Giustizia: la grande riforma... che non c’è di Massimo Villone Il Manifesto, 4 luglio 2014 Il dopo-discorso di Renzi ci insegna una cosa: che giovanilismo, citazioni colte e belle immagini non impressionano affatto gli arcigni falchi europei. Le reazioni Ppe e la proposta di un super commissario agli affari economici - potrebbe essere Kaitanen, falco finlandese - dicono che non sarà facile far uscire dal cassetto le promesse di maggiore flessibilità sbandierate come vittoria italiana. In specie perché non è pensabile che tutto accada senza che la Merkel, assunta da Renzi come garante dell’accordo sulla flessibilità, sia consapevole e consenziente. A quali condizioni quei buoni propositi potranno realizzarsi? Renzi ci ha raccontato che l’Europa vuole riforme in cambio di flessibilità. Ma quali? Le riforme che interessano all’Europa non sono quelle in cui il governo fa il più forte investimento politico, come il senato non elettivo. Un suggerimento. La Commissione europea, nel Rapporto anticorruzione del 3 febbraio 2014, chiede con forza all’Italia politiche di contrasto più efficaci. Secondo stime autorevoli, la corruzione costa al nostro paese 60 miliardi all’anno. Se adottassimo le politiche chieste dall’Europa, ridurremmo sostanzialmente i nostri problemi di finanza pubblica e di rientro dal debito. Lo sappiamo noi, e lo sanno i falchi europei. È forse peregrina l’ipotesi che a una richiesta di sostegno potremmo sentirci domani rispondere di ripulire prima casa nostra? Nella strategia riformatrice del governo la lotta alla corruzione è invece un punto di debolezza, per molteplici motivi. Anzitutto, il contesto generale. In Francia, il governo stronca le polemiche su Sarkozy, al momento solo indagato per corruzione, affermando che davanti ai giudici è un cittadino come tutti gli altri. Mentre in Italia Berlusconi, condannato, è stato velocemente riclassificato come padre della patria e consacrato come perno irrinunciabile della strategia governativa di riforme epocali. Si può dubitare che il governo voglia o possa davvero condurre una lotta senza quartiere alla corruzione, se l’ultimo mantra della politica italiana è che il patto del Nazareno tiene. Una giustizia efficiente è la chiave per una repressione efficace della corruzione. Proprio su insistenza di Berlusconi, anche la giustizia entra nel pacchetto riforme. Il governo non presenta una proposta, ma adotta 12 linee-guida su cui apre una consultazione popolare. È già questo è singolare. Ma ancor più contano i dubbi sul contenuto. Alcuni punti sono mere ovvietà. Così è per la riduzione dei tempi, la digitalizzazione, la riqualificazione del personale. La domanda vera è dove, come e quando trovare i quattrini. Altri punti sono discutibili. Ad esempio, come conciliare il concetto di una corsia preferenziale per categorie - famiglie e imprese, secondo le linee-guida - con il principio della parità verso la giurisdizione, che la Corte costituzionale definisce un pilastro fondamentale dello stato di diritto? Non è il tempo della giustizia elemento essenziale di quella parità? Preoccupa, poi, l’ambiguità sugli obiettivi ultimi del governo per alcuni punti nodali, come i reati finanziari, la prescrizione, le intercettazioni, la responsabilità, la carriera e l’associazionismo dei magistrati. E soprattutto preoccupa la mancanza di qualsiasi riferimento all’autonomia e indipendenza dei giudici e al rapporto tra politica e giustizia. Quanto alla prevenzione, strumento primario della lotta alla corruzione, il d.l. 24 giugno 2014, n. 90 è debole. Nessuno rimpiange la soppressa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, di comprovata inefficienza e altissimo costo. Ma il problema non si risolve con la nuova Autorità, con a capo Cantone, né con poteri speciali. Nessuna autorità centrale potrà mai essere risolutiva nel prevenire la corruzione. Potrà al più intervenire ex post su un numero limitato di casi, laddove il problema sia emerso, e a danno già prodotto. Invece, la chiave è prevenire giorno per giorno, nell’ordinario, stimolando l’adozione di best practices e di controlli interni ed esterni efficaci in ogni amministrazione pubblica, in ogni ufficio, in ogni stanza, e aprendo a piena conoscenza e visibilità atti, procedimenti, delibere. Da questo punto di vista il d.l. 90 nasce vecchio, un lifting su cessazione dal servizio, mobilità, permessi sindacali, società partecipate, contenimento della spesa e poco altro. Ma di idee per uscire dalla palude non c’è traccia. Le riforme per contrastare la corruzione non sono in vista. Arriva invece una controriforma, con l’estensione ai senatori di seconda scelta del nuovo