Giustizia: decreto detenuti; mandato al relatore entro il 17, in aula Camera dal 21 luglio Public Policy, 5 luglio 2014 In aula a partire dal 21 luglio, con mandato al relatore (David Ermini del Pd) da conferire entro il 17. Sono i tempi alla Camera del dl Detenuti, il decreto firmato Andrea Orlando per metterci in regola con la Corte europea sui risarcimenti ai Detenuti. I giorni 8, 9 e 10 luglio saranno dedicati all’esame preliminare e allo svolgimento di eventuali audizioni; il termine per la presentazione di emendamenti è fissato alle 12 di lunedì 14 luglio; l’esame degli stessi potrà svolgersi il 15 e il 16 luglio. Il dl, spiega una nota di Palazzo Chigi, "ha la finalità di adempiere alle direttive dettate da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) nei confronti dello Stato italiano nella sentenza Torreggiani del gennaio 2013, nella quale la Corte aveva imposto l’adozione di specifiche misure riparatorie per Detenuti che hanno scontato la pena in una condizione di sovraffollamento, imponendo a tal fine il perentorio termine, appena decorso, di un anno dalla definitività della pronuncia". "I giudici europei - continua la nota - hanno condannato il nostro Stato al pagamento nei confronti dei ricorrenti di somme comprese tra i 10mila euro ed i 23mila". Il dl si occupa anche di chi già è uscito dal carcere disponendo "un risarcimento pari a 8 euro per ciascuna giornata di detenzione trascorsa in condizioni non conformi alle indicazioni della Cedu". Nel dl sono state poi previste anche alcune modifiche in materia di codice di procedura penale. Tra queste ci sono: gli obblighi informativi per procedimenti che incidono sullo stato di libertà di condannati da corti penali internazionali, misure di esecuzione delle ordinanze degli arresti domiciliari, la modifica dell’art.275 del codice di procedura penale che prevede che, con una pena detentiva da irrogare che sia massimo di tre anni, non possano essere disposte le misure della custodia cautelare o degli arresti domiciliari. E ancora, altre misure previste nel dl riguardano l’esecuzione "dei provvedimenti limitativi della libertà personale" verso i minorenni che "nel corso dell’esecuzione, siano divenuti maggiorenni" ma fino ai 25 anni d’età. Infine il governo ha predisposto alcune modifiche dell’ordinamento della polizia penitenziaria sulla "consistenza dell’organico", tramite "un aumento della dotazione del ruolo degli agenti e assistenti e diminuzione di quella degli ispettori" e una specifica modifica all’ordinamento per fare in modo che "il magistrato di sorveglianza possa avvalersi dell’ausilio di assistenti volontari". Giustizia: stalker scarcerati per decreto, i magistrati chiedono di modificare il testo di Giusi Fasano Corriere della Sera, 5 luglio 2014 Carcere cancellato dopo lo stalking. Con il nuovo decreto per il risarcimento dei detenuti, operativo dal 28 giugno, non "può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni". Dura la reazione dei magistrati dell’Anm, i quali sostengono che è necessario cambiare la legge. Esprimono perplessità anche le associazioni che si occupano di violenza contro le donne: "Quanto influirà questa modifica sui casi di stalking e di maltrattamento in famiglia che prevedono spesso pene attorno ai tre anni?". Palazzo di giustizia di Milano, due giorni fa. Il giudice dell’udienza preliminare ha davanti un imputato che ha deciso di condannare a due anni e otto mesi di reclusione per aver "commesso atti di violenza fisica e psicologica in modo continuativo e abituale" contro sua moglie e sua figlia. Fino a qualche giorno fa avrebbe potuto mandarlo in carcere. Adesso, con il nuovo decreto per il risarcimento dei detenuti (operativo dal 28 giugno), non può più farlo. Perché, dice la modifica dell’articolo 275: "Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni". Esattamente come in questo caso. "Facciamo così", propone il giudice all’imputato. "Io le revoco la misura ma lei non si avvicina più a casa di sua moglie". Risposta: "E come faccio? Io non saprei dove altro andare". Un bel problema, in effetti. Risultato: si cercherà una comunità che possa accoglierlo per scontare la pena. E se per caso il condannato non seguirà le indicazioni del giudice o se tenterà di tornare da sua moglie, si riproporrà tutto daccapo. Perché nemmeno in quella circostanza sarà possibile arrestarlo. "Io sono preoccupata" dice senza girare troppo attorno al problema la vicepresidente della casa delle donne maltrattate di Milano, l’avvocatessa penalista Francesca Garisto. Non è la sola. Esprime le perplessità di tutti i centri di aiuto per le donne che subiscono violenza. "Mi chiedo: quanto influirà questa modifica sui casi di stalking e di maltrattamento in famiglia che prevedono spesso pene attorno ai tre anni? Almeno prima il carcere era previsto per i più pericolosi. E paradossalmente credo che non gioverà nemmeno agli stalker, perché c’è il concreto rischio che proprio per tutelare la persona offesa i giudici possano essere indotti a decidere pene più alte di quelle che avrebbero deciso prima di questo decreto". Come se ne esce? Il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Rodolfo Sabelli, annuncia che "sappiamo già come fare e stiamo preparando una proposta per la prossima audizione in Commissione Giustizia". Un parere che metta a fuoco tutte le "criticità", per dirla con le sue parole, di questo nuovo provvedimento ritenuto però "non difficile da correggere". Per riaggiustare il tiro basterebbe in sostanza, che nel convertirlo in legge, si escludesse di applicarlo per alcuni reati. "Adesso si parla semplicemente di divieto della custodia cautelare in carcere" dice Sabelli. "Chiederemo alla Commissione che il divieto non sia applicabile per reati come lo stalking aggravato, furti in abitazione, maltrattamenti, rapina aggravata". Intanto, nei 60 giorni che dividono il decreto dalla sua conversione in legge, si prevede la corsa all’applicazione. A Milano, per esempio, si stanno valutando le posizioni di una sessantina di detenuti, e le richieste stanno arrivando a decine da ogni sede giudiziaria. "Secondo me questo decreto contiene principi che vanno visti con favore se si pensa che disciplinano la privazione della libertà delle persone", dice il professor Franco Coppi, uno dei più grandi penalisti d’Italia. "Certo - aggiunge - capisco i timori per i reati che riguardo le violenze sulle donne e penso che tutto sia perfettibile. Bisognerà vedere quale applicazione ne faranno i giudici sul terreno concreto prima di dire se funziona oppure no. Perché la norma è molto legata alla discrezionalità dei giudici". E infatti dice: niente carcere "se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore ai tre anni". La questione, e in particolare i rischi legati alla non-carcerazione degli stalker, è stata posta informalmente dagli stessi magistrati al ministro della Giustizia Andrea Orlando. È successo a Milano a margine di una riunione tecnica convocata due giorni fa nell’ufficio del presidente del Palazzo di Giustizia Livia Pomodoro. I giudici hanno espresso al ministro "preoccupazione" mentre il presidente della sezione "misure di prevenzione", Fabio Roia, e il presidente della V sezione penale, Annamaria Gatto, gli hanno chiesto di abolire la norma sott’accusa. Secondo Roia il decreto appena approvato "segna un particolare punto di arresto nella tutela delle donne vittime di violenza". Vista dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), la norma in questione può servire come argine contro il sovraffollamento delle celle. "Nel giro di un anno siamo riusciti a passare da 66mila detenuti a 57.930 e credo che questo decreto ci aiuterà a scendere ulteriormente" dice il vicecapo vicario Luigi Pagano. "Il problema è che finora si è sempre parlato di carcere e invece dobbiamo provare a guardare, come in questo caso, all’esecuzione penale esterna al carcere. Non si tratta di numeri di detenuti, ma di una scelta di fondo". Giustizia: decreto detenuti, per Tribunale Milano non ci sono margini di discrezionalità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2014 Le conseguenze del decreto legge per i reati puniti con pena al di sotto dei tre anni. Scarcerazione obbligatoria. Senza spazi di discrezionalità da parte del giudice. Non ci sono margini di manovra nell’applicazione del decreto legge sull’impossibilità di applicare la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a 3 anni. La disposizione da pochi giorni in vigore è prevista dall’articolo 8 del decreto legge 26 giugno 2014 n. 92 che ha modificato l’articolo 2 bis dell’articolo 275 del Codice di procedura penale. Molti riferimenti normativi per una sola conclusione e un’unica preoccupazione che sta correndo negli uffici giudiziari: la detenzione non è più misura sostenibile per tutta una serie di reati che vanno dallo stalking ai piccoli furti, passando per la resistenza a pubblico ufficiale o ai maltrattamenti, commessi spesso da soggetti che hanno una cospicua lista di precedenti alle spalle. Malgrado questo, però, un giudizio sulla concreta ed effettiva pericolosità sociale dell’imputato non è possibile. E questo malgrado quanto sostenuto in un sintetico comunicato del ministero della Giustizia diffuso mercoledì sera che escludeva il ricorso a qualsiasi automatismo, ma anzi si assicura che "sarà il giudice ad esprimere in "concreto" una prognosi sulla pena concretamente applicabile all’esito del processo, al solo scopo di evitare che l’imputato subisca una limitazione della propria libertà in via cautelare rispetto a una pena che non dovrà essere eseguita all’esito della condanna ovvero che potrà essere eseguita in detenzione domiciliare". Non esattamente di questo avviso è, per esempio, il tribunale di Milano dove si sta procedendo in queste ore, alla sezione direttissime, alla scarcerazione di una sessantina di imputati. Significativa per la posizione giuridica assunta, oltre che per gli effetti pratici l’ordinanza emessa ieri, proprio alla sezione direttissime e firmata dal presidente della sezione misure di prevenzione Fabio Roia. Nel provvedimento si affronta il caso di un cittadino extracomunitario accusato di furto, sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere con ordinanza del 19 giugno e poi condannato il 26 giugno con giudizio abbreviato a 1 anno di reclusione e 100 euro di multa per un fatto del 18 giugno. Davanti a questa situazione, l’ordinanza di ieri prende atto della nuova norma del Codice e sottolinea nello stesso tempo come, nell’attuale versione, non sia possibile un’interpretazione di tipo sistematico "per esempio nel raffronto con le condizioni anche soggettive richiamate dall’articolo 656 del Codice di procedura penale in tema di esecuzione di pene detentive, norma che pure prevede delle esclusioni di tipo soggettivo ed oggettivo per la sospensione del rapporto punitivo qualora la pena non sia superiore a tre anni". Di fatto, conclude il provvedimento, è sottratta al giudice ogni possibilità di valutazione sull’attualità della pericolosità sociale soprattutto quando è già intervenuta una condanna che non è possibile rivedere in senso peggiorativo per l’imputato. Di qui la concessione, ma nel caso soprattutto di imputati extracomunitari, non sempre sarà possibile, degli arresti domiciliari. Giustizia: che pasticcio lo svuota-carceri, per i giudici è un "indulto mascherato" di Luca Fazzo Il Giornale, 5 luglio 2014 Settanta già liberati a Genova. Sessanta a Milano. E così via, in tutte le carceri italiane le celle si aprono e lasciano uscire un piccolo esercito