro affetto. Anche la relazione redatta dall’Uepe, l’Ufficio esecuzione pena esterna diretto da Severina Panarello (lo stesso ufficio che ha seguito l’affido ai servizi sociali dell’ex premier silvio Berlusconi), ha dato "parere favorevole". I legali della Reggiani hanno chiesto l’affido a una griffe di alta bigiotteria, l’Argea Srl che controlla il marchio "Bozart" (elegante showroom in via Goldoni, a Porta Vittoria), e di comune intesa con l’Uepe la possibilità di svolgere attività di volontariato alla Caritas. L’omicidio di Maurizio Gucci avvenne la mattina del 27 marzo 1995. L’ex amministratore della maison Gucci venne freddato da un killer in via Palestro, in pieno centro di Milano, mentre entrava nei suoi uffici. Nell’agguato rimase ferito anche il custode del palazzo Pino Onorato, che ancora attende un risarcimento dalla Reggiani di fatto "nullatenente". Le indagini puntarono sulla pista economica legata all’attività dei Gucci, poi la scoperta del piano "diabolico" ideato dalla Reggiani e dalla maga Pina Auriemma. La vedova Gucci venne condannata a 26 anni di carcere. Concessione straordinaria della direzione del carcere, alla Reggiani venne permesso di tenere nella sua cella un furetto. Lady Gucci aveva ritrovato la libertà otto mesi fa, proprio in attesa della decisione dei giudici sull’affido ai servizi sociali per i prossimi tre anni. Ha trascorso in carcere solo 16 dei 26 anni di condanna. "Non vedo l’ora di lavorare e fare volontariato - racconta l’oggi 65enne Patrizia Reggiani. Questi anni non sono stati lunghi, sono volati via, mi sento giovane. Ho letto molto, ho partecipato ai corsi di scrittura, di ricamo, giardinaggio e teatro. E poi potevo scendere in giardino e stare con i miei animaletti". Carattere eccentrico, sopravvissuta a una delicata operazione per l’asportazione di un tumore al cervello, ora vive con le figlie e la madre. E un pappagallo. Lo stesso che porta sulla spalla mentre viene fotografata con un’amica nella lussuosa via Monte Napoleone. L’omicidio? "Mi dichiaro non colpevole", ripete in tribunale. Il suo legale chiarisce quelle poche parole: "Si colpevolizza per certe sue amicizie che hanno rovinato la vita a lei, alle sue figlie e alla sua famiglia, ma è del tutto estranea a ciò che è accaduto". Lettere: una camera mortuaria per gli ergastolani... di Carmelo Musumeci (detenuto a Padova) www.carmelomusumeci.com, 14 maggio 2014 Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu. Chi non sa perdonare spezza il ponte sul quale egli stesso dovrà passare. (Anonimo) Ci sono notizie che sarebbe meglio non sapere perché quando le sai poi stai male. E leggere questo articolo mi ha fatto stare male come un cane rognoso. "Giovanni Pollari, 65 anni, siciliano, è deceduto per infarto fulminante nel carcere di Sulmona, dove stava scontando la pena dell’ergastolo. (…) Con oltre 200 ergastolani, l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe cominciare a pensare di dotare l’istituto di detenzione Peligno di una camera mortuaria perché, se è vero che si tratta di un carcere ad alta sicurezza, è possibile allora che una parte dei detenuti sconti condanne all’ergastolo e dentro quelle mura probabilmente trascorrerà gli ultimi giorni di vita". (Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 4 maggio 2014). E mi ha fatto pensare che gli ergastolani hanno meno problemi di tutti gli altri prigionieri, a parte quello di essere ancora vivi. Proprio l’altro giorno un detenuto mi ha fatto la domanda di rito: "Quanti anni ti mancano a finire la pena?" Gli ho risposto che noi ergastolani non abbiamo mai anni in meno ma sempre anni in più. È dura scontare una pena che non finisce mai. A volte la tristezza è l’unica cosa che ricorda agli uomini ombra (gli ergastolani) che sono vivi. È difficile per tutti vivere e stare in carcere, ma è quasi impossibile vivere se sai che non uscirai mai. Poi leggere certe notizie ti leva quella poca voglia che ti è rimasta per tentare di lottare, vivere e sperare. Purtroppo i "buoni" anche se non ci uccidono, ci vogliono tenere murati vivi tutta la vita. E ti curano e ti danno da mangiare per non farti morire, perché più stai in vita e più dura la loro vendetta sociale. Purtroppo i "buoni" non si stancano mai di cercare giustizia (vendetta) e per trovarla tengono una persona per venti, trent’anni, e spesso per tutta la vita, chiuso in una cella. Qualche volta succede che i "cattivi" sappiano riconoscere il male che hanno fatto, invece i "buoni" spesso conoscono e puntano il dito solo sul male che commettono gli altri. Ma le persone che non amano non potranno mai essere amate e le persone che non perdonano non potranno mai essere perdonate. Lettere: no al sovraffollamento delle carceri, ma l'indulto non è la soluzione di Grazia Nonis www.notizie.tiscali.it, 14 maggio 2014 Il 28 maggio scadrà il termine impostoci dall’Europa per risolvere l’eterno dilemma del sovraffollamento delle nostre carceri. Se non saremo in grado di fornire una soluzione valida ci vedremo costretti a versare la penale impostaci dall’Unione. Giusto, più che giusto. Nel frattempo, però, abbiamo già cominciato a sganciare denaro per i ricorsi di parecchi detenuti che si sono appellati alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Soldi che continueremo a pagare poiché, nel frattempo, alcune migliaia di carcerati si sono aggiunti alla lista dei ricorrenti con la medesima motivazione: essere risarciti per la vita indegna riservatagli dalle nostre patrie galere: celle sovraffollate, mancanza di acqua nelle docce, luce insufficiente per la lettura ed il lavoro, gabinetti che nulla hanno a che fare con i servizi igienici. E poi Hiv, epatiti, tossicodipendenze, violenze sessuali: il 100% del degrado. Qualcuno entra sano ed esce malato o violentato nel corpo e nell’anima. Senza dimenticare che in questo inferno, oltre ad incalliti delinquenti di ogni tipo e grado, dietro le sbarre restano a far la lana migliaia di persone in attesa di giudizio. E i tempi li conosciamo tutti. C’è solo da augurarsi che, per un errore, non debba toccare a noi. Il primo difensore dei diritti dei detenuti è Marco Pannella che, tuttavia, con i suoi digiuni a fisarmonica c’ha scassato anche i maroni. Al radicale dobbiamo riconoscere la purezza ideologica e la voglia onesta e sincera di aiutare gli ultimi. Raro esempio di uomo circondato da colleghi che si battono con le unghie e con i denti per l’unico ideale a loro conosciuto: il Dio denaro. Però, "il Marco" lo vorremmo veder digiunare anche per altri ideali, forse meno eclatanti ma non per questo meno dolorosi. Perché battersi troppo per Caino fa incazzare l’Abele di turno: mite e buono ma troppo spesso lasciato solo a soccombere al bruto di turno e ai suoi difensori. Comunque: bravo Marco (nome di battaglia) o Giacinto (suo vero nome di battesimo che ha cambiato in corsa neanche fosse un prete). I vari governi che si sono succeduti negli ultimi decenni non sono riusciti, e neanche c’hanno provato, a costruire altre carceri ed evitare