senato della autorizzazione ex art. 68 Cost. per arresti, perquisizioni e intercettazioni. L’effetto ultimo è scoraggiare il controllo giudiziario su pezzi di ceto politico che le cronache mostrano permeabili a fenomeni corruttivi, e che hanno poteri di gestione politico-amministrativa, o sono contigui ad essa. Per la stessa Commissione europea in tutti i paesi il livello locale è il più permeabile a fenomeni corruttivi. Basterebbe tornare al senato elettivo, altrimenti forse è il momento di limitare per tutti i parlamentari l’autorizzazione ex art 68 Cost. vigente al solo arresto, che modifica la composizione dell’assemblea e può incidere sugli equilibri politici. Può darsi che il potere logori chi non ce l’ha. Ma di sicuro corrompe chi ce l’ha. Giustizia: le prime terrificanti riforme… di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2014 Il problema è sempre lo stesso, non ci sono carceri. Così il duo Renzi-Orlando, al pari dei predecessori, cerca soluzioni demenziali. Il Governo ha dato una prima dimostrazione delle sue capacità di riformare la Giustizia: terrificante. Art. 8 Dl 92/2014: niente carcerazione preventiva se il giudice ritiene che la pena definitiva non supererà i 3 anni. Nel 90% dei casi è così. Ovviamente, è un’idiozia: e se si tratta di un soggetto pericoloso? Se inquina le prove? Se scappa? Se è uno che perseguita moglie, marito, fidanzata/o, collega di lavoro (si chiama stalking)? Che facciamo? Stiamo a guardare e gli diciamo che non sta bene? Ma poi: la carcerazione preventiva è quella che si sconta fino alla sentenza definitiva, in genere fino a quella di Cassazione. Sicché capiterà che un imputato sia condannato in primo grado a 3 anni e mezzo. È un soggetto pericoloso, lo hanno arrestato e processato prima possibile, diciamo in 7/8 mesi. 3 anni e mezzo, bene, li sconterà. Invece no: bisogna sottrarre i 7 mesi già passati in prigione. Restano 2 anni e 11 mesi. Scarcerato subito, non può restare in carcerazione preventiva (la sentenza è solo di primo grado): pena inferiore a 3 anni. Fantastico. Ma c’è di peggio. Art. 656 del codice di procedura: al momento della sentenza definitiva, un condannato (anche per pena inferiore a 3 anni), se detenuto in carcerazione preventiva, comincia scontare la pena che gli resta. Potrà fare istanza per arresti domiciliari o affidamento in prova ma, intanto, resta in galera; e, se pericoloso, l’istanza potrebbe essere respinta. Ma se invece è a piede libero; e per lo più lo sarà perché la nuova legge vieta la carcerazione preventiva per pene inferiori a 3 anni; allora attenderà in totale libertà che il giudice si pronunci sulla sua istanza di arresti domiciliari. Intanto potrà commettere altri reati ai quali si applicheranno le fantastiche nuove regole. Ma di che ci preoccupiamo, bisogna smetterla con la barbara soluzione della galera, occorrono misure alternative alla detenzione; appunto gli arresti domiciliari. E come no, basta un domicilio dove scontarli. Sicché chi ha un lavoro, una casa, una famiglia; insomma chi è una persona normale con una vita normale, ragionevolmente un po’ meno pericoloso di chi non ha casa e vive di espedienti; lui finirà agli arresti domiciliari; e quello senza fissa dimora no, perché un domicilio dove scontarli non ce l’ha. Allora, prigione? Macché, pena inferiore a 3 anni, non si può. Va bene, però c’è il braccialetto elettronico! Beh, veramente c’era. Adesso non c’è più: sono finiti. La convenzione stipulata con Telecom prevedeva la fornitura di 2.000 braccialetti. Ad aprile Telecom ha scritto al Ministero degli Interni: occhio, ne sono stati utilizzati X; se il trend è questo, a luglio saranno finiti. Una voce nel deserto. Così qualche giorno fa il Capo della Polizia ha scritto al Ministro della Giustizia: i braccialetti sono finiti, ce ne saranno altri non prima del 2015. O li mandate agli arresti domiciliari o li mettete in libertà. Ma è terribile! E poi, perché fino al 2015, non basta ordinare a Telecom altri X mila braccialetti? Eh no, ci va la gara europea. Riassumendo. Non ci sono carceri: questa è la ragione di tutte queste leggi demenziali. Monti-Severino, Letta-Cancellieri e Renzi-Orlando hanno risolto il problema a modo loro: i delinquenti non possono essere arrestati; e, se sono già dentro, bisogna metterli fuori. La legalizzazione dell’illegalità. Di costruire qualche carcere in più non se ne parla? Giustizia: l’allarme del procuratore Padalino "non possiamo più arrestare ladri e spacciatori" di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2014 Per risolvere il problema delle carceri sovraffollate e per non pagare la multa dell’Ue si fa un pasticcio, con buona