di detenuti. Sono gli effetti del pasticcio che Parlamento e governo, ognuno per la sua parte, hanno combinato, nella nobile ansia di svuotare le prigioni ridotte a carnai. Una legge scritta male, e corretta prima ancora di essere approvata (con procedura inconsueta) da un decreto governativo, neanch’esso impeccabile. Risultato: da nord a sud, i giudici gridano all’indulto mascherato, il vice leader dell’Anm Vincenzo Savio dice che "questo decreto abbassa la difesa sociale", e qualcuno si spinge a ipotizzare che l’ obiettivo sia come al solito salvare dalla galera qualche indagato eccellente. Eppure, a leggerli da ignoranti, sia la legge che il decreto aggiusta-cocci, sanciscono un principio su cui sarebbe difficile dissentire: se l’imputato al momento della condanna è destinato a non finire in galera, perché avrà la condizionale o l’affidamento, non si può tenerlo in carcere preventivamente. Il carcere in attesa di giudizio deve smettere di essere usato dai giudici come una pena anticipata, come per ammissione di alcune toghe illuminate (come Giovanni Canzio, presidente della Corte d’appello di Milano) avviene spesso oggi. Ma a questo principio i firmatari della proposta di legge, già approvata da Camera e Senato, e in attesa dell’ultima rilettura a Montecitorio, hanno aggiunto un afflato ancora più garantista, contro le "recenti riforme securitarie", come le ha definite nella sua relazione la prima firmataria, la piddina Daniela Ferranti presidente della commissione giustizia. Il governo, il 26 giugno, cerca di metterci una pezza. Ma il risultato cambia poco: carcere proibito se il giudice prevede che la pena finale non supererà i tre anni; proibiti anche gli arresti domiciliari se si prevede che il condannato avrà la condizionale. A differenza della proposta Ferranti, il decreto legge entra subito in vigore. E in tutta Italia scattano le scarcerazioni. A Milano i primi ad uscire sono i condannati dei processi per direttissima, gli autori dei furti, degli scippi, dei crimini piccoli ma odiosi che riempiono i mattinali delle Volanti (gli scippatori al dettaglio sono già stati graziati in maggio da un’altra legge umanitaria voluta dal ministro della Salute). Sessanta. Ma è solo l’inizio. Martedì prossimo i presidenti di tutte le sezioni penali del tribunale milanese si riuniranno per tirare le somme delle scarcerazioni: a uscire, in base al decreto, saranno non solo gli imputati sotto inchiesta e sotto processo ma anche i condannati in primo grado, che giuridicamente sono ancora in stadio di custodia cautelare. Ne usciranno un centinaio, solo a Milano. Quanti, in tutta Italia? C’è chi spara: diecimila. Più probabilmente, ci si attesterà intorno ai seimila: oltre il dieci per cento della popolazione detenuta, che a ieri ammontava a 57.930 carcerati. Ad allarmare anche l’ala più garantista della magistratura è un dettaglio: non è stato inserito nel testo nulla che impedisca la scarcerazione anche dei più pericolosi, dei recidivi, di chi ha scelto come vittime gli anziani indifesi. Ciò nonostante, la linea che sembra destinata a prevalere è una applicazione letterale del decreto. La Procura di Milano si prepara a dare parere favorevole alle richieste di scarcerazione che pioveranno sui tribunali, e i giudici non potranno che adeguarsi. A meno di approfittare di quel verbo del decreto, "se il giudice ritiene": una previsione, insomma, che basta a giustificare la permanenza in carcere. Così in questi giorni ai processi per direttissima ci sono imputati di furto che si sono visti rifiutare la libertà perché "potrebbero essere condannati a cinque anni di carcere". Ovviamente non accadrà mai, ma così intanto restano dentro. Giustizia: la follia di chiudere gli Opg per costituirne di nuovi… con il nome di Rems di Pietro Rossi La Nuova Vicenza, 5 luglio 2014 Topi nelle stanze; mani e piedi legati al letto; urina e residui di cibo. È l’ultima fotografia, scattata da un’inchiesta parlamentare, degli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che a metà degli anni 70 hanno sostituito i vecchi manicomi criminali. La situazione di degrado totale di queste strutture ha portato a una legge che prevede la loro chiusura, più volte rimandata, entro il 31 marzo 2015. Una chiusura che però potrebbe avere delle ripercussioni anche sulle Ulss locali, compresa quella di Vicenza, e sulla quale pesa l’ennesima questione del consumo di territorio. Lo smantellamento degli Opg - che in Italia sono sei - prevede infatti l’apertura in ogni Regione delle cosiddette Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria), nuove strutture psichiatriche predisposte solo per la gestione sanitaria e con il controllo esterno, per i casi di pazienti con manifesta pericolosità sociale, delle forze di polizia. In Veneto sono stati destinati 12, 5 milioni di euro per una REMS da 40 posti letto da realizzarsi ex-novo accanto all’ospedale Stellini di Nogara, in provincia di Verona. "In Veneto questo si traduce in una nuova colata di cemento quando si potrebbe benissimo procedere alla ristrutturazione", denuncia Francesca Businarolo, deputata M5S, evidenziando che "la stessa somma è stata destinata alla regione Piemonte ma per una nuova struttura che sarà destinata alla cura di 70 posti letto, quasi il doppio". In attesa della costruzione della Rems Veneta - ma a oggi non esiste ancora un piano regionale ben definito sulla questione - tutte le Ulss Regionali sono state chiamate a prendere in gestione i pazienti dimessi dalle Opg in via di chiusura. L’Ulss 6 di Vicenza ha in carico sei persone attualmente detenute a Castiglione delle Stiviere e a Reggio Emilia e si sta attrezzando per rispettare questa direttiva regionale emessa lo scorso 23 giugno. Il piano prevede la dismissione dei pazienti con percorsi terapeutico-riabilitativi individuali e il loro inserimento in comunità di accoglienza. "Il problema - spiega Alessandra Sala, Responsabile Assistenza Territoriale 2° U.O. Psichiatrica dell’Ulss 6 - è che se adesso alcune di queste persone dovessero essere dimesse difficilmente potrebbero essere accolte dalle comunità, visto che lì non c’è alcun tipo di sorveglianza particolare". L’unica "unità chiusa" adatta a ospitare persone con manifesti sintomi di pericolosità sociale è l’ospedale di Vicenza, presso il quale verrebbe meno l’intento del percorso riabilitativo. "Già è successo con casi di trattamento coatto temporaneo - continua la dottoressa - si sono verificate situazioni in cui sono stati chiusi dei reparti dell’ospedale e i medici hanno dovuto sopperire alla mancanza di sorveglianza". La paura dei dirigenti del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vicenza è che si registri un aumento imprevisto, in termini di tempo, delle persone che con la chiusura degli Opg dovrebbero a forza di cose transitare per l’ospedale in mancanza di altri luoghi idonei. "Non si può prevedere - sottolinea Sala - cosa possa succedere se questi pazienti dovessero transitare in ospedale per mesi nel caso in cui la Rems non fosse ancora pronta: non possiamo fare tutto noi". Il dipartimento di salute mentale dell’Ulss 6 ha già ospitato in passato persone che avevano commesso un reato e che sono rimaste ad aspettare per molte settimane la sentenza di un giudice che stabilisse un indirizzo. In questi frangenti la struttura ospedaliera ha dovuto attrezzarsi con inevitabili disagi per i pazienti. Questo tipo di situazioni, con la chiusura degli Opg, corrono il rischio di diventare sempre più frequenti, se non diventare una provvisorietà a rischio di cronicità. "Una soluzione - conclude Sala - è accelerare l’apertura di strutture adatte, magari cercando di recuperare l’esistente. Non tutti gli Opg sono infatti uguali: accanto ai luoghi dell’orrore ci sono infatti centri come quello di Castiglione delle Stiviere che rappresentano un ottimo modello e che potrebbero vivere una secondo vita, visto che al loro interno hanno costituito delle comunità molto efficienti, per esempio quella delle mamme che hanno commesso infanticidi, nelle quali sono stati messi a punto programmi e azioni frutto di un’ottima esperienza". Il nodo da sciogliere è però legato ancora una volta alla realizzazione fisica di una nuova struttura, sulla quale sta convergendo un dibattito che, a lungo raggio, rientra nel tema dei presunti sprechi della Sanità Veneta. E questo in una regione in cui è il mattone a essere sensibile a ogni richiamo e dove anche una realtà drammatica come quella del disagio mentale può diventare un’occasione. Giustizia: la legalizzazione del "metodo Ferrulli" di Luigi Manconi (Senatore Pd) Il Manifesto, 5 luglio 2014 Da oggi in poi dovremo chiamarlo "metodo Ferrulli". Si tratta di un modello marziale, di un prontuario tecnico-agonistico o, più semplicemente e brutalmente, di un sistema di immobilizzazione della persona sottoposta a fermo o arresto: e prende il nome dall’uomo di 51 anni - Michele Ferrulli, appunto - morto il 30 giugno del 2011, in via Varsavia a Milano. Si può arrivare a prevedere che il "metodo Ferrulli" verrà insegnato nei corsi di formazione presso le scuole per agenti di polizia e per carabinieri. Secondo il pubblico ministero della procura di Milano, Gaetano Ruta, quella tecnica di fermo consiste nella seguente procedura: la persona viene costretta in "una prolungata posizione prona": e viene esercitata, in "quattro contro uno", una "violenza gratuita e non giustificata" ai danni di "una persona bloccata a terra" e che "invoca aiuto". L’esito possibile ("preterintenzionale") del "metodo Ferrulli", sempre secondo il procuratore Ruta, è il seguente: "Se io butto a terra una persona e infierisco, posso fargli molto male e a questa persona può venire un infarto, anche se è una conseguenza non certo prevedibile". La corte di Assise di Milano ha deciso diversamente. Quella tecnica di immobilizzazione non ha avuto alcun ruolo nel determinare la morte di Michele Ferrulli fermato per "disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone". Dunque è legittimo che gli operatori della pubblica sicurezza agiscano come hanno agito a Milano, e non solo a Milano. Perché questo è il punto più vero e più dolente. Il "metodo Ferrulli" va considerato un vero e proprio metodo proprio perché assomiglia in modo impressionante a una tecnica abituale, a un sistema operativo collaudato, a un modello di intervento sperimentato. Il fermato viene bloccato a terra, i polsi ammanettati dietro la schiena e tre o quattro uomini che gli gravano addosso con tutto il proprio peso. Ne deriva una compressione toracica, che può determinare l’asfissia o l’infarto. È accaduto così, con tutta probabilità, nelle vicende che hanno portato alla morte di Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Bohli Kayes, Riccardo Magherini e chissà di quanti altri, rimasti anonimi e caduti nell’oblio. Ho parlato più volte col capo della polizia Alessandro Pansa e col comandante generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli. Entrambi, in forma diversa, si dicono impegnati a elaborare un protocollo che fissi prescrizioni e vincoli, limiti rigorosi e cautele severe per le procedure del fermo. Evidentemente, oggi, quel protocollo non c’è. E oggi la prassi, la concreta modalità di azione, la tecnica generalmente adottata corrispondono in modo sinistro al "metodo Ferrulli". Quello che, come ha solennemente affermato la corte di Assise di Milano, "non sussiste". Giustizia: caso Tortora, condannare pubblicamente chi ha martirizzato un innocente di Luciano Garibaldi Italia Oggi, 5 luglio 2014 La vicenda giudiziaria e infine la