Blatta nell’orecchio, detenuto in ospedale: fatti che dicono più di tante denunce Il Mattino di Padova, 12 maggio 2014 Ci sono piccoli fatti che raccontano più di tante denunce: qualche giorno fa un detenuto è stato portato al Pronto Soccorso perché nessuno riusciva a togliergli dall’orecchio uno scarafaggio. Il degrado c’è a Poggioreale, ma c’è anche, eccome, nel carcere di Padova. E i motivi sono tanti: certo, il sovraffollamento, che fa vivere tre persone in spazi che sarebbero decenti per una, ma anche la miseria diffusa, perché in carcere ci finiscono sempre più spesso le persone prive di risorse, e l’amministrazione però ha sempre meno soldi per distribuire prodotti per l’igiene. E poi ancora il fatto che in questi anni sono stati ridotti moltissimo i finanziamenti per il lavoro "domestico" dei detenuti, e questo vuol dire che le carceri sono sempre più sporche perché le ore pagate ai "lavoranti" per pulire le aree comuni sono sempre meno e i detenuti che non hanno i soldi neppure per comprarsi detersivi e disinfettanti sempre di più. Ma finché buona parte della società resterà convinta che queste sono lamentele e non la giusta rivendicazione del diritto alla dignità, è sempre più difficile che venga davvero rispettata la Costituzione, là dove dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Carceri che qualche volta assomigliano a un film horror Un urlo mi fa sobbalzare sul letto, quasi sbatto la testa sopra la seconda branda, ma l’allenamento negli anni mi ha fatto prendere in modo magistrale le misure di quei 2 metri e 88 centimetri quadrati che mi spettano per scontare la mia condanna in una cella delle carceri italiane. Butto uno sguardo dalla finestra, fuori è ancora buio e nel frattempo l’urlo si prolunga in tutte le sue sfumature, paura, angoscia e ricerca d’aiuto, cerco di capire cosa sta succedendo, in due passi e mezzo raggiungo il bagno e agguanto lo specchietto, mi fiondo davanti al blindo e da una fessura di 25 centimetri tiro fuori la mano con lo specchietto cercando di intravedere se ci sono movimenti di agenti penitenziari, per me il calcolo da fare è semplice: se vedi tre agenti scelti e un brigadiere significa che qualcuno ha tentato di impiccarsi e stanno attendendo la barella per portarlo fuori dalla cella, ma non vedo nulla, nessuno si trova lì vicino, intanto l’urlo non smette e comincia a diventare fastidioso per gli altri in sezione: questi posti infatti ci hanno resi insensibili, e solitamente quando qualcuno cerca di impiccarsi lo sgomento dura poco, ma questo è già venti minuti che urla. Di persone che tentano di impiccarsi ne vediamo una o due a settimana, oramai non ci stupisce più nulla, siamo attori contro voglia di un film horror di cui è responsabile quella parte della politica che non si vuole assumere impegni concreti per cercare di umanizzare le carceri. Ma torniamo a questa trama raccapricciante, proprio così, una cosa da non crederci: ai giorni nostri, in una società colta ed evoluta, uno scarafaggio è entrato all’interno dell’orecchio di un detenuto, uno dei peggiori incubi che un essere umano possa avere si è avverato qui nel carcere penale di Padova, questo carcere pochi mesi fa fu definito bellissimo dall’allora ministra Cancellieri, ora io mi domando se qui succede questo figuriamoci cosa succederà in quelle carceri che non sono "bellissime". Questa è una di quelle situazioni che dobbiamo affrontare oltre alla privazione della nostra libertà, ma se con azioni non rispettose della società abbiamo noi stessi contribuito a farci privare della libertà, la galera può starci anche bene, ma chi ci ha condannato nel nome del popolo italiano si rende conto a cosa ci sta mandando incontro? L’uomo dell’urlo è stato portato in ospedale dopo un’ora e verso mezzogiorno lo si è rivisto in sezione, e noi abbiamo cercato di scherzare chiedendogli "ma sei ancora vivo?", e anche per lui che non gridava più la giornata è continuata poi normalmente. Usare il termine normale non è però proprio azzeccato, perché gli incubi che siamo costretti a subire stanno diventando realtà quotidiana. Ma come si fa ad alzare la voce contro questa disumanità se poi non sai dove finirai, come puoi combattere questa quasi totale indifferenza se non hai speranza di cambiare le cose? noi detenuti ci abbiamo provato ma quasi nessuno ci ascolta, e questo però non significa che dobbiamo smettere di chiedere i nostri diritti: perché una giustizia sia veramente giusta bisogna infatti avere la forza di riconoscere i detenuti come essere umani e non alieni. Il carcere dovrebbe essere una specie di riparazione al danno che subisce la società per azioni delinquenziali, ma dovrebbe soprattutto aiutare chi commette reati a reinserirsi nella società stessa una volta scontata la pena. E però come si fa a non portare rancore quando per anni ti hanno rinchiuso in luoghi degradati fra violenza sporcizia ignoranza, senza mai darti la possibilità di fermarti una volta a pensare al perché dei gesti che hai commesso, come si fa a non essere incazzati quando si è ricevuta tanta indifferenza? Erjon Celaj Infestati dagli insetti (a Catania anche ratti) Quando mi hanno raccontato che a un nostro compagno è entrato uno scarafaggio nell’orecchio e lo hanno portato in ospedale per levarglielo non potevo credere a quell’assurdità, poi un suo compagno di sezione ha detto che gli hanno dovuto estrarre lo scarafaggio con un divaricatore, allora ho capito che la storia non era frutto della fantasia. È un dato di fatto che nelle carceri oltre al sovraffollamento dei detenuti, c’è il sovraffollamento di blatte, che io chiamo "inquilini indesiderati", è una cosa schifosa anche solo descriverla. Devo dire che la Direzione fa fare la disinfestazione nelle sezioni e nelle celle detentive almeno due volte al mese, ma niente, il problema è che tutto il carcere è infestato da questi parassiti e ci vorrebbero delle disinfestazioni e una pulizia radicali. Nelle tante carceri dove sono stato ho visto di tutto, ricordo che nel carcere di Catania Piazza Lanza, nei gabinetti alla turca dovevamo mettere una bottiglia piena d’acqua nel buco di scarico, perché uscivano i ratti, e una volta ad un detenuto lo hanno dovuto portare in