Giustizia: sulla preannunciata riforma si è arenato anche il decisionismo alla fiorentina di Sergio Lorusso* Gazzetta del Mezzogiorno, 7 luglio 2014 I timori della vigilia, alla fine, si sono rivelati fondati. La preannunciata riforma della giustizia a trecentosessanta gradi, da condurre in porto entro giugno, si è tradotta lunedì scorso in una semplice anche se ambiziosa dichiarazione d’intenti. Dodici punti come le Tavole della più remota fonte normativa scritta dell’Antica Roma (451-450 a.C.), scolpite nel bronzo per rendere maggiormente conoscibile e certo il diritto, sottraendolo all’egemonia (e agli umori) dei giuristi-pontefici - che dovrà tradursi, al termine di un confronto pubblico di due mesi, in iniziative legislative specifiche. E così il variegato e colorato apparato di slide esibito in precedenti occasioni ha ceduto il passo in questo caso a un’unica più modesta, grigia e anonima diapositiva che riassume ed elenca le priorità per la giustizia del Governo di Matteo Renzi. Non è detto che sia un male, perché si tratta pur sempre di temi che richiedono un’adeguata riflessione e un’appropriata ponderazione, poco congeniali al decisionismo e a soluzioni adottate a colpi di decreti legge. Meno entusiasmante, tuttavia, è la circostanza che alla base dell’improvviso cambio di passo dell’Esecutivo vi sia la levata di scudi dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) contro quei provvedimenti destinati ad incidere sensibilmente sullo status dei magistrati: dall’elezione del Csm al procedimento disciplinare e alla responsabilità civile dei magistrati. Ma tant’è. Viviamo pur sempre in un Paese nel quale la forza d’interdizione di lobby e gruppi più o meno organizzati è sempre molto elevata e, per quanto riguarda la magistratura, essa è cresciuta proporzionalmente all’acuirsi e al sedimentarsi dello scontro tra poteri che ha contraddistinto l’ultimo ventennio (che poi quella giudiziaria sia, Costituzione alla mano, una funzione e non un potere rappresenta nel caso di specie un dettaglio poco significativo). Certo, altro è confrontarsi con gli interlocutori naturali di una disciplina legislativa - e dispiace che il presidente del Consiglio, nell’elenco minuzioso che ha fatto in occasione della conferenza stampa di presentazione delle linee guida della riforma della giustizia abbia dimenticato, oltre alla casalinga di Voghera, coloro che insegnano diritto nelle università e che, in quanto tali, dovrebbero potere essere in grado di fornire un contributo disinteressato all’elaborazione di architetture e articolati normativi - altro è subirne l’interdizione, frutto di vecchie logiche che il cambiamento di passo renziano si propone di mettere nel cassetto. Il pericolo è che questa repentina decelerazione, complice l’incombente pausa estiva, possa far risucchiare nel vortice delle sabbie mobili che da sempre insidia il terreno delle riforme in materia i provvedimenti più scottanti, e in particolare quelli che dovrebbero precedere, in un’ideale complessiva riforma dell’apparato giudiziario, ogni altro - pur se urgente - intervento, investendo i profili istituzionali dell’organizzazione giudiziaria. L’intervista di ieri del Guardasigilli a la Repubblica, nella quale Andrea Orlando si preoccupa di sottolineare l’assenza di inciuci e di accordi sottobanco con il centro destra di Silvio Berlusconi, paradossalmente, accresce le preoccupazioni. Il discorso riguarda, in particolare, la ventilata riforma degli assetti dell’organo di autogoverno della magistratura, quel Csm (Consiglio superiore della magistratura) ormai prossimo alla scadenza (giovedì vi è stata la prima fumata nera in Parlamento nella votazione per il rinnovo della componente laica) e del quale - con cadenza ormai monocorde - si evidenziano puntualmente distorsioni e anomalie ogni quattro anni, per poi farle cadere nel dimenticatoio. Le soluzioni proposte dal Governo sono poco coraggiose e, probabilmente, destinate a perpetuare i vizi e i limiti dell’attuale Csm. Occorrerebbe agire più in profondità, intervenendo in primo luogo sui rapporti di forza interni tra componente laica e componente togata. Trattasi di modifica che implica una revisione costituzionale (art. 104 comma 3 Cost.), ma tutt’altro che eversiva. Se andiamo a rileggere i Lavori dell’Assemblea costituente, preziosa fucina di idee e di spunti spesso dimenticata, scopriamo infatti che tra le ipotesi in campo vi era quella di un Csm a composizione paritaria laici-togati, per giunta presieduto dal ministro della Giustizia. E in molti Paesi dell’Europa occidentale la componente togata dei Consigli di Giustizia è addirittura minoritaria (in Francia sette su quindici), paritaria (in Belgio ventidue su quarantaquattro) o comunque tendenzialmente equilibrata (nove su diciassette in Portogallo). È vero che vi sono Raccomandazioni europee che auspicano la composizione di organi di autogoverno costituiti almeno per la metà da giudici eletti dai loro pari, al fine di garantire l’indipendenza dal potere esecutivo e dal potere legislativo, ma è anche vero che la soluzione qui richiamata garantirebbe il rispetto della regola del cinquanta per cento. Non basta naturalmente cambiare i numeri, perché a governare gli organi sono pur sempre gli uomini, ma interventi di tal genere, uniti ad una revisione radicale delle regole di elezione della componente togata in grado di scardinare il cancro - diagnosticato dalla stessa magistratura ormai un ventennio fa, ma poi nei fatti freudianamente rimosso - delle correnti (in passato taluni avevano proposto collegi uninominali in grado di valorizzare i singoli e il loro raccordo con il territorio), potrebbero restituire al Csm e all’intera magistratura maggiore credibilità. A patto, ovviamente, di non ricadere in tentazione come ha fatto il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri nei giorni scorsi, grazie a un sms "malandrino" inviato ai suoi colleghi magistrati impegnati (ieri e oggi) nel voto per eleggere la loro rappresentanza nell’organo di autogoverno, con il quale li invitava a sostenere i candidati della sua corrente (Magistratura indipendente) a lui più fedeli. Un comportamento legittimo, per il sottosegretario, che dichiara di aver agito in qualità di privato cittadino (!) e da magistrato che conserva i propri diritti, legittimato dal fatto di essere "uno che conosce tanta gente" e di aver preso più voti di tutti quando si è candidato all’Anm. Hic sunt leones. *Componente non togato del Consiglio giudiziario della Corte d’Appello di Bari Giustizia: garanzie per noi, ma "in galeeera"… tutti gli altri di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 7 luglio 2014 Il sarcasmo compiaciuto e fieramente manettaro sui guai giudiziari di Sarkozy dimostra con una prova definitiva che la destra italiana non sa nemmeno cosa sia il garantismo. È stato un grande equivoco. La sinistra si è fatta invadere dal morbo giustizialista quando ha capito che i nemici politici si potevano comodamente eliminare per via giudiziaria. Invece la destra è apparsa garantista solo perché si è trovata a essere bersaglio delle inchieste giudiziarie. Ma è stata ed è garantista solo con Berlusconi e chi fa parte della sua rete politico-amicale. Per il resto, come si vede dalla titolazione tonitruante del Giornale e di Libero sul caso dell’ex presidente francese, il grido di battaglia della destra italiana sembra una parodia del vecchio motto di Bracardi, peraltro assai spesso adottato anche dalla sinistra forcaiola: "in galeeera". Garanzie per noi, ma "in galeeera" tutti gli altri, da Sarkozy fino al poveraccio sbattuto in cella ad ingrossare la schiera degli anonimi detenuti in attesa di giudizio. Poi, per carità, è comprensibile che una specie di contrappasso per il leader francese che si era permesso di ridacchiare con la Merkel su Berlusconi possa suscitare le ironie di chi non ha apprezzato quel gesto di sciocca grandeur da strapazzo. Ma se invochi il sacrosanto principio della presunzione di innocenza, poi non puoi gioire per il fermo di un ex presidente, trattandolo come un ladro ben prima non della sentenza, ma dell’inizio di un giusto processo. E se gridi all’accanimento giudiziario dopo che il tuo leader è stato assegnato ai servizi sociali causa condanna definitiva in Cassazione, non puoi chiedere partecipazione solidale se sei il primo a compiacerti della carcerazione preventiva di uno che ti sta (legittimamente) sulle scatole. E se in Italia non fai altro che denunciare il disegno politico che ha portato alla persecuzione giudiziaria di un leader capace di calamitare milioni di consensi, non è che in Francia un leader capace di calamitare milioni di consensi non può gridare al complotto politico ben prima che una sentenza ne accerti la consapevolezza al termine di un processo celebrato secondo le regole dello Stato di diritto. E se gridi all’attentato alla privacy connesso alla pubblicazione delle "tue" intercettazioni, non è che puoi godere delle intercettazioni che coinvolgono altri, solo perché la persona coinvolta non è di tuo gradimento. Principi semplici, beninteso: non è che siano così difficili da afferrare. Se non li si afferra è perché