tragedia umana di Enzo Tortora, il famoso giornalista e presentatore televisivo, prima incarcerato e condannato innocente per traffico di droga e poi morto di cancro in conseguenza del gravissimo torto subìto, continua a rappresentare la cartina di tornasole del difficile rapporto tra la giustizia e l’opinione pubblica nel nostro Paese. Il suo "caso", il "caso Tortora", continua infatti a pesare sulla coscienza dell’ordine giudiziario e sulla fiducia del popolo nei magistrati, e non si risolverà fintantoché i responsabili (tutti da molti anni ormai individuati per nome e cognome) non riceveranno una sanzione, quale che sia. Nei giorni scorsi uno di quei magistrati, Diego Marmo, in un’intervista al quotidiano Il Garantista, ha dichiarato: "Adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto". Nella requisitoria contro Tortora, lo aveva definito "cinico mercante di morte". La replica è arrivata da Gaia Tortora, la figlia di Enzo, oggi giornalista e caporedattore politico al Tg de La7: "È troppo tardi. Ci sono trent’anni di mezzo. Ma se avesse ammesso prima, di aver sbagliato, non avrebbe ottenuto le sue promozioni". Anni addietro, in occasione della teatrale ritrattazione d’uno dei calunniatori (Gianni Melluso: "Lo accusai, pur sapendolo innocente, per ottenere vantaggi da parte dei magistrati e dei carabinieri"), mi rivolsi al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Nino Abbate, con queste parole: "Da ben dieci anni aspettiamo la punizione (cioè aspettiamo che tirino fuori di tasca i soldi per pagare i danni) di quei pm e di quei giudici di Napoli che prima arrestarono e poi condannarono senza prove né indizi Enzo Tortora. Soltanto sulla "parola" di quindici "pentiti". Quello fu il protocrimine, il peccato originale di tutta la magistratura italiana (requirente e giudicante). Commesso da pochi, anzi da pochissimi, ma con conseguenze incalcolabili e micidiali per l’intero Ordine. Le dò un’idea a buon mercato: lo Stato non ha voluto punirli? Ci pensi Lei, proponendone, sia pure con un enorme ritardo, l’allontanamento dall’Associazione Magistrati. Non perderanno alcunché: non soldi, non stipendio, non promozioni, non potere. Soltanto una cosa: la faccia". Ovviamente, non ottenni risposta. La proposta è ancora valida. Al di là della gravità del caso, la figura di Tortora ha infatti un’altissima valenza simbolica. Chi è stato suo amico, suo stretto amico, come chi scrive queste note, sa che Enzo non si tirava mai indietro se c’era da battersi per una casa di giustizia. Per esempio, all’epoca del suo arresto, stava per metter mano ad un’indagine giornalistica sul linciaggio morale prima, e sull’assassinio poi, del commissario Luigi Calabresi, massacrato a Milano nel 1972 da fanatici dell’ultrasinistra. La persecuzione giudiziaria di cui cadde vittima lo distolse da questa ricerca, che toccherà poi al sottoscritto, dopo la sua morte, portare a termine. Tutto questo aiuta a capire quanto crudele sia stato, per lui, dover soccombere di fronte ad un’operazione di somma ingiustizia, somma proprio perché mascherata da giustizia e attuata da coloro che della giustizia avrebbero dovuto essere i custodi, anzi i sacerdoti: cioè i magistrati. Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, mentre era all’apice del successo televisivo: la sua trasmissione del venerdì sera su Rai Due, Portobello, vantava 28 milioni di telespettatori, un’audience mai più raggiunta da nessuno showman nel nostro paese. Il suo arresto avvenne nel quadro del cosiddetto "maxi processo" alla camorra, un "maxi processo" nel quale furono tuttavia coinvolte soltanto alcune centinaia di figure di secondo piano, mentre i veri capi della malavita napoletana restavano al sicuro. Occorre premettere che Tortora, genovese ma di origini napoletane, detestava fortemente la camorra e in genere la malavita, e più volte ne aveva fatto oggetto di duri attacchi televisivi. Il suo c o involgimento nella grande retata fu pertanto il risultato di un complotto nato nelle carceri ad opera di incalliti delinquenti come il pluriassassino Giovanni Pandico e il killer Pasquale Barra (aveva strangolato il boss Francis Turatello, squarciandogli poi il petto e mangiandogli il cuore), decisi a farla pagare cara a quel rappresentante del perbenismo borghese così severo nei loro confronti. La cosa più incredibile è che le accuse lanciate contro Tortora e raccolte a verbale prima dai carabinieri e poi dalla Procura di Napoli, iniziarono nel marzo 1983, ossia tre mesi prima dell’arresto di Tortora, sicché la magistratura ebbe tutto il tempo di verificarle, smascherando e perseguendo i calunniatori. Ma nessuna indagine bancaria fu fatta sui conti di Enzo, né il suo telefono fu posto sotto controllo, né egli fu mai pedinato. Al colonnello dei carabinieri Roberto Conforti e al procuratore di Napoli Francesco Cedrangolo bastarono quelle accuse basate sul nulla, che chiunque poteva inventare, per decidere di rovinare un galantuomo come Tortora. Il dottor Cedrangolo ricevette, da chi scrive, un accorato rapporto che lo metteva in guardia contro il terribile errore giudiziario che si stava commettendo: un rapporto, di cui conservo copia, che gli feci pervenire attraverso sua nuora, la giornalista Francamaria Trapani, allora mia collega al settimanale Gente, di cui ero caporedattore. Anche quella mia lettera non ottenne risposta. Dal momento dell’arresto, l’operato degli inquirenti fu mirato, anziché a cercare prove e riscontri alle accuse, a raccogliere le più inverosimili chiamate di correo, inventate da paranoici, mitomani, criminali come Gianni Melluso, calunniatori di professione e fanatici ricercatori di occasioni auto-pubblicitarie come il sedicente pittore Giuseppe Margutti. Bastava che uno di tali individui, dall’interno di un carcere, o dall’anonimato della sua squallida vita quotidiana, si presentasse agli uomini del colonnello Conforti e ai sostituti del dottor Cedrangolo, perché le sue parole venissero prese come oro colato, pur prive del benché minimo straccio di prova, e il personaggio in questione ottenesse immediatamente un trattamento di favore. Ormai quei Pm erano accecati dallo spasmodico sforzo di tenere in piedi la loro inchiesta, che sarebbe miseramente franata qualora si fosse scoperto il tragico errore compiuto con Tortora. Si arrivò a contestare al famoso presentatore un numero di telefono trovato sull’agendina dell’amica d’un camorrista: senonché quel numero corrispondeva a un certo Enzo Tortòna. Tortòna, e non Tortora. E comunque, sarebbe bastato comporlo sulla tastiera telefonica, per capire che il famoso giornalista non c’entrava nulla. Ma, per non correre il rischio, quei magistrati indegni (come li definirà poi la sentenza d’appello) attesero ben otto mesi prima di decidersi a fare quella telefonata. Uno scempio simile della giustizia e del diritto non sarebbe potuto avvenire senza la complicità di quasi tutti i giornalisti italiani, colpevolisti fin dall’inizio o per beceraggine o semplicemente perché, in un’epoca in cui c’era già l’imbecillità di sinistra di marca radical chic, Tortora, vecchio liberale, rigido conservatore di destra, stava antipatico. Tra di essi vi fu chi, alla notizia della condanna a 10 anni, brindò a champagne. Né si può dimenticare, e qui concludo, la responsabilità morale dei liberali "ufficiali", da Zanone (l’affossatore del Pli: sua la frase suicida "Il Pli è un partito che si colloca a sinistra della Dc") fino a Malagodi, suoi compagni di partito (Tortora era iscritto al Pli dall’immediato dopoguerra), che non mossero un dito per difenderlo, non meno che quella, gravissima e inqualificabile, dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ch’ebbe a dichiarare: "Tortora si è difeso male", forse non dimentico di una trasmissione in cui Enzo, assieme a me, gli aveva rinfacciato una sua proverbiale battuta: "Le Brigate rosse sono nere". Miserie ch’ebbero il risultato di far risaltare il grande merito di Francesco Cossiga, il quale, salito al Quirinale nel 1985, convocò Enzo Tortora, nella sua veste di presidente del Partito radicale, indifferente alla sua condizione di detenuto agli arresti domiciliari, trattandolo con un tale calore umano e una tale simpatia da non lasciare dubbi sul messaggio che aveva inteso lanciare a tutta l’opinione pubblica. Giustizia: gravi condizioni salute, tribunale Milano valuta sospensione pena a Provenzano Ansa, 5 luglio 2014 Saranno due medici legali di Milano - Eleonora Burgazzi e Riccardo Pettorossi - e un criminologo ad accertare se il boss Bernardo Provenzano debba o meno restare in carcere. Il tribunale di sorveglianza di Milano, competente in quanto il capomafia è detenuto a Opera, ha d’ufficio nominato i periti per verificare le condizioni del padrino di Corleone e un’eventuale sospensione dell’esecuzione delle pene che questi deve scontare. A indurre i magistrati a valutare una possibile scarcerazione del boss è stato il certificato medico redatto dal responsabile della Medicina 5¸ dell’ospedale San Paolo - Provenzano è ricoverato nel reparto detenuti del nosocomio milanese - e inviato dal medico al gup di Palermo davanti al quale pende il procedimento in cui il boss è imputato per la trattativa Stato-mafia. Il processo è al momento sospeso per la incapacità del capomafia di parteciparvi e periodicamente il giudice è tenuto a valutare la possibile ripresa delle udienze. Nel certificato Casati parla di "stato clinico del paziente gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento", di "stato cognitivo irrimediabilmente compromesso" e di "incompatibilità con il sistema carcerario". Il parere del medico è stato inviato anche al tribunale di sorveglianza che ha fissato un’udienza per l’eventuale differimento della pena. I periti dovranno pronunciarsi entro il 3 ottobre, data in cui le parti discuteranno. Giustizia: Verini (Pd) rassicura attenzione ministero su bimbo detenuto a Sollicciano Adnkronos, 5 luglio 2014 "Ci rassicura che la triste detenzione del bambino di sei anni, che ha trascorso ben cinque anni della sua vita in una cella del carcere di Sollicciano insieme a sua madre, sia all’attenzione del ministro della Giustizia, grazie anche alle denunce sollevate dal deputato Pd Federico Gelli e da altri parlamentari". Lo sottolinea in una nota Walter Verini, capogruppo Pd nella commissione Giustizia di Montecitorio. "C’è molta attesa -continua - in merito all’esito dell’istruttoria aperta da via Arenula per verificare la correttezza delle procedure che hanno determinato questa situazione e alle eventuali decisioni che il ministero stesso riterrà opportuno intraprendere. Certamente la storia di questo bambino racconta un’altra terribile stortura del nostro sistema penale e, contemporaneamente, il prezioso, eccezionale ruolo dei volontari delle associazioni che assistono madri e figli in carcere". "Proprio grazie a loro -conclude- quest’anno, Giacomo, questo è il nome di fantasia dato al bimbo, riuscirà anche a frequentare un centro estivo. A loro vanno il pieno riconoscimento e gratitudine di tutti coloro che hanno a cuore gli obiettivi dell’umanità e della civiltà del nostro sistema carcerario". Giustizia: Giovanardi (Ncd); per caso Aldrovandi occorre rilettura sul risarcimento danni La Nuova Ferrara, 5 luglio 2014 Il senatore Giovanardi (Ncd) interviene sul sequestro dei beni ai 4 poliziotti: "Quanti agenti o carabinieri saranno disposti ora a rischiare in servizio?". La Corte dei Conti che chiede quasi due milioni di euro ai quattro poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, sequestrando il quinto