l’odierno sfacelo. Ma si sa, i nostri politici sono abili solo nell’arte del rattoppo o del rinvio e, all’occorrenza, tirano fuori l’asso dalla manica: l’indulto, seguito dall’immancabile full d’assi: l’amnistia. No, non è giusto. Troveranno poi i mille commi, sotto appendici e qualche colon per distinguere chi merita l’indulto e chi per orribili crimini non potrà goderne. Stabiliranno lo sconto del loro perdono: tre anni, forse quattro in fila per tre col resto di due, che costringerà il giudice ad assumere un ragioniere per far di conto. È scontato che saremo spettatori muti di una sanatoria applicata anche a quei reati che hanno nuociuto o potrebbero nuocere a chi la legge l’approva. Ma se il governo è incapace di provvedere persino al carcere dei soldatini di piombo non tocca al cittadino pagare. È sempre lui, lo Stato incompetente, che permette l’indecente ospitalità penitenziaria, facendoci vergognare ingiustamente per qualcosa che non è stato in grado di fare. Ed è ancora lui che coi nostri soldi ripaga chi ha ucciso, stuprato o rubato: per non avergli fornito un giaciglio ospitale. È umiliante che le persone abusate e a volte ripagate da una blanda giustizia debbano, in nome dello Stato Italiano, versare denaro al proprio aguzzino. Abominevole. Mentre assistiamo al filmato della "Carogna" dal ghigno bullesco che decide l’inizio di una partita; a Scajola che si mette a disposizione di chi non dovrebbe; ai corrotti e ai corruttori che infilano mazzette nei calzettoni o nelle mutande ci viene detto in pompa magna che costoro la pagheranno cara, si farà piazza pulita! Insomma, le solite parole di rito. E mentre ci promettono il pugno di ferro stanno già legiferando sull’indulto. Alla faccia della coerenza che nel vocabolario governativo recita così: "Vocabolo inesistente". Insomma, in migliaia saranno liberi di tornare alla vita di sempre... che è quello che a noi preoccupa, a dispetto di quelle statistiche che dicono che la percentuale di chi reitera il reato è molto bassa. Beh, se il compilatore di queste statistiche lavora per il governo ci conviene aggiungere un nuovo sistema d’allarme, mettere una catena da fabbro alla borsa quando saliamo sul tram e girare con le mutande di ghisa dopo le otto di sera. È ingiusto che i detenuti vivano male, ma è spregevole e odioso che chi ha sbagliato non debba pagare per i suoi crimini. Lazio: oggi il ministro Orlando firma protocollo d’intesa per migliore condizione carceri www.giustizia.it, 14 maggio 2014 Ministero della Giustizia. Come annunciato dal guardasigilli Andrea Orlando nel corso della presentazione del protocollo d’intesa siglato ieri per le carceri dell’Umbria, proseguono le intese fra Ministero, Regioni ed Enti Locali per migliorare le condizioni del sistema detentivo, sia dell’area penale interna che esterna, in vista di una più accurata integrazione con il territorio. Oggi alle ore 12:00, in Via Arenula, firma del protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia, Regione Lazio, Tribunale di Sorveglianza di Roma e Anci Lazio per il miglioramento delle condizioni del sistema penitenziario regionale e la promozione di azioni orientate al reinserimento del detenuto nel tessuto sociale ed economico-produttivo della realtà esterna. Intervengono, insieme al guardasigilli, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Alberto Bellet e il presidente dell’Anci Lazio Fabio Fiorillo. Umbria: Protocollo Intesa con Ministero per promuovere le misure alternative al carcere www.umbria24.it, 14 maggio 2014 Particolare attenzione è posta al recupero terapeutico dei tossicodipendenti, attraverso un potenziamento dei programmi accessibili come misura alternativa Un protocollo d’intesa per promuovere le misure alternative al carcere, favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e migliorare le loro condizioni di vita, con particolare attenzione al recupero terapeutico dei tossicodipendenti. A firmarlo, martedì a Roma nella sede del ministero della Giustizia, il ministro Andrea Orlando, la presidente della Regione Catiuscia Marini, il Tribunale di sorveglianza di Perugia e l’Anci Umbria. Il protocollo prevede un impegno, da parte della Regione, a definire interventi di potenziamento dei programmi terapeutici accessibili in misura alternativa alla detenzione, in centri dipendenti dalle Asl o in comunità di recupero accreditate. Il documento avrà la durata di tre anni e il reinserimento riguarderà in special modo detenuti tossicodipendenti e alcool dipendenti, privi di risorse economiche e familiari. Per la realizzazione dei progetti per persone dipendenti da sostanze con programmi in misura alternativa e da realizzare in comunità terapeutica, la spesa è a carico della Regione, mentre per le iniziative di inserimento lavorativo è stato stabilito anche un cofinanziamento, da parte della Cassa delle ammende. L’accordo In accordo con gli enti locali i detenuti con problemi di droga (fino a un massimo di 40) condannati a misure alternative potranno essere affidati in prova ai servizi sociali, svolti presso i servizi per le dipendenze delle aziende sanitarie e presso le strutture accreditate del privato sociale. Il Ministero si impegna a conteggiare come comunque presenti sul territorio regionale, anche se con residenzialità alternativa, il numero dei tossicodipendenti inseriti nel progetto regionale e a promuovere la piena attuazione del principio della territorializzazione della pena. Le istituzioni locali saranno coinvolte attraverso il sostegno a tutte quelle iniziative finalizzate all’accoglienza del detenuto nel territorio di residenza attraverso percorsi di inserimento abitativo e orientamento al lavoro, inclusa l’acquisizione o l’adeguamento di competenze spendibili sul mercato del lavoro, in particolare per le persone prive di risorse. Il primo di una serie Regione Anci Umbria promuoveranno nei Comuni la sottoscrizione di appositi accordi che vedranno la compartecipazione del Ministero, mentre la magistratura di sorveglianza si impegna a verificare le posizioni dei detenuti che le singole direzioni penitenziarie invieranno in attuazione dell’accordo. Quello siglato con l’Umbria è il primo di una serie di protocolli: "Nei prossimi giorni - ha detto Orlando - ne sigleremo altri analoghi con il Lazio e la Liguria, e a seguire con altre due regioni". "Attraverso le risorse ordinarie del fondo sanitario - ha detto Marini - abbiamo già reperito 40 posti nelle comunità di recupero, da destinare ai detenuti per favorire il reinserimento sociale e l’assistenza sanitaria che non sempre è possibile garantire in carcere. Con i finanziamenti del Fondo sociale europeo sosterremo progetti di lavoro all’interno o fuori dagli istituti penitenziari per promuovere esperienze di reinserimento dopo la pena". Sovraffollamento Il tema delle misure alternative al carcere è fondamentale per affrontare "l’emergenza sovraffollamento e le difficoltà dovute - ha detto il ministro - a una procedura aperta presso la Corte di Strasburgo (il 28 maggio