pace della sicurezza dei cittadini. È questo l’allarme lanciato da molti dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 92 del 26 giugno scorso che modifica le norme sugli arresti, vanificando il lavoro delle forze dell’ordine e dei magistrati: "Stanno uscendo dal carcere decine di ladri, piccoli rapinatori, spacciatori che hanno una pena da scontare sotto i 3 anni -spiega il sostituto procuratore di Torino Andrea Padalino. In tre giorni ho dovuto valutare 20 casi". Dottore, cosa prevede questo decreto? Modifica il comma 2-bis dell’articolo 275 del codice di procedura penale. Ora non è più possibile tenere in carcere una persona che ha commesso un reato, anche arrestata in flagranza, se il giudice prevede che, all’esito del processo, la pena da eseguire possa essere sotto i tre anni. Cosa comporta? Si restringe la possibilità di applicare la custodia cautelare in carcere per tutta una serie di reati da strada, come il furto, le rapine o lo spaccio. Mettiamo un ladro d’appartamento, nomade e senza fissa dimora, arrestato sul fatto: siccome per questo reato raramente si arriva a condanne sopra i tre anni il giudice non disporrà l’arresto in carcere e neanche i domiciliari, quindi rimarrà libero. Altri casi? Se un’altra persona senza fissa dimora commette una resistenza a pubblico ufficiale con delle lesioni, la condanna prevista non sarà sopra i tre anni e il giudice non convaliderà l’arresto. È anche vero che in questi casi si può fare un processo per direttissima, ma anche così il giudice potrebbe condannare a pene sotto i tre anni e i condannati rimarranno fuori. C’è poi un altro caso. Quale? Consideriamo un uomo che maltratta la moglie in casa. Se il pm chiede il suo arresto il giudice non lo concederà perché la pena potrà essere sotto i tre anni. Cosa succede? Non possiamo metterlo ai domiciliari nella stessa casa della moglie. A questo si aggiunge anche lo "svuota carceri" di maggio. Ha ridotto le pene e quindi ha permesso ai piccoli spacciatori di andare ai domiciliari, ma si tratta perlopiù di persone senza dimora e quindi restano liberi. Se invece andassero ai domiciliari sarà difficile fare i controlli? All’inizio della settimana a Barriera di Milano (periferia nord est di Torino, ndr) la stazione dei carabinieri doveva controllare circa 125 persone ai domiciliari, senza contare i condannati che scontano la pena a casa. Diventa impossibile controllarli tutti. Quali rischi si corrono? Bisognerà chiederlo ai cittadini: i costi di questa operazione potrebbero ricadere sulla collettività. La speranza è che il Parlamento, quando dovrà convertire il decreto in una legge, recepisca queste preoccupazioni. Giustizia: salta il piano svuota-carceri… sono finiti i braccialetti elettronici per i detenuti! di Paolo Comi Il Garantista, 4 luglio 2014 Non ci sono più i braccialetti elettronici e quindi i detenuti se ne restano in carcere. In quanti? Chi lo sa, forse un paio di migliaia, forse molti di più. E il sovraffollamento, quest’estate, cioè nel periodo peggiore per le carceri, potrebbe raggiungere punte da record. Un disastro, un vero disastro. Il tutto per colpa di una incredibile leggerezza del Ministero dell’Interno, alla quale, pare, nessuno riesce a trovare rimedio. Le cose stanno così: il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, Giovanni Melillo, ha scritto ai Procuratori delle Corti di appello di tutt’Italia pregandoli di estendere l’informazione a tutti i distretti giudiziari. Nella sua lettera Melillo spiega che la logica e la legge vorrebbero che fosse aumentato l’uso dei braccialetti elettronici al posto della detenzione in carcere, ma che purtroppo questi braccialetti non ci sono, come è spiegato in una lettera che a sua volta il ministero della Giustizia ha ricevuto dal capo della polizia Alessandro Pansa. E Melillo, nella lettera che allega a Pansa snocciola un po’ di cifre. Il ministero aveva a disposizione 2.000 braccialetti, ottenuti attraverso la convenzione con Telecom. Però poi è successo che il Consiglio di Stato ha cancellato la convenzione con Telecom, perché troppo costosa. Allora adesso, per avere nuovi braccialetti, bisogna fare una nuova convenzione. Ma i tempi della burocrazia non sono velocissimi e per fare questa nuova convenzione, e poi per costruire i braccialetti, ci vogliono alcuni mesi. Al 19 giugno, giorno nel quale è stata scritta la lettera di Pansa, i braccialetti utilizzati erano 1.600. Ne restavano 400 a disposizione. Ma Pansa dice che questi 400 bastano sì e no per giugno, e da luglio in poi non ci saranno più braccialetti. Se 400 braccialetti vengono distribuiti in poco più di 10 giorni, si può capire quanto