dello stipendio e tutti i beni, ha suscitato una valanga di reazione. A queste si è aggiunto il giorno dopo Carlo Giovanardi, senatore Ncd, che innesca un "link" particolare: "In questi giorni la commissione giustizia del Senato sta analizzando la proposta di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, e l’Associazione magistrati sostiene la posizione che loro non possono essere chiamati in causa neanche per dolo e colpa grave, perché altrimenti perderebbero la serenità di giudizio. Bene, pensiamo a quali conclusioni possono giungere le migliaia di poliziotti, carabinieri ed esponenti delle forze dell’ordine, dopo che dei loro colleghi a 1.300-1.400 euro al mese di stipendio, condannati per un fatto colposo, hanno prima conosciuto il carcere, e ora rischiano di finire sul lastrico con le loro famiglie. Quanti saranno disposti a correre questo rischio quando si troveranno ad intervenire con la forza?". Giovanardi propone una rilettura della vicenda del risarcimento danni, "il ministero dell’Interno ha deciso autonomamente, senza consultarsi con i difensori dei poliziotti, di raggiungere un accordo con la famiglia Aldrovandi sul risarcimento e sull’uscita dal processo della parte civile. Questo, tra l’altro, ha impedito ai poliziotti di contrapporsi alla perizia Thiene (decisiva per le condanne, ndr), che inizialmente era di parte civile". Il senatore vuole ribadire che "in questa vicenda, a mio avviso, le vittime sono cinque: il giovane Aldrovandi, che ha perso la vita tragicamente, e i quattro poliziotti, che hanno visto distruggere la loro vita. Dopo la condanna, due di loro sono stati detenuti illecitamente per sei mesi, poiché la Cassazione ha poi sancito che sarebbero spettati anche a loro gli arresti domiciliari". Giustizia: cosa leggere in cella in caso di ergastolo di Guido Vitiello Internazionale, 5 luglio 2014 Si può pensare tutto il male del mondo di Marcello Dell’Utri, o tutto il bene, o non pensarne un bel nulla (è grosso modo il mio caso); ma dover sottoporre la propria libridine alle restrizioni di un regolamento carcerario, esiste incubo più spaventoso per un bibliomane? Sul razionamento dei libri in carcere ha ragionato Adriano Sofri in due articoli recenti, il primo sul Foglio, il secondo su Repubblica. Non illudiamoci che il discorso non ci riguardi. Tutto sta a non finire in prigione, dirà qualcuno, e non è così difficile: in fondo, la bibliomania è una perversione socialmente innocua. Ed è qui l’errore. Serva da monito il caso miserando del teologo e pastore protestante Johann Georg Tinius (1764-1846), che per appagare la sua fame di libri si mise prima a rubare soldi dalle casse della chiesa, poi a uccidere ricche e attempate signore con un martello appuntito, il tutto per procacciarsi soldi, soldi, soldi e ampliare la sua già smisurata biblioteca. Tsundoku è un demone non meno sanguinario ed esigente del Pazuzu dell’Esorcista, e quando lo avremo capito sarà troppo tardi, e saremo già in una cella di due metri per due. Che fare, allora? Supponiamo che il regolamento carcerario consenta di tenere solo tre libri in cella. Il cattolicissimo Gilbert K. Chesterton stupì un suo intervistatore dicendo che su un’isola deserta, più che la Bibbia, una persona assennata avrebbe voluto con sé il Thomas’s Guide to Practical Shipbuilding, un manuale per costruire imbarcazioni. Allo stesso modo, la nostra prima scelta potrebbe cadere su una delle tante rassegne di evasioni celebri nella storia (ce n’è una recente di tale Paul Simpson, The Mammoth Book of Prison Breaks, Running Press 2013). Ma figuriamoci se il bibliomane medio - gracile, allampanato, poco scaltro e a forte rischio di goffaggine autolesionistica - può tentare un’eroica fuga da Alcatraz o dai Piombi. L’evasione non è tra le opzioni, se non quella che si pratica per vie fantastiche. Ecco dunque l’occorrente: Jack London, Il vagabondo delle stelle (Adelphi 2005) Basterà riportare un passo dalla quarta di copertina: "All’inizio siamo infatti nel braccio degli assassini di San Quentin, in California, dove il protagonista viene regolarmente sottoposto alla tortura della camicia di forza. Ma in quella condizione disperata, con feroce autodisciplina, riuscirà a trasformarsi in un moderno sciamano che attraversa le barriere del tempo come muri di carta. Amato da lettori fra loro distanti come Leslie Fiedler e Isaac Asimov, Il vagabondo delle stelle, ultimo romanzo di Jack London, è anche il suo libro più originale, estremo - che si colloca in una regione di confine del firmamento letterario, fra Stephen King e Carlos Castaneda"… E David Lynch, aggiungerei. Non è all’incirca la stessa idea di Strade perdute (1997), o almeno di una delle possibili ricostruzioni di quel garbuglio narrativo? Tutto sta a diventare allegri sciamani e non schizofrenici che partoriscono un Doppio infernale. È appena il caso di sottolineare che un’istituzione stupida come il carcere tende a produrre in serie casi del secondo tipo. Ioan Petru Couliano, I viaggi dell’anima (Mondadori 1991) Non è il libro migliore di Couliano, ma se avessi proposto il suo gemello più affascinante. Uscite dal mondo di Elémire Zolla (Adelphi 1992) mi sarei attirato accuse di monotonia e di monomania. In cella, I viaggi dell’anima si può leggere come l’equivalente soprannaturale di un dépliant turistico. Tra le destinazioni offerte ci sono la quarta dimensione, il mondo ultraterreno mesopotamico, i Sette Palazzi della Kabbalah. Anche solo a scorrere i titoli dei capitoli, poi, si capisce che i mezzi di trasporto sono perfino più allettanti delle mete: "Cavalcate a dorso di gru, evocazione dell’anima e spose fantasma nella Cina taoista"; oppure, "Viaggi interplanetari. Lo space shuttle platonico, da Plotino a Marsilio Ficino". Qualcosa mi dice che un detenuto, salito a bordo dello space shuttle platonico, potrebbe incappare in una variante del paradosso dei gemelli e uscire di cella miracolosamente ringiovanito, dopo aver visto appassire ad uno ad uno i suoi carcerieri. Luigi Pirandello, Mondo di carta (1909) Sono poche pagine, ma per leggerle in cella bisogna mettere in bisaccia tutte le Novelle per un anno, e non dico che sia un male. Se il romanzo di Jack London sembrava anticipare il film di Lynch, questa novella di Pirandello è la perfetta prefigurazione di uno degli episodi più celebri di Ai confini della realtà, Tempo di leggere, scritto da Rod Serling a partire da un racconto di Lynn Venable. Il bibliomane Balicci vive tra i suoi libri, e "come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, così a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli". Un giorno, però, perde la vista. Il medico gli comanda di stare quaranta giorni al buio, e lui si reclude intristito nella sua biblioteca: "Eccolo lì, tutto il suo mondo! E non poterci più vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe aiutato la memoria! La vita, non l’aveva vissuta: poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva più leggere". Anche una biblioteca può trasformarsi in un carcere, a quanto pare. "Ma tutto questo non ci riguarda!", penserete voi. D’accordo, ma prima leggete qui e meditate ancora sulle sventure del povero bibliomane pirandelliano: "La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare"… Devo proprio evocarlo, il nome del demone da cui Balicci era posseduto? Torino: il Garante dei detenuti; nelle carceri lenzuola cambiate anche dopo quattro mesi di Marta Tondo www.nuovasocieta.it, 5 luglio 2014 Gravi carenze strutturali e igieniche. Detenuti che non hanno scope per pulire le celle e ancora più incredibile lenzuola delle brande che vengono cambiate dopo quattro mesi. Il quadro delle carceri torinesi è drammatico. È il grido di dolore che lancia Maria Pia Brunato, il garante dei detenuti nella relazione dei diritti delle persone private della libertà personale, ovvero detenuti nelle carceri, ai domiciliari e nei centri di identificazione ed espulsione, Cie, nella relazione presentata ai capigruppo in Consiglio Comunale. Situazione drammatica, come detto, che va contro quanto stabilito dall’articolo tre della Convenzione europea sui diritti dell’uomo sulla proibizione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti, che non si riesce o non si vuole risolvere. Strasburgo aveva condannato l’Italia per il sovraffollamento nelle carceri e alle gravi conseguenze connesse, parlando di "problema strutturale e sistematico". I Cie sono definiti nella relazione un’esperienza fallimentare, sottolineando come "rinchiudere immigrati senza documenti fino a 18 mesi è un’inqualificabile violazione dei diritti umani e uno spreco di risorse pubbliche". La conferenza che si è tenuta a Palazzo Civico ha manifestato "estrema preoccupazione per la situazione pesante per quanto riguarda le condizioni strutturali, igieniche e di pulizia delle celle del carcere, un problema importante perché riguarda la dignità delle persone recluse". I prossimi passi saranno discussi con il nuovo direttore del carcere delle Vallette Lorusso-Cotugno, Domenico Minervini. È stata inoltre evidenziata la necessità di continuare con questo progetto di tutela delle persone carcerate anche grazie alla nomina del nuovo "garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale" della Regione Piemonte, Bruno Mellano. Savona: Sappe; carcere di Sant’Agostino… quando entri devi farti il segno della croce di Olivia Stevanin www.ivg.it, 5 luglio 2014 "Il carcere di Sant’Agostino è uno dei più fatiscenti d’Italia, quando si entra bisogna farsi il segno della croce". Non usa mezzi termini Michele Lorenzo, segretario del Sappe Liguria, per descrivere la situazione del penitenziario di Savona. "Ne vengo dall’ennesima visita alla struttura e credo che si sia davvero superato il limite. Ci sono troppi detenuti, alcuni costretti a restare in celle cieche: questo è un carcere da rivedere tutto". Non è la prima volta che i problemi della casa circondariale di Savona vengono evidenziati, ma, per ora, tutti gli appelli sono rimasti inascoltati: "Stiamo spendendo troppi soldi in questo carcere, ma le difficoltà restano - prosegue il segretario Sappe. Serve mantenere in vita il Sant’Agostino per gli arrestati, ma non possiamo destinarlo a chi sconta le pene. Qui stiamo dando una condanna doppia ai detenuti: una del giudice e l’altra che non è scritta su nessun codice, ovvero restare in un carcere in queste condizioni. Il detenuto ha bisogno di attenzione, per non dire delle condizioni lavorative che a Savona sono al paradosso". L’unica via di fuga percorribile secondo Lorenzo è la costruzione di un nuovo carcere: "Serve un penitenziario nuovo in Provincia di Savona, serve come valvola di sfogo anche per la Liguria. Il sovraffolamento delle case circondariali liguri è noto e potrebbe migliorare solo con l’apertura di un nuovo carcere. Non importa dove sarà realizzato, se in Valbormida o altrove, ma basta farlo. Questo ormai è anche un problema politico" prosegue Lorenzo. Le misure adottate dal Governo, i vari "svuota-carceri", sono utili ma non bastano: "Il recente decreto 92, così come la 199, stanno aiutando a svuotare le carceri, ma non basta. Inoltre è anche presto per valutarne gli effetti visto che ad oggi stiamo ancora avendo i benefici dei primi provvedimenti simili che erano entrati in vigore" conclude il segretario ligure del Sappe. Macomer (Nu): chiude il carcere, il sindaco Succu chiede aiuto a Pigliaru La Nuova Sardegna, 5 luglio 2014 I timori sul futuro del carcere di Macomer emersi nel 2013 sono diventati certezza il 28 maggio, quando il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha firmato il decreto che ne sancisce la chiusura. Un anno e mezzo di iniziative e pressioni per evitare la chiusura della struttura penitenziaria non hanno prodotto risultati. La data non è stata indicata, ma è ormai certo che i detenuti reclusi a Macomer finiranno a Massama e a Nuoro. Anche il personale verrà "spalmato" nelle diverse carceri della Sardegna con disagi immaginabili. Che il carcere avrebbe chiuso lo si sapeva da oltre un anno. Il 29 gennaio 2013, l’allora ministro della Giustizia, Paola Severino, decise una serie di tagli e accorpamenti con l’obiettivo di ridurre i costi e di ottimizzare l’impiego del personale. Il decreto, datato 28 maggio 2014, è rimasto nascosto per più di un mese. Tuttora sulla vicenda della soppressione del carcere le bocche sono cucite. Il comune di Macomer ne è venuto a conoscenza ieri e il sindaco, Antonio Succu, non ha esitato a rompere il silenzio. "Penso sia necessario un intervento politico ad alti livelli, magari direttamente presso il gabinetto del Ministro, perché si annulli il provvedimento come già accaduto per alcuni carceri della Sicilia - dice il sindaco, noi lo chiederemo al Presidente della Regione. Avevamo già scritto al ministro della Giustizia avanzando proposte alternative, come il mantenimento e il potenziamento del centro cinofili della Polizia penitenziaria, nato e cresciuto a Macomer e apprezzato per i servizi resi in servizi delicati portati avanti da altri organi di polizia. Avevamo indicato un ruolo della struttura nei servizi che sostituiranno gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma non abbiamo ricevuto risposta. In questo territorio, che è un’area di crisi in pieno spopolamento, la chiusura del carcere impoverisce ulteriormente la presenza dello Stato, che si fatto si sta ritirando. Chiediamo a Pigliaru di intervenire con decisione per far sì che questa decisione venga rivista. Se a Macomer lo Stato c’è ancora, che dia un segnale della sua presenza". Oggi, alle ore 8,30 il sindaco incontrerà una delegazione dei lavoratori del carcere per decidere assieme quali iniziative intraprendere. L’Istituto, che sostituì il vecchio carcere di via Murenu, è stato inaugurato nel 1994 e utilizzato inizialmente come casa mandamentale. Per la struttura e la tipologia di costruzione, l’amministrazione penitenziaria poco più di dieci anni fa decise di riqualificarlo per trasformarlo in carcere di massima sicurezza per detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Il progetto fu poi abbandonato per ragioni politiche, ma rientrò il sordina per altre vie. La media dei detenuti reclusi è di 97 unità su una capienza regolamentare di 46 e di una capienza tollerabile di 92. Attualmente a Macomer sono reclusi circa 60 detenuti classificati di media sicurezza in una sezione, mentre l’altra è riservata ai detenuti classificati AS2 (terrorismo internazionale di matrice islamica). I sindacati della Polizia penitenziaria hanno spiegato in più occasioni che con pochi investimenti si potrebbe aumentare la capienza fino a 160 posti, ricavando anche altri spazi per "l’area trattamentale". I costi di gestione sarebbero relativamente bassi e con pochi accorgimenti sarebbe possibile ridurli ulteriormente. Da qualche anno è stato istituito a Macomer il Nucleo cinofilo antidroga regionale, che opera ottimamente in tutte le carceri sarde e sul fronte della droga collabora con altre forze di polizia. Se chiude il carcere si abbandonerà tutto e andrà sprecato anche l’investimento di 200 mila euro fatto per realizzare i servizi necessari. Catania: Osapp; le criticità del carcere non siano aggravate da quelle sanitarie www.blogsicilia.it, 5 luglio 2014 L’ultima aggressione in ordine di tempo è quella da parte di un detenuto trasportato dalla polizia penitenziaria al pronto soccorso di un ospedale catanese. Ha aggredito gli agenti della scorta prima che i medici intervenissero per sedarlo. La scorsa settimana, a Catania, altre due aggressioni hanno riacceso le polemiche sulla sicurezza per il personale sanitario. Vittime sono state un’infermiera e un medico volontario dell’ospedale Vittorio Emanuele. La denuncia dell’aggressione è da parte dell’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria: "Un detenuto alta sicurezza trasportato d’urgenza presso il pronto soccorso dell’Ospedale "Garibaldi" di Catania - ha detto il segretario Domenico Nicotra - e proveniente dall’Istituto per Minori di Bicocca va in escandescenza e solo il pronto e competente intervento dei Poliziotti Penitenziari presenti evitano che la situazione degenerasse." Secondo Nicotra, si legge nella nota "non può sottacere come in questo frangente l’assenza di un immediato intervento dei medici del nosocomio ha acuito le criticità, per i Poliziotti Penitenziari, discendenti dal dover gestire un detenuto che tra l’altro soffre di patologie psichiatriche". "È impensabile, prosegue Nicotra, obbligare un’intera scorta e relativo detenuto aspettare per oltre mezz’ora in locali comuni a liberi cittadini ed adiacenti, tra l’altro, ai servizi igienici mettendone a repentaglio la loro stessa sicurezza oltre che quella della struttura sanitaria etnea. Paradossalmente, solo dopo che la scorta è stata costretta addirittura ad immobilizzare il detenuto irrequieto fermandolo anche per i piedi, i sanitari hanno provveduto a iniettare dei calmanti". "Il calvario, dichiara ancora il sindacalista dell’Osapp, non è ancora finito per il personale di scorta e questo perché il detenuto in questione, dopo aver finalmente effettuato un colloquio psichiatrico, non ha potuto ingerire la terapia in compresse perché nessuno è riuscito a fornire dell’acqua. Si spera, conclude Nicotra, che per il futuro la Polizia Penitenziaria catanese non debba subire passivamente oltre che le criticità del sistema penitenziari italiano anche quelle del sistema sanitario". Pavia: non più sovraffollamento ma mancano infermieri e attrezzature mediche di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 5 luglio 2014 Per la prima volta da anni niente brandine supplementari nelle celle da due del vecchio padiglione, niente sovraffollamento anche grazie al nuovo padiglione. Ma continuano a mancare gli infermieri, a fronte di un’utenza sempre più problematica dal punto di vista sanitario, con l’aumento dei detenuti protetti, ovvero di coloro che sono stati condannati per reati sessuali ed ex componenti delle forze dell’ordine. Emerge dal sopralluogo dei componenti della camera penale di Pavia: il presidente Luca Angeleri, Fabrizio Gnocchi, Marco Casali, Federica Furlan, Roberta Valmachino e Antonio Lo Buglio. Attualmente a Torre del Gallo sono presenti 602 detenuti di cui 426 definitivi: un terzo nel nuovo padiglione C. Ci sono 269 stranieri. "Era la prima volta che visitavamo il nuovo padiglione - spiega Angeleri - le celle sono ampie, diversi detenuti ci hanno confermato come Pavia sia migliore rispetto ad altre situazioni. In più quasi tutte le sezioni sono a regime di celle aperte 8 ore al giorno, i detenuti possono circolare di cella in cella, nei corridoi e negli spazi della sezione. In un paio di sezioni le celle sono aperte, ma i detenuti si possono incontrare solo negli spazi comuni". Due i problemi principali: "Pochi agenti di polizia penitenziaria, 180, rispetto al numero di detenuti - spiega il presidente - e l’assistenza sanitaria. C’è un forte carico di pazienti che necessitano assistenza continua, tra cui 12 sieropositivi in cura, e detenuti che necessitano assistenza psicologica e psichiatrica. Ma non c’è una struttura infermieristica che garantisca assistenza giorno e notte, solo ambulatori, e per la carenza di strumentazione, ad esempio per i prelievi di sangue, ci sono in media due trasferimenti al giorno al San Matteo. Con tre agenti distaccati ogni volta. Per questo abbiamo scritto all’Azienda ospedaliera perché valuti la possibilità di dotare di attrezzature per esami ematochimici il carcere: invece di spostare il detenuto si potrebbe portare la provetta e farla analizzare, con un ampio risparmio dello Stato". Ma nel padiglione nuovo gli ambulatori non erano nemmeno stati previsti e sono state attrezzate due stanze. Tra gli aspetti positivi rilevati dalla delegazione ci sono le cucine "impeccabili con detenuti che cucinano per tutti", la sistemazione del teatro che subiva infiltrazioni, la panificazione, gli orti, la vigna e le tettoie che permettono l’ora d’aria anche quando piove. L’altro giorno in visita anche l’assessore regionale alla sanità Mario Mantovani. Venezia: mancano i braccialetti elettronici, inutili le norme "svuota carceri" di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 5 luglio 2014 Da una parte, nuove norme svuota-carceri che per condanne fino a 3 anni di pena non prevedono più che la pena sia espiata in una cella, ma agli arresti domiciliari, in contrasto con altre norme che - ad esempio - tuttora prevedono il carcere per chi ha già violato la misura cautelare, evadendo da casa. Da una parte, circolari del ministero di Giustizia (come quella del 24 giugno) che invitano i giudici a ricorrere agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico in alternativa al carcere, dall’altra un numero talmente irrisorio di braccialetti elettronici, da essere già "finiti". "Schizofrenia del sistema" a fronte di leggi contrastanti, come l’ha chiamata il procuratore aggiunto Carlo Nordio: due casi di queste ore ne sono un esempio. Così, nei giorni scorsi, il questore Roca ha scritto al presidente del Tribunale di Venezia e alla presidente dell’ufficio per le indagini preliminari per segnalare che - come da missiva del capo della Polizia, Pansa - sono finiti i braccialetti elettronici per i detenuti agli arresti domiciliari: sono 2 mila in tutt’Italia (secondo il contratto con Telecom) e sono già tutti alla caviglia di altrettanti condannati. Bisognerà che qualcuno espii la sua pena perché altri detenuti possano indossarli: e intanto per loro non c’è che il carcere. Con il rischio concreto, però, che i legali impugnino le sentenze, perché se una legge non prevede la condanna al carcere per condanne inferiori ai tre anni, la galera ne è di fatto una violazione. Un altro caso è andato ieri in scena al Tribunale di Venezia: un processo tra centinaia di altri simili. Tre imputati sono in carcere da 9 mesi, perché arrestati per spaccio e detenzione di droga: non un grande giro, ma spaccio di eroina che rientra nella nuova definizione di "lieve entità" introdotta dal decreto Svuota carceri, punibile con pene massime di 3 anni. Quindi destinate agli arresti domiciliari. E così ha deciso ieri la giudice per le udienze preliminari Barbara Lancieri, che però per un imputato si è ritrovata a dover fare i conti con un’altra norma, che vieta il riconoscimento degli arresti domiciliari a chi è già stato condannato per evasione, anche dalla propria abitazione, come appunto nel caso di uno tre imputati marocchini di ieri. Che così - paradossalmente - invece che agli arresti domiciliari ha avuto una condanna più lieve, l’obbligo di firma, accogliendo l’obiezione dell’avvocato Marco Borella: "Ho rilevato che un cattivo mancato coordinamento tra le norme da parte del legislatore non può ricadere sul singolo soggetto. Una condanna al carcere sarebbe stata illegittima". Una roulette giudiziaria quotidiana, che costringe i giudici a interpretazioni di norme contrastanti. Cagliari: Uil-Pa; agente penitenziario aggredito a colpi di sedia da detenuto psichiatrico Ansa, 5 luglio 2014 Un agente della Polizia penitenziaria è stato aggredito a colpi