l’abc del garantismo risulta estraneo ed ostico. Perché garantismo non è la difesa di un Capo da parte dei suoi infervorati seguaci, ma la difesa di tutti sulla base di principi che valgono erga omnes. La galera per tutti tranne che per il tuo Capo è invece un’altra cosa. È militanza, fedeltà, spirito di gruppo, ma non garantismo. E con una sinistra giustizialista e una destra pure, ma con una maschera garantista per le sue convenienze, non c’è da stare allegri. Giustizia: Anm; distinguere tra pena e custodia cautelare, oppure difesa sociale a rischio di Grazia Longo La Stampa, 7 luglio 2014 La speranza è che domani la commissione giustizia alla Camera accolga le richieste di modifica al decreto legge, entrato in vigore lo scorso 28 giugno, sulla riforma della giustizia. Altrimenti niente carcere, ma solo arresti domiciliari, per chi dovrà scontare pene inferiori a tre anni. Ve lo immaginate un marito accusato di stalking, costretto in casa con la moglie, sua vittima prediletta? Il rischio è quanto mai probabile se non si provvede a distinguere la fase della custodia cautelare da quella che scatta al momento di una condanna. E riguarda in generale reati che hanno come protagonisti persone ritenute socialmente pericolose. Come, appunto, quelli indagati per stalking ma anche per maltrattamenti in famiglia e per rapina aggravata. Persone che, se non dovessero avere un luogo dove poter essere poste ai domiciliari, dovranno essere rimesse in libertà, sia nei giudizi celebrati in seguito di arresti in flagranza (per direttissima) sia di primo e secondo grado. Basta e avanza per mettere in allarme avvocati e magistrati. "La difesa sociale è a rischio" afferma il presidente dell’Anm (Associazione Nazionale Magistrati), Rodolfo Sabelli. E il segretario generale Maurizio Carbone insiste: "Martedì ribadiremo chiaramente la necessità di non confondere l’esigenza dell’applicazione della misura cautelare, indispensabile quando si temono la reiterazione del reato, l’inquinamento delle prove e il pericolo di fuga, con la possibile pena. La prima non è e non deve assolutamente essere confusa con la condanna definitiva". Poiché siamo ancora in fase di conversione di legge - entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto - esiste un margine di manovra. "I due piani non vanno sovrapposti, altrimenti si corre il rischio concreto di una scorciatoia legislativa che alla riforme strutturali preferisce norme emergenziali, per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri, che espongono il fianco a delle criticità". Carbone è, comunque, ottimista sull’attenzione al problema da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il quale infatti, nei giorni scorsi, aveva precisato che si tratta "di un intervento con cui il Governo ha corretto una norma già approvata da Camera e Senato che, invece, stabiliva il divieto di qualunque misura cautelare detentiva, sia carcere che arresti in casa, nel caso della previsione di una pena non superiore a tre anni". E ancora: "Un intervento che va nella direzione di garantire una maggior sicurezza dei cittadini e consentirà comunque al Parlamento di intervenire sulla materia con eventuali correzioni". Se lo augurano anche gli avvocati, in particolare quelli che assistono le vittime di stalking. Come Francesca Zanasi, legale da tempo sensibile al problema, affrontato anche in diversi libri (l’ultimo dall’eloquente titolo "L’odioso reato di stalking"). "Il decreto va rivisto - afferma - perché occorre applicare la legge in maniera più rigorosa possibile. Chi picchia una donna, ne abusa sessualmente, ne condiziona le relazioni sociali, deve essere assolutamente fermato. E spesso la custodia cautelare è l’unico rimedio utile per far finire il tormento". L’avvocato non ha dubbi: "Non possiamo invitare le donne a denunciare gli stalker e poi non proteggerle concretamente". Giustizia: svuota-carceri e violenza negli stadi, correre ai ripari senza generare "mostri" di Marco Menduni Il Secolo XIX, 7 luglio 2014 Il pateracchio del nuovo decreto sulla carcerazione preventiva che, nel lodevole intento di svuotare carceri invivibili, sta facendo uscire di cella gentiluomini quali stalker, molestatori e ladri professionisti, è uno dei sintomi più chiari della difficoltà con cui si scontra la stagione riformatrice del governo Renzi. L’esplosione delle polemiche sulla liberazione in anticipo di detenuti "socialmente pericolosi" (con buona pace delle vittime) imbarazza l’esecutivo. Il Guardasigilli Andrea Orlando ci ha messo la faccia, promettendo in un colloquio con Il Secolo XIX un intervento tempestivo per riparare al guaio. Il più tempestivo possibile, per quanto concedano le procedure: ci vorrà un mesetto e Dio non voglia che nel frattempo qualche detenuto in libertà non combini qualche guaio irreparabile. C’era fretta di intervenire sulla carceri-inferno, non c’è dubbio. Ma c’era, bastava saperlo leggere, qualche difetto anche nella stesura di quel testo, che ora dispiega le sue conseguenze perverse. Orlando ci aveva già messo una prima pezza (ripristinando almeno la possibilità degli arresti domiciliari, che non era prevista: neppure questa) ma ora ne dovrà mettere una seconda. Sembra di capire, e lo testimonia anche il siparietto con il premier alla presentazione della riforma complessiva della giustizia, che il Guardasigilli non sia del tutto d’accordo con i tempi sprint voluti da Renzi. E sia forse anche lui l’ispiratore di quei "due mesi di discussione" prima del varo del tourbillon. Giusto così. Tutti vorrebbero riforme veloci e si capisce la fretta del presidente del Consiglio. Ma in un sistema incrostato, ampolloso, incredibilmente farraginoso come quello italiano, toccare un tassello sottovalutando un dettaglio può provocare un pasticcio. Come quando si vuol demolire un solaio marcio e crolla la villa. Il caso deflagrato in questi giorni si lega a doppio filo a un’altra emergenza italiana. La violenza negli (e intorno agli) stadi. Fino all’aggressione a pistolettate nei confronti del povero Ciro Esposito, si era giocato morbido, con le proposte della task force costituita all’uopo presentate nello scorso aprile. Dialogo, buonsenso, organizzazione. Dopo la morte del tifoso negli uffici dell’Interno serpeggia il panico: che cosa potrà accadere non appena il calcio giocato si ritrasferirà dai campi verdi del Mundial a quelli di casa nostra? Il ministro Alfano è prima uscito con una sortita: Daspo a vita per i tifosi più violenti. Insomma: l’ergastolo del Daspo (il provvedimento che vieta l’accesso alle manifestazioni sportive) per i cattivi più cattivi. Poi fior di costituzionalisti hanno fatto notare ad Alfano che così non si può: un provvedimento di tal fatta verrebbe cancellato in men che non si dica da ogni ricorso. Il ministro è avvocato: difficile pensare che non ci abbia fatto caso. Più facile immaginare che anche lui si sia fatto prendere la mano dall’enfasi dell’effetto-annuncio. Alla seconda sortita Alfano ha calato le pretese: Daspo fino a otto anni (oggi il limite è cinque, ne sono attivi circa 5 mila) ed esteso a episodi assai collaterali all’evento sportivo. E poi Daspo di gruppo. Viaggi in pullman con un gruppo di esagitati che sfasciano un autogrill? Te lo becchi anche tu, anche se non hai fatto niente. C’è anche la possibilità di sconti ai "pentiti", con la riduzione o l’annullamento del divieto a chi collabora con le forze dell’ordine e con la magistratura. Tutto da dimostrare che il "pentito" potrebbe poi tornare allo stadio e uscirne incolume, ma queste ipotesi hanno una ratio: spezzare il rapporto che oggi lega i violenti a un’altra parte della tifoseria. Quella pacifica che, a volte per connivenza, ma quasi sempre per timore, non riesce a rimarcare la separazione dai vandali. Il problema sta nelle forme. I tecnici del Viminale sono convinti che questi provvedimenti sarebbero inaffondabili. I giuristi ancora una volta no. Già oggi molti Daspo vengono annullati dai Tar. Spingere così a fondo su forme di interdizione che prescindono dalla responsabilità personale (che è sempre un presidio di diritto e di democrazia) potrebbe portare a un aumento esponenziale dei conflitti amministrativi, paralizzando ogni buona intenzione. Il rischio flop, insomma, è In agguato. Mal calibrare gli interventi, quando si va a sovrapporsi anche alle pratiche e alle competenze dei magistrati, vuol dire rischiare di fare il passo sbagliato in un campo minato. Il caso di oggi, il decreto libera-tutti, ne è un esempio lampante. Da non ripetere. Giustizia: così Papa Francesco ha rotto la connivenza tra boss mafiosi e preti infedeli di Paolo Di Paolo L’Unità, 7 luglio 2014 Lo "sciopero della messa" dei detenuti del carcere di Larino come va letto? È la protesta di chi si sente escluso, rifiutato da una comunità religiosa, di chi - colpevole - si sente vittima? O è il segno che le parole di papa Francesco contro la ‘ndrangheta e le mafie in genere hanno una portata quasi rivoluzionaria nella storia recente della Chiesa? Nella tradizione retorica di ogni omelia, in una piccola chiesa di provincia come nel duomo di una grande città, le parole del Vangelo vengono trasferite sul