è la scadenza imposta dalla Cedu all’Italia per adeguare il sistema detentivo, ndr) che richiede una mobilitazione straordinaria", secondo Orlando, per il quale "il sistema non ha sviluppato un insieme di pene alternative e quindi va spesso in affanno". Infatti "siamo tra i paesi in Europa che presentano il sistema di misure alternative più debole", ha aggiunto, ricordando che "in Italia sono poco più di 31 mila le persone ammesse a tali forme di detenzione". Pertanto, "serve collaborazione a livello amministrativo", ha concluso il guardasigilli, perché "il salto di qualità si regge anche sulla capacità delle regioni di accompagnare sul fronte sociosanitario questo percorso". La banca dati Orlando ha poi spiegato che entro fine mese sarà pronta una banca dati, realizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che conterrà anche un quadro delle misure alternative al carcere in Italia. "La banca dati dovrebbe essere pronta entro fine mese, perché sono numeri che vorrei portare all’attenzione della Corte di Strasburgo", in vista della scadenza imposta per adeguare il sistema penitenziario italiano. Proprio prendendo ad esempio i detenuti tossicodipendenti (quelli con problemi di droga sono circa 20 mila), Orlando ha spiegato che "non abbiamo un quadro chiaro di quanti siano esattamente quelli ammessi ai programmi di recupero: anche per questo ho chiesto al Dap di preparare una banca dati che dia conto non solo degli elementi amministrativi e logistici, ma anche di quelli qualitativi sullo stato dell’applicazione delle pene alternative al carcere". Lecce: tentativo di suicidio in carcere, detenuto tenta di impiccarsi con i lacci delle scarpe www.leccesette.it, 14 maggio 2014 Un detenuto quarantenne di Campi Salentina ha tentato di farla finita impiccandosi con dei lacci di scarpe. Provvidenziale l’intervento degli uomini della Polizia Penitenziaria. Ennesimo tentativo di suicidio all’interno del carcere di Lecce: nel pomeriggio di ieri un detenuto di 40 anni originario di Campi Salentina ha tentato di farla finita nel bagno della cella che condivide con altri detenuti. L’uomo, che è imputato per associazione mafiosa, ha ricavato una corda dai lacci di scarpe, è salito su uno sgabello e ha legato il cappio artigianale alle sbarre della finestra. L’intervento degli operatori di polizia del penitenziario gli ha salvato la vita: al loro arrivo stringeva ancora nelle mani delle foto della propria famiglia. Si tratta del sesto tentativo di suicidio sventato dai Poliziotti a Lecce, evidenziano dal Cosp, il coordinamento sindacale penitenziario, che punta ancora una volta il dito contro il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di organico. "I Poliziotti in servizio nel carcere di Lecce sono sotto organico di 300 unità fa sapere il segretario generale del Cosp Domenico Mastrulli "se si considera che in quella sede per far fronte ai servizi generali e singoli si impiega un quantitativo considerevole di ore di straordinario e turni, in alcuni reparti, di otto ore contro le 6 previste dal contratto nazionale". Non va meglio nelle altre carceri pugliesi: un secondo tentativo di suicidio si è registrato questa mattina nel penitenziario di Foggia dove un detenuto ha tentato di impiccarsi con un maglione. Anche in questo caso provvidenziale è stato l’intervento degli uomini della Polizia Penitenziaria. Lecce: Di Giacomo (Idv); le mie priorità sono il dramma delle carceri e la giustizia lumaca di Marina Schirinzi www.lecceprima.it, 14 maggio 2014 Il candidato alle elezioni europee con l’Italia dei Valori ha fatto tappa presso la casa circondariale di Lecce per spiegare i punti del suo programma: "Riforme strutturali per la depenalizzazione di alcuni reati. Il sistema penitenziario sta per esplodere". Sovraffollamento carcerario, suicidi, una macchina della giustizia farraginosa e lentissima, un codice penale da rivedere. Sono questi i cavalli di battaglia di Aldo Di Giacomo, candidato dell’Idv alle elezioni europee, che ha intrapreso il suo tour elettorale facendo tappa presso gli istituti penitenziari del Sud d’Italia. Questa mattina Di Giacomo si trovava all’ingresso di Borgo San Nicola, a Lecce, per spiegare le ragioni che lo hanno spinto, dopo anni servizio presso il sindacato della polizia penitenziaria, a scendere in "campo" per provare ad affrontare di persona uno dei grandi nodi dell’amministrazione italiana: quello della giustizia, appunto. Di Giacomo non è neppure nuovo all’impegno civile, considerata la sua lunga esperienza maturata all’interno di un’associazione di volontariato che si occupa di minori, di cui è presidente. E considerate le battaglie combattute personalmente (due scioperi della fame che hanno visto l’intervento delle più alte cariche dello Stato, culminato con un nulla di fatto) ed insieme all’Italia dei Valori con cui ha presentato un disegno di legge volto a semplificare il percorso delle adozioni. Anche la scelta del carcere come luogo in cui tenere la sua conferenza stampa non è stata casuale: "Questo luogo è l’emblema di una giustizia che non funziona. Il 28 maggio ci toccherà l’ennesima punizione da parte dell’Europa causata dal sovraffollamento vergognoso delle celle in cui dimorano i detenuti e a causa dei tempi biblici dei processi penali". La situazione negli ultimi anni, secondo il sindacalista, è persino peggiorata: "A nulla sono valsi i buoni propositi dei vari governi, i proclami sbandierati. La politica deve ritrovare il coraggio di fare scelte impopolari, senza guardare unicamente ai voti. Finora ha preferito intervenire unicamente con misure tampone, senza risolvere al fondo le problematiche". Se le case circondariali sono al collasso, "non è pensabile di sottoporre chiunque a processo penale ed anche riguardo alla legge Bossi - Fini avevamo ragione rispetto ai risultati disastrosi di questa norma". Dulcis in fundo, il candidato dell’Italia dei Valori, sottolinea l’utopia del percorso rieducativo che dovrebbe accompagnare la pena: "La politica crea una falsa illusione rispetto alla sicurezza perché i detenuti per reati minori, come quelli di droga, quando vengono rimessi in libertà sono generalmente più pericolosi di prima. Il carcere diventa quasi un luogo di formazione per la delinquenza: del resto, un solo educatore per 100 detenuti, cosa potrebbe mai riuscire a fare?". La ricetta da cui ripartire è costituita, quindi, dalle ben note riforme strutturali che, nell’ottica del candidato, vanno nella direzione della depenalizzazione di alcuni reati secondari. Da punire, piuttosto, con un’elevata sanzione amministrativa che rappresenta "un deterrente persino migliore". "Allo stato attuale vi sono 9 milioni e mezzo di processi in sospeso e 180 mila prescrizioni ogni anno che, da sole, rappresentano un’amnistia. E che pesano enormemente nel bilancio dello Stato. Per non parlare dell’allarme sui suicidi che si verificano sia tra i detenuti che tra gli stessi agenti del corpo penitenziario - prosegue Di Giacomo -. La politica in questo settore