Giustizia: basta con le galere, pensiamo ad altre forme di pena di Achille Saletti (Criminologo e presidente di Saman) Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2014 Percentuali di recidiva altissima che fanno del sistema carcere uno dei sistemi più inefficaci al mondo, non bastano a distogliere l’attenzione da questo tema e a rivolgerla verso altre soluzioni. Si battono i piedi per domandare nuove carceri. Nuovi luoghi di detenzione. Nuovi orrori. Per fortuna si sta spargendo la "malsana idea" che per affrontare la criminalità del nuovo millennio si debba ricorrere anche ad altri istituti oltre che al carcere. Gli istituzionalisti (da istituzione) totalitari del nostro paese saranno rimasti inorriditi dalla notizia che nella feroce e quindi soddisfacente Inghilterra, un professore, sposato con due figli, che se la spassava con una sua allieva sedicenne, è stato condannato ad un anno di carcere con l’immediata commutazione a 200 ore di servizi sociali. La motivazione, udite - udite, investe la valutazione che il carcere avrebbe comportato la perdita del lavoro e quindi la progressiva emarginazione del reo. Se anche gli inglesi, il cui inno nazionale non è la marcetta circense italiana, arrivano a pensare questo, evidentemente c’è qualche cosa che non va. Quello che non va è che negli ultimi trent’anni sono aumentati a dismisura gli indici di carcerazione senza, che tale aumento, incidesse più di tanto sulla commissione di un progressivo e correlato aumento del numero dei reati. In parte perché il carcere soggiace più alla sete di vendetta di una società e come punizione non riesce ad incidere sulla recidiva. In parte perché l’efficacia deterrente del carcere (ammesso che sia mai esistita) è del tutto svanita posto che gran parte dei galeotti (in America come in Italia) sono emarginati, rei di quel crimine orrendo che è la povertà o una precaria salute mentale. Sempre in Inghilterra, ad esempio i sex offender sono sicuramente incarcerati ma, al contempo, si cerca di trovare sperimentalmente altre strade: finanziando strutture non carcerarie che provino a curare alcuni di loro. Da noi si tende a sbavare quando si affrontano questi argomenti e, non ho dubbi, anche ammesso che si trovi un politico coraggioso disposto a finanziare una sperimentazione del genere (cosa impossibile solo a pensarla) ci sarebbe sempre un altro politico che gli azzanna i polpacci tacciandolo di connivenza con il nemico. In assenza di un politico, un foglio o numerosi lettori. E quindi la cosa più originale che si sente dire in giro oggi è che bisogna costruire più carceri. Mi sembra un poco la follia a cui non si sottrae il tizio che pensa che la casa è piccola perché piena, ritenendo che una casa più grande, che riempirebbe in un battibaleno, rappresenti una soluzione. Spiegare a questo tizio che forse per non avere le case piene bisogna non comprare in termini compulsivi è operazione difficilissima. Il problema è questo: depenalizzare una serie di reati e indagare forme di giustizia altra dal carcere. La giustizia riparativa, là dove viene applicata, pare dare le prime soddisfazioni. Forme di affidamento in prova, se supportate dal nostro sistema di welfare, potrebbero bloccare la porta girevole (dentro-fuori-dentro- fuori) di molti poveracci il cui spessore criminale è realmente da banda bassotti. Insomma: invece di spendere centinaia di milioni in nuove carceri, lo si spenda in servizi, in case, in opportunità. Giustizia: Assistenti Sociali; la riforma è l’occasione per rilanciare la centralità dei diritti Ristretti Orizzonti, 8 luglio 2014 "Siamo certi che il lavoro che si prospetta sia un’occasione storica da cogliere a tutela dei diritti individuali e delle famiglie - dichiara Silvana Mordeglia, presidente del CNOAS - Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali. Affrontare il tema della riforma della Giustizia nel nostro Paese non è stato mai facile, ma siamo convinti che la strada intrapresa dal Ministro rappresenti un percorso virtuoso perché, dal confronto e da una dialettica costruttiva, si possa finalmente dopo decenni di buoni propositi ed annunci, arrivare ad una riforma sostanziale del sistema". "Le prospettive illustrate dal Ministro Orlando di intervenire, tra l’altro, sulla Giustizia Civile riducendo i tempi e soprattutto individuando un Tribunale specifico che si occupi della tutela degli individui e delle famiglie, sposate e non, potrà rendere equo il trattamento delle diverse situazioni e quindi rimettere al centro le persone ed i loro diritti". La valutazione positiva del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali dei punti inseriti nel documento di proposta del Ministro di Giustizia è legata alla volontà espressa di intervenire sul sistema rendendolo più efficace, ma soprattutto più attento ai soggetti stessi dei diritti. Molti i punti importanti contenuti nelle Linee Guida, i tempi della giustizia civile, la tutela della privacy coniugata con il diritto di indagine, uguale trattamento tra le famiglie e le coppie di fatto, l’unificazione di competenze tra Tribunale per i Minorenni, Tribunale Civile e Sezioni "Tutelari". "Si pensi solo a quanto si è letto sui giornali rispetto alle minori coinvolte in situazioni di prostituzione - continua Mordeglia. Se non ci fossero state le intercettazioni sicuramente non sarebbe stato possibile intervenire per aiutarle, ma certo occorre una forte azione di controllo e di tutela sulla pubblicità che di fatto coinvolge e segna certi passaggi delicati della vita di ragazzine poco più che bambine". "È importante che non ci siano più frammentazioni nell’intervento giudiziario in situazioni familiari o che coinvolgono minorenni. Tutto quanto possa far sentire la Giustizia una risorsa e non un peso farraginoso per i cittadini, ha il nostro sostegno convinto, oltre al contributo fattivo, del Consiglio Nazionale e di tutta la professione". Gli assistenti sociali, per voce della Presidente Mordeglia, vogliono dichiarare la loro volontà a partecipare alla raccolta di suggerimenti e proposte lanciata all’indirizzo rivoluzione@governo.it e nei prossimi giorni pubblicheranno un proprio documento dettagliato. "Ogni iniziativa che possa garantire i diritti fondamentali delle persone - conclude Mordeglia - siano esse disabili o abili, italiane o straniere, omosessuali o eterosessuali, uomini o donne, minori o adulti, troverà il pieno supporto della professione. I diritti ed i doveri viaggiano appaiati e se c’è una buona Giustizia non ci può essere altro che una buona vita per le persone". Giustizia: revoca del 41-bis a Bernardo Provenzano, la battaglia più difficile dei Radicali di Maurizio Tortorella Panorama, 8 luglio 2014 Rita Bernardini in sciopero della fame per il boss in fin di vita: revocategli il regime carcerario duro. Ma il ministro della Giustizia finora ha detto no. "Bernardo Provenzano sta veramente molto male. E se perfino tre Procure della repubblica, quelle di Caltanissetta, Firenze e Palermo, hanno ritenuto si possa revocargli il regime carcerario duro (il 41-bis), io non capisco perché la politica sia di parere opposto". Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani, sta combattendo l’ennesima, solitaria e difficile battaglia di legalità per il più odiato fra i detenuti italiani. Lodevole battaglia, perché diritti e garanzie non sono divisibili, opinabili, differenziabili tra soggetti e soggetti. Eppure il ministero della Giustizia ha finora sempre confermato il regime duro per Provenzano: soprattutto imponendo limiti invalicabili ai colloqui con i suoi familiari. Il boss mafioso, 81 anni trascorsi per metà in latitanza, condannato a tre ergastoli e in carcere dal 2006, nel 2012 ha tentato il suicidio. Da allora le sue condizioni di salute si sono continuamente e gravemente deteriorate (per questo è da mesi ricoverato in ospedale) ed è ormai totalmente inebetito. Del resto, mesi fa Provenzano è stato perfino dichiarato incapace d’intendere e di volere dal tribunale di Palermo, che per questo ha stabilito non potesse essere imputato nel processo sulla cosiddetta "trattativa tra Stato e mafia". Oggi il boss è praticamente in fin di vita. Anche per questo, da una settimana, Rita Bernardini è in sciopero della fame. Il 27 marzo, per l’ultima volta, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva negato la sospensione del carcere duro chiesta dall’avvocato del condannato, Rosalba Di Gregorio: "Risulta conclamata oggettivamente la pericolosità del detenuto" aveva scritto allora il Guardasigilli "quale capo indiscusso di Cosa nostra". Ma la stessa Procura di Palermo aveva segnalato che, seppure effettivamente permanga immutata la pericolosità di Provenzano, questi "non è in grado di comunicare compiutamente con l’esterno, a causa delle condizioni di salute deteriorate". Il mio 7° giorno di digiuno, anche per Provenzano (Il Garantista) Con il sostegno di Marco Pannella e di almeno 150 cittadini, questo è per me il settimo giorno di sciopero della fame finalizzato ad interrompere la tragedia delle morti in carcere e la mancanza di cure che riguardano anche reclusi incompatibili con il regime di detenzione carceraria. Fra queste migliaia di casi è incluso anche il caso dell’ottantenne boss di cosa nostra Bernardo Provenzano che si trova ristretto in regime di carcere duro (41-bis) pur essendo