di sedia mentre piantonava un detenuto che si trovava in un ospedale di Cagliari. L’episodio è avvenuto durante la notte, a renderlo noto è il coordinatore provinciale della Uil Penitenziari Raffaele Murtas. L’agente della penitenziaria, secondo quanto appreso dal sindacalista, aveva appena preso le consegne dai colleghi e stava verificando la situazione del detenuto ricoverato nel reparto di Psichiatria, quando è stato aggredito da un altro paziente che lo ha colpito con una sedia. È rimasto lievemente ferito e secondo i medici se la caverà in otto giorni. "Questi episodi non fanno altro che avvalorare quanto sosteniamo da tempo: il reparto di degenza per i detenuti già ultimato deve essere assolutamente consegnato all’Amministrazione Penitenziaria - ha evidenziato Murtas - attualmente pare sia utilizzato dalla Asl come deposito di attrezzature dell’ospedale in cui è situato. Crediamo che si tratti di una questione di sicurezza per il personale di Polizia Penitenziaria ma anche per i degenti e per i dipendenti sanitari degli ospedali". Catania: Osapp; detenuto con problemi psichiatrici in escandescenza, ritardi nei soccorsi Italpress, 5 luglio 2014 Un detenuto in regime di alta sicurezza, nel carcere di Bicocca, a Catania, è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’Ospedale "Garibaldi" dopo essere andato in escandescenza. L’uomo è affetto da problemi psichiatrici. A denunciare quanto accaduto il segretario generale aggiunto dell’Osapp Domenico Nicotra che sottolinea come "l’assenza di un immediato intervento dei medici del nosocomio ha acuito le criticità, per i poliziotti penitenziari, nel gestire il detenuto". Brindisi. portava droga in carcere, agente-pusher patteggia 2 anni e mezzo di reclusione di Claudio Tadicini Nuovo Quotidiano, 5 luglio 2014 Agevolato dalla divisa che indossava, riusciva ad introdurre nel carcere di Brindisi dosi di hashish e cocaina, che poi spacciava ai detenuti che ne facevano richiesta. Un corriere della droga insospettabile, il 48enne brindisino Salvatore Papadonno, assistente capo di polizia penitenziaria, che finì in carcere grazie proprio alla "soffiata" di un detenuto e che, recentemente, ha chiuso i conti con la giustizia che rappresentava, patteggiando la pena a due anni e mezzo di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una multa di 10mila euro. La sentenza di condanna è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brindisi, Paola Liaci, che ha accolto la richiesta avanzata dal difensore del basco azzurro "infedele", l’avvocato Vito Epifani. L’agente-pusher, secondo le indagini svolte dai carabinieri della Compagnia di Brindisi, si procacciava la droga da smerciare nel penitenziario di via Appia, dove lo stesso lavorava, dai due brindisini Vito Braccio ed Aldo Cigliola, di 33 e 42 anni, che lo rifornivano di "fumo" e "bianca" nonostante entrambi si trovassero ristretti ai domiciliari. Tutti e tre i brindisini finirono in manette all’alba dell’11 marzo scorso, quando i militari eseguirono le tre ordinanze di custodia cautelare in carcere (Braccio e Cigliola erano già detenuti per vicende precedenti), emesse dal gip Maurizio Saso, su richiesta del sostituto procuratore Milto Stefano De Nozza. Papadonno svolgeva il ruolo di "fattorino" della droga, in barba all’uniforme che indossava. In violazione dei doveri inerenti alla sua pubblica funzione, infatti, il 48enne era accusato di avere acquistato, trattenuto, trasportato all’interno dell’istituto carcerario e, infine, ceduto a diversi detenuti dosi di sostanze stupefacenti. Un’"attività" parallela ed antitetica, che il carceriere avrebbe svolto almeno fino all’agosto del 2013. La droga che il basco azzurro spacciava nel carcere brindisino, come emerso dalle indagini dei carabinieri (che piazzarono cimici anche nell’auto del 48enne), nella maggior parte dei casi gli era fornita dai suoi spacciatori di fiducia, ossia Braccio e Cigliola. Il primo, difeso dall’avvocato Cinzia Cavallo, ha proposto una pena a due anni di reclusione ed attende la decisione del giudice; Cigliola, invece, difeso dall’avvocato Laura Beltrami, dovrà comparire davanti al gip Liaci il prossimo 23 ottobre. A mettere in allarme tanto i carabinieri quanto i vertici della polizia penitenziaria del carcere di Brindisi - come detto - fu un "rigurgito di giustizia" da parte di un detenuto: una fonte interna che, con dovizia di particolari, rivelò alla direzione del penitenziario nomi, cognomi, fatti e circostanze in relazione al viavai di droga, maturato all’interno delle mura carcerarie, grazie alla collaborazione dell’agente "infedele". Confidenze che le indagini tecniche dei carabinieri, fondate anche su intercettazioni ambientali e telefoniche, avvalorarono nel corso dei mesi. Accogliendo la richiesta di patteggiamento, il gip Liaci ha concesso al Papadonno le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle aggravanti contestategli, in virtù dell’atteggiamento collaborativo assunto dal 48enne sin dal giorno del suo arresto. L’agente penitenziario, durante l’interrogatorio di garanzia, confessò in lacrime. Papadonno, che fino al 2 aprile scorso fu recluso nel carcere di Lecce, salvo poi ottenere gli arresti domiciliari, è stato condannato anche al pagamento delle spese di mantenimento in carcere, essendo la pena superiore ai due anni. Teramo: sei detenuti prendono il diploma dell’Istituto Alberghiero di Chiara Di Giovannantonio Il Centro, 5 luglio 2014 Ora hanno la qualifica del terzo anno. Nel 2015 la maturità E nel reparto femminile al via un corso di floricoltura Carcere, anche luogo di studi. Sei detenuti ottengono il diploma di qualifica al carcere di Castrogno superando il terzo anno di scuola alberghiera, intanto si prepara un corso di floricultura per il reparto femminile. "Si tratta delle iniziative del progetto "Scuola in carcere", che l’istituto di istruzione superiore "Di Poppa - Rozzi" ha avviato già da qualche anno in collaborazione con la direzione della casa circondariale di Castrogno", spiega la dirigente scolastica Silvia Manetta, "al termine dell’anno scolastico 2013/2014, sei detenuti hanno ottenuto la qualifica di operatori dei servizi della ristorazione e a settembre proseguiranno il loro percorso di studi iscrivendosi alla classe quarta. Si tratta di ragazzi che hanno una forte volontà e che fanno tirocinio direttamente nella cucina di cui è dotata la struttura carceraria". La sezione alberghiera è solo il più recente dei due indirizzi proposti dall’Iis "Di Poppa - Rozzi" ed inseriti all’interno del penitenziario. Il primo ad essere attivato nella sezione maschile del carcere di Castrogno è stato quello agrario, un corso di studi per ottenere in tre anni la qualifica di operatore agro-ambientale, più altri due per il diploma di agrotecnico. "Nel corso di agraria, dodici detenuti hanno ottenuto l’idoneità per la classe quinta, gli stessi che lo scorso anno hanno ricevuto la qualifica. Tra questi c’è anche Salvatore Parolisi, che continua con impegno gli studi", racconta la preside, "alcuni avevano solo la licenza di quinta elementare, frequentata a stento peraltro. Questi studenti hanno iniziato a fare esercizi di scrittura e lettura, riappropriandosi di una capacità che avevano perso con il tempo. Dopo aver scoperto per la prima volta l’epica, qualcuno mi ha chiesto di poter leggere l’Iliade e l’Odissea. Sono questi episodi a dimostrarmi ogni giorno come "Scuola in carcere" sia un progetto che va avanti con successo, che dà serenità e potenzia la funzione rieducativa della scuola". Gli studenti, che hanno dai venti ai sessant’anni, hanno seguito per sei giorni a settimana quattro ore di lezione tenute da insegnanti dell’istituto e altri docenti precari, svolgendo le esercitazioni pratiche nel laboratorio interno del penitenziario con la tecnica della coltivazione fuori suolo. "Per loro la scuola rappresenta una speranza di cambiamento, oltre ad essere l’unica occasione in cui possono confrontarsi con persone con un livello di cultura diverso, evadendo dai problemi quotidiani del carcere. Lunedì o martedì prossimo dovrebbe partire un corso estivo che proseguirà fino al 10 agosto, rivolto sia agli studenti dell’Alberghiero che a quelli dell’agrario, con laboratori di pittura, scrittura creativa e giochi matematici", conclude Silvia Manetta, "mentre un altro progetto che deve prendere il via è il corso di floricultura dedicato al reparto femminile, dove le detenute impareranno a coltivare le rose e altri fiori per abbellire il carcere e portare un po’ di colore". Pesaro: "Pesaro Povera" rilancia la raccolta fondi per i detenuti privi di rete parentale www.viverepesaro.it, 5 luglio 2014 Pesaro Povera? si sta facendo carico, con cifre modiche ma che - sommate a tutte le richieste - hanno comunque il loro peso, di diversi detenuti privi di rete parentale ristretti nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi. Il denaro serve per affrontare spese essenziali quali generi di prima necessità non compresi nella fornitura carceraria, oltre a francobolli, buste, spese telefoniche, raccomandate e altre minuterie che comunque all’interno del carcere hanno un costo, seppur limitato. Per dare un’idea, un detenuto privo di appoggi esterni ha bisogno di almeno 20 euro al mese per poter affrontare le spese sopra accennate. Per contribuire è possibile effettuare un bonifico intestato ad "Associazione Acu Marche Consumatori Utenti" (coordinate bancarie: IT 36 S 05018 02600 000000164518 causale "fondo Pesaro Povera - Carcere"). Grazie a quanti vorranno aiutare queste "periferie esistenziali" (come le chiama Papa Francesco). Lecce: detenuti designer con il progetto "Giardino Radicale"… e l’arte va oltre le sbarre di Emanuele Imperiali Corriere del Mezzogiorno, 5 luglio 2014 Il carcere come galleria d’arte partecipata, spazio di cui riappropriarsi attraverso interventi creativi. Sembra quasi un ossimoro, ancor più se ad essere protagonisti di questa storia sono i detenuti. È quello che è successo nella casa circondariale di Borgo San Nicola a Lecce, divenuto luogo dove sperimentare l’espressività nella trasformazione e personalizzazione dello spazio circostante. Grazie al progetto "G.A.P. la città come galleria d’arte partecipata", sostenuto dalla Fondazione con il Sud, ha preso vita "Giardino Radicale", programma di design in carcere che ha coinvolto attivamente 40 detenuti in un intervento di riappropriazione e progettazione degli spazi comuni. Quattro le sale oggetto dell’intervento creativo, coordinato da registi teatrali e designer: la sala del telefono, per la ginnastica, quella comune e la barberia. Spesso bianchi e totalmente anonimi, gli spazi hanno subìto un vero e proprio restyling dalle pareti, attraverso decorazioni con stencil, carta da parati, gessetti, matite, e alla pavimentazione. Sono state create anche mostre fotografiche permanenti di oggetti realizzati con materiali riciclati, tavoli, sedute, librerie. I detenuti, in permesso premio, hanno lavorato alla realizzazione dei complementi d’arredo nel laboratorio interno al carcere o in quello artigiano delle Manifatture Knos di Lecce. Tra le altre iniziative progettuali, il laboratorio di scrittura partecipata "Moving Landscape", che, partendo dai caselli ferroviari e dalle comunità sociali, racconta le trasformazioni del territorio e gli eventi "Lampa", momenti di condivisione e incontro per festeggiare la produzione di olio extravergine da ulivi abbandonati attraverso colture rispettose dell’ambiente. Un’iniziativa in linea con gli obiettivi del progetto, promosso dall’associazione culturale