ospedale, perché mentre era seduto a fare i suoi bisogni un ratto lo ha assalito mordendolo, non so neppure spiegare la paura di quando dovevi levare quella bottiglia per poter usare la turca. Ma in che schifo di posti veniamo rinchiusi? È normale convivere con tutte queste bestie, rischiando giorno dopo giorno di prendere malattie e infezioni a causa di condizioni di miseria e degrado che ti privano anche della dignità? Eppure non siamo più nell’era delle pestilenze o delle guerre, quando le galere erano posti dove trovavi di tutto, questo senso di abbandono è allucinante, se si pensa che siamo nel 2014 e il diritto alla salute dovrebbe essere garantito a tutti. Io su questo penso che mi vergogno di essere un cittadino italiano: anche se al momento sono detenuto, sono ancora cittadino di questo paese e non credo che sia da Paese civile tenere degli esseri umani in situazioni così degradanti: non solo infatti dobbiamo stare nelle carceri sovraffollate, ma dobbiamo anche rischiare di prenderci delle malattie o delle infezioni. Io ricordo che sono entrato in buona salute e a questo punto non sono così sicuro di uscirne nella stessa maniera. Spero che questo mio sfogo arrivi a chi di dovere, perché finalmente si riesca a risolvere questi problemi di degrado. E voglio per lo meno credere alla sensibilità delle ASL, che dovrebbero monitorare lo stato di igiene di tutte le nostre carceri. Luca Raimondo Giustizia: il ministro Orlando; risposto a rilievi Strasburgo, speriamo lavoro apprezzato Adnkronos, 12 maggio 2014 In tema di sovraffollamento delle carceri, "i provvedimenti legislativi adottati hanno ridotto la tensione nei numeri". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando che, a margine di un incontro al Salone del libro, ha osservato come "in questo momento siamo ai di sotto dei 60mila detenuti, si sono quasi azzerate le situazioni di detenuti con spazi al di sotto dei 3 metri quadri, abbiamo avviato convenzioni con le Regioni italiane per spostare una parte di detenuti in comunità, stiamo lavorando per il rimpatrio di una parte di detenuti stranieri". "Abbiamo lavorato su tutti gli appunti che ci sono stati mossi da Strasburgo, speriamo e crediamo ci siano le condizioni perchè si apprezzi il lavoro che è stato fatto", ha concluso. Giustizia: Tangentopoli e la grande amnesia italiana di Ezio Mauro La Repubblica, 12 maggio 2014 Vent’anni dopo, bisogna dire che la seconda Repubblica non è mai cominciata. Veder replicare le stesse trame di Tangentopoli, sulla stessa scena milanese, con gli stessi personaggi rivela una continuità di costume, di pratiche, di abitudini e soprattutto di concezione della politica che ha attraversato due decenni, rimanendo intatta. Non solo: i nomi eterni di Frigerio, Greganti e Grillo sembrano paradossalmente valere come una garanzia di competenza per il nuovo malaffare. Della grande crisi italiana di Mani Pulite, dunque, oggi non resta la riprovazione, l’immunizzazione, la condanna sociale e l’impegno comune a voltar pagina. Al contrario, Tangentopoli è diventata un know-how, un’esperienza professionale, un biglietto da visita per continuare a rubare nello scambio tra politica e affari. Com’è stato possibile che personaggi discreditati, con evidenti responsabilità criminali accertate e una pericolosità sociale conseguente potessero restare sulla scena delle grandi opere pubbliche italiane, lì dove il sistema ha già dimostrato ampiamente di essere più fragile e più esposto? Restarci, bisogna aggiungere, con l’expertise di un vasto sistema di relazioni intatto, capace di lucrare e distribuire guadagni, percentuali, promozioni e protezioni. Com’è stato possibile, in particolare, che il "compagno G" sia rimasto sulla scena del Pd, anello perfetto di congiunzione e di scambio tra politica, imprese, cooperative, appalti, tangenti e faccendieri di altri partiti? Chi nel Pd, a livello nazionale e locale, continuava a parlare con Greganti, riconoscendogli evidentemente un ruolo e una funzione, perché lo faceva, a nome di chi, con quale obiettivo e con quale tornaconto? Che è successo tra cooperative e partito, attorno alla percentuale sempre garantita di Greganti, tangente vivente ed eterna maledizione della sinistra? Vogliamo sapere, per capire se cambiando a sinistra le sigle dei partiti restano intatti i metodi. Se il presidente del Consiglio, come ha detto, si tiene fuori dalla vicenda lasciando che la magistratura lavori, potrebbe però intanto chiedere al segretario del Pd di muoversi, e di fare quella pulizia che è più utile e più doverosa della rottamazione. Ma l’accusa vale anche per il mondo delle imprese, che come vent’anni fa preferisce evidentemente essere taglieggiato nelle tangenti ma garantito negli appalti dalla complicità illegale coi faccendieri della politica piuttosto che confrontarsi con un mercato vero, all’onor del mondo, vincendo e perdendo davanti a una regola chiara, e cioè competendo. Mai una denuncia, dagli imprenditori, sempre pronti a berciare contro la politica. Mentre l’Expo dimostra invece che sono soci, gregari e complici della politica intesa nel modo peggiore. Il problema dunque riguarda la classe dirigente del Paese nel suo insieme. Un establishment che non c’è perché il suo posto e il suo ruolo sono usurpati da "giri" chiusi di auto-garanzia e di cooptazione, e da network che tutelano il proprio potere e il comando, ma sono incapaci di produrre garanzia di autonomia per sé - nella divisione degli ambiti tra pubblico e privato - e garanzia di rispetto delle regole per tutti. L’impasto, la relazione, la percentuale e lo scambio sono la vera cifra di un Paese che affonda, senza soggetti nitidi, autonomi, e soprattutto liberi davanti al mercato, alle leggi, alla pubblica opinione. Un Paese disperato e già vinto, se mette la sua più importante opera pubblica degli anni della crisi alla mercé di un manipolo di anziani malfattori, che potrebbero sembrare le caricature lombarde degli ultimi Jack Lemmon e Walter Matthau, col contorno tipicamente italiano di ristoranti milanesi, falsi circoli culturali, immancabili cardinali devoti al denaro e al potere. Una caricatura, se non avessero le mani sull’Expo. E bisogna ancora vedere fin dove