dimostra tutta la sua distanza, intervenendo unicamente con misure di natura straordinaria, come l’indulto e l’amnistia". "Ma - conclude il candidato - la detenzione non è l’unico mezzo punitivo a nostra disposizione". Trieste: venerdì prossimo i Radicali e il Garante dei detenuti faranno visita al carcere www.radicali.it, 14 maggio 2014 In vista dell’ultimatum del 28 maggio, venerdì 16, nel pomeriggio, alcuni esponenti locali di Radicali Italiani terranno una visita presso il carcere di Trieste, accompagnati dalla Garante per i detenuti dei diritti dei carcerati di Trieste, Rosanna Palci. Prima della visita, alle 16.30, di fronte al carcere di Via del Coroneo, si terrà una conferenza stampa, cui interverranno: Rosanna Palci, garante per i diritti dei detenuti di Trieste; Nicolò Gnocato, Radicali Italiani; Alessandra Devetag, camera penale di Trieste. A distanza di un anno dalla conferma della condanna, da parte della corte europea per i diritti dell’uomo, per lo stato di tortura perpetrato nelle carceri italiane, il 28 maggio scadrà l’ultimatum: l’Italia sarà costretta a risarcire economicamente i detenuti per il conclamato stato di tortura, se non riporterà le proprie carceri a condizioni umane; infatti, le norme sanitarie dispongono uno spazio minimo di almeno 9 metri quadri a detenuto, per gli allevamenti di maiali ne sono prescritti 6, mentre molti carcerati si trovano a vivere con meno di 3 metri quadri a disposizione. Se tutti i detenuti, a seguito della scadenza dell’ultimatum, chiederanno il risarcimento quale avranno diritto, l’Italia si troverebbe costretta a pagare cifre astronomiche, oltre ad assistere ad un fiorire di ricorsi, nell’ambito di una giustizia già paralizzata. Un decreto di amnistia, fortemente auspicato dal Presidente Napolitano, nonché da Papa Bergoglio, oltre a consentire il rientro immediato dell’Italia nella legalità, per quanto riguarda lo stato di tortura nelle carceri, smaltirebbe l’enorme arretrato giudiziario penale, che comporta l’irragionevole durata dei processi. Questo si traduce nel fatto che i poveri, anche se innocenti, si trovano a vivere per anni sotto la gogna giudiziaria, col rischio di vedere la propria vita distrutta per nulla; mentre i ricchi, potendosi permettere gli avvocati migliori, dilungano volutamente i procedimenti per ottenere la prescrizione: un’amnistia, di fatto, riservata ai soli ricchi delinquenti. L’Italia, in Europa, detiene la maglia nera per quanto riguarda le condizioni dei detenuti, l’irragionevole durata dei processi, il numero di processi pendenti, e il numero di prescrizioni giudiziarie annue. Amnistia unica via: per riportare immediatamente la situazione nella legalità, e consentire quindi una riforma strutturale che impedisca il ripresentarsi dei suddetti problemi. Torino: lavoro finto per far uscire boss dal carcere, arrestati amministratori di una coop di Claudio Laugeri La Stampa, 14 maggio 2014 Un lavoro fasullo per soddisfare i requisiti richiesti per la revoca della "sorveglianza speciale". Così un affiliato alla ‘ndrangheta ha cercato di ingannare i giudici del Tribunale di Sorveglianza, confidando nella mancanza di controlli. Sono stati i finanzieri del Gico a svelare il trucco ideato da Francesco Napoli (difeso dall’avvocato Demetrio La Cava), 62 anni, già condannato a 10 anni e 6 mesi di carcere per l’affiliazione alla cosca torinese che faceva riferimento alla "locale" di Natile di Careri. Attraverso la mediazione di un compaesano, è riuscito a convincere l’amministratore di fatto di una cooperativa a predisporre un’assunzione fittizia. L’operazione si è chiusa con 3 arresti. La cooperativa in questione è la "Poli Job", specializzata nella fornitura di manodopera per facchinaggio e trasporti. Secondo gli investigatori della Guardia di Finanza, gli amministratori indicati alla Camera di Commercio sono prestanome. L’attività è gestita da Michele Attolino, 56 anni, e dal suo "braccio destro" Mario Basilio Barbieri, di 44. Proprio lui sarebbe il punto di contatto tra Napoli e la cooperativa: i due sono di origine calabrese e Barbieri ha aiutato il compaesano a trovare un lavoro. Fasullo. La dimostrazione è nei verbali degli appostamenti, ma anche nelle fotografie e nei filmati girati dai finanzieri che avevano deciso di seguire Napoli per controllare la veridicità della documentazione portata al Tribunale di Sorveglianza. In più, ci sono le conversazioni intercettate dal Gico nell’indagine coordinata dal pm Giuseppe Riccaboni, che ha ottenuto dal gip Daniela Rispoli l’ordinanza di custodia cautelare per "false attestazioni in atti destinati all’Autorità Giudiziaria". Chiacchierate al telefono tra Attolino e Barbieri, con frasi del tipo: "Ciao, ti ricordi di un certo…? Quello che è fuori grazie all’assunzione in cooperativa… Se ci chiedessero se lo conosciamo, neghiamo tutto, diciamo di non conoscere nessuna cooperativa". E in teoria, questo era possibile, dal momento che altri personaggi risultano amministratori della cooperativa. I due, poi, pensavano di "comprare" il loro silenzio con una manciata di euro. Un’altra testimonianza merge dalla rassicurazione fatta a Napoli e intercettata dai finanzieri: "Oggi è venuta la Finanza, io ho dichiarato di non conoscerti". Sotto il profilo formale, però, tutto era a posto. Il personaggio pareva in regola, con tanto di contratto d’assunzione, busta paga e stipendio (percepito soltanto in minima parte). Ma al lavoro, non è mai andato. Faceva una vita da pensionato, con passeggiate, spesa con i familiari e qualche puntatina al bar. Torino: "non si sono fatti male da soli", Gip non crede alla Polizia e scarcera gli arrestati di Massimo Numa La Stampa, 14 maggio 2014 Il gip ha ritenuto "poco credibili" la versione della polizia in merito all’arresto di due marocchini che hanno però ammesso di essere stati "leggermente alterati". Il gip non crede alla versione degli agenti del 113, in relazione a un movimentato intervento avvenuto il 7 maggio in un bar di piazza Bengasi, non convalida l’arresto di due marocchini e restituisce gli atti al pm Andrea Padalino per un supplemento di indagini. Due marocchini di 35 e 43 anni sono stati scarcerati dal gip del tribunale di Torino, Emanuela Romano. Il giudice ha ritenuto "poco credibile" il racconto dei poliziotti che li avevano arrestati fuori da un bar-tabaccheria. A dare l’allarme era stato il proprietario del locale: i due extracomunitari, ubriachi, avevano dato in escandescenza e, alla vista della volante, si erano feriti sferrando alcune testate contro il vetro dell’Alfa 159 del 113. Non solo; avevano lanciato un contenitore dei rifiuti contro una vetrata, ma senza infrangerla. Una versione dei fatti sulla quale il giudice ha chiesto alla procura un "ulteriore approfondimento". I due marocchini, Khalid Houachmi e Said Outzlal, 34 e 42 anni, avrebbero infatti riportato "tumefazioni al volto, alle gambe, alle spalle e ai polsi che appaiono del tutto incompatibili con le cadute accidentali descritte nel verbale di arresto". Il giudice