incapace di intendere e di volere e con patologie gravissime. Sebbene sia ridotto al lumicino, leggo che il tribunale di sorveglianza di Roma ha rimandato la decisione sulla revoca del 41-bis al 3 ottobre, abbondantemente superate le ferie estive. In questo modo, una parte della magistratura e lo stesso ministero della giustizia, si contrappongono al giudizio di tre procure della repubblica (Palermo, Caltanissetta e Firenze) che si sono invece pronunciate per la cancellazione del "carcere duro" per Provenzano. Ma non solo. Abbiamo istituzioni che, quanto al rispetto di diritti umani fondamentali, si pongono allo stesso livello di criminalità di coloro che affermano di voler combattere. Rita Bernardini (Segreteria Nazionale di Radicali Italiani) Giustizia: Tribunale Roma rinvia decisione su revoca del 41-bis a Bernardo Provenzano Agi, 8 luglio 2014 Occorrono informazioni più dettagliate sullo stato di salute di Bernardo Provenzano e per questo motivo il tribunale di sorveglianza di Roma rinvia la decisione sull’eventuale revoca del 41 bis al boss di Cosa nostra al 3 ottobre. In quella stessa data in cui il tribunale di sorveglianza di Milano riceverà le perizie affidate dei consulenti incaricati di valutare se le condizioni fisiche del capomafia siano compatibili non col regime di carcere duro, ma con la permanenza tout court in cella. Il collegio romano, presieduto da Laura Cappelli, ha ordinato che siano acquisite informazioni sulla storia clinica, sulla diagnosi e sulle malattie di cui soffre Provenzano, con particolare riferimento alle patologie neurologiche. Un referto dell’azienda ospedaliera San Paolo di Milano, in cui il detenuto è rimasto alcuni giorni, in maggio, dopo il suo trasferimento da Parma al carcere di Opera del capoluogo lombardo, parla di "grave stato di decadimento cognitivo in peggioramento". Da qui la decisione del tribunale milanese, che la settimana scorsa ha imposto nuovi accertamenti. Giustizia: ministro Alfano; reato di stalking, valutare bene effetti dello "svuota carceri" Agi, 8 luglio 2014 "Adesso il Parlamento studierà bene, in fase di conversione, le eventuali esigenze correttive di modifica. Voi parlate con il ministro che, da ministro della Giustizia, fece approvare il decreto sullo stalking e, da ministro dell’Interno, fece approvare il decreto legge sul femminicidio. Quindi, per me, la questione della violenza di genere e dello stalking è una questione fondamentale". Così il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, commenta, da Agrigento, l’allarme lanciato nei giorni scorsi dopo l’entrata in vigore del decreto legge secondo cui chi dovrà scontare pene inferiori a tre anni non andrà in carcere. Tra loro ci sono anche molti stalker che rischiano di non fare un giorno di galera. "Per me è una questione fondamentale a maggior ragione se si considera che tutte le statistiche ci dicono come lo stalking, nella gran parte dei casi, sia un reato presupposto di un reato più grave e quindi io credo che il Parlamento dovrà valutare bene e che l’Anm possa dare dei consigli pratici e operativi che consentano di modulare esattamente eventuali correttivi in Parlamento", ha aggiunto il ministro. Sciopero messa dei boss? Chiesa sta dalla parte delle persone per bene "Ci troviamo ad Agrigento, la città in cui Papa Giovanni Paolo II lanciò l’anatema contro i mafiosi e chiunque ricordi quell’anatema sa che la pastorale e la strada della Chiesa cattolica e italiana è nettissima e chiarissima, e smentisce, sbugiarda e ridicolizza tutti i rituali mafiosi e criminali che si fondano su santini e l’uso delle immagini sacre per avvalorare tutto ciò che invece è in spregio della dignità dell’uomo e della sua vita. La Chiesa sta dalla parte delle persone per bene, la sua pastorale è molto chiara. Noi stiamo dalla parte di quelle persone che vogliono vincere contro l’anti stato". Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano, commentando da Agrigento la decisione di alcuni detenuti a Larino, affiliati all’organizzazione criminale, di fare lo "sciopero della messa" dopo la scomunica di Papa Francesco. Proprio ieri, una nuova polemica, ad Oppido Mamertina, dove la processione della Madonna delle Grazie si è fermata davanti all’abitazione del boss della ‘ndrangheta Giuseppe Mazzagatti. Lettere: al Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro della Giustizia… di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 8 luglio 2014 Avete aperto una consultazione generale sul tema della riforma della giustizia, lavorando su dodici punti. Ne vorrei trattare uno, quello relativo agli errori giudiziari e alla responsabilità civile dei magistrati. Ho vissuto sulla mia pelle il problema e sintetizzo brevemente la mia storia: venni arrestato nel 1980, a 21 anni e scontai sei anni di carcere, poi venni assolto in appello con sentenza definitiva in cassazione nel 1989. L’accusa era partecipazione a banda armata (Prima Linea). Negli ultimi anni dopo varie battaglie, sulla retroattività della legge, sono riuscito a presentare la domanda per la riparazione da ingiusta detenzione, ma sia la Corte d’appello di Milano che la Cassazione, hanno rigettato l’istanza in quanto con le mie cattive frequentazioni avrei tratto in inganno gli inquirenti. Come a dire, te la sei cercata, l’assoluzione non conta nulla. Vorrei ora entrare nel merito del problema, nell’art. 314 del codice di procedura penale, nel primo comma, si afferma che la riparazione per ingiusta detenzione non viene concessa nel caso di dolo o colpa grave. Con questo comma, si opera un passaggio grave che è quello di introdurre il giudizio morale nel nostro ordinamento giudiziario. In nessun paese europeo esiste questo. Con questo comma, si dà la possibilità di rigettare le istanze di risarcimento del 70% delle persone assolte, quindi di fatto a limitare fortemente questo diritto. Secondo me, quando si parla di errore giudiziario e della necessità di adeguarci agli standard europei il primo passaggio è abrogare questo comma, perché una persona assolta non può vedersi negare il risarcimento su un giudizio non più giuridico ma morale: su chi frequentavi. L’altra questione è la responsabilità civile dei giudici, non va dimenticato che c’è stato un referendum in tal senso che affermava in modo netto di applicare questa responsabilità. Ma esso è stato stravolto da una legge, che oltre a introdurre dei filtri, ha inserito anche qui il dolo e colpa grave, in questo caso per i giudici che sbagliano, solo che mai nessuna corte, ha riconosciuto per un loro collega, il dolo o colpa grave per aver condannato ingiustamente una persona. Questo a dimostrare che il dolo e colpa grave inserito su queste problematiche snatura completamente il diritto e introduce l’arbitrio del giudizio morale, si l’arbitrio perché i dati sopra elencati dimostrano questo. Quindi quando si tratta di giudicare un loro collega per aver commesso un errore giudiziario, i magistrati mai riconoscono la colpa grave, cosa che invece dichiarano spessissimo nei confronti di persone assolte per non concedere loro il risarcimento. Queste storture vanno abolite, se un cittadino ha trascorso giorni, mesi, anni, di carcere ingiustamente va risarcito. Conta l’assoluzione, non chi frequentava. In una società libera, puoi frequentare chi vuoi l’importante non commettere un reato e se vieni privato ingiustamente della libertà personale, il risarcimento è un diritto sacrosanto. Emilia-Romagna: con Progetto Acero 109 detenuti reinseriti, il sovraffollamento al 110% www.romagnaoggi.it, 8 luglio 2014 Ben 109 inserimenti lavorativi - anziché i 90 originariamente previsti - nel corso del 2013, che hanno coinvolto detenuti in esecuzione penale esterna. Per quanto riguarda l’accoglienza, invece, da febbraio dello scorso anno al 30 giugno 2014, sono state 90 le persone (di cui 62 provenienti da istituti penitenziari e 28 già in misura alternativa) inserite in apposite comunità. È un primo bilancio del progetto "Acero", illustrato dall’assessore alle Politiche sociali Teresa Marzocchi durante la Commissione regionale Area penale adulti. "Acero - Accoglienza e Lavoro", avviato grazie al finanziamento da parte di Cassa Ammende di un progetto sperimentale presentato dalla Regione insieme al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna, ha previsto due tipi di "azioni" nell’arco di un biennio: accoglienza in strutture e comunità (Papa Giovanni XXIII nel riminese, L’Ovile a Reggio Emilia e Viale K a Ferrara) e percorsi di inclusione lavorativa, da Piacenza a Rimini, attraverso fondi regionali del Programma Carcere, comunali e del Fondo Sociale Europeo (tramite l’assessorato alla Formazione e Lavoro della Regione). Complessivamente per il 2013 "Acero" è stato finanziato con oltre 800mila euro. Per l’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi la sperimentazione di "Acero", che si concluderà a dicembre 2014, "è un successo, riconosciuto come tale anche dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Difatti, all’interno del nuovo Protocollo che la Regione ha siglato a gennaio con il ministero della Giustizia, è stato destinato per questo progetto un nuovo finanziamento fino a un milione di euro, da parte di Cassa Ammende, per i prossimi tre anni". Insieme al rifinanziamento di "Acero", il Protocollo ha come obiettivo la garanzia di una qualità