arrivano quelle mani, esperte di cooperative rosse per Greganti, di sottomondo democristiano per Frigerio, di berlusconismo e sottobosco bancario per Grillo. Ma evidentemente, come notava ieri Eugenio Scalfari, non sta molto bene nemmeno la pubblica opinione, che abbiamo appena citato tra i protagonisti assenti. Nei Paesi di democrazia diffusa, e attiva, è un soggetto ben distinto dal potere, capace di controllarlo, giudicarlo e soprattutto di pretendere un costante rendiconto. Eccitata da Tangentopoli, credendo di essere diventata protagonista, la pubblica opinione italiana ha affidato la sua fuoruscita da quella stagione a un presunto uomo nuovo che era in realtà il figlio legittimo, perfetto e riconosciuto del Caf, cioè quell’alleanza di potere più che di governo tra Craxi, Andreotti e Forlani, con cui l’agonia della Prima Repubblica cercò di prolungare se stessa prima di sprofondare nelle tangenti. Per convenienza e per natura, si potrebbe dire per vizio e per calcolo, Berlusconi appena arrivato al potere attraverso la breccia di Tangentopoli l’ha subito richiusa, murando insieme con quel periodo anche le questioni della trasparenza e della legalità. Grandioso interprete del senso comune mutevole degli italiani, abile fabbricatore lui stesso di senso comune, lo ha portato via via a sostituirsi alla pubblica opinione. Con la differenza - capitale - che il senso comune non è autonomo, ma è tutt’uno con il potere, che lo indirizza, lo guida e spesso lo sceneggia. Si spiega così (e così soltanto) la grande amnesia italiana che ha realizzato questa straordinaria banalizzazione del ventennio. Operazioni criminali devitalizzate nel giudizio sociale, legami organici con le mafie ridotti ad episodi romanzeschi, inchieste raccontate come persecuzioni, manipolazioni dei codici ad personam spacciate come riforme di interesse generale, condanne definitive deprivate di ogni significato, pene spettacolarizzate, misure giudiziarie vendute come volontariato, la legalità trasformata in un optional, anzi un fastidio personale e un impaccio nazionale. Una continua, insistita mistificazione della realtà, un’accorta epopea del banale per nascondere evidenze criminali vere e proprie: pervertendo infine e soprattutto la politica, che è la capacità di giudicare la realtà, creando consenso o dissenso su questo giudizio. Assistiamo così, con il contemporaneo arresto di Claudio Scajola e la condanna definitiva a Marcello Dell’Utri, a una rappresentazione clamorosa di contiguità operativa e politica con le mafie da parte del vertice di Forza Italia, il cui capo si dice "addolorato": perché la pubblica opinione non gli chiede qualche parola di più. Non gli chiede di spiegare che cos’era quel partito, che vede il leader ai servizi sociali dopo una sentenza per frode contro lo Stato, il suo braccio destro e quello sinistro - Dell’Utri e Previti - condannati definitivamente per reati infamanti per qualsiasi politico a qualunque latitudine (salvo che in Italia), il suo reclutatore della prima ora, Scajola, in carcere per aver favorito la latitanza di un ex parlamentare colluso con le ‘ndrine. Le parole hanno ancora un significato, in Italia? E i fatti, contano qualcosa? La grande amnesia ha funzionato da amnistia generale, preventiva e definitiva. Il Paese abbassa la sua soglia di sensibilità, sembra non sentire più il dolore, oppure gli antibiotici non funzionano più. Il virus galoppa anche per colpa nostra. Eppure il momento è questo, e siamo già in ritardo di vent’anni: bisogna pretendere da Renzi misure immediate e forti sugli appalti e sulle gare, perché il cambiamento comincia da qui, evidentemente. Subito. Bisogna che la magistratura vada avanti senza che qualcuno la blocchi con false riforme. Ma bisogna anche che i partiti non deleghino alle procure la pulizia al loro interno, e prendano posizione su quel che sta accadendo separandosene nei fatti, buttando fuori finalmente gli uomini compromessi e stabilendo regole nuove. Solo così si tutela il mercato e il denaro pubblico, si crea nei cittadini un’opinione consapevole e avvertita, si trasmette la sensazione che il Paese può liberarsi dalla schiavitù della tangente, può cambiare. Dal 1992 ad oggi gli Stati Uniti sono passati dall’economia dell’hardware a Google, Amazon, Twitter, Facebook e Whatsapp. Al padiglione dell’Expo noi rischiamo di esporre Greganti, Frigerio e Grillo, eterni talenti nazionali di un Paese che rischia di morire soffocato. Giustizia: corruzione, legalità e… buona volontà di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 12 maggio 2014 Davanti a un’emergenza non c’è mai niente di meglio che invocare misure straordinarie, come quella "task force anticorruzione" a cui qualcuno pensa per curare la nuova ferita inferta a Milano dalla cricca delle tangenti. Peccato soltanto che queste toppe siano spesso risultate peggiori dei buchi. Si pensi all’esito del commissariamento di Pompei. O ai Grandi eventi gestiti dalla Protezione civile vecchio stile: uno scandalo che quattro anni fa ha indotto il governo, guarda un po’, proprio a varare una legge contro la corruzione. Misura che evidentemente è servita ben poco, a giudicare dalle notizie di questi giorni. Le quali, va detto, di straordinario hanno davvero poco. Sono anni che la Corte dei conti mette in guardia sulle dimensioni abnormi raggiunte dal malaffare. Anni che i magistrati prospettano il rischio di corruzione e infiltrazioni criminali nei grandi appalti, compresi quelli dell’Expo. Anni che la politica, indifferente all’abisso che ormai la separa dal Paese, è impegnata in una immorale escalation affaristica. Anni che scivoliamo sempre più in basso nelle classifiche della corruzione percepita stilate da Transparency International. Nel 1995, quando i più importanti processi di Mani pulite erano ancora in pieno svolgimento, l’Italia occupava la casella numero 33; diciotto anni dopo eravamo precipitati al sessantanovesimo posto. Dopo Ghana, Arabia Saudita e Giordania; distanziati di 39 posizioni dalla Spagna, 47 dalla Francia, 57 dalla Germania. Che altro serviva per capire? Se qualcosa di paradossale c’è semmai nella vicenda dell’Expo, è che in un Paese refrattario a ogni cambiamento perfino i