osserva che, nel corso dell’interrogatorio di convalida, gli arrestati denunciavano di essere stati vittima di "comportamenti violenti". Uno lamenta di essere stato sbattuto contro una portiera, di essere stato ammanettato e "picchiato senza motivo". Infine le manette sarebbero state agganciate alle grate delle finestre delle celle "a croce, senza mangiare e senza bere per ore". Insomma, il giudice non crede alla versione degli agenti, intervenuti in sei, molto diversa da quella degli arrestati. I marocchini, infatti, sarebbero stati completamente ubriachi. Seduti su una panchina di piazza Bengasi, avevano lanciato oggetti contro le vetrine di un bar-tabaccheria. Una volta rinchiusi con fatica nell’abitacolo delle volanti avrebbero iniziato a dare testate contro le protezioni e si sarebbero volontariamente feriti ai polsi. I poliziotti erano stati colpiti a loro volta dai due ubriachi. Pm: "No comment" Nessun commento dalla procura. Le indagini saranno riaperte per ricostruire di nuovo un episodio che appare fortemente controverso. Mantova: infermiera spacciava anfetamine all’Opg, condannata a sei anni di Giancarlo Oliani Gazzetta di Mantova, 14 maggio 2014 Francoise Ferrarelli, la dipendente dell’Opg di Castiglione, residente a Castel Goffredo, da sedici mesi in carcere con l’accusa di detenzione per spaccio di sostanze stupefacenti, ieri mattina è stata condannata a sei mesi e sei anni di reclusione e a 35mila euro di multa, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Alla lettura della sentenza la donna ha accusato un malore ed è svenuta. Prima del verdetto aveva chiesto e ottenuto di poter parlare ai giudici. Ha chiesto scusa, li ha pregati in ginocchio giurando che non sarebbe più accaduto. Non è servito. Le prove contro di lei troppo schiaccianti. E in serata è tornata dietro le sbarre a Bergamo. Stefano Lombardi di Ceresara, imputato allo stesso processo, è stato invece assolto. L’indagine era partita da una denuncia presentata da un ospite al direttore della struttura. Denuncia secondo cui la donna, convivente di Sergio Pedrazzoli, di Castel Goffredo, già condannato a 5 anni e 4 mesi per spaccio, avrebbe spacciato anfetamine ai degenti-detenuti all’Opg. A seguito di quell’esposto la procura aveva delegato i carabinieri di Castiglione a condurre le indagini: appostamenti, pedinamenti, intercettazioni telefoniche. I militari erano così riusciti a scoprire che la dipendente, in grado di accedere ai reparti sia maschili che femminili, spacciava anfetamina e che se qualcuno non poteva pagare si rivolgeva ai familiari. "Non ho mai spacciato - ha raccontato anche ieri la donna - ho semplicemente aiutato alcuni pazienti che venivano da me per lamentarsi. E per dirmi che venivano picchiati". All’alba del 21 gennaio del 2013 è scattata l’operazione che ha portato al suo arresto e a quello del convivente. Nel corso della perquisizione, all’interno di una cesta di biancheria sporca, sono stati rivenuti quasi due chili di anfetamina già divisi in dosi. E nella borsa della donna un 1,4 grammi della stessa sostanza. Cremona: un telefonino nelle scarpe del detenuto… scoperto dalla Polizia penitenziaria Ansa, 14 maggio 2014 Hanno tentato di introdurre un telefono cellulare (completo di carica batteria e sim-card funzionante) in carcere a Cremona ma l’attenzione degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria lo ha impedito. È accaduto alcuni giorni fa e a darne notizia è il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece. "Il rinvenimento è avvenuto con le analoghe modalità delle volte precedenti: ovvero lo si è occultato in oggetti (in questo caso, un paio di scarpe da ginnastica) contenuti in un pacco postale indirizzato a un detenuto, con posizione giuridica definitivo e di nazionalità italiana. Lo scrupolo e l’attenzione dei poliziotti addetti ai controlli ha immediatamente rilevato l’anomalia e sono ora in corso le indagini per risalire al vero mittente del pacco", aggiunge il leader dei Baschi Azzurri del Sappe. "È un episodio inquietante, essendo il terzo caso in altrettanti mesi: un arco temporale assai ristretto. Tali situazioni dovrebbero far riflettere la nostra Amministrazione circa la vulnerabilità del nostro sistema penitenziario: eppure, poco o nulla viene fatto dal Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Basti pensare ad alcune soluzioni rapide ed efficaci, come la possibilità di schermare gli istituti penitenziari per neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e la possibilità di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari, vengono trascurati dall’attuale dirigenza del Dap". A tal proposito il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria annuncia che il prossimo 20 maggio scenderà in piazza a Roma per chiedere di avere un nuovo Capo della Polizia Penitenziaria e nuovi vertici al Dap: "Saremo sotto il Dipartimento per manifestare contro il capo dipartimento e questa politica assurda che anziché mettere mano a delle riforme del mondo penitenziario del carcere e rendere le carceri vivibili, si nasconde dietro un dito. È necessaria una rivoluzione pacifica del carcere - ha concluso Capece - andando ad individuare, attraverso delle riforme strutturali, un carcere che sia più vivibile sia per coloro che sono ristretti sia per gli stessi detenuti". Vigevano (Pv): sport in carcere, gli studenti giocano per l’integrazione di Maria Pia Beltran La Provincia Pavese, 14 maggio 2014 Giovedì, alle 21, nella sala riunioni comunale riparte, per il terzo anno di fila, il progetto "Lo sport per camminare insieme", che coinvolgerà il carcere di Vigevano e una nutrita squadra di enti e associazioni. Motore dell’iniziativa l’Associazione sportiva San Martino, affiancata da Azione Cattolica diocesana, Centro Sportivo Italiano, Istituto Superiore Castoldi di Vigevano e Comune di Tromello. Evento inaugurale dell’edizione 2014 sarà la tavola rotonda "Oltre le sbarre, oggi: leggi, luoghi comuni e realtà delle nostre carceri", alla quale parteciperanno Davide Pisapia, direttore della struttura carceraria, e Claudia Gaeta, responsabile dell’area educativa. Verranno affrontati temi quali la realtà carceraria locale e nazionale, le esperienze di volontariato con i detenuti e il decreto "svuota-carceri", tanto chiacchierato e poco conosciuto. Il progetto dal 2012 ha coinvolto gli atleti della Asd San Martino Tromello e gli studenti del quinto anno dell’istituto Castoldi, sia stimolando nei ragazzi una presa di coscienza della realtà carceraria locale e nazionale, sia permettendo loro l’incontro, attraverso lo sport, con i detenuti della casa circondariale. "L’obiettivo principale è sempre quello di permettere ai partecipanti di educarsi al tendere la mano, senza giudizi, creando un’occasione per conoscere persone alla ricerca di riscatto e di relazioni - spiegano gli organizzatori - vogliamo avvicinare i partecipanti ad un mondo semi-sconosciuto di vite, errori e speranze, dimostrando ancora una volta quanto lo sport sia un potente mezzo