della vita migliore all’interno delle carceri, con pene scontate in una dimensione più "umana" e dignitosa, creando le basi per un’azione coordinata all’interno delle strutture di detenzione per l’accoglienza, le condizioni di vita, lo studio, la formazione, il lavoro, e i percorsi verso la dimissione. "Le persone in carcere sono spesso compromesse sul piano umano e sociale e quindi hanno grosse difficoltà d’inserimento nel mondo del lavoro - prosegue l’assessore Marzocchi. Tuttavia, imparare a rispettare gli orari, a gestire piccole risorse per l’affitto o per la spesa, sono attività importanti dal punto di vista della responsabilizzazione: insieme a percorsi di formazione più mirati, possono agevolare il percorso di avviamento al lavoro". Al 30 giugno 2014, negli istituti penali dell’Emilia-Romagna risultano presenti 3127 detenuti (di cui 1.541 stranieri). Nel corso della Commissione regionale Area penale adulti è stata presentata una sintesi della relazione annuale carcere (verrà illustrata integralmente a breve in Commissione assembleare Sanità e Politiche sociali), in cui si evidenzia un ulteriore calo del sovraffollamento (al 110%; era al 142% a fine dicembre 2013) rispetto alla capienza regolamentare. In Emilia-Romagna, grazie a un buon livello di collaborazione tra Regione, Prap, enti locali e volontariato, vengono realizzati progetti e interventi per migliorare la situazione delle persone detenute. Le risorse messe a disposizione dalla giunta regionale per il 2013 sono state oltre due milioni di euro. La Regione ha promosso e sostiene progetti innovativi a favore dei detenuti: "Cittadini Sempre", "Teatro carcere" e "Giustizia riparativa". Il primo è un progetto pluriennale (3 anni) che si propone di supportare e qualificare la rete del volontariato attivo nell’area dell’esecuzione penale sul territorio regionale, e di sensibilizzare la società civile sulle tematiche proprie di quest’area. Nel 2013 le azioni progettuali hanno prodotto, con il coinvolgimento dei Centri servizi di volontariato, una mappatura delle realtà di volontariato che si occupano di carcere sul territorio regionale, con l’obiettivo di aumentare lo scambio e la conoscenza reciproca nonché la messa in rete delle risorse. "Teatro Carcere" è un progetto annuale, rinnovato per il terzo anno su presentazione di una proposta del Coordinamento Teatro Carcere e realizzato con il contributo congiunto degli assessorati Politiche Sociali e Cultura (Protocollo di intesa Teatro Carcere, 2011). Anche nel 2013 sono state realizzate attività laboratoriali all’interno degli penitenziari regionali e, dove è stato possibile, nei teatri cittadini e nazionali. Complessivamente le esperienze teatrali attivate nel 2013 hanno visto il coinvolgimento di oltre 120 detenuti e un migliaio di spettatori. "Verso un centro di giustizia riparativa" è realizzato dalla cooperativa di solidarietà sociale "L’Ovile" di Reggio Emilia. All’interno del progetto la Regione Emilia-Romagna ha sostenuto l’avvio sperimentale di un Centro di Giustizia Riparativa nel territorio della Provincia di Reggio Emilia, per promuovere attività di mediazione. Puglia: da Foggia a Lecce autolesionismo, tentativi di impiccamento… danneggiamenti dalla Segreteria Generale Cosp www.ilquotidianoitaliano.it, 8 luglio 2014 Da Trani a Lecce, da Foggia a Bari un viaggio di autolesionismo, tentativi di impiccamento, danneggiamenti e incendi in cella. Il sindacato Cosp: "siamo solo all’inizio di una calda e rovente estate 2014". Siamo solo ai primi giorni di luglio, la popolazione detenuta in Puglia si assesta intorno ai 3.500 posti letto occupati contro i 2.450 regolamentari, il caldo, l’afa, la mancanza di acqua, l’aria irrespirabile del sudore dei corpi umani stipati nelle celle detentive, l’applicazione di norme e regole dell’ordinamento penitenziario attuato dai pochi poliziotti rimasti in servizio per l’avvio dei turni di ferie estive crea un mixer esplosivo nelle carceri pugliesi stante anche la carenza grave di circa di 600 unità stante le attuali 2.453 D.m. 22.3.2013 unità divisi in solo 3 quadranti lavorativi con turni di 8 e 10 ore continuative, interi reparti detentivi come accaduto a Bari, Trani, Foggia e Taranto affidati a un solo agente. Dopo i gravissimi eventi accaduti a Bari sulle minacce di morte e il tentativo di aggressione a sovrintendente del corpo di polizia penitenziaria da parte di un detenuto comune, è la volta del tentativo di impiccamento messo in atto nel carcere di Trani il 1° luglio da parte del detenuto cittadino straniero extracomunitario nato il 5.6.1985 in Marocco a nome L.T. in attesa di giudizio, con i propri lacci delle scarpe e nella propria cella detentiva, tentativo poi scongiurato. Prima carcere di Bari poi a quello di Trani in data 3 luglio 2014 è seguito un grave evento di totale aggressività posto in essere dal detenuto G.N. nato 16.10.1963 a Castro di Lecce definitivo fine pena 2.1.2015 che andando in escandescenza rompeva un tavolo detenuto nella propria cella e con i piedi del tavolo colpiva chiunque gli stava vicino anche i compagni di cella. Soccorso dalla polizia Penitenziaria, ha prima riacquistato la calma e la lucidità ma successivamente ha inveito contro la stessa polizia Penitenziaria procurando lievi lesioni alla mano di un appartenente al corpo con una prognosi di 7 giorni in ospedale dove è stato medicato. Non poteva mancare il carcere di Foggia dove un detenuto di nome D.L,. nato il 3.09.1976 a San Giovanni Rotondo definitivo alla pena 6.2.2016, venerdì scorso si è auto lesionato procurandosi ferita lacerocontusa sul collo con una lametta da barba. Per concludere, fino a questo momento, sempre venerdì è poi seguito un altro episodio nel carcere di Bari: il cittadino tunisino H. Alì nato 7.05.1976 in attesa di giudizio, nella sezione ordinaria dove è ristretto ha appiccato il fuoco al proprio materasso che deteneva nella cella con un accendino occultato precedentemente al controllo. Passano i giorni, sale il trend negativo nelle carceri con grande crescente preoccupazione del sindacato di Polizia Cosp che ha segnalato con una missiva di ieri l’utilizzo discutibile in Regione Puglia di aliquota di 6 poliziotti di polizia penitenziaria impiegati nella tutela di personaggi civili sotto scorta, attività che si ritiene ex art. 5 legge 395/1990 non di competenza della polizia penitenziaria in questo momento di elevata criticità nelle carceri e di austerità economica di risorse economiche. Il Cosp chiede risposte, maggiori certezze dal Dap per le imminenti assegnazioni. Firenze: "voglio tornare in carcere"... il disorientamento degli ex detenuti Redattore Sociale, 8 luglio 2014 Escono di prigione senza nessun percorso di reinserimento. Spesso senza casa, senza famiglia, senza lavoro e senza residenza. L’appello delle associazioni: "Servizi sociali assenti. Servono strutture ad hoc per il reinserimento dei reclusi". "Voglio tornare in carcere". Non è la frase di un folle, ma l’auspicio di alcuni detenuti che, scontata la pena, si ritrovano liberi ma senza una casa, senza una famiglia e senza un lavoro. Trascurati dai servizi sociali, rischiano di tornare nel tunnel della criminalità e diventare recidivi. Oppure chiedono di rientrare in carcere, dove almeno c’è un letto, un tetto e tre pasti al giorno. Non succede spesso naturalmente, ma esistono alcuni casi, come quello denunciato pochi giorni fa dal sindacato penitenziario Sappe di Arezzo, dove un detenuto di 33 anni nato a Napoli e residente a Foiano della Chiana (Ar), che stava scontando la pena agli arresti domiciliari, ha chiesto di tornare in carcere perché non aveva di che mangiare. "Anche questo è un aspetto reale della crisi economica che ha colpito molti strati della popolazione e vasti settori della marginalità sociale, come detenuti ed ex detenuti" è il commento del segretario del Sappe Donato Capece. "Questo caso non è un’eccezione" precisa il sindacalista. "Un recluso che esce dal carcere si trova disorientato. Difficile il reinserimento visto che sono pochi i datori di lavoro disposti ad assumere un ex detenuto" aggiunge Capece. Parole che trovano conferma anche nel pensiero del parroco del carcere di Sollicciano Don Vincenzo Russo: "I casi come questo sono numerosi, c’è un buco nero della società nel momento del passaggio dei detenuti dal carcere alla libertà". Sul tema dei servizi sociali, Capece aggiunge: "I servizi sociali sono assenti quando i reclusi escono, invece è proprio in questo cruciale momento che dovrebbero entrare in azione per avviare le persone all’autonomia e scongiurare la recidività. I detenuti non hanno nessun assistente sociale. Servirebbe una struttura ad hoc che colmasse queste lacune". Lo pensa anche Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti: "Spesso l’uscita dal carcere porta nella situazione precedente all’entrata. Visto che sappiamo della scarcerazione sei mesi prima che questa avvenga, le istituzioni potrebbero intervenire per tempo attraverso una rete di servizi in grado di preparare i reclusi all’uscita. Servono risorse e se il sistema di welfare viene cancellato tutto questo diventerà impossibile". Anche perché, aggiunge Corleone, "molto spesso le persone che escono dal carcere non hanno neppure la residenza e quindi non possono usufruire degli aiuti". Secondo Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, fenomeni