signori collettori delle tangenti sono sempre gli stessi di 22 anni fa. Più canuti e incartapecoriti, ma non meno famelici ed efficienti: per la gioia di chi ha sempre negato l’esistenza di Tangentopoli. Anziché a improbabili misure straordinarie, ora si deve pensare a chiudere in fretta e con meno danni possibili questa pagina. La città di Milano non merita un fallimento clamoroso agli occhi del mondo. Non lo meritano i milanesi, come non lo meritano tutti gli italiani: perché questa è una faccenda che vale l’orgoglio e la reputazione di un intero Paese. C’è una persona che ha l’incarico di condurre in porto il progetto, Giuseppe Sala. Sia messo nelle condizioni di lavorare al meglio, con collaboratori capaci e leali. Facciano tutti la loro parte, chi deve completare l’opera e i magistrati che devono fare pulizia. Ma soprattutto la politica. Perché se siamo arrivati a questo punto la colpa è innanzitutto di quanti in tutti questi anni occupavano la stanza dei bottoni. L’Expo è stata gestita come una fiera di paese, solo per spartire posti e affari. Privi di visione, ripiegati su tornaconti personali e di bottega, i politici hanno sprecato un’altra grande occasione per dimostrare di avere a cuore l’interesse generale. Ricordiamo le liti per l’occupazione delle poltrone, gli scontri continui fra le istituzioni e la guerra delle aree, con gli speculatori costantemente in agguato. Uno spettacolo così poco edificante per tutti noi quanto assai invitante per faccendieri, corrotti e corruttori. Gli ideatori dell’Esposizione universale del 1906, che impose Milano agli occhi del mondo come capitale industriale ed economica del Paese, si rivolteranno nelle tombe. Giustizia: migliaia di fascicoli su politici e favori, l’archivio di Scajola è sotto sequestro di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 12 maggio 2014 Per i pm il politico è "socialmente pericoloso". S’indaga su movimenti bancari per milioni di euro. Decine di raccoglitori catalogati per nome e per argomento. Documenti riservati, veri e propri dossier che l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola custodiva nei propri studi di Roma e Imperia oltre che a Villa Ninnina, la lussuosa dimora ligure a Diano Calderina. È l’archivio messo sotto sequestro dagli investigatori della Dia per ordine dei pubblici ministeri di Reggio Calabria. Non è l’unico. In una cantina della segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, sono state trovate migliaia di carte che dovranno essere adesso analizzate. Materiale prezioso per l’inchiesta che ha portato in carcere Scajola e tutte le persone che negli ultimi mesi hanno protetto e agevolato - secondo l’accusa - la latitanza di Matacena, l’ex deputato di Forza Italia condannato a cinque anni di pena per complicità con la ‘ndrangheta. Le verifiche si concentrano poi sulle movimentazioni bancarie, per ricostruire i flussi finanziari che avrebbero consentito a Scajola e agli altri di mettere in sistema il "programma criminoso", come lo hanno definito i magistrati motivando la scelta di indagarli anche per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare emergono alcuni trasferimenti di denaro, considerati sospetti, effettuati da Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare riparato a Dubai. Scajola "socialmente pericoloso" Nella loro richiesta di cattura gli inquirenti - il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pm nazionale antimafia Francesco Curcio - evidenziano come le risultanze investigative "costituiscono uno spaccato di drammatica portata, in grado di enfatizzare la gravità "politica" del comportamento penalmente rilevante consumato da Scajola, il cui disvalore aumenta a dismisura proprio nel momento in cui lo si mette in correlazione al delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso posto in essere da Matacena, da considerare la manifestazione socio-criminale più pericolosa per uno Stato di diritto che un ex parlamentare ed ex ministro dell’Interno dovrebbe avversare con tutte le sue forze e che, invece, consapevolmente sostiene, agevola, rafforza". Al momento di sollecitare l’arresto preventivo chiedono che sia disposto il trasferimento in carcere per due motivi: "Da un lato l’obiettiva gravità dei fatti reato e dall’altro la evidente pericolosità sociale dei prevenuti, quali risultano dall’estremo allarme riconnesso a condotte delittuose poste in essere in modo programmato". Tutto questo, aggiungono, "non solo è essenziale alla conservazione ed al rafforzamento della capacità di intimidazione che deriva dal vincolo associativo che caratterizza l’organizzazione di tipo mafioso a favore della quale il contributo consapevole di Matacena è stato prestato, ma si pone come ineludibile passaggio al fine di evitare o, comunque, arginare l’espansione in ambiti imprenditoriali e politici delle consorterie criminali di tipo mafioso, potenzialmente in grado di condizionare in modo irreversibile tali ambiti decisionali ed operativi". E concludono: "Tale giudizio negativo, che si riflette inevitabilmente in termini di concretezza e specificità anche sulla valutazione del pericolo di reiterazione di analoghe condotte delittuose, risulta rafforzato dalla capacità criminosa degli indagati". Le carte riservate Sono migliaia i documenti che Scajola conservava seguendo un metodo che gli investigatori definiscono "maniacale". Riguardano politici, imprenditori, personaggi con i quali ha avuto a che fare nel corso della sua lunga e intensa attività. Ma anche affari, viaggi, richieste di interventi, raccomandazioni. Qualche settimana fa, nell’ambito di un’inchiesta che riguarda il porto d’Imperia, i magistrati della Procura locale gli avevano sequestrato materiale riservato risalente all’epoca in cui era ministro dell’Interno. Comprese alcune relazioni su Marco Biagi. In quell’occasione si trattò di una ricerca mirata. Giovedì scorso, invece, gli inquirenti calabresi hanno deciso di portare via l’intero archivio, alla ricerca di ogni elemento utile a sostenere l’accusa più grave. Non solo lì. Quando sono arrivati nell’abitazione sanremese della segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, gli agenti della Dia hanno scoperto che la donna