laboratorio urbano aperto, in collaborazione con altre. G.A.P. si occupa della progettazione partecipata di interventi culturali, artistici, economico-sociali che valorizzino l’armonia e la bellezza e che possano migliorare la qualità di vita delle comunità, non dimenticando i diritti di chi sta scontando una pena. Trento: nel carcere di Spini di Gardolo va in scena Pinocchio, con gli attori detenuti L’Adigetto, 5 luglio 2014 Pinocchio è un burattino che ama prendersi le sue libertà. Ride, scappa, non dà retta: sbaglia, piange, paga e ricomincia. La sua storia fatta di trasgressioni, punizioni, pentimenti e redenzioni è sembrata scritta apposta per il laboratorio di teatro, musica e arte che si è tenuto fra marzo e giugno e che ha coinvolto una ventina di detenuti della Casa Circondariale di Trento. Giovedì 3 luglio "Pinocchio", il frutto di questo percorso teatrale, è andato in scena presso il teatro della Casa circondariale di Spini di Gardolo alla presenza di un pubblico misto di ospiti esterni e di detenuti spettatori. Il progetto, patrocinato dal Dipartimento alla Conoscenza della Provincia autonoma di Trento, è stato promosso dall’Associazione il Gioco degli Specchi di Trento in collaborazione con l’associazione di musica contemporanea Quadrivium di Riva del Garda e il Liceo Leonardo da Vinci di Trento. Il progetto ha avuto inoltre il contributo del Centro Servizi Volontariato e dell’Iprase del Trentino. Nel "Pinocchio" del carcere di Trento i protagonisti sono gli adulti che sperimentano l’arte nel loro percorso di recupero sociale. Mohammed, Aziz E., Badreddin, Aymen, Adem, Issam, Jetmir, Aziz M., Kristo, Said, Sami, Youssef, David, Zouahier, Claudio, Luigi, Sidibeh - originari di Tunisia, Marocco, Albania, Bosnia, Mali, Colombia e Italia - hanno affrontato la trasposizione teatrale sotto la guida di Amedeo Savoia (adattamento e regia), di Nicola Straffelini (musica), di Emilio Picone (scenografia) e di Luigi Sansoni (assistenza tecnica). Quello andato in scena è stato il momento conclusivo di un laboratorio di teatro che si è svolto in carcere fra marzo e giugno. Sono ventuno le scene che compongo lo spettacolo preparate in 26 ore di lezione, una ventina i partecipanti che si sono messi in gioco come attori, musicisti, ballerini. Lo spettacolo è stato un omaggio allo straordinario "Pinocchio nero" realizzato da Marco Baliani con i ragazzi di strada di Nairobi per l’associazione Amref nel 2004. In quel caso arte e istanza civile si sono alleate per offrire ai giovanissimi un’esperienza estetica alternativa al degrado e all’abbandono nelle discariche keniote. "Dati statistici a livello nazionale - ha spiegato Amadeo Savoia - confermano il fatto che l’esperienza artistica favorisca il successo del reinserimento sociale delle persone ristrette. Lo testimonia, fra le molte altre diffuse nelle carceri italiane, l’esperienza del regista Fabio Cavalli - coautore del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani - a Rebibbia a Roma". Pur lavorando coi detenuti delle sezioni di alta sicurezza, infatti, il tasso di recidiva, cioè di ricaduta nel reato, per i detenuti che hanno partecipato a laboratori artistici scende dal 60% al 5%. Oppure quella della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata da Armando Punzo, in cui spicca la vicenda dell’ergastolano Aniello Arena, salito alla ribalta internazionale grazie alla partecipazione ai film di Matteo Garrone. Anche a Trento, in misura molto minore ma non meno significativa, è stato possibile muovere i primi passi in questa direzione. Ade esempio, lo scorso anno, per la messa in scena sempre a Spini dell’Ulisse e il velo, testo teatrale ispirato al mito dell’eroe omerico, il rapper albanese Fari Lleshi ha potuto usufruire di permessi premio per recarsi nello studio di registrazione della Metroart di Riva del Garda per registrare in forma professionale alcune canzoni di sua composizione. L’obiettivo primario, peraltro, non è quello di scoprire artisti, ma di favorire il recupero attraverso l’esperienza estetica di uno spirito positivo verso la vita in persone per così dire "normali". In questo modo possono maturare il desiderio di riprogettare in termini costruttivi la propria esistenza, in coerenza anche con lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione. "Fondamentale per la riuscita del percorso - ha concluso Savoia - è stata la collaborazione della dott.ssa Gabriella Straffi, direttore della Casa circondariale Giudecca di Venezia e fino a pochi giorni fa reggente a Trento, del comandante dott. Domenico Gorla, degli agenti di polizia penitenziaria e del responsabile e funzionari dell’area educativa". Milano: Dario Fo a San Vittore mette in scena il San Francesco carcerato Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2014 Se sei sempre stato libero, il bisogno di esserlo non lo capisci. Poi ti capita di entrare qui, in un posto che credevi di conoscere perché è un nome entrato nell’immaginario collettivo come se fosse solo un simbolo e non un carcere: davanti a sbarre per nulla ideali, la libertà si trasforma in un sospiro di sollievo. San Vittore è sporco di nebbia, di tempo sgretolato sopra i muri e dolore passato dentro le celle. In un "istituto di pena" il sentimento di umanità mandano in cortocircuito le certezze. A ogni cancello che attraversi e a ogni porta che si chiude dietro: sì, si vede ogni tanto in televisione, ma passare di lì con i propri piedi non è guardare, è vivere. Di colpo "dentro" e "fuori" smettono di essere gli avverbi di un appuntamento davanti al cinema, ma sono un’inevitabile condizione dell’essere. Oggi qui è una piccola festa, anzi una doppia festa. Dario Fo è venuto in visita, ed già è un avvenimento da segnare sul calendario. Ma c’è un altro motivo di gioia: la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. "Trattamento inumano e degradante", dicono i giudici. Per questo lo Stato risarcirà i detenuti. Improvvisamente non sono più le loro prigioni, ma le nostre. Di un paese che assiste, pressoché muto, e che consente. La processione che accompagna il premio Nobel, invitato dal Progetto liberazione nella prigione (attraversa i "raggi" assieme alle guardie. I detenuti aspettano il maestro in piedi, dritti davanti alle loro sedie. Nemmeno comincia il discorso, che lo acclamano già. Loro parlano soprattutto per applausi: ce ne saranno molti nel corso di questo incontro, scandito anche da un saluto dell’assessore alla cultura del Comune di Milano, Stefano Boeri, e di Gloria Manzelli, prima direttrice donna della Casa circondariale. Dario Fo ha portato in dono alcuni suoi disegni. Uno lo illustra per bene, perché è una sorta di contro-storia di Francesco, prima che fosse santo. "Francesco adolescente fu fatto prigioniero dopo una sommossa e messo in carcere. Vi lascio immaginare cosa fossero allora, nel Medio Evo, le carceri. Poco più che fosse dove le persone venivano abbandonate e nutrite da quei pochi che, con un pò di buon cuore, ogni tanto si ricordavano di lanciare loro qualcosa da mangiare. Dopo un anno di questo trattamento Francesco fu liberato, grazie al padre. Ma questa storia non capita quasi mai di ascoltarla, perché non va bene raccontare il Santo d’Italia come uno che si ribellava agli oppressori. Io credo che dovrebbe essere anche il santo dei carcerati". Intanto l’uditorio di uomini, giovani e meno, ascolta trepidante: qualcuno protesta perché il microfono in fondo alla sala arriva poco. Poi Fo chiede alla platea di intervenire: "Ditemi cosa posso fare per voi, quale messaggio volete che io porti quando uscirò". Qui bisogna che qualcuno raccolga il coraggio e attraversi il piccolo corridoio per portare la voce di tutti. Si fa avanti Gaspare, tuta blu e scarpe da ginnastica, l’abbigliamento più comune in sala: è quello che di solito s’indossa a casa. "Bè, intanto deve venirci a trovare ancora: non ci capita tutti i giorni di sentir parlare un premio Nobel". Prima di fare la sua domanda, Gaspare ha una cosa da dire: vuole ringraziare i medici e il personale del reparto la Nave, che si occupa dei detenuti tossicodipendenti. "Perché prima di essere detenuti, sono trattati come persone e come malati. Non succede in tutti i penitenziari". Poi esorta Dario Fo a raccontare qualcosa della sua vita, magari di quel viaggio negli Usa che non era gradito al governo americano. Per spiegarlo, il premio Nobel racconta: "Allora la gente di sinistra rompeva molto le scatole, mica come oggi. E come ce ne sarebbe bisogno, ora, di persone che rompono un po’ le scatole!". I ricordi volano subito ai tempi di Soccorso rosso: "Negli anni 70 ho visitato molte carceri, con mia moglie, quando sostenevamo Soccorso rosso, forse ne avete sentito parlare. Di questa battaglia, per i diritti dei detenuti, io e Franca siamo orgogliosi. Oggi è una festa, perché questa condanna di Strasburgo mette lo Stato di fronte a una verità. Non so quale governo uscirà dalle elezioni, spero che sarà in grado di affrontare questo problema e che provi a cercare delle soluzioni". E allora esplode il grazie, in coro, dei detenuti. Prima del congedo, è il momento di Zac: si avvicina e legge una poesia. "Oggi sono qui a combattere tra il bene e il male". Ed è così difficile distinguerli. Dario Fo è sommerso dal suono delle mani che battono la gratitudine e saluta così: "Verrò presto. E spero tanto che molti di voi, per allora, saranno fuori. Le cose negative si trasformano in positive, certe volte. Anche se il sistema delle carceri italiane poco ha a che vedere con la riabilitazione e la rieducazione, spero che da questo dolore che state provando ora, rinchiusi qui, troviate la forza di fare, da uomini liberi, delle cose straordinarie". Guinea Equatoriale: caso Berardi, l'imprenditore italiano torna in carcere dopo ricovero di Giovanni Bizzarri www.latinapress.it, 5 luglio 2014 Dopo oltre 18 mesi di detenzione di cui molti in isolamento, era giunto un leggero ottimismo per cui, nonostante le pessime condizioni di salute di Roberto, lo stesso è stato trasferito nell’ospedale di Bata dove gli è stata diagnosticata una polmonite ed enfisema polmonare, in relazione alle precarie condizioni di igiene e salubrità di questo regime penitenziario ove non è stato possibile introdurre alcun medicinale per le prime cure. Ironia della sorte pochi minuti fa è giunta la notizia che Roberto con l’inganno di essere trasferito in clinica specializzata, è stato nuovamente tradotto in carcere in isolamento. Il disegno meschino di questo Dittatore Obiang, appare ormai chiaro: non potendo avvelenare (ciò emergerebbe da una eventuale autopsia) colui che lo ha denunciato ed è stato oggetto di confische negli Usa, Spagna e Francia e sarebbe il testimone chiave in giudizi pendenti, sta ponendo in essere torture fisiche e psicologiche ripetute da mesi per togliere la vita a questa persona magari replicando che "non ha retto al regime carcerario". Lo Stato muove piccoli passi in una diplomazia inesistente o in tutt’altre faccende impegnata ed il Vaticano celebra il Festival dell’Ipocrisia. Infatti nell’Angelus del 22 giugno u.s. Papa Francesco ha dichiarato che: "Torturare le persone è un peccato molto grave, un peccato mortale". Nulla da eccepire a questa affermazione se non ci fosse stato l’incontro in pompa magna in Vaticano il 27.04.2013 in occasione della Canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII ed il 25.10.2013 per siglare un accordo bilaterale, compresa l’assistenza spirituale ai detenuti tra Papa Francesco ed il feroce dittatore che, sembrerebbe investire nello Ior molti milioni di