come quello di Arezzo "sono casi isolati" che però mettono in luce "un problema reale". "Ogni anno escono di galera circa 80 mila persone - spiega Scandurra - e spesso sono più povere di quando sono entrate, senza punti di riferimento sul territorio, con la residenza perduta". Condizioni talmente precarie, dice Scandurra, che "abbiamo avuto esperienze di detenuti che non avevano pure i soldi del biglietto per raggiungere la città di residenza di parenti o amici". Sulla stessa linea anche Ornella Favero di Ristretti Orizzonti: "Persone che vogliono rientrare in carcere? Casi isolati". Esiste però il problema del disorientamento dei reclusi una volta usciti. Ecco perché, sostiene Favero, "devono essere incrementate le misure alternative e i permessi premio, che non sono sconti di pena, ma l’unico modo affinché il detenuto possa reinserirsi gradualmente nella società". Milano: reportage dal carcere di S. Vittore, un viaggio nel reparto modello "La Nave" di Marco Scotti www.affaritaliani.it, 8 luglio 2014 Quando si varcano le porte del carcere di San Vittore, all’inizio sembra quasi di non essere in un penitenziario. Ci sono aree verdi, e le persone sembrano rilassate. Non si respira tensione, anzi, c’è una calma straniante. Ma è solo un attimo. Si passa il controllo con il metaldetector e una pesante porta di ferro si apre per poi richiudersi rapidamente alle nostre spalle: si entra nell’ottagono. Da qui, iniziamo a salire le scale per arrivare al III raggio, dove è situata "La Nave", un reparto all’avanguardia per il trattamento e la terapia riabilitativa degli "ospiti" tossicodipendenti, attualmente 45. Saliamo rampe di scale osservati da detenuti che ci guardano con curiosità, dalle loro celle che si affacciano proprio sui gradini. Arrivati al quarto piano ci accorgiamo che c’è un’atmosfera diversa: la prima cosa che balza all’occhio sono le celle, aperte. I detenuti ospiti di questo reparto, infatti, hanno la possibilità di svolgere attività al di fuori delle celle durante il giorno, per poi farvi ritorno intorno alle 19. "La Nave" è un esperimento, un tentativo di dimostrare che esistono altre modalità di trattamento per i detenuti, diverse da quelle abituali che ci sono costate le reprimende dell’Unione Europea. L’esperienza, lanciata dalla dottoressa Graziella Bertelli (che coordina l’equipe medico-sanitaria) nel 2003 è un nuovo capitolo nella lunga diatriba che da sempre riguarda i carceri: che cosa fare con i detenuti? Come impedire che, una volta usciti, riprendano con quelle attività criminali che li hanno condotti alla carcerazione? Come rapportarsi con un fenomeno, quello delle tossicodipendenze, che negli ultimi anni è diventato di grande attualità: sia per l’inasprirsi delle pene (con la "Fini-Giovanardi") sia per la gravità dei reati commessi. Non più scippi e furto di autoradio, ma rapine, a volte anche dagli esiti tragici. Arriviamo alla "Nave" in un giorno speciale, di festa: si celebra l’attività culturale dei detenuti, mostrando a un pubblico selezionato i risultati del loro lavoro. Viene presentata un’antologia di testi, in cui gli ospiti raccontano le proprie esperienze e le proprie aspirazioni; vanno in scena passi scelti da "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare; si canta, sotto la direzione dell’Orchestra Verdi di Milano. I detenuti sono emozionati, vogliono dimostrare che questa opportunità può davvero rappresentare la svolta che tanto (e da tanto) attendevano, per dare una sterzata decisa alla loro vita. Parlando con alcuni di loro non si ha la sensazione che siano stati indottrinati ma che, piuttosto, stiano compiendo un percorso di ascesa dagli "inferi" in cui essi stessi si erano confinati. Anche l’equipe medico-sanitaria è entusiasta: l’esperienza de "La Nave" può e deve essere esportata anche in altri reparti e, perché no, in altri carceri, magari con detenuti che abbiano compiuto reati meno accettati dal punto di vista sociale. Ma i protagonisti restano loro, gli "ospiti" come vengono chiamati dall’equipe. Sono sicuramente degli eletti, rappresentano una fetta infinitesimale della popolazione carceraria, ma sembrano ben consci della fortuna che è loro toccata. Diversamente dalle prigioni convenzionali, alla Nave la percentuale di detenuti stranieri è molto bassa, anche per questioni burocratiche e di permessi che difficilmente vengono trasmessi dai paesi d’origine. L’età media è variabile: abbiamo incontrato ragazzi giovanissimi così come uomini che hanno passato i 40. Il problema più comune è quello con la cocaina, ma non mancano casi di eroina, una droga che ha vissuto un’enorme diffusione tra la fine degli anni 80 e gli anni 90 - salvo poi declinare in favore della "dama bianca" - e che oggi sta ritornando prepotentemente sul mercato, complici i prezzi bassi. Molti di loro hanno un passato difficile alle spalle, ma non mancano quelli che hanno potuto accedere a un’istruzione e che non provengono da famiglie disagiate. La giornata alla "Nave" si conclude lasciando il desiderio profondo di rivedere gli ospiti, di capire se il loro percorso è davvero sincero e destinato al successo o se invece ci saranno ricadute. Qualcuno di loro lo ammette: il potere della "sostanza" è tale da rendere vulnerabile anche l’individuo più forte. Eppure, uscendo dai cancelli di San Vittore, non c’è spazio per i cattivi pensieri: l’esperienza è talmente totalizzante da essere destinata a rimanere scolpita nella memoria. Sperando che molte "Navi" possano salpare anche nelle altre carceri italiane. Trieste: lettera di un detenuto "in 10 dentro celle da 5 e non abbiamo le cure necessarie" di Gabriella Ziani Il Piccolo, 8 luglio 2014 "Vi scrivo per la seconda volta, per gli stessi motivi dell’altra, cioè per il motivo dell’ammucchiamento di persone come me a vivere come bestie, e trattate soprattutto". È una lettera dal carcere, spedita subito dopo la visita di un parlamentare che ha definito il Coroneo "decoroso", e la replica dei volontari di San Martino al Campo che hanno raccontato di molte tristi condizioni di vita e mancanze. Il detenuto: "Nelle celle da 5 viviamo in 10, non abbiamo cure necessarie e medicinali, ho avuto un incidente perché qui niente è a norma, e lì sono stato umiliato davanti a tutta la gente, incatenato per 6 ore, senza farmi fumare una sigaretta e farmi bere neanche un bicchiere d’acqua". In più, "non c’è nessuna riabilitazione per quando uno esce. Anzi, tutto il contrario. Il sistema carcerario non funziona". "Il sovraffollamento - risponde l’Azienda sanitaria che da quest’anno ha in carico la sanità in carcere, non più della Regione - riguarda tutti gli istituti penitenziari e la Sanità ha ben poche possibilità di incidere". Ma l’Ass1 risponde sulle cure sanitarie soprattutto: "L’attività ambulatoriale è attiva di mattina e di pomeriggio, da lunedì a sabato e la domenica e nei festivi al mattino, si prenotano visite specialistiche, gli specialisti dei distretti vanno in carcere, dove c’è anche un elettrocardiografo per la trasmissione telematica degli esami al centro Cardiovascolare o all’Unità coronarica". Prosegue l’Azienda sanitaria: "Le visite specialistiche vengono fatte da cardiologi, infettivologi, medico del Centro malattie sessualmente trasmesse, medici e psicologi del Dipartimento delle dipendenze (un infermiere del quale è presente 365 giorni all’anno di mattina e di sera fino alle 23 per somministrare terapie), medici e infermieri del Dipartimento di salute mentale". In più "il dentista accede con cadenza settimanale o bisettimanale secondo le esigenze, la ginecologa su chiamata, di notte e nei festivi c’è sempre un medico in guardia attiva, in caso di urgenze i 3 infermieri sempre presenti possono chiamare il 118, e il personale di sorveglianza e sanitario è stato istruito su come intervenire in caso di arresto cardiaco". Sotto controllo sanitario chi maneggia alimenti, "farmaci tutti disponibili anche fuori prontuario se richiesti in modo documentato dal medico". Quanto alla "mancata riabilitazione", si dice che vi sono "corsi di formazione sul disagio psichico". Entrando "in possesso" delle strutture sanitarie del carcere la commissione tecnica a inizio anno aveva messo a referto condizioni ambientali e strutturali veramente critiche. "Abbiamo - afferma l’Azienda sanitaria - la massima collaborazione del direttore del carcere e dei suoi collaboratori a superare i vari problemi esistenti". La Spezia: i detenuti al lavoro nei sentieri del Parco delle Cinque Terre www.cittadellaspezia.com, 8 luglio 2014 Siglato il protocollo per la manutenzione della rete sentieristica del comune della Spezia con l’impiego volontario di cinque carcerati. Bigi: "Così si riduce la recidività". La pulizia dei sentieri del Parco nazionale delle Cinque Terre come attività di reinserimento sociale per i detenuti e di utilità per la comunità. È questo il senso del protocollo sottoscritto questa mattina dal sindaco della Spezia, Massimo Federici, da Maria Cristina Bigi, direttrice della Casa circondariale di Villa Andreino, e Vittorio Alessandro, presidente del Parco. Un progetto nato per iniziativa di un gruppo di detenuti, che hanno sollecitato l’avvio di attività che dessero senso alla pena e fossero socialmente utili. "Quello del rischio idrogeologico è un tema nazionale, che ci riguarda particolarmente