aveva la disponibilità anche di una cantina. E in esecuzione dell’ordine dei magistrati che prevedeva la verifica "delle pertinenze e dei locali annessi a tutti gli immobili", alla ricerca degli indizi necessari a "ricostruire la genesi e la natura dei rapporti tra i soggetti sottoposti a indagini", hanno deciso di controllarla. Senza immaginare di poter trovare tanto materiale. Nello scantinato c’erano infatti - pure in questo caso classificati in faldoni - molti documenti relativi all’attività dell’ex parlamentare condannato. Movimenti per milioni di euro Un intero capitolo della richiesta d’arresto è dedicato ai "riscontri economico-finanziari" che i pubblici ministeri ritengono di aver trovato all’ipotesi accusatoria. Sono elencate decine di movimentazioni bancarie che ora gli indagati saranno chiamati a chiarire. In particolare sui conti di Chiara Rizzo risultano trasferimenti di denaro di vari importi. Alcuni molto consistenti, come quello del 15 luglio 2009 per 952.000 euro; oppure quello da 270.000 euro effettuato nel 2010 attraverso la Compagnie Monegasque de Banque - Principato di Monaco, Paese nel quale la signora Matacena ha spostato la residenza. Sotto osservazione è finito pure il patrimonio della madre del condannato, anch’essa indagata nell’inchiesta calabrese e ora agli arresti domiciliari, con particolare attenzione agli spostamenti di soldi tra l’Italia e l’estero. Giustizia: il ministro Orlando, Dell’Utri… e l’atteggiamento sospetto da parte del Libano di Cristiana Mangani Il Messaggero, 12 maggio 2014 La procura generale di Beirut si prepara ad affrontare il caso Dell’Utri. E già oggi sul tavolo del Pg libanese ci saranno tutti i documenti arrivati dall’Italia con la richiesta di estradizione. Non sarà un lavoro facile, tantomeno veloce. La sensazione è che i tempi si dilateranno e che, alla fine, le ragioni politiche peseranno più delle argomentazioni giuridiche. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è detto ottimista sulla soluzione della querelle. Anche se non ha potuto fare a meno di evidenziare che l’atteggiamento di Beirut è quantomeno sospetto. Il Guardasigilli, a Torino per la Fiera del libro, ha confermato di "aver avviato nei tempi più rapidi tutte le procedure previste". E, nel giorno in cui l’ex senatore di Forza Italia si dichiara "prigioniero politico" dalla clinica dove è agli arresti ospedalieri, Orlando rimane fiducioso che "tutte le azioni intraprese" dal governo italiano "andranno a buon fine". "Abbiamo fatto quanto previsto dai trattati, e anche di più - sottolinea il ministro. Lo abbiamo fatto con particolare scrupolo. E non perché si tratta di Dell’Utri, ma perché c’è un atteggiamento sospetto, rispetto al quale facciamo tutto il possibile affinché la sentenza possa avere attuazione". La battaglia si annuncia lunga e difficile. Il procuratore generale si prenderà tutto il tempo necessario per esaminare le carte e sciogliere i nodi del caso, a cominciare dal reato - concorso esterno in associazione mafiosa - che in Libano non esiste. Inoltre rimane in piedi, anche se con diversi dubbi giuridici, la questione della prescrizione, che a Beirut è di dieci anni. Un particolare, quest’ultimo, sul quale i legali del fondatore di Publitalia cercheranno di insistere. "Ci troviamo di fronte a un Paese instabile - ammette ancora il Guardasigilli -ma con una cultura giuridica consolidata di derivazione europea. Mi attengo a ciò che è scritto nei trattati e parto dall’attività svolta dalla procura generale di Palermo e dal ministero della Giustizia". Nel frattempo, il detenuto eccellente continua a risiedere nella clinica privata Al Hayat di Beirut. Ma non è un ricoverato qualsiasi. La sua stanza è nella first class al quarto piano della struttura privata, ha il numero 410, un reparto per vip, che costa più di un albergo extra lusso. Alla fine chi pagherà i costi per questa lunghissima detenzione? Lo stesso Dell’Utri, il Libano, o l’Italia, visto che è un nostro detenuto? È probabile che sarà lo stesso fondatore di Forza Italia a dover fronteggiare la spesa, in considerazione del fatto che è che come se si trattasse di una detenzione domiciliare, dunque a suo carico. Ma è solo uno degli aspetti controversi di tutta questa vicenda. Ieri Dell’Utri ha incontrato i familiari e gli avvocati. E a chi gli ha chiesto cosa ne pensasse di quanto aveva detto Berlusconi sulla sua condanna, ha risposto: "Berlusconi è addolorato per me? Lo sono più io, lui è ai servizi sociali". Poi, la moglie ha aggiunto: "Per noi la condanna è stata una vera mazzata, ma quello che ora mi preoccupa più di ogni altra cosa, sono le condizioni di salute di mio marito". La signora risiede al Sofitel Hotel Le Gabriel, un albergo a quattro stelle un po’ decentrato. Con lei c’è la figlia Margherita, che ogni giorno è dal padre per assisterlo. Oltre all’avvocato libanese con il quale stanno preparando la difesa. "Ero un libero cittadino - ha dichiarato l’ex senatore dopo la conferma della sentenza di condanna a sette anni - avevo un regolare passaporto e potevo andare dove volevo. Quella di venerdì è stata una sentenza politica, una sentenza già scritta di un processo che mi ha perseguitato per oltre vent’anni". Un concetto che ripete anche uno dei suoi avvocati, Giuseppe Di Peri, il quale ha già annunciato il ricorso alla Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo. "È un reato che non esiste - ha spiegato - Le ragioni sono tutte politiche". Giustizia: l’insostenibile peso dell’ignoranza… e lo sconto di pena ai detenuti che leggono di Antonello Dose e Marco Presta Il Messaggero, 12 maggio 2014 La vera grazia a cui un detenuto deve aspirare è la Deledda. L’assessore alla Cultura della Regione Calabria, Marco Caligiuri, ha presentato una proposta di legge che prevede uno sconto di pena di tre giorni per ogni libro che il condannato in via definitiva riesce a leggere in carcere. Il provvedimento, relativo a pene detentive superiori ai sei mesi, potrà regalare al massimo quarantotto giorni di carcere in meno all’anno. Questa iniziativa, che si ispira all’esperienza positiva in quattro carceri brasiliane, qualora venisse approvata dal Parlamento, causerà quanto meno un risultato importante: avremo una malavita molto più istruita. Il picciotto inviato dal boss a chiedere il pizzo a un negoziante, gli si rivolgerà probabilmente così: "Caro signore, sono qui per riscuotere il giusto alla protezione che le garantiamo. Se non vuole che un increscioso incidente devasti la sua fiorente attività commerciale, le consiglio vivamente di concederci l’obolo che le chiediamo". Il mammasantissima della mafia, che un tempo era Totò u curtu, diventerà Totò il colto. C’è da dire una cosa: se ci fosse stata questa legge ai tempi del Conte di Montecristo, l’abate Faria, uomo di cultura enciclopedica, se la sarebbe cavata con una sola settimana di detenzione. Passando dalla fantasia alla realtà, anche il nostro Marcello Dell’Utri, grande collezionista di testi antichi, avrebbe la possibilità di tornare in Patria dal Libano e affrontare, con animo sereno, una pena molto ridotta. La rieducazione, negli intenti del relatore Caligiuri, lascia il posto alla relazione: il recluso dovrà dimostrare di aver letto effettivamente dei libri, redigendo una relazione scritta. Il traffico dei riassunti dei romanzi diventerà una delle principali attività illecite all’interno delle nostre case circondariali. Sarà curioso e interessante leggere gli elaborati di alcuni carcerati, influenzati forse dalle loro competenze - diciamo così - "professionali". Il pusher troverà ridicoli i paradisi artificiali di Baudelaire, mentre il killer di camorra troverà poco credibile il modo in cui Raskolnikov, protagonista di "Delitto e castigo" di Dostoevskij, uccide la vecchia usuraia: "Dopo che l’hai ammazzata in casa sua, falla sparire, no!". Viene, inoltre da chiedersi, ma leggere la Recherche oppure un libello di 20 pagine, darà lo stesso punteggio? Un libro di cucina di Benedetta Parodi vale come l’Ulisse di Joyce? Non c’è il rischio che, di fronte a certi autori, il detenuto preferisca scontare per intero la pena? Un dato sconfortante è scaturito dal Salone del Libro che si è svolto in questi giorni a Torino: un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno, il che significa che per spingerci a leggere, purtroppo, ci devono costringere proponendoci dei vantaggi molto diversi dal semplice appagamento della mente e dell’anima. C’è un solo pericolo in questa lodevole iniziativa: che un nuovo premio letterario si aggiunga alla sterminata lista già esistente. Dopo il Premio Strega, il Bancarella e il Campiello, le serate estive degli italiani saranno rallegrate dal prestigioso Premio San Vittore. Con una certezza incrollabile: una giuria di detenuti sarà sicuramente più attendibile di quelle attuali, pilotate dalle case editrici. Lettere: "onore", la parola dimenticata che ho riscoperto in carcere di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2014 L’onore è scomparso dal linguaggio quotidiano: un altro desaparecido. Quella parola è stata usata troppo a lungo, male e a sproposito in riferimento alla mafia, all’ambiente militare, alla castità femminile e persino per definire un delitto, oppure come sinonimo di "privilegio" e di "riconoscimento". E così, dopo essere stata deformata, è stata buttata via. Ma l’onore continua a esistere anche se non se ne parla, anche se la maggioranza ha imparato a farne a meno, anche se molti pensano che sia - come mi disse un giorno un giovane paziente - "una cosa da nonni". L’onore è nella fedeltà alla parola data, nell’impegno a vivere in base ai propri convincimenti, come nella capacità di riconoscere e pagare i propri errori; è nel dire la verità anche quando costa caro, è infine nel rispettare l’onore degli altri e altro ancora. É in carcere che ho imparato come sia importante ritrovare il proprio onore, quando un uomo è un uomo e non un quaraquaqua. Un giorno dissi a un mio paziente detenuto: "Hai accettato la pena, hai sofferto il senso di colpa, hai rintracciato le connessioni fra le esperienze consce e inconsce che ti hanno portato a commettere un delitto, adesso quando uscirai sarai un uomo libero davvero, anche dentro" "Non basta" rispose. "Sì - aggiunse un altro paziente - la vera pena comincia fuori: che cosa dico di me a una ragazza? O quando cerco un lavoro? O a chi mi affitta una stanza? " Poi parlarono tutti: "Noi siamo liberi da una coazione violenta, ma non siamo davvero liberi finché non abbiamo ritrovato il diritto al rispetto, come gli altri". "É inutile siamo marchiati per sempre" "alla gente interessa che non facciamo la recidiva, ma a noi non basta", finché uno alla fine disse quella parola: "Ci manca l’onore". "Ci manca la possibilità di essere considerati ancora, di essere visti come persone per bene… insomma di meritare fiducia, di non sentirci sempre esposti a vergogna e disprezzo". Era necessaria una restituzione. Avremmo trovato insieme l’onore perduto in attività - anche in carcere - che fossero di utilità sociale. Lettere: io in carcere, libero da nemici e da falsi amici di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2014 Lettera immaginaria di un potente appena finito in cella. Non ci crederà nessuno. Ma sono quasi sollevato, sì, di essere in carcere. Qui almeno sono al sicuro: dai nemici, dagli ex amici. Nessuno può vedermi e io non posso sentire quello che dicono di me. Il mondo è fuori. Adesso l’incubo è terminato: non posso più cadere, non posso perdere nulla, perché ho già perso tutto. Sono finito, dicono tutti. É vero, questa volta è vero, ma è una liberazione... fa ridere anche me, dirlo adesso che sono in gabbia... proprio una liberazione. Ma non mi sono mai sentito tanto leggero. Non devo più spendere ore al telefono per contare voti, chiedere poltrone, candidature. Non devo più dare prove di forza, di potenza. Appena mi hanno chiuso la porta alle spalle ho pensato: chiamerò, organizzerò una conferenza stampa, sentirò il Presidente, fonderò una corrente. Conterò gli uomini. Macché... Sono qui, un vecchio, che si aggira in una stanza di tre metri per tre con un paio di calzoni, i mocassini di marca - almeno quelli! - e una camicia. Basta. Per fortuna. Credetemi, davvero non ne potevo più di quella vita. Di tutta quella gente che mi leccava il sedere, ma in fondo - glielo leggevo negli occhi - mi odiava. Perché avevano paura di me, in