di comunicazione". La formazione è stata sempre la premessa indispensabile alle successive giornate di sport che si sono svolte nella casa circondariale: il torneo femminile di pallavolo (maggio 2012), il triangolare maschile di calcio a 7 (giugno 2012). "Cercare di tradurre valori cristiani per renderli "vivi" attraverso lo sport è da sempre nel progetto - concludono gli organizzatori - la speranza è che queste idee riescano ad andare anche oltre le sbarre anche oggi, sempre consapevoli, però, che per educare bisogna prima lasciarsi educare". Per non restare "piccola" nel cuore e nelle relazioni, in questi anni di vita associativa la San Martino ha privilegiato il contatto con alcune "diversità" (disabili, ragazzi delle comunità per minori, detenuti) e ne è uscita arricchita come da una specie di palestra di umanità. Bologna: iniziate nel carcere della Dozza le riprese del film "Meno male è lunedì" La Nuova Ferrara, 14 maggio 2014 Sono iniziate all’interno del carcere della Dozza di Bologna le riprese del nuovo film del giornalista ferrarese Filippo Vendemmiati, regista premio David di Donatello 2011 per il miglior documentario con lo sconvolgente "È stato morto un ragazzo" e autore nel 2012 dell’appassionante ritratto umano e politico di Pietro Ingrao "Non mi avete convinto". Il nuovo film in lavorazione si chiama "Meno male è lunedì" e trae spunto dall’esperienza unica in Italia che ha portato tre aziende bolognesi, leader nel settore del packaging, ad aprire una vera e propria officina nella ex palestra del carcere. Vi lavorano a stretto contatto ex operai oggi in pensione e una quindicina di detenuti, regolarmente assunti con contratto nazionale metalmeccanico. Il film, girato tutto in presa diretta, racconta dell’incontro umano e professionale di questo inedito gruppo di lavoratori, le loro storie e le loro speranze, mette in luce un rapporto profondo e solidale fondato sulla trasmissione del sapere. Imparare ad usare la giusta vite diventa metafora della ricostruzione di vite alla deriva. Chi impara di più alla fine e che cosa? Chi esce dal carcere? L’ex operaio, il detenuto o il manufatto? Storie di viti e di vite: il tono e leggero, spesso ironico, quasi divertente se fosse una commedia. Nel "lavoro fuori" il lunedì è il giorno peggiore, nel "lavoro dentro" è il più atteso: il sabato e la domenica per il detenuto operaio rappresentano il limbo che separa dal ritorno in fabbrica chi delle festivi e delle ferie non sa che farsene. L’uscita del film e prevista nell’autunno 2014. Titolo: "Meno male è lunedì". Regia: Filippo Vendemmiati; direttore fotografia: Stefano Massari; direttore produzione Donata Zanotti; operatori ripresa: Giulio Giunti, Stefano Massari, Simone Marchi; montaggio: Stefano Massari; colonna sonora: Tetes de Bois Sonorizzazione; Carlo Amato; Post produzione Simone Marchi Formato: HD Produzione: Tomato doc&film. La Spezia: lo scrittore Marco Buticchi ai detenuti "l’incontro con voi mi ha arricchito…" di Sandra Coggio Il Secolo XIX, 14 maggio 2014 "Diceva un mio amico, scrittore di mare, che esistono i vivi, i morti, e i naviganti: quelli che partono, e a volte si dimenticano. I carcerati sono così, se la società intende il carcere come un luogo a parte, in cui "non vederli": ma è un errore. Perché chi sbaglia deve pagare, è giusto, ma deve anche potersi reinserire, ed essere sorretto, e motivato a farlo. Per il bene suo, e di tutta la comunità". Lo scrittore Marco Buticchi ha incontrato ieri i detenuti della casa circondariale di via Fontevivo, nell’ambito dell’iniziativa nazionale che ha portato sessanta autori italiani nelle carceri: più di due ore, consumate in fretta, fra racconti e domande, anche sul vissuto personale, anche sui temi caldi della giustizia e del diritto. Buticchi non s’è sottratto. Al contrario. Ha raccontato dei suoi esordi letterari timidi, delle difficoltà di chi comincia: ed ha esortato a coltivare le proprie passioni. Anche io scrivo, ha detto un detenuto, ma come faccio a farmi pubblicare? Lo scrittore ha spiegato che non è mai facile, conta anche "il fattore c…", vale a dire la fortuna, ma non si deve rinunciare mai: "Perché scrivere è diffondere magia, si scrive per lasciare qualcosa, che qualcuno possa riscoprire, rileggere - ha spiegato - e non serve scrivere pensando ad una grande platea, basta farlo per se stessi e per far conoscere quello che è stato, anche per evitare di ripetere gli errori della storia". Come il nazismo, ha sottolineato Buticchi, come gli stermini. E non è stato tenero sulla politica, che in tanti anni ha "lasciato bruciare le risorse di un bellissimo paese, con lo spreco e il malaffare". C’è oggi un mondo distratto, ha rilevato, un mondo che ha perso quel senso del racconto, delle radici, con il nonno che rievocava, e consegnava ai nipoti un patrimonio orale: e tuttavia - ha ammesso - si deve avere fiducia, perché "anche i messaggini di oggi, sono pur sempre un modo di far lavorare il cervello, piuttosto che stare a rincretinirsi davanti a certi programmi insulsi della tv". Sollecitato dalle domande, lo scrittore si è soffermato su come nasce una storia, "la trama cresce via via, sorprende anche me", e sugli intrecci fra passato e presente, come nel suo romanzo "La stella di pietra", Longanesi, che partendo da Michelangelo arriva alle Brigate Rosse. Ha senso, gli ha chiesto un detenuto, romanzare pagine così gravi della storia? "Sì - ha risposto Buticchi - perché il romanzo nasce per divertire, ma se consente di approfondire, è utile comunque alla conoscenza". Drammatica, la rievocazione dell’attentato ad Aldo Moro, uno di quei misteri italiani "ancora da chiarire del tutto". E poi, le curiosità sui suoi personaggi, l’archeologa Sara Terracini, "mora, carnosa, bella", ed il capo del Mossad, Oswald Breil, un nano: "Non volevo il solito 007, che conquista donne e beve champagne, ma uno che sappia superare le difficoltà". E le storie, da dove nascono?, ha chiesto un altro detenuto. "Sono attratto dai misteri, dalla damnatio memoriae, la storia è un fiume che scorre lento: mi affascino ad un episodio, e mi metto a studiare". Lo scrittore d’avventura deve avere anche una vita avventurosa?, ha chiesto la responsabile dei contatti esterni, Licia Vanni. "Io ho avuto una vita intensa, ma per scrivere conta ciò che hai dentro: si viaggia con la mente". Un detenuto ha raccontato della sua abilità con i fumetti. Altri, hanno espresso passione per la lettura. La direttrice del carcere, Cristina Bigi, ha proposto l’idea di un giornalino in cui "scrivere però del mondo fuori, per non confinarsi all’attuale costrizione, e guardare già al domani, oltre la cella, nella società". Buticchi ha ascoltato lo sfogo di chi ritiene che non ci sia sempre giustizia, che spesso il debole abbia pene più dure, e che si faccia ancora poco, perché la pena non sia una condanna all’inedia. Sul carcere spezzino, però, il giudizio dei detenuti è stato lusinghiero: niente a che vedere con certi inferni. Il romanziere ha regalato copie dei suoi