da vicino. Quindi quando siamo stati messi al corrente dell’idea - ha detto il sindaco Federici - abbiamo pensato di coinvolgere il Parco delle Cinque Terre, per la manutenzione dei suoi sentieri e di un territorio particolarmente fragile". Saranno cinque, selezionati tra quelli a fine pena, con un percorso di reinserimento già avviato e una affidabilità testata, i carcerati che dalle 8 alle 12.30 si prenderanno cura dei sentieri del territorio comunale inclusi nel Parco nazionale, da Tramonti a Campiglia, da Fossola al Telegrafo, per poi andarsi ad allacciare al resto della rete di percorsi. "Cerchiamo sempre di avanzare proposte di valore sociale come questa - ha spiegato la direttrice Bigi - ma lo possiamo fare solo se incontriamo enti che mostrano disponibilità e voglia di fare. Questo genere di progetti è particolarmente importante per ridurre la recidività dei nostri detenuti. L’obiettivo che ci poniamo ora è quello di dare continuità a queste attività. I detenuti vogliono dimostrare di essere in grado di ritornare a far parte della vita sociale. A questo si aggiunge il contatto con il territorio, e la professionalità dei detenuti può essere un valore per tutti. Magari possono fare anche altro, ad esempio la manutenzione dei muretti a secco. E lo potrebbero fare continuativamente". I carcerati verranno impiegati come volontari, grazie alle opportunità offerte dall’articolo 21, elaborate da Bigi insieme alle collaboratrici Licia Vanni e Nadia D’Anna che si sono occupate della selezione dei detenuti e della stesura del progetto. "Questa iniziativa è la prima in Italia a mettere in opera il decreto dell’8 maggio, firmato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, per mettere in campo forme di collaborazione tra istituti di pena e Parchi. Il vantaggio per il Parco è enorme, sia di carattere sostanziale, vista la necessità di interventi di cui ha bisogno il territorio, che etico, per la restituzione a chi si trova in carcere della possibilità di lavorare, che corrisponde al recupero della dignità. Recentemente abbiamo firmato anche un accordo con Caritas per la formazione di extracomunitari. E il fatto che ci si rivolga alle figure emarginate della società, alla povertà, è estremamente significativo per un Parco che deve la sua esistenza alla povertà: è per quella che si è costruito un territorio del genere, per necessità. Sapere che il bisogno può costituire un momento di crescita è importante. La durata del progetto è di sei mesi, e l’intenzione, come spiegato dai protagonisti dell’accordo, è di avviare altri progetti simili nel futuro. "I tecnici del Comune - ha spiegato l’assessore al Progetto Tramonti, Davide Natale - programmeranno e verificheranno l’andamento dei lavori. I detenuti saranno coperti da una assicurazione in quanto volontari e, insieme al Parco, metteremo a disposizione le attrezzature". Per il progetto Comune e Parco hanno stanziato 15mila euro, per offrire un riconoscimento minimo dell’attività svolta. Calati gli ingressi in carcere, ma con la logica di sistema, anche se questo progetto non avrà ricaduta diretta sul sovraffollamento, ma cerchiamo di offrire una persona migliore alla collettività. Queste iniziative aumentano la gratificazione delle persone di stare all’interno di una comunità. Sono persone che hanno già fatto un percorso e con questo attiviamo risorse che portano a non commettere più gli stessi errori. Larino (Cb): tra i detenuti che rifiutano la messa "dai sacerdoti nessuna risposta chiara" di Giuseppe Caporale La Repubblica, 8 luglio 2014 "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l’ostia". "A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo". Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità" del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell’assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. "Noi, tutti insieme - dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l’assessore - due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente - prosegue il detenuto. Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c’è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari". Quindi il boss rivolge un invito all’assessore: "Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda". Petraroia annuisce e prende appunti con un’assistente: "Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi". Nella sala c’è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: "Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai", dice. "Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c’è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell’inchino... (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all’abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr)". A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. "Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi?", si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: "Ci vogliono punire", dice. "Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male". Nella "sala della socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c’è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all’incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all’assessore le attività dell’istituto: "Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro". Quando, dopo un’ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l’ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: "Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica". Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una "questione". Campobasso: scomunica ai mafiosi, Monsignor De Luca incontra i detenuti di Larino Radio Vaticana, 8 luglio 2014 La scomunica era arrivata dal Papa il 21 giugno durante la visita pastorale a Cassano in Calabria. "I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati", aveva detto Francesco. E i primi frutti di quelle parole sono arrivata dal carcere di Larino, nei pressi di Campobasso, dove ieri il vescovo, Mons. Gianfranco De Luca, ha celebrato Messa, su invito del cappellano, latore di interrogativi e dubbi di molti detenuti che si erano chiesti che senso avesse per loro partecipare al rito eucaristico. Ascoltiamo mons. De Luca al microfono di Fabio Colagrande: "Sono andato in carcere - in accordo con il cappellano - perché mi aveva parlato di un disagio che alcuni detenuti a regime speciale del carcere di Larino avevano manifestato dopo il discorso del Papa nel giorno del Corpus Domini. Loro si erano domandati: "Ma adesso noi non possiamo più venire a Messa? Possiamo fare la Comunione se siamo scomunicati?". Erano rimasti un po’ scossi da quanto il Papa aveva detto. Allora, proprio questo disagio mi aveva coinvolto, interrogato e mi sono reso disponibile con il cappellano a prendere parte alla celebrazione per riprendere ed affrontare questo argomento. Mi sono preparato stampando per tutti il discorso del Papa, perché magari loro avevano avuto un approccio a questo discorso attraverso i titoli dei giornali o le notizie dei telegiornali, ma la lettura serena del discorso è importante. Questo è stato un po’ il motivo che mi ha spinto". D. - Alcuni mezzi di stampa hanno parlato di uno sciopero della Messa da parte di alcuni detenuti di Larino, addirittura di una rivolta … R. - Assolutamente! Io sono stato accolto con gioia e fraternamente quando sono andato da loro. Sì, prima della Messa sono state rivolte direttamente al cappellano delle domande, in quanto nel carcere ci sono due celebrazioni, una per i comuni ed un’altra per la sezione speciale, perché questi non possono comunicare tra loro. Prima della Messa hanno rivolto questa domanda: "Cos’è questa scomunica? Perché? Che significa per noi?". Ecco, c’è stato un dialogo, anche partecipato, ma né un ammutinamento né tanto meno un non volere andare a Messa. Era la loro coscienza che era stata mossa da quanto il Papa aveva detto e che i media avevano riportato. D. - Come ha detto mons. Bregantini ai nostri microfoni, le parole del Papa hanno toccato anche gli aderenti alla criminalità organizzata, ai mafiosi … R. - Certo! È quella la notizia! Ma purtroppo i movimenti del cuore o dell’animo forse non fanno notizia … allora devono trovarne un’altra! Però questa è la notizia! Quanto il Papa dice penetra il cuore di tutti e mette tutti in cammino. È bello quello che lui dice ai detenuti, e che è rivolto anche a noi: "Tutti siamo in reinserimento, no?". Proprio perché tutti siamo provocati continuamente dalla storia e dal Vangelo che ci interpella. D. - Ecco, queste sono parole che il Papa ha pronunciato proprio nella vostra regione, ad Isernia, durante il viaggio in Molise … R. - Sì, ai detenuti di Isernia. La sera avevo letto il discorso che aveva appena pronunciato e mi è piaciuto molto. Sabato e domenica il messaggio che - come ho scritto nel sito - i detenuti mi hanno consegnato da portare fuori, era proprio un messaggio di speranza che diceva: "Noi siamo qui dentro nella ristrettezza e qualche volta ci sentiamo abbattuti. È lì che il diavolo ci prende (hanno usato proprio questo temine). Però, fuori vogliamo dire non arrendetevi. Se da soli non ce la facciamo, andiamo da Gesù". È stato un detenuto a dirmi queste cose. Per cui vedevo che c’era una consonanza con quello che il Papa aveva trasmesso, anche se questo detenuto non aveva ancora letto il discorso di Francesco. Sulla vicenda