piano della vita pratica di chi ascolta. Ma è difficile che chi ascolta si senta davvero implicato. Il Vangelo punta il dito contro i bugiardi, gli ipocriti, i corrotti? È raro sentirsi chiamati direttamente in causa, riconoscersi fra gli imputati. Ricordate i commenti un po’ stizziti dei politici che qualche mese fa hanno partecipato a una messa celebrata all’alba da papa Francesco? Nelle dichiarazioni ai giornali e sui social, si lamentavano della freddezza del Papa in quella occasione, è "come se fossimo noi il bersaglio delle sue parole". Siamo istintivamente portati a difenderci dalle accuse, a schivarle, a pensare che siano sempre gli altri, quelli in difetto, i colpevoli. Ma è possibile nascondersi finché l’accusa è vasta, generica, finché restiamo - di fronte a un capo di imputazione - volti anonimi in una moltitudine di volti anonimi. Ciò che sorprende nella reazione dei detenuti di Larino è questo farsi avanti quasi a viso scoperto: la loro colpa è scritta, certo, ma la scomunica non è nominale. Avrebbero potuto, se non ignorare le parole del Papa, prenderle per qualcosa di generico, invece ne sono stati intimamente toccati. Al punto da chiederne conto al cappellano del carcere: se siamo scomunicati, cosa veniamo a fare a messa? Più dell’esclusione dalla società pesa l’esclusione dalla comunità religiosa, pesa come un’onta, come un’ingiustizia quasi inaccettabile. Nella cultura mafiosa è determinante l’aspetto religioso, su un piano emotivo, privato, e su un piano pubblico: non è un caso che in una recente processione l’inchino della statua della Madonna sia stato riservato all’abitazione del boss locale. Così le parole di Papa Francesco non solo scuotono questa connivenza, questo avallo reciproco, questo patto silenzioso fra potere criminale e Chiesa locale - ed è già un fatto straordinario - ma entrano in uno spazio diverso, più sottile, più scoperto: quello della coscienza dei singoli. Agiscono su un terreno nuovo, che non riguarda solo una collettività, ma chiama in causa - uno per uno - chi ha creduto che la fede nel Dio dei cristiani e l’essere parte di un clan mafioso potessero coesistere. Arriverà il giudizio di Dio, aveva urlato a Capaci dopo le stragi Giovanni Paolo II. È già arrivato, sembra aggiungere Francesco: il giudizio di Dio è già una condanna. Questo non lascia spazio al perdono per chi si pente? Certo che lascia spazio, ma la questione del perdono ha tale e tante implicazioni con i sentimenti di chi ha subito violenza, dei parenti delle vittime, della comunità civile, da non poter essere affrontata e risolta solo su un piano religioso, di dottrina e di fede. Resta evidente questo: le parole di Papa Francesco, nella loro consueta semplicità e chiarezza, nella loro trasparenza, a differenza di quelle cui siamo abituati e che spesso ci fanno comodo, non forniscono alibi. Per questo pesano. Che sia chi già in carcere a reagire a voce alta, è la prova della forza, dell’efficacia e della novità del discorso del pontefice. Ma bisogna augurarsi e sperare che scavino soprattutto nelle coscienze di chi è fuori dal carcere, di chi continua a mettere piede in chiesa, a starsene tranquillo, impettito, magari ai primi banchi, di chi si aspetta l’inchino delle statue in processione, dei preti e magari degli stessi politici che - svegliati all’alba da quel papa in apparenza bonario - si vedono negare da lui anche la stretta di mano. Giustizia: dopo la scomunica del Papa ai mafiosi detenuti di Larino disertano la messa www.corriere.it, 7 luglio 2014 Il racconto di padre Bregantini, arcivescovo di Campobasso: "Una conferma di quanto il Pontefice incida nelle coscienze". "Se siamo scomunicati, a messa non vale la pena andarci". Questa la reazione dei detenuti della Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino, in Molise, rimasti colpiti dall’intervento di Papa Francesco due settimane fa in Calabria, quando ha pronunciato la scomunica per i mafiosi. Lo ha riferito alla Radio Vaticana padre Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso. "È una cosa sorprendente - ha commentato il presule - che conferma quanto il Papa parlando, incida nelle coscienze, perché la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino, quasi 200 persone, si è messa in ribellione davanti a questa frase". "Ne hanno parlato con il cappellano - ha ricostruito ancora Bregantini - quest’ultimo questa mattina (domenica mattina, ndr) ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa". Secondo l’arcivescovo di Campobasso (ed ex vescovo di Locri, minacciato di morte) "questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici". L’episodio ha coinvolto 200 detenuti, ma dal penitenziario negano (www.repubblica.it) Nel carcere di massima sicurezza di Larino (Campobasso) 200 detenuti hanno rifiutato la messa domenicale per protesta contro la scomunica del Papa nei confronti dei mafiosi pronunciata durante la visita pastorale in Calabria. Sarebbero detenuti del settore di alta sicurezza. Una presunta protesta che si aggiungerebbe a quanto accaduto a Oppido Mamertina, con l’inchino della statua della Madonna - durante la processione - davanti alla casa di un boss. Per ora dal carcere arriva la smentita del direttore, Rosa La Ginestra, che a Repubblica.it dice: "Non sono presente in istituto ma dopo le segnalazioni mi sono informata. Questa è una giornata come tutte le altre. Sono in corso colloqui, molti detenuti sono andati a messa". Ma ci sono state defezioni rispetto alla normale partecipazione alla cerimonia? "Il dato è fisiologico", è la risposta. Ispettore carcere Larino: hanno chiesto chiarezza "Il parroco del carcere ha chiesto al vescovo di Termoli-Larino, monsignor De Luca, di spiegare ai detenuti, nel corso della Messa di oggi, il significato della scomunica del Papa per i mafiosi, a quanto mi risulta non c'è nessuna ribellione, nessuna protesta". Così l'ispettore capo della polizia penitenziaria del carcere di Larino, Nicola Di Michele, in merito all'episodio nel carcere molisano che ospita anche detenuti ad alta sicurezza. "Questa mattina la messa era affollata. Il vescovo è venuto per celebrare una cresima e il parroco gli ha chiesto di cogliere l'occasione. Da noi la messa si celebra solo la domenica". Quello di Larino, spiega Di Michele, "è un carcere modello, se i nostri detenuti decidono di prendere iniziative usano sempre scrivere una lettera alla direzione". Il cappellano: io continuerò a dar loro l’ostia (La Repubblica) "Io ai boss continuo a dare la comunione... non posso esimermi". È lapidario e arrabbiato don Marco Colonna, cappellano del carcere di Larino. Non voleva che finisse sotto i riflettori lo sciopero della messa dei detenuti del suo carcere. "Ho letto interpretazioni sbagliate. Storie di rivolte... Così si rischia di danneggiare la serenità di una comunità difficile". Padre, ma allora cos’è successo? "Dopo le parole del Papa in Calabria contro la ‘ndrangheta, alcuni detenuti sono venuti da me a chiedermi se dovevano ritenersi scomunicati. Annunciandomi che se non potevano più prendere i sacramenti avrebbero smesso di venire alla messa". E lei? "Ho provato a spiegare che la nostra Chiesa non caccia nessuno. E dopo giorni di riflessione gli ho garantito che avrebbero comunque ricevuto i sacramenti. E la protesta dopo la messa di ieri con il nostro vescovo, per il momento è rientrata". Ma Francesco ha scomunicato i mafiosi, quindi possono partecipare alle funzioni ma sacramenti non potrebbero riceverli. "Che dovrei fare allora? Tenerli lontani dalle funzioni religiose? La Chiesa, tra queste mura, è l’unico luogo di ristoro per queste persone. E poi, in realtà la scomunica prevede un procedimento preciso da seguire. Il Papa invece quel giorno in Calabria ha voluto tracciare un solco, un appello al pentimento, alla redenzione. Non certo escludere. E non in un posto come questo, dove a tanta gente rimane solo la fede a cui aggrapparsi". E la cresima del boss Salvatore Figliuzzi? "Non posso parlare delle richieste dei singoli detenuti. Mi limito a dire che il vescovo aveva accettato di officiare la cresima di un detenuto della sezione "Alta Sicurezza Tre". Poi è stato scarcerato. Il vescovo è venuto lo stesso. E per questo lo ringrazio. Ha parlato con gli altri detenuti, spiegando le parole del Papa e li ha rassicurati sul fatto che non sono stati cacciati". Avete distribuito loro anche il discorso integrale del pontefice. "Certo, spesso i media sintetizzano e strumentalizzano. Loro dovevano leggere bene e capire". Giustizia: intesa tra ministeri, pulizia e manutenzione dell’ambiente affidata ai detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 7 luglio 2014 I detenuti potranno fare esperienza di manutenzione e pulizia dei nostri 24 parchi nazionali. Di lavori di pubblica utilità c’è sempre bisogno e l’intesa siglata a fi ne maggio tra il ministero della giustizia e quello dell’ambiente guarda lontano: inclusione sociale e tutela del territorio perché, secondo il guardasigilli Andrea Orlando che l’ha firmata, "ammontano a 40 miliardi gli investimenti necessari per la manutenzione del territorio e progetti come questo possono rappresentare un prototipo utilizzabile". È