me vedevano la loro miseria, la loro ruffianeria. Industriali, politici, giornalisti. Non avete idea di che cosa arrivavano a dire. Mi vergognavo per loro, li disprezzavo. Ma la loro piccolezza mi faceva sentire grande. Me li immagino adesso: quei giornalisti servi che ora scrivono articoli sdegnati e pontificano dalle televisioni dove li ho messi io. E i sindaci amici già approdati ad altri schieramenti, gli imprenditori che svuotano i cassetti, che perdono il sonno pensando a quello che ci siamo detti al telefono. Sarà dura uscire. Tireranno tutti dritto per strada per sfuggire il mio sguardo. Il telefono non suonerà più. Mi aggirerò in pantofole per i corridoi dove un tempo facevano la coda parlamentari e governatori. Non riesco a farvi pena, lo so. Ma lo sopporterò. Di una cosa, però, ho paura: di me stesso. Di dover dire perché ho fatto tutto questo. Ve lo giuro, non lo so. Adesso non ha più senso che tiri fuori ideali o palle del genere. Chissà, forse all’inizio, non lo ricordo. Ma poi? Il potere, direi. Banale, lo so. Ma non è così semplice come credete. É una strana luce che non illumina, ma abbaglia. Una specie di forza che decide i destini degli altri. Li piega. Che si misura soprattutto con il timore. E ti fa sentire più vivo. Più grande. A volte quando tornavo a casa e mi spogliavo prima di andare a letto mi stupivo di essere solo quell’uomo con la pelle raggrinzita, i muscoli che si indebolivano. Ma poi nella grande vetrata ritrovavo riflesso lo sguardo che gli altri temevano. E mi rassicurava. Sì, ero riuscito a ingannare anche me. Per questo l’ho fatto. Ma quando uscirò non potrò più. Per fortuna qui dentro mi hanno tolto anche lo specchio. Firenze: visita dell’onorevole Achille Totaro (Fdi) all’Opg di Montelupo Fiorentino www.gonews.it, 12 maggio 2014 Si è tenuto all’Opg di Montelupo Fiorentino il sopralluogo dell’Onorevole Achille Totaro di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, a sopralluogo hanno partecipato anche Miro Scariot e Giuseppe Madia consigliere uscente al consiglio comunale di Montelupo. L’Onorevole Totaro è stato a colloquio con gli operatori della penitenziaria ed i dirigenti dell’Opg, il tema della chiacchierata è stato il provvedimento che verrà discusso alla Camera dei Deputati e relativo alla chiusura e variazione della destinazione d’uso delle strutture preposte ad ospedale psichiatrico giudiziario. L’Onorevole Totaro espone i suoi dubbi sul provvedimento che verrà dibattuto: "trovo assai avventata la scelta di delegare alle regioni la gestione e la detenzione dei soggetti attualmente presenti negli Opg. La creazione di nuove strutture pone dubbi sulla sostenibilità dei costi per le casse regionali già dissanguante, altro dubbio è quello relativo all’utilità di allontanare la figura professionale degli operatori di Polizia Penitenziaria i quali sono comunque capaci di offrire professionalità ed esperienza nel trattare casi così delicati". Sempre l’Onorevole di Fdi-An si espone sulla possibilità di veder nascere a Montelupo Fiorentino un’opera di riconversione della struttura nella direzione di un penitenziario per detenuti a fine pena o con misure carcerarie attenuate: "ritengo che sostituire l’Opg con una struttura che espone la cittadina ed i cittadini al rischio di vagabondaggio di detenuti spesso soggetti a situazioni di disagio sociale sia molto errato. Un paese di provincia non può sobbarcarsi queste problematiche per soddisfare chi dal palazzo fa delle scelte senza conoscere la realtà locale". Miro Scariot sottolinea la rilevanza locale delle scelte fatte in Parlamento ed evidenzia come "il problema del sovraffollamento delle carceri non può essere scaricato su Montelupo, non trovo giusto che un comune come il nostro debba trovarsi in mezzo ad un via vai di detenuti con ovvie ricadute negative sulla percezione della qualità della vita e della sicurezza dei cittadini" L’Onorevole Totaro ha parlato anche di Europa e quindi dell’idea di Ue per la quale vorrebbe lavorare qualora fosse eletto eurodeputato: "l’Unione Europea è ormai divenuta una realtà asettica di burocrati e banchieri, Fdi-An vuole un ‘Europa fatta di popoli e nazioni che collaborano ma che non divengono succubi della lobby di turno". Rimini: la PGXXIII in marcia "Dalla certezza della pena… alla certezza del recupero" di Annamaria Sirotti www.smtvsanmarino.sm, 12 maggio 2014 Recupero dei detenuti e misure alternative: mondo del volontariato chiede una legge per il riconoscimento istituzionale delle realtà di accoglienza. La Papa Giovanni in cammino per chiedere alla politica una legge per il riconoscimento giuridico e amministrativo alle realtà educative di accoglienza che operano nel mondo carcerario. Pellegrinaggio per denunciare i problemi del carcere di Rimini - sovraffollamento, condizioni di vita degradanti - ma anche per testimoniare un’altra visione della pena, che chiede di investire sull’uomo e sulle sue risorse. La riabilitazione nelle strutture di accoglienza è più efficace e meno costosa. Ogni detenuto costa 80mila euro all’anno, 220 al giorno, mentre in un percorso educativo in struttura ne costerebbe non più di 50. Dei 1.000 detenuti che ogni giorno escono dal carcere, più di 800 tornano a delinquere, recidiva che invece si abbassa al 10% per chi ha seguito un percorso educativo. In marcia rappresentanti dell’associazionismo e del volontariato, operatori e detenuti in cammino di recupero fino in piazza Cavour con l’intervento del Vescovo di Rimini, Mons. Francesco Lambiasi e rappresentanti del mondo politico, con il sottosegretario al ministero di Giustizia, Cosimo Ferri e l’assessore regionale alle politiche sociali Emilia-Romagna, Teresa Marzocchi. Nel video, la storia di Cosmin, che sta scontando in Comunità una pena alternativa al carcere e l’intervista a Edoardo Patriarca, Presidente Conferenza Nazionale del Volontariato Saluzzo (Cn): "Sapori reclusi", chef stellati e detenuti cucinano insieme per beneficenza Ansa, 12 maggio 2014 Otto chef stellati - Alciati, Batavia, Crippa, Cuttaia, Garola, Reina, Ribaldone e Palluda - e alcuni carcerati insieme ai fornelli per una cena gourmet nella casa di reclusione di Saluzzo. Si chiama "Più stelle e meno sbarre" il