libri, e si è congedato assicurando che non è un addio, ma un arrivederci. "Non sono qui per generosità - si è schivato - ma per arricchirmi umanamente: è stato, il nostro, uno scambio importante, ed io vi ringrazio". Ci saranno dunque altre occasioni, sempre grazie all’apertura che la direttrice Bigi e il suo staff di educatori promuovono da sempre, con la collaborazione della polizia Penitenziaria, retta dal comandante Tiziana Babbini. Milano: docente di arte Flavio Caroli terrà conferenza per i detenuti del carcere di Opera www.lombardiapress.it, 14 maggio 2014 Continua ad arricchirsi di eventi importanti il ricco calendario del festival artistico letterario "Cultura Milano" che prevede anche una serie d’iniziative a scopo benefico - solidale per i detenuti degli istituti penitenziari di Opera, San Vittore e Bollate a Milano, con personalità illustri del panorama attuale, tra cui Margaret Mazzantini, Francesco Alberoni, l’indimenticabile Margherita Hack, Dario Fo, Paolo Crepet, Piero Chiambretti. Attesissima l’interessante conferenza del noto professor Flavio Caroli, che si terrà nel Carcere di Opera in data Martedì 13 Maggio. Ad affiancarlo in qualità di relatori saranno il manager produttore Salvo Nugnes e l’attore Alessandro Quasimodo, figlio dell’esimio maestro poeta Salvatore. Nell’occasione Caroli, esperto docente e storico dell’arte, nonché popolare volto televisivo della trasmissione Rai "Che tempo che fa" e di altri programmi di successo, parlerà e si svelerà in chiave autobiografica, dagli esordi ai giorni nostri. Inoltre, spiegherà le tematiche affrontate nell’ultimo libro di recente pubblicazione, dall’intrigante titolo "Voyeur" (Mondadori). Il testo racconta la storia di un fotografo, Fabrizio, che nel corso della vita perfeziona lo sguardo come "Strumento filosofico" per la comprensione del mondo. L’eros e la bellezza o viceversa, l’orrore delle guerre vissute in prima persona dal protagonista, che si sono succedute in mezzo secolo, lo aiutano a cogliere sempre più l’essenzialità delle forme, in cui si manifestano le cose. Caroli ci regala un romanzo profondo e appassionante, che porta a riflettere sul potere delle immagini e su quanto esse stesse possano influire sulla percezione della realtà circostante. L’ultima verità sul limite estremo dell’esistenza, offre bellezze e consapevolezze, che lo sguardo non ha saputo capire, interpretare e forse neppure godere. Un libro coinvolgente da leggere con sensibilità e concentrazione, non solo da sfogliare, per trovare le parole giuste, che appartengono ad ognuno e le frasi, che penetrano nella mente, perché come afferma Caroli: "Vedere non è guardare e guardare non è vedere". Droghe: eseguire o no una pena incostituzionale? di Luigi Saraceni Il Manifesto, 14 maggio 2014 Il prossimo 29 maggio le sezioni unite della corte di cassazione dovranno decidere come applicare la legge Fini-Giovanardi bocciata dalla Corte Costituzionale. Si confrontano due scuole di pensiero giuridico: l’intangibilità del giudicato, per cui i condannati restano in carcere, e l’abrogazione di pene giudicate illegittime. E la politica? Tace, o peggio. Per coprire l’indecenza della legislazione penale di favore accordata ai colletti bianchi, la maggioranza forzaleghista che ci ha governato negli anni scorsi si è accanita contro l’emarginazione sociale, producendo una serie di norme repressive insensate che hanno costretto la Consulta a intervenire per riportare l’ordinamento alla legalità costituzionale. Grazie alla Consulta sono stati cancellati, tra l’altro, lo smisurato aggravamento di pena per i recidivi, l’aggravante della "clandestinità" per gli immigrati e, da ultimo, le pene irragionevoli previste dalla Fini-Giovanardi per le cosiddette droghe leggere. Ma intanto, nelle more dell’intervento risanatore della Corte costituzionale, sono passate in giudicato le condanne pronunciate in base alle norme illegittime. È nato così il problema se da queste condanne definitive deve essere eliminata la parte di pena illegittima oppure se il condannato deve scontare l’intera pena. La soluzione del problema sembrerebbe ovvia, essendo evidente che finire in carcere per scontare una pena comminata da una legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima, è una inaccettabile iniquità, che urta il più elementare senso di giustizia. Ma, come si sa, nelle prassi giudiziarie il senso di giustizia non sempre riesce a prevalere sui tradizionali formalismi, sicché tra i nostri giudici è nato un contrasto. Alcune sentenze, richiamandosi "all’insieme dei principi costituzionali che regolano l’intervento repressivo penale", ritengono che non sia "costituzionalmente giusta, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione della pena, se essa consegue all’applicazione di una norma contraria a Costituzione". Altre sentenze oppongono a queste ragioni di giustizia la tradizionale "intangibilità del giudicato", per cui in sede di esecuzione non si potrebbero ritoccare le pene irrogate con condanne definitive. Su questo contrasto si pronuncerà il prossimo 29 maggio la corte di cassazione che dovrà dire, a sezioni unite, quale dei due orientamenti sia quello giusto. È auspicabile e prevedibile che i giudici di piazza Cavour, se non se ne laveranno le mani rimettendo la questione alla Consulta, diano la prevalenza alle esigenze di giustizia iscritte nella Costituzione. Ma c’è da chiedersi: nel frattempo che fa la politica? Sono passati più di tre mesi dalla decisione che ha cancellato la Fini-Giovanardi, ci sarebbe stato tutto il tempo per eliminare dalle condanne da eseguire il sovrappiù di pena irrogato in base a questa legge insensata. Invece si è emanato un decreto legge per rimodulare le tabelle, in cui si è tentato di reintrodurre per vie traverse le pene dichiarate illegittime. Il tentativo è fallito, ma ne è rimasta traccia nel preambolo del decreto, dove si sottolinea che la Fini-Giovanardi è stata bocciata dalla Consulta non per la "illegittimità sostanziale delle norme oggetto della pronuncia" ma per la violazione dell’art. 77 della Costituzione. Come se il principio costituzionale di stretta legalità del reato e delle pene, possa essere degradato a vuoto formalismo e non sia invece il primo presidio della libertà personale. Non meraviglia il tipo di cultura del centro destra, ma preoccupa lo spirito subalterno con cui l’alleato Pd la subisce. Alla camera la maggioranza di governo ha bocciato un emendamento di Sel che risolveva il problema delle condanne passate in giudicato e al senato è stato nominato relatore proprio Giovanardi, il principale responsabile dell’illegalità accertata dalla Corte costituzionale. Di questo discuteremo mercoledì 14 maggio 2014 a Roma alle 15 nella Sala di S. Maria in Aquiro, piazza Capranica,72. Stati Uniti: esecuzione in Texas, detenuto fa causa in extremis su segreto farmaco killer Ansa, 14 maggio 2014 La pena di morte negli Usa segna una battuta d’arresto, ma non in Texas: lo Stato della stella solitaria ha in programma oggi una