la nuova forma di lavoro esterno, con caratteristiche di pubblica utilità trovata dal ministero della giustizia su intesa con il ministero dell’ambiente, dove il principio costituzionale di rieducazione della pena si coniuga con quello della difesa dell’ambiente. Un modo per riallacciare il filo con altre iniziative del genere già in essere: a Parma i detenuti già si prendono cura del parco Taro distrutto da un incendio mentre sull’isola di Pianosa i detenuti sono coinvolti in un progetto di tutela del territorio più fedele al modello della colonia agricola che del supercarcere per detenuti in regime di 41-bis chiuso ormai dagli anni 90. Ma da oggi, le amministrazioni dei parchi nazionali hanno nel dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia un interlocutore- sponda per accordi operativi tra il singolo parco nazionale e il Dap. Il protocollo d’intesa firmato a fine maggio dal ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, e da Orlando, prevede un’attività gratuita svolta a titolo volontario sia da detenuti reclusi in carcere che da chi già beneficia di pene alternative alla detenzione. Gli obiettivi riconosciuti dalle parti consistono nella valorizzazione delle aree protette e nell’interscambio tra le amministrazioni per la definizione di protocolli operativi del lavoro al loro interno che favoriscano la crescita del senso di autonomia e responsabilità del detenuto, l’interesse a possibili percorsi professionali futuri insieme allo sviluppo del concetto di restituzione per ristabilire quel patto sociale con la società che era stato infranto. Il ministero dell’ambiente si è impegnato a garantire alle persone formazione e lavoro sfruttando tutti gli strumenti legislativi forniti dall’ordinamento penitenziario e il dicastero della giustizia si impegna a impiegare le risorse nelle aree protette in un’ottica di rieducazione e reinserimento del soggetto nella società civile. La sua validità è di tre anni e le iniziative informative e formative insieme alla necessaria copertura assicurativa saranno a carico dell’Ente Parco. "Con questo protocollo", ha osservato Orlando, "affrontiamo il tema dei detenuti che potranno lavorare all’esterno e nei parchi potranno anche acquisire una specificità con i cosiddetti green jobs. Si potrà anche in futuro fare un ragionamento per occupare i detenuti nella manutenzione del suolo. I lavori di pubblica utilità", auspica Orlando, "vanno nella direzione che vorrei si prendesse non solo per le emergenze ma in chiave strutturale". Un’iniziativa, questa, che il ministro considera "un’opportunità in più alla magistratura di sorveglianza, che oggi spesso non può offrire alternative rispetto alla detenzione in carcere: noi", ha detto il guardasigilli, "offriamo uno spettro di possibilità, poi i magistrati valuteranno caso per caso". E di utilità vera, in merito a questo progetto, parla il ministro dell’ambiente, Galletti: "È utile per la manutenzione dei parchi ed è utile per i detenuti che possono imparare un mestiere. La nostra visione non è quella di una difesa dell’ambiente fine a se stessa, ma con l’obiettivo di uno sviluppo economico, occupazionale e di inclusione sociale. I parchi sono una grandissima risorsa, sia come leva turistica sia, in questo caso, come strumento per l’inclusione sociale dei detenuti. In Italia ci sono 23 parchi nazionali, tutti quanti possono essere utilizzati per questo tipo di operazione. Con questo protocollo", ha concluso, "noi facciamo un test che non è escluso possa essere replicato in altre occasioni e in altri ambiti. Gli impieghi possono essere infiniti". Giustizia: caso Aldrovandi, il Coisp querela Patrizia Moretti, madre di Federico Il Manifesto, 7 luglio 2014 Il sindacato di polizia ha annunciato la denuncia per diffamazione per le dichiarazioni rilasciate in un’intervista al sito Contropiano.org. La solidarietà di Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista): "La sostengo. querelate anche me!". Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ha lasciato Facebook: "Ho chiuso l’account perchè tutto è già stato detto. Le sentenze sono definitive. Chi vuol capire ha capito. Agli altri addio. Io torno ad essere mamma privata", ha scritto in un messaggio riportato sulla pagina intitolata a Federico, morto a Ferrara nel 2009 a seguito di una colluttazione violenta che ha portato alla condanna di quattro agenti: Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. "Federico adesso ha moltissime voci che ringrazio una per una. L’Associazione prosegue sulla strada di Federico e su questa pagina. Ciao", conclude Patrizia Moretti. La scelta è avvenuta dopo l’annuncio di querela da parte di Franco Maccari, segretario generale del Coisp, il sindacato indipendente di polizia responsabile del sit-in sotto l’ufficio di Patrizia Moretti a Ferrara a sostegno degli agenti condannati per la morte di suo figlio. Maccari ha spiegato le ragioni del suo gesto citando i contenuti di un’intervista rilasciata da Moretti al sito con?tro?piano?.org postata sul suo account facebook. Il sindacato di polizia ha annunciato la denuncia per diffamazione per le dichiarazioni rilasciate in un’intervista al sito Contropiano.org. La solidarietà di Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista): "La sostengo. querelate anche me!" Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ha lasciato Facebook: "Ho chiuso l’account perchè tutto è già stato detto. Le sentenze sono definitive. Chi vuol capire ha capito. Agli altri addio. Io torno ad essere mamma privata", ha scritto in un messaggio riportato sulla pagina intitolata a Federico, morto a Ferrara nel 2009 a seguito di una colluttazione violenta che ha portato alla condanna di quattro agenti: Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. "Federico adesso ha moltissime voci che ringrazio una per una. L’Associazione prosegue sulla strada di Federico e su questa pagina. Ciao", conclude Patrizia Moretti. La scelta è avvenuta dopo l’annuncio di querela da parte di Franco Maccari, segretario generale del Coisp, il sindacato indipendente di polizia responsabile del sit-in sotto l’ufficio di Patrizia Moretti a Ferrara a sostegno degli agenti condannati per la morte di suo figlio. Maccari ha spiegato le ragioni del suo gesto citando i contenuti di un’intervista rilasciata da Moretti al sito contropiano.org postata sul suo account facebook. "Penso che Maccari sia uno stalker - ha detto Moretti - Non scendo a indagare le motivazioni dei suoi assurdi comportamenti. Penso sia un vero torturatore morale, che non ha mai avuto scrupoli nei confronti della mia famiglia. Lo diceva anche Heidi Giuliani, perseguitata da giudizi feroci sulla simbolica “piazza Carlo Giuliani”. È uno stalker nato. Com’è possibile che una persona così rappresenti qualcuno di onesto? Forse rappresenta le persone come lui". Maccari, in una nota, ha annunciato la querela: "Abbiamo subito di tutto evitando di reagire, ma adesso è davvero troppo". Patrizia Moretti ha già querelato il segretario del Coisp per stalking e diffamazione nel settembre 2013. "Voglio esprimere la mia piena solidarietà a Patrizia Moretti - ha detto Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista - Esprimere la solidarietà significa assumersi le proprie responsabilità, per cui faccio mie le parole di Patrizia Moretti: penso anch’io che il segretario del Coisp sia uno stalker e un torturatore morale. Se ritiene, questo signore quereli anche me”. Per gli agenti Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri, dopo quasi nove anni dalla morte di Federico Aldrovandi il 25 settembre 2005, la Corte dei conti di Bologna ha disposto il sequestro conservativo di un quinto del loro stipendio e dei loro beni per un’ammontare totale di 1 milione e 870 euro a copertura del danno erariale che lo Stato ha avuto, risarcendo nel 2010 la famiglia Aldrovandi. Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri dovranno pagare 467 mila euro ciascuno per il comportamento colpevole e per gli errori commessi durante lo svolgimento del servizio di quella mattina. "Finalmente si è arrivati al completamento della giustizia per la morte di mio figlio - ha commentato Patrizia Moretti. È quello che speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto". "È giusto che non siano i cittadini a pagare per chi quella mattina si è reso responsabile della morte di mio figlio che diceva basta e chiedeva aiuto", ha aggiunto il padre di Federico, Lino Aldrovandi. La richiesta di condanna al risarcimento verrà esaminata in un processo amministrativo alla Corte dei Conti prevista il 28 gennaio 2015. Penso che Maccari sia uno stalker - ha detto Moretti - Non scendo a indagare le motivazioni dei suoi assurdi comportamenti. Penso sia un vero torturatore morale, che non ha mai avuto scrupoli nei confronti della mia famiglia. Lo diceva anche Heidi Giuliani, perseguitata da giudizi feroci sulla simbolica “piazza Carlo Giuliani”. È uno stalker nato. Com’è possibile che una persona così rappresenti qualcuno di onesto? Forse rappresenta le persone come lui". Maccari, in una nota, ha annunciato la querela: "Abbiamo subito di tutto evitando di reagire, ma adesso è davvero troppo". Patrizia Moretti ha già querelato il segretario del Coisp per stalking e diffamazione nel settembre 2013. "Voglio esprimere la mia piena solidarietà a Patrizia Moretti - ha detto Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista - Esprimere la solidarietà significa assumersi le proprie responsabilità, per cui faccio mie le parole di Patrizia Moretti: penso anch’io che il segretario del Coisp sia uno stalker e un torturatore morale. Se ritiene, questo signore quereli anche me”. Per gli agenti Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri, dopo quasi nove anni dalla morte di Federico Aldrovandi il 25 settembre 2005, la Corte dei conti di Bologna ha disposto il sequestro conservativo di un quinto del loro stipendio e dei loro beni per un ammontare totale di 1 milione e 870 euro a copertura del danno erariale che lo Stato ha avuto, risarcendo nel 2010 la famiglia Aldrovandi. Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri dovranno pagare 467 mila euro ciascuno per il comportamento colpevole e per gli errori commessi durante lo svolgimento del servizio di quella mattina. "Finalmente si è arrivati al completamento della giustizia per la morte di mio figlio - ha commentato Patrizia Moretti - È quello che speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto". "È giusto che non siano i cittadini a pagare per chi quella mattina si è reso responsabile della morte di mio figlio che diceva basta e chiedeva aiuto", ha aggiunto il padre di Federico, Lino Aldrovandi. La richiesta di condanna al risarcimento verrà esaminata in un processo amministrativo alla Corte dei Conti prevista il 28 gennaio 2015. Giustizia: io, Ottaviano Del Turco, torturato come Tortora per avere sfidato i potenti di Errico Novi Il Garantista, 7 luglio 2014 Ottaviano Del Turco è un uomo che sa sorridere. Vive una delle più incredibili vicende giudiziarie degli ultimi anni. Eppure non smette di scorgere nelle cose il loro verso paradossale. Solo così può accarezzare la vita che a un certo punto lo ha sottoposto a una prova terribile. "Nessuno può avere idea di cosa sia un processo come il mio, se non ci sta dentro. Solo da dentro si vedono tutti i dettagli di una tortura processuale come quella che ho vissuto, anche quelli piccolissimi". Non sono stati anni da incorniciare, questi ultimi sei, per Del Turco. Ma l’ex numero due della Cgil ("l’immagine a cui tengo di più"), che è stato anche segretario del Psi, parlamentare antimafia, ministro e poi presidente dell’Abruzzo, questo signore contro il quale sei anni fa ci si è avventati con gli artigli della ferocia forcaiola più cieca, non smette di amare i suoi quadri, di passeggiare per la sua Collelongo, di gustarsi la solitudine che è anche benefico distacco. Né gli costa fatica raccontare i dettagli anche paradossali e comici della sua odissea processuale. Un pezzetto di questa storia è riemerso in tempi recenti: qualche settimana fa (il Garantista ne ha parlato domenica scorsa), i pm di Chieti hanno spiegato ai giudici dov’era andato a finire il "tesoro" dell’uomo che accusa Del Turco: Vincenzo Angelini, ex re delle cliniche abruzzesi, la cosiddetta gola profonda che ha raccontato la storia delle tangenti scambiate con sacchi di mele, un uomo accusato di bancarotta per cifre colossali, avrebbe trasferito la bellezza di 100 milioni di euro alle Antille Olandesi. La Procura spiega di aver trovato le "contabili", cioè le prove certe. Era tutto nell’hard disk di un commercialista, un certo Marco Rovella. Un uomo così pieno di sorprese, Angelini, uno che secondo l’inchiesta di Chieti avrebbe fatto fallire un impero di cliniche private per mettere da parte 100 milioni ai Caraibi, ha goduto di una considerazione assoluta da parte dei giudici di Pescara. Gli hanno creduto e hanno condannato Del Turco in primo grado a 9 anni e 6 mesi. "Quasi come Tortora", fa notare l’ex governatore, uno dei pochi passaggi in cui la voce si fa un po’ più arrabbiata. Senta Onorevole, è chiaro che non ci sono certezze. Non ce ne sono della sua colpevolezza, non possiamo dire di averne neppure del supposto magheggio caraibico di Angelini. Ma le è mai passato per la testa, in questi anni, che dietro le accuse potesse nascondersi un presunto tesoro? È stato evidente fin dall’inizio. Evidente a chi? A me che gli avevo fatto le leggi contro. Quali leggi? Prima che diventassi presidente della Regione, Angelini, proprietario di un gruppo come Villa Pini, stracolmo di convenzioni, riceveva i rimborsi a piè di lista. Diceva di aver erogato prestazioni per un determinato costo, e la Regione pagava. Poi cos’è successo? Che le delibere della mia giunta e le leggi approvate in Consiglio regionale hanno messo fine a quella follia. Ed evidentemente gli hanno creato dei problemi. L’ha accusata per questo? No. Angelini è stato passato al setaccio dal Nas dei carabinieri alcuni mesi prima che io fossi arrestato. Ai pm l’Arma ha detto: questo signore andrebbe arrestato. Nel momento in cui la Procura di Pescara comincia a mettere sotto torchio Angelini, una perizia accerta che 60 milioni del suo patrimonio sono già stati trasferiti dai conti delle cliniche ad altre imprecisate destinazioni. Cosa gli succede? Il procuratore capo Trifuoggi gli dice che tutto appare incomprensibile se non lo si ricollega a un meccanismo esiziale di concussione. Gli dice: lei questi soldi li deve accantonare per la politica, è l’unica spiegazione. E lì Angelini fa il suo nome. Macché. Dichiara di non aver mai pagato nessuno. È tutto negli atti processuali, questo scambio tra la Procura e Angelini. Trifuoggi insiste. Cerca di far capire ad Angelini che se lui fa i nomi di chi lo ha concusso rende un grande servizio alla Giustizia. E quindi lui fa i nomi degli amministratori. E nemmeno. Se ne torna a casa sua. Parla con il suo avvocato, evidentemente. Dopo 8 giorni si ripresenta in Procura e dice: sono stato concusso. Ho pagato tangenti. Solo a Del Turco ho dato oltre 5 milioni e mezzo. Questo porta al suo arresto, il 14 luglio del 2008. Il giorno dopo avremmo approvato una circolare, già pronta. Avrebbe reso ancora più stringenti i criteri per pagare le strutture convenzionate con la sanità regionale. Quanto tempo ha passato in carcere? Ci sono stato fino al 28 luglio. Poi sono passato ai domiciliari. Quindi alla fase più umiliante, quella dell’obbligo di dimora. Un confino. Quando avevo bisogno di muovermi dalla mia Collelongo per andare a Roma dovevo chiedere un permesso al gip. Poi avevo bisogno di un’autorizzazione anche per tornare a Collelongo. Di fatto sul Raccordo anulare ero una specie di evaso. Adesso è in attesa dell’Appello. Secondo il suo avvocato difficilmente se ne parlerà prima del 2015. Nel frattempo è libero. Ma preferisco confinarmi da solo, a questo punto, a casa mia a Collelongo. Faccio una passeggiata la mattina, prendo un caffè. Una partitella a carte. Poi torno, cerco di non stancarmi. Ho un linfoma. Un tumore non dei più aggressivi, per fortuna. Da alcuni anni sono in cura dal professor Mandelli. E ho smesso di tenere la testa sempre nelle carte del processo. All’inizio ha studiato come se avesse dovuto difendersi da solo. Poi i medici mi hanno detto: quello che le hanno fatto passare ha colpito le sue cellule. È come se i segni della sofferenza si vedessero al microscopio, capisce? Cosa si aspetta dal processo di Appello? L’assoluzione. E basta. Non voglio le scuse. So che proprio il Garantista ha pubblicato le scuse di Marmo alla famiglia Tortora. Non mi interessano. Le scuse le chiedono i magistrati che smettono di fare i magistrati. Alla fine lei non è stato condannato per concussione. No. Dopo l’escussione di 140 prove testimoniali tutte chiamate a suffragare la tesi della concussione, all’ultimo minuto è cambiato il capo d’imputazione. Senza che tale ipotesi fosse mai stata avvalorata da un solo testimone. Questo naturalmente è tra i motivi dell’istanza di Appello. Peseranno anche i 100 milioni trovati alle Antille che, secondo la Procura di Chieti, costituirebbero il tesoro di Angelini? Possono rafforzare il quadro già abbastanza chiaro emerso nel primo grado. Ma non saranno decisivi. Cosa ha pensato di fronte alla notizia dei 100 milioni? Che probabilmente ce ne sono altri. Angelini tende ad accumulare soldi. E ne pretende sempre, anche quando non ne ha diritto. Cosa intende dire? Le faccio un altro esempio. Vincenzo Angelini è uno che compra di tutto. A casa aveva centinaia di paia di scarpe, centinaia di magliette Lacoste tutte dello stesso colore. È stato intercettato dai vigili urbani mentre cercava di portar via da casa scatoloni pieni di cose così. Alcuni antiquari romani possono raccontare di aver venduto ad Angelini mobili di grandissimo pregio e valore che non sono mai stati ritirati. Li ha comprati, li ha pagati, ma li lascia lì. A deperire nei depositi. Nelle udienze del processo è capitato che Angelini cominciasse a urlare senza motivo, o che girasse i tacchi e se ne andasse all’improvviso. Tutti questi episodi non hanno mai messo in discussione la sua attendibilità. Anche lei ama i quadri. Me li vendo. Quelli che ho se ne vanno, uno dopo l’altro. Li vendo per vivere, per