della scomunica alla mafia è tornato con una nota alla stampa mons. Giancarlo Bregantini. "La questione - ha chiarito il presule - (e non la rivolta! come qualche frettoloso organo di stampa comunicava!) da parte dei detenuti del carcere di alta sicurezza di Larino, diocesi di Termoli, è stata resa ancora più vera e profonda con la saggezza del vescovo Gianfranco De Luca, che ha appositamente visitato il carcere, dialogando serenamente con i fratelli ristretti e celebrando l’Eucarestia con loro. Il tema - ha sottolineato Mons. Bregantini - è estremamente prezioso ed importante. Infatti si tratta di capire come conciliare l’appello alla misericordia (che Papa Francesco sempre lancia, anche in terra molisana!) e la drammatica realtà della scomunica, che di fatto esclude i mafiosi dalla celebrazione della Comunione durante l’Eucarestia. La domanda posta dai detenuti di Larino interpella però tutti noi - ha aggiunto - sia i teologi, che i moralisti, oltre che le persone di cultura e di fede. Per questo - conclude Mons. Bregantini - quale vescovo e presidente della Commissione episcopale della pastorale Sociale, Lavoro, Giustizia e Pace - rivolgo un pressante appello, perché si possa riflettere insieme su come conciliare la forza della misericordia e il dramma della scomunica". Campobasso: Sappe; a Larino non c’è stata nessuna protesta detenuti contro parole Papa Italpress, 8 luglio 2014 "È destituita di ogni fondamento la notizia, diffusa dal Vescovo di Campobasso Bregantini, su un presunto sciopero dei detenuti ad Alta sicurezza del carcere di Larino contro la scomunica del Papa ai mafiosi. Il clamore mediatico di questa falsa notizia sta ingenerando preoccupazioni nei detenuti, che temono inasprimenti e reazioni rispetto ad un fatto che, ripeto, non è accaduto". Lo dichiara Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "I poliziotti penitenziari di Larino ci hanno confermato che la situazione non è affatto quella che è stata rappresentata dal Vescovo. Non c’è stato cioè nessuno sciopero dalla Santa Messa e la situazione interna è assolutamente tranquilla e sotto il controllo della Polizia Penitenziaria. Qualsiasi indagine interna e ministeriale lo potrà accertare. Ora i detenuti stanno contattando le famiglie per tranquillizzarle su quel che è stato detto su giornali e tv che, ripeto, non è affatto avvenuto". Lodi: Stefania D’Agostino è la nuova direttrice reggente del carcere di via Cagnola Il Giorno, 8 luglio 2014 Da ieri mattina ha raccolto, in via Cagnola, il testimone da Stefania Mussio, destinata ad altro incarico dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Nel suo primo giorno in riva all’Adda Stefania D’Agostino ha preferito non rilasciare dichiarazioni. "Ho preso la decisione di sostituire i vertici del penitenziario di Lodi nel tentativo di riportare un po’ di tranquillità - ha spiegato invece il provveditore regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi. Da un anno a questa parte e soprattutto negli ultimi mesi la situazione era degenerata. C’era troppa tensione. La decisione è mia, presa in accordo con il Dipartimento di Roma. Anche la dottoressa Mussio negli ultimi tempi non riusciva più a lavorare bene, sempre nell’occhio del ciclone e con la Polizia Penitenziaria sempre pronta a contestarla anche sulla stampa. Penso che anche la dottoressa Mussio dovrebbe cogliere il lato più positivo di questa vicenda". "Tengo a sottolineare - ha proseguito Fabozzi - che la sostituzione non è stata determinata dall’iniziativa dei sindacati. Sulla struttura lodigiana erano già in corso da un anno verifiche e ispezioni a prescindere dalle lamentele degli agenti. Si tratta di procedure lunghe e complesse. Non sono stati un atto o una mancanza particolare a far perdere il posto alla Mussio, da parte nostra c’è stata una valutazione complessiva. Alla fine la decisione che ho preso, non a cuor leggero, era l’unica soluzione percorribile". Da Milano viene mantenuto il riserbo sulla nuova destinazione di Stefania Mussio. Ci si limita a dire che è stata "assegnata ad altro incarico in Lombardia". Stefania D’Agostino arriva a Lodi dal carcere di Pavia, dove svolgeva l’incarico di vicedirettrice. In precedenza aveva avuto esperienza di direttrice, seppur per un breve periodo, a Lecco. Ieri pomeriggio alle 15,30 nel carcere di Lodi si è festeggiato, con una celebrazione religiosa celebrata dal cappellano don Luigi Gatti il patrono della Polizia Penitenziaria San Basilide. L’occasione è servita anche a presentare la nuova reggente a tutto il personale. "Abbiamo conosciuto oggi il nuovo direttore e sono molto fiducioso - dichiara Dario Lemmo, segretario provinciale del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria). Sono sicuro che con l’ausilio del Comandante di Reparto e del Vice si potranno raggiungere eccellenti livelli organizzativi e di benessere per il personale di Polizia Penitenziaria di Lodi. Già nella celebrazione dedicata a San Basilide, si è avuto modo di respirare, finalmente, un’aria pacifica". Stefania Mussio era arrivata a dirigere il carcere di Lodi il 5 febbraio del 2007. Padova: operazione della Polizia contro spaccio droga e corruzione in carcere, 15 arresti Ansa, 8 luglio 2014 La Polizia di Padova sta eseguendo dall’alba 15 misure cautelari, di cui 6 nei confronti di agenti penitenziari di Padova e una a carico di un avvocato, nell’ ambito di un’indagine per spaccio di droga e corruzione di pubblici ufficiali. L’operazione della squadra Mobile di Padova, coordinata dal Servizio Centrale Operativo e dalla Direzione Centrale Servizi Antidroga, pm euganeo Sergio Dini, è scattata all’alba a Belluno, Lecce, Matera, Napoli, Rovigo, Salerno, Torino, Trieste, Venezia, Varese, Verona, Vicenza e a Porto Tolle (Rovigo). Le ordinanze, firmate dal gip euganeo Mariella Fino su richiesta del pm Sergio Dini, sono eseguite da oltre 100 agenti e anche delle squadre mobili delle città coinvolte. Contestualmente, con l’ausilio del Reparto Prevenzione Crimine di Padova, sono state eseguite 37 perquisizioni anche negli edifici della Casa di Reclusione di Padova a carico di vari soggetti coinvolti a vario titolo nell’indagine, che vede coinvolti altri 9 agenti di polizia penitenziaria. Ulteriori dettagli saranno forniti nel corso della conferenza stampa che si terrà alle ore 11 in questura. Corruzione in carcere: cellulari a detenuti per 416 bis Telefonini cellulari, sim card, palmari, ma anche droga, entravano nelle celle di due detenuti rinchiusi con il 416 bis. È uno degli aspetti emersi nell’ indagine della squadra mobile di Padova che stamane ha arrestato 15 persone, tra cui sei agenti penitenziari, per corruzione di pubblico ufficiale e spaccio di droga. La polizia ha accertato che ad un camorrista napoletano appartenente al clan Bocchetta e ad un affiliato al clan della 'ndrangheta Strisuglio della Sacra Corona Unita, entrambi sottoposti a misura di massima sicurezza, erano stati portati cellulari con i quali potevano tranquillamente comunicare con l’esterno. Entrambi i detenuti sono inclusi nel numero delle persone indagate nell’inchiesta della magistratura padovana. I nomi degli arrestati I due agenti della Polizia penitenziaria arrestati e destinatari di un provvedimento di custodia cautelare in carcere sono: Pietro Rega, 48 anni, detto "capo" o "uomo brutto", originario di Mariglianella (Napoli) e residente a Mirano; Luca Bellino, 38 anni, detto "u cafone" originario di San Paolo di Civitate, residente in via Croce Verde a Padova. Altri 4 agenti sono invece agli arresti domiciliari, si tratta di: Roberto Di Profio, 45 anni, detto "Kelos", originario di Chieti e residente a Abano; Paolo Giordano, 40 anni, detto "il poeta", originario del Lazio e residente in via Due Palazzi a Padova; Giandonato Laterza, 31 anni, detto "bambolotto", originario di Matera e domiciliato a Piazzola sul Brenta; e Angelo Raffaele Telesca, 36 anni, detto "Condor", originario della Toscana e residente ad Albignasego. Gli altri arrestati sono: Karim Ayari, 27 anni, detto "Kimu", tunisino; Mohamed El Ins, 44 anni, detto "Giovanni" o "cioccolato", marocchino; Mohamed Es Soukti, 28 anni, marocchino; Mohamed Tlili, 41 anni, tunisino. Agli arresti domiciliari sono finiti invece: Giorgio Chiostergi, 72 anni, residente a Trieste; Amal El Archi, 23 anni, marocchino; Michela Marangon, 50 anni, residente a Porto Viro, avvocato del Foro di Rovigo; Edoardo Murador, 33 anni, veneziano di San Donà di Piave. Capoposto era il “boss” dei traffici È un capoposto del quinto piano ad aver tirato le fila dei traffici nel carcere Due Palazzi di Padova il cui nome compare tra i 15 destinatari della misura cautelare. Si chiama Pietro Rega, 48, già arrestato per fatti analoghi nel 2001 dalla Direzione distrettuale Antimafia di Napoli quando lavorava nel carcere di Avellino. Gli altri secondini, coinvolti nell’illecito sodalizio, lo chiamavano il “grande capo” il quale percepiva anche tramite vaglia postali i pagamenti di somme di danaro da parte di familiari e complici in cambio di consegne di stupefacente (soprattutto “fumo” ed eroina e per altri trattamenti di favore). Per gli investigatori sarebbe stato Rega a coinvolgere gli altri agenti penitenziari, ad influenzarne altri dividendo i “benefit” in denaro incassati anche tramite Western Union con somme che variavano dai 200 agli 800 