nuova esecuzione, la prima dopo l’orribile morte di Clayton Lockett che in Oklahoma ha portato all’adozione di sei mesi di moratoria, e gli avvocati del detenuto hanno rivolto un appello in extremis contestando il velo di segreto sul farmaco usato nell’iniezione letale. Guatemala: l’ex capo della Polizia sotto accusa a Ginevra per la morte di dieci detenuti www.tio.ch, 14 maggio 2014 Giovedì si apre il processo all’ex capo della polizia guatemalteca Erwin Sperisen davanti al Tribunale criminale di Ginevra: il cittadino con la doppia nazionalità svizzera e guatemalteca è accusato di aver "pianificato, ordinato o commesso l’assassinio di dieci detenuti" nel paese centroamericano. Rischia oltre 10 anni di prigione. A Sperisen, arrestato a Ginevra il 31 agosto 2012, il Ministero pubblico del cantone lemanico rimprovera di aver organizzato, pianificato e diretto "operazioni volte ad eliminare dei detenuti" mentre dirigeva la polizia nazionale civile del Guatemala dal luglio 2004 al marzo 2007. Il 25 settembre 2006, nel quadro di un’operazione di ripresa del controllo della prigione di Pavón da parte dei servizi di sicurezza del Guatemala, Sperisen avrebbe ordinato l’esecuzione di sette detenuti, uccisi a colpi d’arma da fuoco. "Dato il suo rango gerarchico supremo in seno alla polizia nazionale - indicava un comunicato del Ministero pubblico lo scorso gennaio - Sperisen avrebbe partecipato in modo decisivo a queste esecuzioni extragiudiziali. In un caso sarebbe intervenuto di persona". Per dissimulare queste esecuzioni, i membri delle forze dell’ordine avrebbero in seguito manipolato la scena del delitto allo scopo di simulare uno scontro fra gli agenti di polizia e i prigionieri. Un caso analogo sarebbe avvenuto il 3 novembre 2005, quando un evaso da un centro penitenziario guatemalteco era stato catturato da agenti della polizia nazionale civile. L’uomo sarebbe stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, "conformemente alle istruzioni di Sperisen". Anche in questo caso, il luogo del reato sarebbe stato trasformato in scontro fra i poliziotti e l’evaso. Un terzo episodio si sarebbe verificato il 1. dicembre 2005: due evasi catturati dalla polizia nazionale civile sarebbero stati uccisi "conformemente agli ordini e con l’autorizzazione di Sperisen". Il 43enne, che dal suo arresto è stato interrogato a 11 riprese, contesta le accuse e chiede l’assoluzione. In un comunicato, i suoi difensori avevano fatto sapere che Sperisen, dopo 16 mesi di detenzione "ingiustificata", è "impaziente di essere giudicato nel quadro di un processo pubblico, nel corso del quale tutti potranno convincersi dell’inanità delle accuse". Secondo gli avvocati l’ex capo della polizia nazionale guatemalteca "potrà finalmente dimostrare la sua innocenza". I legali rammentavano inoltre che l’ex braccio destro di Sperisen, Javier Figueroa, cui erano state rivolte le medesime accuse, è stato prosciolto lo scorso autunno in Austria, dopo aver trascorso due anni e mezzo in detenzione preventiva. "Il processo - viene riferito - ha stabilito l’esistenza di una resistenza armata dei detenuti nell’ambito della presa di controllo della prigione di Pavón da parte delle forze dell’ordine". Nel corso dei sedici mesi dell’istruttoria condotta a Ginevra, gli inquirenti hanno raccolto - nel corso di 20 udienze - le dichiarazioni di 14 testimoni venuti da Francia, Guatemala e Spagna. Quattro commissioni rogatorie sono state condotte in Austria, Spagna e Guatemala. Al processo, che dovrebbe durare tre settimane, sono stati convocati molti testimoni - tra i quali anche Figueroa - ma non si sa ancora se saranno tutti presenti in quanto diversi provengono dall’estero. Israele: l’ex primo ministro Olmert condannato a sei anni per lo scandalo "Holyland" di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 maggio 2014 Israele. L’ex primo ministro, secondo la corte, quando era sindaco di Gerusalemme, ha ricevuto assieme al fratello Yossi circa 115 mila euro da un faccendiere coinvolto nel controverso progetto edilizio. L’ex premier israeliano Ehud Olmert continua a proclamarsi innocente e ha fatto sapere che farà ricorso alla Corte Suprema contro la dura sentenza del Tribunale di Tel Aviv che ieri lo ha condannato a sei anni di reclusione, più altri due con la condizionale, e a una pesante multa (200mila euro) per una vicenda di corruzione avvenuta negli anni 90. Per gli avvocati e i consiglieri dell’ex leader israeliano la condanna è infondata e in ogni caso sproporzionata. Non è questo il parere del giudice David Rozen. Olmert, secondo la corte, quando era sindaco di Gerusalemme, ha ricevuto assieme al fratello Yossi circa 115 mila euro da un faccendiere coinvolto nel controverso progetto edilizio "Holyland". Il giudice Rozen non ha avuto dubbio che quei fondi siano stati versati allo scopo di ottenere l’aiuto di Olmert per l’approvazione del progetto. Il ricorso sarà preso in esame dalla Corte Suprema il prossimo autunno. Sino ad allora l’ex premier rimarrà in libertà. Poi, se la condanna sarà confermata, per Olmert dovrebbero aprirsi le porte del carcere, dove peraltro si trova già l’ex capo dello stato Moshe Katsav che dal 2011 sconta una pena a sette anni per molestie sessuali. Libia: ambasciatore giordano libero dopo scambio con l’islamista Alì Muhammad Dersi Ansa, 14 maggio 2014 Le autorità giordane hanno dovuto cedere sulla richiesta di scambio tra l’islamista Alì Muhammad Dersi, in carcere per aver tentato di fare esplodere l’aeroporto di Amman nel 2006, e il proprio ambasciatore a Tripoli, Fawaz Al Aitan, rapito un mese fa in Libia e liberato dai sequestratori. Secondo fonti ufficiali giordane, Dersi, che stava scontando l’ergastolo, è stato scarcerato e ora dovrebbe continuare a scontare la condanna in una prigione libica. Il governo libico ha tenuto trattative con i rapitori, che sarebbero legati ad Al Qaeda, per liberare l’ambasciatore ed evitare scontri armati per risolvere la questione. Il diplomatico è intanto giunto ad Amman in buona salute, accolto fra gli altri dal primo ministro Abdullah Nesour. L’ambasciatore, che sta bene, era stato rapito in pieno giorno nel centro della capitale libica e poi trasferito, secondo quanto riferiscono alcuni media, a Bengasi. Ancora sconosciuta invece la sorte dei due diplomataci tunisini, Al Arousi Kontassi e Muhammad Ben Sheyk, il primo il consigliere e il secondo il segretario dell’ambasciatore tunisino a Tripoli, nella mani di un altro gruppo libico che chiede il rilascio di altri islamisti radicali prigionieri in Tunisia, responsabili per un attacco di tre anni fa contro forze della sicurezza tunisine. Stessa dinamica nel mese di gennaio per il rapimento di 5 diplomatici egiziani sequestrati nella capitale libica. In cambio della liberazione dei funzionari, i rapitori avevano chiesto e ottenuto dal Cairo il rilascio di un prigioniero libico detenuto in Egitto. Una dinamica, quella del rapimento di diplomatici che potrebbe diventare un’arma potente nelle mani di gruppi radicali.