euro l’anno. Intercedere per Roberto sarebbe stato chiedere troppo, neanche una parola, in nome di quella Pietà Cristiana troppe volte proclamata da quel balcone, ove spesso a belle parole, non seguono azioni concrete... purtroppo. E, cosa peggiore non è giunta neanche una scomunica, peccato. C’è parecchia gente che è stata scomunicata per molto meno, invece il tiranno continua imperterrito a viaggiare e a essere ricevuto in udienze private dal Papa. Di solito le persone che hanno le mani grondanti di sangue vengono allontanate dalla Chiesa. Ci faccia un pensierino il nuovo Pontefice. Le galere della Guinea Equatoriale sono piene di dissidenti che vengono torturati e lasciati marcire, quando non vengono ammazzati dagli scherani del regime. E da parte italiana non viene in mente a nessuno di appioppargli un bel travel ban, cioè un divieto di venire sul nostro territorio? In fondo un provvedimento di questo genere colpisce il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, un dittatore che al confronto di Teodoro Obiang è un ragazzino alle prime armi (nonostante abbia da poco compiuto 90 anni). Guinea Equatoriale: caso Berardi; l’ex moglie "stanno uccidendo Roberto" di Carlo Lania Il Manifesto, 5 luglio 2014 Roberto Berardi, l’imprenditore italiano detenuto nel Paese africano, è tornato in carcere nonostante sia gravemente malato. "Ho parlato con Roberto ieri, è convinto di non farcela, che non uscirà più vivo dalla prigione e noi non sappiamo più a chi chiedere aiuto. Ormai abbiamo talmente tanta paura per la sua vita che non ha più senso essere prudenti". È disperata Rossella Palumbo, ex moglie di Roberto Berardi, in carcere da un anno e mezzo in Guinea Equatoriale. Due giorni fa l’imprenditore italiano è stato trasferito in un ospedale di Bata, la stessa città nella regione del Rio Muni in cui è detenuto, a causa delle sue condizioni di salute rese gravissime da una polmonite e dalla presenza di un enfisema polmonare. Dopo poco più di un giorno, però, Berardi è stato riportato in carcere e rimesso in isolamento. "Mi ha raccontato che gli sembra di vivere una situazione paradossale - prosegue la donna -. Gli avevano detto che gli avrebbero fatto le lastre ma subito dopo l’esame anziché riportarlo in corsia lo hanno trasferito di nuovo in carcere. Ormai Roberto è disperato, è chiaro che stanno tentando di ucciderlo". "Le autorità della Guinea Equatoriale stanno mettendo seriamente a rischio le sue condizioni di salute", accusa il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, che da mesi segue la vicenda dell’imprenditore originario di Latina. "Berardi non ha un’alimentazione adeguata, né cure sufficienti e ha sempre fatto fatica a trovare, e solo attraverso canali privati, le medicine. È chiaro che, uso una formula letteraria ma terribilmente vera, ne vogliono fiaccarne il corpo e lo spirito". L’ultima violenza nei confronti dell’uomo si è avuta ieri mattina quando alcuni agenti sono entrati nella sua cella e gli hanno sequestrato i pochi medicinali rimastigli. Un gesto gratuito dopo i maltrattamenti a cui Berardi è stato sottoposto nei mesi scorsi. L’unica colpa di Berardi è di aver costituito nel 2011 un’impresa edile nella Guinea Equatoriale governata dal dittatore Teodoro Obaing Ngumena Mbasogo, al potere dal 1979 dopo un colpo di Stato. Rispettando quanto previsto dalle leggi locali, l’imprenditore ha stretto società con il figlio del dittatore, Teodoro Nguema Obiang Mangue, detto Teodorin. Tutto procede senza problemi fino a quando Berardi non si accorge che nei conti della ditta c’è qualcosa che non va: mancano dei soldi dei quali chiede conto a Teodorin. Ed è in quel momento che per lui cominciano i guai. La sera stessa viene arrestato a trasferito in carcere a Bata e successivamente condannato a due anni e quattro mesi di carcere più il pagamento di 1,4 milioni di dollari. "Tutti sanno che Roberto è innocente", prosegue Rossella Palumbo. "Ormai del suo caso si è occupata la stampa di tutto il mondo e tutti rimangono sconcertati, anche perché Teodorin è sotto processo in Francia e negli Stati uniti". Berardi si trova in isolamento da più di sette mesi, durante i quali è stato bastonato e sottoposto a violenze come provano le fotografie che lui stesso è riuscito a scattarsi con un cellulare e a inviare in Italia. Ad aprile, uno spiraglio: all’uomo viene promessa la grazia il che però non ha significato, come la famiglia e gli amici dell’imprenditore avevano sperato, il suo immediato rientro in Italia. Le autorità della Guinea Equatoriale pretendono infatti il pagamento del 1,4 milioni di dollari sanciti dalla condanna. Fino a quel giorno Berardi resterà in cella. "Vogliono umiliare il condannato, ma anche legittimare il fatto che è il solo responsabile della truffa, alla quale la magistratura della Guinea Equatoriale considera estraneo il figlio del presidente", prosegue Manconi. "I soldi sono una scusa - spiega invece l’ex moglie -. Roberto non li ha e li usano come un’arma di ricatto. La madre prende 700 euro di pensione e ogni mese più della metà la invia a lui per consentirgli di vivere e comprarsi le medicine. Anche il cibo è scarso e per fortuna ogni tanto qualcuno gli porta da mangiare da fuori". Il nostro ministero degli Esteri si è mosso per provare a sbloccare la situazione. L’Italia non ha un’ambasciata in Guinea Equatoriale e la rappresentanza diplomatica è affidata al console Spano, dell’ambasciata del Camerun, che nei giorni scorsi ha incontrato Berardi in ospedale. Ma non basta. "Fino a oggi siamo stati prudenti per non rischiare di compromettere la situazione e peggiorare le condizioni in cui Roberto vive, ma al punto in cui siamo le cautele non servono più", conclude l’ex moglie di Berardi. "Abbiamo chiesto aiuto a tutti, anche a papa Francesco ma non ci ha rivolto neanche una parola. Peccato, ci aspettavamo un gesto da parte sua, un minimo interessamento che invece non c’è stato. Roberto è innocente, ma adesso bisogna fare qualcosa in fretta se vogliamo davvero che si salvi". India: sul caso marò, dopo il silenzio di Renzi… arriva quello della Mogherini di Giovanna Taormina Il Secolo d’Italia, 5 luglio 2014 Poche parole imbarazzate che fanno seguito all’altrettanto imbarazzato silenzio di Matteo Renzi. Sulla vicenda dei due fucilieri italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, detenuti in India da due anni il governo va avanti pianissimo. Tanto che tutti evitano strategicamente di affrontare il tema e quando sono costretti a farlo eludono il problema. Come ha fatto il premier durante il suo primo discorso da presidente dell’Ue. Una posizione analoga tenuta oggi anche da Federica Mogherini.Durante l’audizione alle commissioni riunite di Camera e Senato il ministro degli Esteri ha parlato di tutto e di più, si è dilungata a disquisire sul Medio Oriente, ha annunciato che entro dieci giorni farà visita a Israele e Palestina, si è soffermata sulla crisi ucraina, e ancora ha parlato di Libia e Egitto. Ma quando è toccato ai marò ha subito svicolato limitandosi ad affermare che sui due fucilieri "non siamo in una fase di riflessione ma in una fase operativa che non è né facile né breve" ma il "lavoro è costantemente in corso e il livello di internazionalizzazione è avviato anche se complicato". La titolare della Farnesina ha ribadito di lavorare quotidianamente con il ministro della Difesa Roberta Pinotti ma di voler usare "un eccesso di prudenza nelle comunicazioni perché una parte delle difficoltà sono venute da un eccesso di comunicazioni". E poi la frase ad effetto per tagliare il discorso: "È più utile una parola in meno che una parola in più". Un atteggiamento che è stato subito criticato da Giorgia Meloni. "Si sceglie di non parlare di qualcosa quando non si sa che cosa dire o quando una questione non si considera abbastanza centrale - ha scritto su Fb il presidente di Fratelli d’Italia - Ed evidentemente il presidente del Consiglio Renzi e il ministro degli Esteri Mogherini non considerano così importante e seria la vicenda dei nostri due marò illecitamente trattenuti da oltre due anni in India. Questa posizione è esattamente la stessa dei loro predecessori e, come loro, Renzi e Mogherini non hanno né una strategia per risolverla, né quel coraggio di cui tanto parlano e che il premier ha addirittura indicato come parola d’ordine del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Non è chiaro, infatti, il riferimento alle tante ingiustizie sulle quali Renzi ha chiesto ieri a Strasburgo una reazione da parte della Ue, dalla storia di Asia Bibi in carcere in Pakistan perché cristiana, alle ragazze rapite in Nigeria da Boko Haram, alla giovane donna sudanese Meriam costretta a partorire in carcere, o alle ragazze della Primavera araba. Vuol dire che il capo del governo intendeva deliberatamente strumentalizzarle? Peccato, noi credevamo che volesse richiamare l’attenzione dell’intera opinione pubblica e di tutte le istituzioni. Ci siamo sbagliati". Stati Uniti: figlio dimenticato in auto muore per il caldo, papà rischia pena di morte Tm News, 5 luglio 2014 Un papà americano accusato di aver provocato la morte del figlio di 2 anni, lasciandolo per ore in automobile sotto il sole, potrebbe rischiare la pena di morte. "Si tratta di un possibile caso di pena di morte", ha detto il giudice Frank Cox al termine dell’udienza che si è tenuta nello Stato della Georgia. Secondo la ricostruzione della polizia, Justin Ross Harris, 33 anni, avrebbe lasciato il 18 giugno scorso il figlio Cooper, 22 mesi, legato al seggiolino della sua auto per sette ore sotto il sole. Harris ha ammesso di essersi dimenticato di portare il figlio al nido e di essersi reso conto che era in macchina solo alla fine del lavoro. Durante l’udienza, un agente di polizia ha raccontato che il giorno dei fatti Harris ha inviato messaggi di testo a sfondo sessuale e fotografie ad almeno sei donne, tra cui una 17enne; ed è anche emerso che, nei giorni precedenti la tragedia, l’uomo avrebbe fatto ricerche su internet sulla vita senza figli e su come sopravvivere in carcere, guardando anche filmati di animali agonizzanti in autovetture lasciate al sole. Altri testimoni hanno invece presentato Harris come un padre devoto. Il giudice ha respinto la richiesta di scarcerare l’uomo dietro cauzione. Gran Bretagna: scandalo intercettazioni, in carcere ex consulente del premier Cameron Agi, 5 luglio 2014 Andy Coulson, ex consulente e "spin doctor" del premier David Cameron ed ex giornalista di punta e direttore del tabloid News of the World di Rupert Murdoch travolto dallo scandalo intercettazioni e poi costretto alla chiusura, andrà in carcere per 18 mesi per aver organizzato una rete di hackeraggio che vedeva proprio nei giornalisti gli autori principali di pratiche illegali per ottenere informazioni in esclusiva. Secondo il giudice, le intercettazioni si erano fatte "necessarie" per mantenere in piedi "la competitività" del giornale, così ecco tutto lo scandalo che ha fatto traballare l’impero mediatico di Murdoch - coinvolgendo però anche altri organi di stampa - e che ora porta in carcere il 46enne Coulson insieme ad altri tre ex colleghi. Il tutto era nato dal caso di Milly Dowler, l’adolescente uccisa da un maniaco e la cui casella vocale del telefono era stata poi intercettata dai giornalisti, che avevano poi usato le informazioni raccolte proprio per scrivere degli articoli in esclusiva. I quattro arrestati di oggi hanno tutti ammesso di aver cospirato per hackerare le segreterie telefoniche di molte persone fra l’ottobre del 2000 e l’agosto del 2006.