progetto dell’Associazione culturale Sapori Reclusi. Il 19 maggio cittadini, aziende e rappresentanti delle istituzioni sono chiamati a partecipare all’evento stellato. Lo scopo è quello di finanziare un corso di stampa Fine Art per detenuti. Firenze: aggredito in carcere il maniaco che ha confessato l’omicidio di una prostituta Il Messaggero, 12 maggio 2014 Riccardo Viti, il maniaco in carcere per l’omicidio e la crocifissione di una prostituta romena 26enne a Firenze, è stato colpito, a quanto pare per dileggio, con un manico di scopa lanciatogli da un altro detenuto mentre veniva condotto dagli agenti nella sezione di isolamento. È quanto accaduto nel penitenziario di Sollicciano. Viti non è rimasto ferito, tuttavia è stato visitato in infermeria. L’artigiano, in carcere da venerdì scorso, non sarebbe ancora uscito dalla sua cella per raggiungere le docce. Il manico di scopa è stato tirato contro Viti da una cella, attraverso le sbarre, e gli è arrivato addosso passando anche in mezzo alla scorta di agenti penitenziari. L’oggetto ha valore simbolico nella vicenda proprio perché, servendosi di oggetti come questi, l’artigiano di Rifredi realizzava le sue pratiche sadiche con le prostitute di Firenze, finché il 5 maggio scorso la romena Andreea Cristina Zamfir è morta a causa di lesioni interne. Anche nella perquisizione nella sua casa sono stati trovati manici di scopa, ma anche di un attrezzo agricolo, una specie di vanga, da usare per violentare, in un gioco erotico estremo le lucciole ingaggiate in strada. In carcere Riccardo Viti è in cella da solo ed è sottoposto a "grande sorveglianza", un particolare regime di detenzione nella sezione di isolamento in cui la polizia penitenziaria deve attivare controlli più frequenti del solito per evitare che faccia gesti suicidi, o di autolesionismo, oppure che sia aggredito - data l’efferatezza del reato che ha confessato - da altri detenuti, cosa possibile come dimostra il tiro del manico di scopa avvenuto all’arrivo nel carcere. Secondo quanto appreso, Viti sta zitto e non parla con nessuno, e si è rinchiuso in un rigoroso silenzio. A chi lo osserva dà la sensazione di essere impaurito, terrorizzato tanto che finora non ha chiesto - pur potendo farlo per alcune necessità - di uscire dalla cella. Nella sezione di isolamento ci sono detenuti accusati di gravi reati, come la violenza sessuale e la pedofilia, che non sono accettati dal particolare "codice d’onore" dei criminali. Ci sono peraltro anche detenuti di passaggio, la cui posizione deve essere ancora valutata dal gip tanto da poter essere scarcerati a poche ore dall’ingresso. "Anche io sono stata ingannata. Sembrava una persona benestante e non potevo immaginare fosse un perverso": a dirlo è una prostituta dell’est europeo, sui 40 anni, che sostiene di essere stata seviziata nel marzo scorso, nella zona di Ugnano a Firenze, da Riccardo Viti. La donna si è affidata agli avvocati Nicodemo Gentile e Antonio Cozza per essere rappresentata come persona offesa nelle indagini. I legali difendono già Salvatore Parolisi, condannato a 30 anni per avere ucciso la moglie Melania Rea, e Rudy Guede, che sta scontando 16 anni per il concorso nell’omicidio di Meredith Kercher, nonché rappresentano come parte civile, Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Asti: sorrisi e curiosità ieri al carcere di Quarto con lo scrittore Mauro Corona www.atnews.it, 12 maggio 2014 Si è chiuso con una promessa ieri l’incontro di Mauro Corona con i detenuti e il pubblico esterno al carcere di Quarto nell’ambito del progetto Voltapagina: quella di tornare l’anno prossimo per trascorrere più tempo insieme. Voltapagina è un’iniziativa del Salone Internazionale del Libro nata nel 2007 per portare i grandi autori della narrativa italiana nelle carceri durante i giorni della festa del libro torinese. Mauro Corona, che con i suoi libri ci ha insegnato ad ascoltare e amare i boschi, ha espresso la sua soddisfazione per un incontro che spinge a pensare alla preziosità del tempo e a quei valori che troppo spesso diamo per scontati, ma che la vita può farci perdere improvvisamente: nessuno è immune, infatti, dalla possibilità di commettere un errore ed essere privato della libertà. Lo stesso Corona ha voluto ricordare la sua esperienza per ubriachezza molesta in prigione che, citando il poeta Iosif Brodskij, altro non è che "mancanza di spazio controbilanciata da eccesso di tempo". È riuscito ad abbandonare il vino, per cui non nasconde la sua passione, solo per amore delle persone a lui care. Nell’ora trascorsa sul palco della sala dove solitamente si svolgono le attività teatrali, Corona ha spaziato fra vari argomenti sottolineando l’importanza non solo della lettura, ma anche della scrittura che permette di "raccontare a se stessi una storia", anche la più semplice e banale, dimenticando le paure che attanagliano ognuno di noi. Con il suo modo di comunicare profondo, eppure leggero e capace di strappare sorrisi, lo scrittore di Erto ha risposto alle domande che gli hanno posto i detenuti presenti all’incontro; in particolare, uno fra loro ha confessato di essersi sentito libero leggendo le pagine dei suoi romanzi che raccontano di natura: una dichiarazione che secondo Corona "vale più del premio Strega". Non dubitiamo, quindi, vista l’umanità e la semplicità di questo poeta alpinista, di rivederlo l’anno prossimo nello stesso contesto come promesso per regalare un altro momento di spensieratezza a chi troppo spesso dimentichiamo essendo molto più facile limitarsi a puntare il dito. Egitto: 37 studenti condannati a 4 anni di carcere per manifestazione una non autorizzata Ansa, 12 maggio 2014 Nuovo giro di vite contro le opposizioni egiziane. Il tribunale correzionale di Nasr City al Cairo, ha condannato 37 studenti dell’Università di al Azhar nella capitale a quattro anni di prigione per avere partecipato ad una manifestazione non autorizzata e avere causato scontri lo scorso gennaio all’Ateneo. Gli studenti, sostenitori del deposto presidente islamista Mohamed Morsi, sono stati condannati anche al pagamento di una multa. Un altro studente, che lavora per il sito di informazione Yakin è stato invece prosciolto dalle accuse.