euro, a seconda dei favori fatti. Ma, sempre secondo gli inquirenti, l’uomo avrebbe gestito con altri colleghi anche il traffico di droga all’interno del carcere, permettendo ai detenuti, soprattutto albanesi e magrebini, di svolgere parallelamente un loro micro spaccio con gli altri reclusi. L’indagine è iniziata nell’estate 2013, mentre la polizia stava intercettando dei marocchini sospettati di un traffico di droga. Dalle telefonate era emerso del particolare traffico nella casa penale. Scavando più a fondo la “mobile” euganea ha scoperto che c’era un nutrito ed organizzato gruppo di agenti in servizio che erano dediti a fini di lucro ed in pianta stabile, in concorso con familiari ed ex detenuti, ad un sistema illecito finalizzato all’introduzione in carcere di droga (eroina, cocaina, hashish, metadone), materiale tecnologico (telefonini, schede sim, chiavette usb, palmari) ai detenuti accontentandoli per altre richieste. Tra i presunti corruttori anche l’avvocato Michela Marangoni, 51 anni, del foro di Rovigo, che si sarebbe servita di due suoi assistiti per l’illecito commercio. In più di qualche occasione, nella collaborazione tra la Polizia di Stato e la Polizia Penitenziaria, sono state fatte perquisizioni ad hoc che hanno portato a vari sequestri, anche nelle celle di massima sicurezza. Sappe: polizia penitenziaria è istituzione sana "La notizia dell’operazione congiunta Polizia di Stato - Polizia Penitenziaria che ha portato all’arresto di 15 persone, tra cui 6 agenti di Polizia penitenziaria, per traffici illeciti nel carcere di Padova ci sconvolge. Fermo restando che una persona è colpevole solamente dopo una condanna passata in giudicato, deve essere chiaro che non appartengono certo al Dna della Polizia Penitenziaria i gravi comportamenti dei quali sono accusati i sei poliziotti. La responsabilità penale è personale e chi si è reso responsabile di gravi reati, una volta acquisite le prove certe e inequivocabili, ne deve pagare le conseguenze e deve essere cacciato dal Corpo di Polizia Penitenziaria, che è una Istituzione sana. Queste accuse fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l'esasperante sovraffollamento. E’ utile ricordare che negli ultimi 20 anni la Polizia Penitenziaria ha sventato, in carcere, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. Il primo Sindacato dei Baschi Azzurri torna a sottolineare che “la Polizia Penitenziaria, negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti”. Lecce: detenuto semilibero ucciso nel Salento, si costituisce omicida Ansa, 8 luglio 2014 Si è costituito il presunto omicida di Fabio Frisenda, il 33enne di Copertino detenuto in regime di semilibertà, assassinato lo scorso 4 luglio nel paese salentino. Si tratta di Luigi Margari, 35 anni, con numerosi precedenti penali, anche lui di Copertino. Si é presentato ieri sera alla stazione dei carabinieri accompagnato dal proprio legale difensore, avvocato Elvia Belmonte. Ai carabinieri ha raccontato di avere agito per presunti screzi, dissapori per questioni legate a donne che sarebbero poi degenerati durante una discussione. Una versione che gli inquirenti ritengono inattendibile. Sulmona (Aq): Uil-Pa; detenuto picchia e ferisce medico e agente di Polizia penitenziaria www.cityrumors.it, 8 luglio 2014 Un detenuto di alta sicurezza ha aggredito, nell’infermeria del carcere di Sulmona, ferendoli entrambi, il medico di guardia e un assistente capo della polizia penitenziaria. Il detenuto C.N. (esponente di spicco della malavita calabrese), conosciuto nell’ambito penitenziario per la riottosità più volte dimostrata al regime carcerario, ha perso le staffe nel momento in cui, ad un sua pretesa di sottoposizione a visita specialistica (sembrerebbe psichiatrica) ha ricevuto in cambio un niet da parte del medico. Nel preciso istante in cui si è visto non accontentato nella sua richiesta ha rovesciato dapprima la scrivania addosso al professionista per poi assalire lo stesso con intenti malevoli. Il pronto e decisivo intervento dell’assistente capo, unico agente presente in un posto che ne dovrebbe prevedere almeno tre, ha evitato il peggio. Secondo la ricostruzione del segretario provinciale e vice regionale della Uil penitenziari, Mauro Nardella, tuttavia il detenuto non domo è riuscito a divincolarsi e con una sedia ha colpito, ferendoli, dapprima il poliziotto e subito dopo il medico. "Malgrado tutto il poliziotto, seppur ferito e completamente da solo, complice la gravissima carenza di organico che attanaglia il carcere peligno - afferma il sindacalista - è riuscito a bloccarlo e a renderlo inerme. Il medico e il poliziotto, subito dopo, hanno fatto ricorso alle cure del pronto soccorso dove una volta medicati sono stati dimessi con una prognosi di 10 giorni per entrambi. La Uil penitenziari - afferma Nardella in una nota - si dice esterrefatta dell’episodio accaduto. Lo stesso sindacalista punta il dito contro la grave carenza di organico in entrambi i settori "sia esso sanitario che della polizia penitenziaria e che sta rendendo ingestibile e pericoloso il lavoro all’interno del carcere. Un medico per 60 visite giornaliere, un infermiere per 500 detenuti e un agente solo a vigilare sono gli scarni numeri che rappresentano un assurdo scenario che - osserva Nardella - ci obbliga a vivere alla giornata e con le spine continuamente nel fianco. Oggi - conclude - abbiamo rischiato di scrivere una pagina nerissima se non fosse stato per il collega che con la sua prontezza di riflessi e capacità di agire ha evitato l’irrimediabile. Ad esso va il nostro plauso e la nostra solidarietà che esprimiamo anche nei confronti degli operatori sanitari i quali, pur agendo in un regime di estrema precarietà lavorativa (non hanno un contratto che formalizzi definitivamente il loro apporto, sono costretti a doversi sobbarcare un immane lavoro e che quotidianamente arriva ad essere fino a dieci volte superiore rispetto ad un medico di famiglia e con uno stipendio inadeguato) non fanno mai mancare il proprio supporto. L’auspicio, che si spera non risulti ancora una volta vano, è che i dirigenti e i politici, potenziali garanti della sicurezza di tutti gli operatori carcerari, riconoscano, se non vorranno essere complici di possibili e ancor più gravi situazioni di questo genere, l’inadeguatezza delle piante organiche dei poliziotti, dei medici e del personale infermieristico e che si impegnino a integrarle con nuovi innesti. A tal proposito - conclude il sindacalista - stiamo ancora aspettando l’intervento promesso dall’onorevole Legnini al quale, quindi, ne sollecitiamo l’azione". Messina: Osapp; agente aggredito da un internato all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto Italpress, 8 luglio 2014 Ennesima aggressione subita da una guardia penitenziaria causata da un detenuto. I fatti sono avvenuti nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese. Lo denuncia l’Osapp. Un poliziotto è rimasto colpito da calci e pugni mentre tentava di contenere un detenuto, in escandescenza, che si rifiutava di assumere la terapia prevista. "Purtroppo - dice Domenico Nicotra, segretario generale dell’Osapp - sino a ieri si è tenuta una tavola rotonda a Barcellona Pozzo di Gotto sulle sorti dell’Opg e dei detenuti, ma nessuno pensa e conseguentemente assume provvedimenti concreti per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che sempre con maggiore e disarmante frequenza patisce le conseguenze di un sistema penitenziario allo sbando". Matera: corso di cartapesta per dieci detenuti, da settembre la formazione professionale Ansa, 8 luglio 2014 Dieci detenuti nel carcere di Matera parteciperanno dal prossimo mese di settembre a un progetto di formazione professionale per la lavorazione della cartapesta della tradizione materana. L’iniziativa, promossa dalla Camera di commercio di Matera e dalla Casa circondariale, con l’apporto delle associazioni di categoria Cna e Confartigianato, avrà una durata di 60 ore e sarà finalizzata alla inclusione sociale con il supporto all’occupazione. Il percorso didattico, giunto alla terza esperienza, si avvarrà dell’apporto del maestro cartapestaio Michelangelo Pentasuglia. Le finalità dell’iniziativa sono state illustrate nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato il presidente della Camera di commercio, Angelo Tortorelli,il direttore della Casa circondariale, Maria Teresa Percoco, il presidente regionale di Cna Leo Montemurro, il direttore di Confartigianato, Gerarda Bonelli, il dottor Walter Gentile responsabile dell’area pedagogica della casa circondariale e il responsabile degli agenti di polizia penitenziaria, Bellisario Semeraro. Al termine del corso gli allievi riceveranno un attestato e i lavori saranno presentati all’esterno in una mostra. Uno spazio dedicato dovrebbe accogliere questa particolare esperienza nel museo della cartapesta materana, al quale stanno lavorando le associazioni dell’artigianato con l’apporto della Camera di commercio. Prato: il Sott. Giacomelli e il Sindaco Biffoni in visita al carcere per il progetto filatelico Adnkronos, 8 luglio 2014 "La filatelia può rappresentare una straordinaria occasione per costruire reti di relazione sociale anche in situazioni difficili e questo progetto lo dimostra". Con queste parole il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli ha commentato