pagare gli avvocati. Ho speso decine di migliaia di euro, per difendermi. A casa avevo, ne ho ancora qualcuna, opere di grandi maestri, di alcuni di loro sono stato amico. La pittura per me è tutto. Ma devo vendere i quadri. Ne ho venduti di Schifano, di Guttuso. Lei è stato tra i fondatori del Pd. Da quel partito le arrivano attestati di solidarietà? Quasi mai. Tra un fragile impianto accusatorio e un vecchio militante hanno scelto la Procura. Perché? Paura? Sì, paura. Ne sono convinto. Perché le è successo tutto questo? Perché ho tagliato i costi della sanità. Perché chi ha governato la Regione dopo di me ha potuto completare il rientro dal dissesto grazie alle mie leggi. Perché mi sono messo contro i potenti. Toto, per esempio, il fondatore di Air One. Gestiva in società con Benetton la Autostrada dei Parchi, la Pescara-Roma. Una sera con una nevicata terribile tralasciano di spargere il sale. Muoiono cinque persone, altre centinaia di abruzzesi a pochi chilometri da Roma trovano i caselli chiusi e sono costretti a tornare indietro. Ha trattato quel manto stradale come se fosse la robba di Mazzarò. Lo attaccai con grande durezza. Qual è il limite più grave della giustizia italiana? Nel 1993 i processi di Mani pulite hanno messo in moto la valanga che avrebbe travolto il sistema delle garanzie processuali. Ma non ci metto più la testa. Devo avere rispetto per la mia salute, ora. Giustizia: Massimo Giuseppe Bossetti, colpevole al tribunale del gossip di Marco Cubeddu Il Secolo XIX, 7 luglio 2014 Siamo finalmente all’epilogo del caso di Yara Gambirasio. Massimo Bossetti è stato preso. È in galera. E, diciamoci la verità, speriamo ci resti. Perché è sicuramente colpevole. Lo sappiamo tutti: basta guardare i suoi occhi di ghiaccio, così allucinati, per saperlo. Certo, la giustizia deve fare il suo corso, ci vogliono prove, bisogna rispettare i tempi burocratici e tecnici degli scienziati e degli inquirenti. Ma, vista l’evidente colpevolezza di Bossetti, dobbiamo abbandonare ogni ipocrisia e trovare il coraggio di eliminare la parola "presunto" quando lo definiamo killer. Le prove su di lui sono a dir poco schiaccianti. E chi ha la responsabilità di informare i lettori non può permettersi l’omertà che ha contraddistinto dall’inizio questa Twin Peaks orobica. Come le amiche di Yara, che sostengono: "Non lo abbiamo mai visto fuori dalla palestra, tanto mento con Yara". O la responsabile tecnica del settore ginnastica ritmica della Polisportiva di Brembate di Sopra: "Il viso di quell’uomo l’ho visto per la prima volta sui giornali". Non possiamo ignorare il fatto che Bossetti sia un figlio illegittimo, nato da una relazione fedifraga consumata all’inizio degli anni Sessanta tra sua madre e un autista di autobus, noto viveur. Il sangue non mente. Ed era solo questione di tempo perché il muratore, presunto marito senza macchia e padre affettuoso di tre figli, rivelasse il suo vero volto. Questa scoperta è il frutto di raffinate indagini che, di bar in bar, di casa in casa, di caffè in caffè, hanno smascherato un congruo numero di corna sepolte nell’oblio. Le ricerche a tappeto hanno portato alla testimonianza del vicino di casa del maresciallo che seguiva le indagini rivelando che la donna che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico defunto di Bossetti. Ester Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a vario titolo, con Giuseppe Guerinoni, già sottoposta ne l2012 al test del Dna. Possibile che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18mila) ancora da analizzare, o che fosse stato vagliato e scartato per errore. Ma è un errore che non si ripeterà più. Due giorni dopo, suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, muratore, viene fermato con lo stratagemma di un controllo stradale, sottoposto all’etilometro per prendergli il Dna, identificato e incarcerato. Chi si pone il problema che l’eccessiva fretta abbia indebolito l’apparato accusatorio (dato che in aula il Dna non basta) e che avrebbero potuto mettergli sotto controllo il telefono, farlo sentire braccato, aspettare un passo falso, non si rende conto che, dopo quasi 4 anni, non si poteva attendere un minuto di più. Inoltre, ci sono altre prove evidenti: il cellulare di Bossetti nel lasso di tempo compatibile con l’ora della morte di Yara non generò traffico e la sera della sua scomparsa si agganciò all’antenna di Brembate. Possibile che, abitando a Mapello, a un tiro di schioppo da Brembate, invece di percorrere una strada più breve di tanto in tanto scegliesse il tragitto meno trafficato, senza mandare nemmeno un sms? Per non parlare del fatto che Bossetti, a quanto si dice, amava "ballare e fare il brillante", frequentava perfino "le serate latino americane al disco pub", e non solo: "Prima e dopo la scomparsa di Yara frequentava la Toscanaccia, trattoria a pochi passi da casa di Yara". Come se niente fosse. "Per qualcuno è un padre da oratorio, ma non tutti concordano". Si può essere un padre da oratorio o un padre non da oratorio. Ma se sei un padre da oratorio perché non tutti dovrebbero concordare nel definirti tale? Qualcosa da nascondere c’è. Infatti, non a caso, la moglie del Bossetti non ricorda nemmeno con esattezza come si comportò tre anni e mezzo fa suo marito. Vi sembra possibile, per una famiglia da oratorio? Non bisogna oltretutto dimenticare che portò la famiglia in vacanza, nel 2010 e 2011, a Fuerteventura e a Sharm el Sheik, dove gli inquirenti si sono prontamente recati per approfondire la faccenda. Bossetti sostiene che trascorreva le serate con la moglie e i figli e le domeniche coni genitori, ma ci sarebbero almeno tre testimoni pronti a smentirlo. Usciva anche da solo. "Non si negava i piaceri della vita". I colleghi, anche se nell’anonimato, non lasciano dubbi: "Qualche volta Bossetti ci diceva che aveva da fare e se ne andava, spariva dal cantiere e no, non sappiamo dove. Uno di noi l’aveva soprannominato il caciabale, o qualche cosa del genere". Sembra che una volta, addirittura, lasciò il lavoro per andare dal medico. Ma non andò davvero dal medico. Quale sordido piano stava macchinando? Testimoni oculari giurano frequentasse posti nella zona di Brembate. Dove adesso tutti si ricordano di lui. E non deve apparire strano il fatto che il suo nome non sia stato fatto da nessuno durante le indagini, anche se in un piccolo centro un non residente lo si nota e lo si ricorda. Avrà fatto loro troppa paura, li avrà intimiditi, o ricattati. Una delle sue tappe fisse pare fosse un locale della Bassa Bergamasca a ben 25 chilometri dalla sua abitazione di Mapello. Era uno a cui piaceva piacere. E probabilmente non si sentiva bello abbastanza. È questo che emerge dalle incontrovertibili testimonianze dei titolari del centro estetico L’Oltremare di Brembate di Sopra: "Veniva da noi almeno due volte a settimana". Pare frequentasse anche altri centri estetici nella zona. Alcuni reporter hanno ottenuto sconcertanti rivelazioni: "Può essere stato qui ma sinceramente non lo ricordo. Prima di questo caso non era un volto noto...". Ipotesi suffragate da altri centri: "Quando abbiamo visto le sue fotografie siamo tutti rimasti di sasso. Da noi passa sempre un sacco di gente. Molti ce li dimentichiamo. Ma non lui. Si presentava sempre solo e anche se di solito indossava abiti da lavoro, aveva sempre un aspetto pulito e ordinato. Venne anche tre giorni prima dell’arresto". "Stava molto sulle sue", ricordano alla Playa, "entrava, veniva alla cassa e si chiudeva nella cabina. Quando aveva finito si rivestiva e usciva. A differenza di altri clienti che pagano prima, lui pagava sempre dopo. Al massimo sedute da dieci euro". Francesca, una cliente, testimonia: "Se veniva qui, vuol dire che se ne intende. I filtri e le lampade vengono sostituiti in continuazione e i macchinari danno il massimo del rendimento. Cinque minuti qui valgono più che altrove". E sbaglia chi, con superficialità e ignoranza scientifica, ritiene che il suo tasso di melanina non sia attinente all’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio. Un ultimo inquietante e oscuro dettaglio per inquadrare il suo profilo: si collegava spesso a Internet. E leggeva anche articoli di cronaca nera, alcuni addirittura riguardanti la morte di Yara. Quale mostro inumano potrebbe morbosamente informarsi su un fatto di cronaca avvenuto vicino a casa sua che, da oltre 3 anni, guadagna la ribalta dei media? Basta con le ipocrisie, condanniamo questo mostro e gettiamo via la chiave! P.S. Se le argomentazioni di questo articolo vi sembrano convincenti, per voi non c’è speranza. Sele ritenete follie prive di senso, vi basti sapere che si tratta di un copia-incolla fatto da articoli usciti sulla vicenda, e relativi commenti. Se Bossetti sia colpevole o innocente lo stabiliranno le prove, non i pettegolezzi. La verità non ha niente a che vedere con i rigurgiti lombrosiani dei pennivendoli giustizialisti con l’ansia di vendere copie. Napoli: Poggioreale, il carcere peggiore che mai abbia visto… gli scatti di Rampolla Redattore Sociale, 7 luglio 2014 Fotoreporter e giornalista da anni visita gli istituti italiani e racconta, con le sue foto, le persone che incontra. Sul "caso" Poggioreale un libro con cento foto in bianco e nero e ora una mostra. "La ricerca di una speranza nell’inferno di Poggioreale". Questo è il senso della mostra fotografica "Poggioreale. Oltre il muro di uno dei più antichi penitenziari italiani" firmata dal fotoreporter e giornalista Pino Rampolla. Da anni Rampolla gira per le carceri italiane, Regina Coeli, Rebibbia, Ucciardone, Opera, San Vittore, La Giudecca. Un viaggio, partito inizialmente per realizzare un calendario per il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), ma a cui il fotografo di origini napoletane ma romano d’adozione si è appassionato. "Ho incontrato persone straordinarie - racconta Rampolla, che ha collaborato anche con i quotidiani Il Mattino e Roma - e sono stato testimone, in questi anni, di tutti i laboratori, dal teatro alla ceramica, che si realizzano per il benessere dei detenuti. Con loro ho attraversato selciati assolati e in loro compagnia mi sono reso conto di cosa significhi essere reclusi, non avere la possibilità di comunicare se non attraverso le esperienze che si realizzano in carcere e che diventano fondamentali per loro". Rampolla dice anche di aver concentrato la sua attenzione sul caso di Poggioreale: "Il carcere peggiore che abbia mai visto. Una città nella città". Il filo rosso che lega i penitenziari italiani visitati dal fotografo è quello delle persone speciali su cui si può contare all’interno, dai volontari a figure fondamentali come quella del cappellano: "Grazie a queste persone chi arriva nell’inferno trova almeno una mano tesa". Rampolla, già vincitore di numerosi concorsi fotografici nazionali, ha raccontato tutto questo in cento foto in bianco e nero pubblicate in un libro con la prefazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e le testimonianze del cardinale di Napoli Crescenzio Sepe e dell’ex direttore di Poggioreale Teresa Abate. "Una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana, fino all’impulso a togliersi la vita, di migliaia di essere umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo", scrive Napolitano per presentare il testo. Adesso dal libro "Poggioreale. Oltre il muro di uno dei più antichi penitenziari italiani" (Co. Art Edizioni, 2013) nasce anche un’esposizione, che sarà visitabile alla libreria Feltrinelli di Napoli, via S. Caterina a Chiaia 23, dal 9 luglio fino al 31 agosto. "Le foto saranno solo vento - spiega l’autore - ma mi auguro possano essere rappresentative della speranza delle persone che ho incontrato nel mio viaggio. Persone che hanno sbagliato, pronte ed espirare la propria pena ma che, anche una volta uscite, trovano spesso difficoltà a rifarsi una vita". Bologna: la Dozza torna a respirare, detenuti scesi da 1.200 a 700 di Luigi Spezia La Repubblica, 7 luglio 2014 L’allarme degli inquirenti: così è difficile contrastare lo spaccio di droga e la microcriminalità. L’ultimo colpo è arrivato dal decreto legge del governo - comunque da rivedere - che dal 28 giugno scorso impedisce la carcerazione per i reati con condanne inferiori a tre anni. Il carcere della Dozza, dopo lustri di sovraffollamento, al punto che si era arrivati a parlare di violazione dei diritti umani, si sta lentamente svuotando. Ora gli ospiti sono circa 720, un abisso rispetto al picco raggiunto solo un paio di anni fa con oltre 1.200 detenuti e materassi per terra. Cinquecento detenuti in meno in pochi mesi sono l’effetto complessivo del recente decreto, della modifica della Fini Giovanardi sulla droga, dell’introduzione del braccialetto elettronico da usare per gli arresti domiciliari e la ridefinizione delle pene anche per i definitivi. Sta cambiando anche la proporzione tra detenuti in detenzione preventiva e i definitivi, che sono ormai quasi la metà della popolazione carceraria per via che escono, grazie ai vari decreti "svuota carcere", soprattutto i primi, quelli in attesa di giudizio. O non entrano. E ciò mostra l’altra faccia della medaglia, cioè che in forza di tutte queste norme, aumenta la presenza in città di persone dedite al crimine. L’allarme viene lanciato dalla magistratura. L’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, ha criticato l’ultimo "decreto dei tre anni", fino a che ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in un’intervista su Repubblica, ha dichiarato che il decreto va modificato e stabilita la non pericolosità sociale della persona arrestata, prima di rilasciarla. C’è stato un intervento anche del presidente dell’Anm dell’Emilia-Romagna, il giudice Fabio Florini, secondo il quale "la scelta del Legislatore di procedere nel suo obiettivo "svuota carceri" è certamente anche apprezzabile, ma comunque problematico nei suoi effetti sociali, se non accompagnato da una strategia complessiva di supporto e di reinserimento". E ancora: "Una situazione come questa implica una diretta ed esclusiva responsabilità del magistrato, al quale saranno poi prevedibilmente imputate tutte le conseguenze della scarcerazione di eventuali "soggetti a rischio"". Prima del "decreto dei tre anni" di giugno, era entrata in vigore a maggio la legge che ha introdotto lo spaccio di lieve entità, modificando la vecchia Fini Giovanardi. Gli spacciatori di modiche quantità di droga nordafricani vengono ancora arrestati, ma il giudice li rimette subito in libertà (non hanno residenza) o al massimo impone l’obbligo di firma. Da aprile a maggio, i carabinieri del Nucleo operativo della compagnia Centro hanno eseguito 42 arresti, nessuno è rimasto in cella. Era stato tutto previsto dal procuratore aggiunto Valter Giovannini: "Con le nuove norme sullo spaccio di lieve entità, per molti spacciatori abituali si apriranno le porte delle carceri italiane, con conseguenze preoccupanti". Verona: la nuova legge fa uscire una settantina di detenuti dal carcere di Montorio L’Arena, 7 luglio 2014 Sono già una settantina i detenuti usciti dal carcere di Montorio dopo l’approvazione della legge sulle carceri, risalente al febbraio scorso. Quelle norme dispongono la scarcerazione dei detenuti che devono scontare una pena inferiore ai tre anni di cella. La nuova legge ha costretto in questi giorni tutta la sezione penale del tribunale ad un vero e proprio tour de force. I cancellieri dell’ufficio del gip oltre che a quello del dibattimento e dell’ufficio di sorveglianza sono impegnati a dare attuazione della legge. Anche i pubblici ministeri sono impegnati con i loro uffici perchè devono dare il loro parere alla scarcerazione dei detenuti. Per il carcere di Verona, questa nuova normativa rappresenta una piccola boccata d’ossigeno: "Secondo i dati risalenti ad una settimana fa, sono 750 i detenuti a Montorio contro un sovraffollamento che aveva raggiunto quota anche di 1.000 detenuti", spiega la garante, nominata dal Comune. Non è comunque ancora una situazione tollerabile: "La capienza dei carcere di Montorio arriva a tra i 450 e i 500 detenuti e quindi ce ne sono sempre 250 in più", aggiunge ancora Margherita Forestan. Nel frattempo, però, la conclusione di molti processi in corso in tribunale e davanti al gip comportano l’immediata scarcerazione degli imputati. È sufficiente, infatti, patteggiare una pena inferiore ai tre anni per ottenere la liberazione così come stabilisce la nuova legge. Può restare in vigore la misura della custodia cautelare che, però, non può più essere quella del carcere. E così vengono disposti, per esempio, i domiciliari o altre misure come l’obbligo di dimora. "Non si tratta di una legge svuota carceri", ci tiene a precisare Margherita Forestan, "ma si tratta solo di umanizzare la pena". E conclude: "Occorre rendere la detenzione di una persona compatibile con lo spazio in base anche al rispetto della sua dignità. Macomer (Nu): chiusura del carcere, vertice in Regione La Nuova Sardegna, 7 luglio 2014 La notizia dell’imminente chiusura della casa circondariale di Bonu Trau ha suscitato anche la reazione dei consiglieri regionali eletti nel territorio, che, sulla vicenda, l’altro ieri hanno presentato un’interrogazione al presidente della Regione, Francesco Pigliaru. Il documento, che reca la firma di Forma, Arbau e Lai, mette in evidenza i numerosi problemi che la soppressione della struttura creerà, non soltanto al personale che dovrà affrontare i disagi del trasferimento in altra sede, tutto il territorio che perderà anche l’indotto derivante dalla ricaduta economica. Sui motivi che hanno determinato il provvedimento firmato dal ministro Andrea Orlando il 28 maggio scorso, per il momento, trapela soltanto la notizia che dovrà essere attuato entro metà settembre (il 13 o 16). Sui contenuti del decreto: silenzio assoluto. Dalla segreteria del Dap, (Dipartimento amministrazione penitenziaria), l’addetto risponde con cortesia. Ma alla richiesta di informazioni più precise non fornisce alcuna risposta. Stesso discorso per la segreteria cagliaritana del Provveditore Carcerario. Altra notizia filtrata nelle ultime ore dice che il provveditore regionale Silvio Di Gregorio, ha convocato tutti i rappresentanti sindacali a Cagliari per la mattina di giovedì prossimo. Sull’oggetto della convocazione però le bocche rimangono