la visita di questa mattina alla casa circondariale di Prato, nuova tappa del progetto "Filatelia nelle carceri". Insieme con il sottosegretario Giacomelli, c’erano il sindaco di Prato Matteo Biffoni e la responsabile della filatelia di Poste Italiane Marisa Giannini, accompagnati dagli assessori al Sociale Luigi Biancalani e al Personale Benedetta Squittieri: "Si tratta di un’iniziativa importante che ci spinge a un impegno anche da parte dell’amministrazione e dei suoi uffici, per quanto possibile". Un progetto che per il carcere La Dogaia di Prato vedrà coinvolto anche lo stesso Comune, infatti, che con una circolare interna chiederà agli uffici di non gettare le affancature, ma di conservare i francobolli più interessanti che saranno inviati all’ufficio filatelico di Prato per il progetto "Filatelia nelle carceri". Il progetto, nato nel febbraio del 2013 con un protocollo d’intesa tra Ministero della giustizia, Ministero dello sviluppo economico, Poste Italiane, l’Unione stampa filatelica italiana e la federazione delle società filateliche, ha coinvolto fino ad oggi 14 carceri italiane, dopo l’esperienza pilota al carcere di Bollate (Milano), tra le quali Roma (Rebibbia), Torino, Trieste, Genova, Milano (San Vittore e Opera), Venezia e Pescara. Empoli: serate teatrali aperte al pubblico, alla Casa circondariale torna "Estate al fresco" Adnkronos, 8 luglio 2014 Torna alla Casa circondariale a custodia attenuata del Pozzale a Empoli "Estate al fresco", manifestazione che tanto successo ha avuto negli scorsi anni e che viene riproposta con la stessa formula: aprire all’esterno un luogo che per tutto il resto dell’anno è chiuso al pubblico. Il primo evento in calendario di "Estate al fresco" è per venerdì prossimo alle 21 nel cortile area verde con "Amor dammi quel fazzolettino", libera rielaborazione da "Otello" di Shakespeare, con la regia di Maria Teresa Delogu e Rossella Parrucci. Si tratta dell’atto finale di due percorsi teatrali, che vedono protagoniste le ospiti della casa circondariale e le allieve del liceo scienze umane "Il Pontormo" di Empoli. Lo spettacolo si inserisce nel progetto Teatro carcere, promosso e sostenuto dalla Regione Toscana. Stati Uniti: l’8 luglio i detenuti "celebrano" un anno di lotta unitaria contro l’isolamento di Selma Jones Il Manifesto, 8 luglio 2014 Un anno fa 30mila detenuti in California scendevano in sciopero della fame e del lavoro per chiedere la fine dell’isolamento di lungo periodo. Superando le divisioni razziali e religiose, la più grande mobilitazione di reclusi nella storia americana ha raggiunto il suo scopo. L’8 luglio di un anno fa, 30 mila detenuti in California scesero in sciopero della fame e del lavoro, il più grande sciopero di detenuti nella storia degli Usa. La loro rivendicazione principale era la fine dell’isolamento di lungo periodo - che dura anche decenni, in cubicoli spesso senza finestre di 2 x 2,5m. In California oltre 10 mila persone vengono private, talvolta per sempre, di ogni contatto umano. Alcuni scioperanti rifiutarono perfino l’acqua. Un detenuto morì dopo il rifiuto dell’aiuto medico, ma per i funzionari della prigione si era suicidato, una balla delle guardie, che, con il loro sindacato, traggono benefici economici dalla tortura dell’isolamento. Il sistema repressivo ha sempre sfruttato le divisioni razziali e religiose tra i detenuti. Fino al 2010, quando tutti i detenuti dello stato della Georgia rifiutarono di uscire dalle loro celle e di andare al lavoro. E questo divenne lo sciopero della fame del 2011 in California. Nell’agosto 2012, i detenuti della Prigione di Stato californiana di Pelican Bay che avevano lanciato tre precedenti scioperi della fame, annunciarono che "tutte le ostilità tra i gruppi razziali cesseranno ufficialmente". Avevano aperto la strada per l’azione del 2013, coinvolgendo ogni detenuto e ogni loro famiglia. In California quest’unità incominciò con il superamento della divisione "Black-Brown", tra immigrati o loro discendenti dall’America latina e gli afro-americani. Una divisione che ha sempre indebolito il movimento anti-razzista e quello contro le deportazioni. Imparare da questa sbalorditiva unità è il compito di ogni movimento fuori dalle prigioni. Dolores Canales - suo figlio è stato in isolamento per 13 anni - e altri famigliari - quasi tutte donne - lanciarono la California Families to Abolish Solitary Confinement. A San Francisco, Marie Levin - un fratello dentro - membro del Prisoner Hunger Strike Solidarity (una coalizione di avvocati, sostenitori e familiari), fece girare per parchi e università un modellino del cubicolo dell’isolamento, per mostrare ai cittadini quello che pagano con le loro tasse. I detenuti sospesero lo sciopero dopo 58 giorni per evitare altre morti. Ma l’organizzazione continuò la lotta dentro e fuori. Oltre a questa straordinaria unità, lo sciopero ha ottenuto udienze pubbliche governative sull’isolamento; rilascio dall’isolamento di oltre 500 detenuti; estensione delle visite dei loro cari; accesso al cibo della mensa (un’alternativa fondamentale al cibo su cui le guardie pisciano e perfino defecano). Lo sciopero era stato lanciato non solo per migliorare le condizioni nelle prigioni Usa, ma anche come un "atto di solidarietà con gli oppressi del mondo". I prigionieri palestinesi, con la loro storia di lotte contro l’apartheid israeliano e di scioperi della fame contro gli occupanti, furono tra i primi ad applaudire l’iniziativa con un messaggio. Questo primo anniversario verrà segnato in molti luoghi da eventi a celebrazione delle vittorie, rafforzando in questo modo ogni movimento per i diritti dei detenuti. Verranno evidenziati due casi in Pennsylvania: la donna che ha preso 30 anni per aver ucciso un uomo che aveva tentato di stuprarla, e i Dallas 6, perseguitati per aver detto la verità sulle loro condizioni. I detenuti danno con parole e fatti un nuovo significato al potere dell’anti-razzismo. E madri, figlie, sorelle, mogli che lottano per i loro cari, esigono che questo lavoro venga riconosciuto come parte del vastissimo lavoro politico che le donne fanno dappertutto. Marocco: detenuto morto per sciopero fame, ministero della Giustizia sotto accusa di Diego Minuti Ansa, 8 luglio 2014 Abdelati Zouhri aveva 32 anni. Arrestato alcuni mesi fa con le accuse di omicidio premeditato e associazione per delinquere e per questo condannato all’ergastolo, è morto dopo uno sciopero della fame durato 56 giorni. Una morte - dopo le tre, per le medesime ragioni, del 2013 nelle carceri marocchine - che, ancora una volta, ha messo sotto accusa l’amministrazione della Giustizia nel Regno, accusata di una chiusura netta nel rapporto con i detenuti, soprattutto con coloro che si ribellano apertamente alle condanne ritenendole ingiuste. La storia del giovane è abbastanza simile a quella di tanti altri che dicono di essere stati arrestati e condannati senza che sia stata condotta una istruttoria degna di un Paese che si dice democratico e garante dei diritti civili. Abdelati, sino al momento dell’arresto, aiutava il padre, proprietario di un chiosco per la vendita di sandwich, vicino alla stazione di Beni Mellal, centro a nord di Marrakesh. Poi le accuse, l’arresto, il processo in tempi brevi, la condanna, durissima, al carcere a vita. Poi il 13 maggio l’inizio dello sciopero della fame, per rivendicare la riapertura del processo e quindi una nuova istruttoria, anche sulla base di nuove prove che ne avrebbero attestato l’innocenza. Richieste cadute nel vuoto perché per la Giustizia marocchina tutto si era svolto nel pieno rispetto della legge. Ed allora Abdelati ha deciso di andare sino in fondo, scegliendo di morire. L’Associazione marocchina dei diritti umani non ha dubbi su quanto accaduto, sostenendo che "la giustizia marocchina è responsabile della morte di Abdelati Zouhri", riaprendo quindi un tema che ormai è vecchio di anni e che, nel caso del giovane, però, ha degli elementi non completamente chiariti. Secondo la stessa Associazione, in passato molti detenuti hanno fatto lo sciopero della fame anche di oltre cento giorni. Perché, si chiede ora l’Associazione, Zouhri è deceduto dopo 56 giorni? Cos’ha fatto per lui il personale medico del carcere di Beni Mellal? Domande alle quali l’Amministrazione penitenziaria ha risposto ribadendo la correttezza delle procedure e quindi dell’assistenza prestata al giovane detenuto, che è stato più volte portato in ospedale e sottoposto agli esami clinici necessari. Risposte che però non sembrano contribuire a placare le polemiche che hanno trovato fertile terreno nella situazione generale della popolazione carceraria in Marocco, che lamenta condizioni precarie e poche garanzie. Sono molti i detenuti in carceri marocchine che scelgono lo sciopero della fame come forma estrema di protesta. Tra essi ci sono anche nove ragazzi, diplomati e in cerca di lavoro, arrestati tre mesi fa nel corso di una manifestazione contro la disoccupazione ed ancora in attesa di un processo, dove dovranno rispondere di accuse gravissime (come quella di attentato alle forze di sicurezza). Tra i detenuti che protestano ci sono anche una ventina di francesi, bloccati nelle carceri del Marocco nonostante l’esistenza di un trattato tra Rabat e Parigi che ne prevede, in casi come i loro, il trasferimento in reclusori transalpini.