cucite. Durante l’incontro con il sindaco Antonio Succu, avvenuto venerdì mattina in Comune, Giovanni Carta, rappresentante del coordinamento nazionale degli agenti di Polizia penitenziaria (Cnepp), ha detto che il personale sta valutando azioni di protesta. "Tutto il personale della Casa Circondariale di Macomer - si legge nella lettera che gli agenti hanno indirizzato al sindaco - chiede il suo autorevole intervento presso le autorità competenti, affinché venga scongiurata la ormai formalizzata chiusura". Intervento che Succu ha garantito senza mezzi termini. Pordenone: l’appalto per in nuovo carcere a San Vito sarà aggiudicato a giorni Messaggero Veneto, 7 luglio 2014 Il nuovo carcere di San Vito è più vicino. L’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva e la costruzione del nuovo penitenziario da 300 posti nell’ex caserma Dall’Armi potrebbe arrivare già il 22 luglio. Buone notizie, dunque, per i fautori dell’opera. Qualche dubbio che ci potesse essere per lo meno qualche ritardo nell’aggiudicazione dell’appalto era sorta qualche giorno fa, quando si è diffusa la notizia delle indagini sul commissario al Piano carceri, prefetto Angelo Sinesio. Il sindaco, Antonio Di Bisceglie, subito aveva allontanato i timori: la commissione che esamina le dieci offerte giunte entro i termini stabiliti dal bando per il carcere di San Vito, nominata dallo stesso Sinesio, avrebbe continuato indisturbata la propria attività. E ora non sembrano esserci più dubbi a riguardo. Ci sono notizie ufficiali sull’avanzamento dell’iter, pubblicate sul sito web del Piano carceri. Si comunica che la commissione giudicatrice si riunirà in seduta pubblica martedì 22 luglio, alle 11, a Roma, alla scuola di formazione dell’amministrazione penitenziaria "Giovanni Falcone". Riunione pubblica "per comunicare i punteggi attribuiti alle offerte tecniche e procedere all’apertura delle buste "C"- offerta economica e di tempo. Nella medesima seduta - si continua nella comunicazione sul sito web, la commissione procederà a formare la graduatoria sulla base dei punteggi complessivi ottenuti da ciascun concorrente, dandone immediata lettura e, ove ne ricorrano i presupposti, provvederà, altresì, all’individuazione del soggetto provvisoriamente aggiudicatario". Sulmona (Aq): "patto per il lavoro utile", 2 detenuti scrivono a sindaco e direttore carcere di Maria Trozzi www.report-age.com, 7 luglio 2014 Sono pronti alla fatica, da più di un mese si sono messi a disposizioni dell’amministrazione comunale per attività umili, pesanti e dure, ma in alto loco tutto tace. Chiedono di essere impegnati in lavori socialmente utili per dare una mano là dove ce n’è davvero bisogno. Non sono i cassintegrati che beneficiano degli ammortizzatori sociali, a farsi avanti sono 2 detenuti della Casa di Reclusione di via Lamaccio a Sulmona che in una lettera indirizzata al sindaco di Sulmona, Giuseppe Ranalli, e al Direttore della Casa di reclusione, Luisa Pesante, chiedono di riallacciare davvero i legami con quest’altra parte viva della città per organizzare quanto necessario ad impegnarli nei lavori socialmente utili. Propongono e scrivono per conto della popolazione del penitenziario peligno e così, a piccoli passi, percorrono quel sentiero rieducativo che la pena loro inflitta consente di affrontare per superare, nel quotidiano, le difficoltà insite nella possibilità di cambiare. Dall’altra parte allora occorre fare un passo avanti, è necessario tradurre in pratica questo cambiamento, e due detenuti lo fanno rivolgendosi al primo cittadino e alla loro direttrice per dimostrare che possono rendere la loro vita migliore così scrivono di: "utilizzare i detenuti in lavori socialmente utili quali pulizia di caditoie, manutenzione di aree verdi, parchi e giardini, di strade urbane e extraurbane e anche nei periodi di maggiore necessità come pulitura di sottoboschi, spazzare la neve e pulitura degli argini dei fiumi. Suggeriscono anche i modi per garantire questa possibilità e propongono alle autorità locali di concludere una Convenzione, tra il Comune e la Direzione penitenziaria, proprio per favorire il loro graduale reinserimento nel mondo del lavoro e, di conseguenza, consentire un progressivo ritorno alla società esterna. Non è una pensata butta lì, a caso, un’iniziativa del genere era stata portata avanti dall’amministrazione Federico con il favore del gran parte della popolazioni che nell’inverno 2012 s’imbatte nel gruppo di internati all’opera , su piazza, Capograssi, per spalare la neve. C’è da dire che molti Comuni italiani hanno avviato quest’esperienza e l’hanno portata avanti con ottimi risultati perché a beneficiare dell’impegno sul campo dei reclusi sono state soprattutto le comunità che li ospitano e che avrebbero l’occasione di dimostrare, ancora una volta, di non essere chiuse e refrattarie, inoltre anche Sulmona potrebbe diventare più bella e decorosa. Torino: Sappe; trovati in cella 2 cellulari, schermare istituti e dotare reparti di rilevatori Ansa, 7 luglio 2014 Due telefoni cellulare sono stati trovati, nel corso di una perquisizione, in una cella del carcere di Torino nella quale era detenuti due cittadini albanesi. Ne dà notizia il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che chiede all’amministrazione penitenziaria "interventi concreti per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani, dotando quindi i Reparti di adeguata strumentazione tecnologica". Secondo il segretario generale del Sappe, Donato Capece, "sull’utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che può permettere comunicazioni non consentite è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi, che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo". Capece chiede, in particolare, di "schermare" gli istituti penitenziari e di dotare tutti i reparti di appositi rilevatori di telefoni cellulari "per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Trieste: premio "Oltre il Muro", i detenuti-cineasti del Coroneo votano "Margerita" Il Piccolo, 7 luglio 2014 Se tirava la volata con immediati riscontri presso il pubblico di Piazza Verdi, nondimeno la storia del giovane rom alle prese con il suo primo furto al centro del corto "Margerita" poteva passare inosservata presso chi quelle problematiche le ha sfiorate o magari vissute in prima persona. È così che il corto di Alessandro Grande si aggiudica il Premio "Oltre il Muro" della Provincia di Trieste conferito da una giuria di detenuti della Casa Circondariale di Trieste. Quest’anno i detenuti non si sono limitati a votare il prescelto in una rosa di opere ma, forti di un percorso formativo di 400 ore lungo tutto l’arco dell’anno in collaborazione con Enaip, hanno realizzato una sigla dal taglio frizzante molto apprezzata che ha accompagnato ogni giorno le proiezioni. "Credo stiamo creando dei "mostri" - commenta ironica Chiara Omero -: la sigla è piaciuta moltissimo e i partecipanti si stanno rivelando molto precisi in fatto di tecnica cinematografica". Giudizio condiviso da Davide Del Degan, che coordina il gruppo di lavoro. "Questo istituto ha appena compiuto cento anni - ha detto il direttore del carcere del Coroneo Ottavio Casarano alla premiazione tenutasi ieri al Coroneo: i primi detenuti fecero ingresso il 4 luglio 1914, pochi giorni dopo l’inizio della Grande guerra. Ho visto il corto-sigla del festival: sa cogliere con intelligenza e ironia il disagio che la carcerazione comporta. Tutto ciò fa sì che il carcere sia parte della vita anche culturale della città, arricchendola". Emozionatissimo il regista Alessandro Grande: il suo film è stato giudicato dai giurati-detenuti "intenso, con un finale sorprendente che con semplicità racconta come la musica può cambiare la vita delle persone e far incontrare mondi diversi". Egitto: sventato tentativo di evasione di massa di detenuti nel Delta del Nilo Nova, 7 luglio 2014 Le forze di sicurezza egiziane hanno sventato stamane nella contea di Monofeya, nella regione del Delta del Nilo, un tentativo di fuga da parte dei detenuti della prigione di Sadat. I prigionieri, nella circostanza, hanno tentato di appiccare il fuoco per gettare l’istituto detentivo nel caos e trovare una via di fuga. Il piano, però, non ha avuto successo e le forze di sicurezza sono riuscite a riportare l’ordine nella struttura penitenziaria senza causare vittime. Arabia Saudita: attivista diritti umani condannato a 15 anni Ansa, 7 luglio 2014 Un noto attivista per i diritti umani saudita è stato condannato a 15 anni di carcere per aver insultato le autorità. "L'avvocato Walid Aboulkheir è stato condannato a 15 anni di carcere, al divieto di viaggio e ad una ammenda di 200.000 riyal (circa 54.000 dollari)", hanno annunciato in un tweet i familiari dell'attivista, detenuto da aprile in Arabia Saudita. Amnesty International, all'indomani del suo arresto, aveva chiesto il suo rilascio immediato, sottolineando che Aboulkheir era stato punito "per il suo lavoro nel proteggere e difendere i diritti dell'uomo", e aggiungendo che quell'arresto rappresentava un "inquietante esempio di come le autorità saudite stiano abusando del sistema per mettere a tacere il dissenso".