sia l’ordine di grandezza dell’esigenza di braccialetti ogni mese. Pansa spiega che i nuovi braccialetti non potranno essere pronti prima di marzo-aprile. Da oggi a marzo-aprile (sempre che, come è probabile, Pansa non sia stato ottimista sui tempi) passano sette otto mesi, e ad occhio in sette otto mesi il bisogno di braccialetti potrebbe essere di sette otto mila. Uno sproposito. Ora toccherà ai magistrati decidere cosa fare, caso per caso. Il ministero non dà indicazioni. Il decreto svuota carceri prevede l’uso massiccio della detenzione a domicilio con l’uso del braccialetto. Questo sistema - che può piacere o invece non piacere, e a molti non piace: però è definito da una legge dello Stato - è stato studiato per garantire un uso nella detenzione più ridotto e contemporaneamente per rassicurare la comunità. I magistrati dovranno decidere chi lasciare comunque ai domiciliari, anche senza braccialetto, e chi invece spedire in carcere. La legge svuota carceri a questo punto è fallita, è diventata inutile. Di chi è la colpa di questo assurdo pasticcio? Soprattutto, come è chiaro dalla letture delle due lettere, la colpa è del ministero dell’Interno. E il ministro Orlando, con la sua lettera ai procuratori e ai presidenti delle Corte d’Appello, lo fa capire chiaramente. In particolare la colpa può essere attribuita al vecchio ministero dell’Interno, quello guidato, come ricordate, dalla Cancellieri. Che fece il guaio della convenzione miliardaria con Telecom. Ma anche del ministero del governo Letta (Alfano) che non ha provveduto in tempo a trovare un’altra soluzione per i braccialetti. Di chiunque sia la colpa, gli esiti di questo inquacchio possono essere tragici. Se di qui a marzo il numero dei detenuti dovesse crescere anche solo di qualche migliaio di unità, è chiaro che la situazione diventerebbe insostenibile. Con buona pace dell’Europa che qualche settimana fa si è fidata delle promesse italiane sulla normalizzazione delle carceri. Giustizia: c’è un appalto senza gara dietro lo scandalo dei braccialetti elettronici esauriti Il Secolo d’Italia, 4 luglio 2014 C’è una storia di un appalto senza gara affidato a Telecom dall’ex-ministro dell’Interno, Enzo Bianco (governi D’Alema e Amato) dietro l’ultimo scandalo che costringe il cittadino italiano, già terribilmente tartassato dal fisco e massacrato dalle spese quotidiane, a pagare un mucchio di soldi ogni anno, quasi 5 milioni di euro, all’ex-monopolista delle Telecomunicazioni per far funzionare 90 braccialetti elettronici applicati ad altrettanti detenuti. E, come se non bastasse, ora che Telecom si è messa di traverso, è tutto fermo. Con l’incredibile situazione che non si possono utilizzare queste cavigliere elettroniche fino a quando non si potrà fare una gara decente, visto che il precedente appalto a Telecom, fatto in affidamento diretto con una semplice convenzione e, appunto, senza gara, è finito sotto la lente dei magistrati del Consiglio di Stato e anche sotto osservazione degli colleghi della Corte Europea di Giustizia, alla quale Telecom si è appellata. Al momento, infatti, l’utilizzo del braccialetto elettronico - una semplicissima cavigliera che si applica al detenuto e che monitora, in tempo reale, attraverso il sistema Gps e un sistema di trasmissione dati in Gsm, in buona sostanza null’altro che un cellulare, gli spostamenti del recluso - è sospeso in attesa, appunto, che si pronunci la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui Telecom si è rivolta perché si è vista sospendere la convenzione in quanto non c’è stata una regolare gara. Nelle more della decisione, non si può fare, ovviamente, alcuna gara. E tutto resta così com’è, bloccato. Una vergognosa vicenda tutta italiana che inizia quando sull’onda emotiva - immaginate un po’ - di una riduzione dei costi per la collettività per mantenere in carceri detenuti, si è iniziato ad immaginare l’utilizzo di un aggeggio molto americano e tecnologico, il cosiddetto braccialetto elettronico. Un oggettivo che, oggi, con la tecnologia che ha invaso praticamente il quotidiano di ognuno di noi, potrebbe costare qualcosa come cento euro. E, infatti, il sistema Sistri, funziona con lo stesso identico concetto del braccialetto elettronico. E i "sensori" del Sistri costano, all’origine, circa 170 euro. Il braccialetto elettronico costa, invece, alla collettività, quasi sessantamila euro l’anno per ogni detenuto. Praticamente un alloggio a cinque stelle lusso sarebbe costato di meno. Fatto sta che nel 2001, quando si inizia a parlare di braccialetto elettronico, quindi 13 anni fa, Telecom si fa avanti e si propone di offrire il sistema - che, come abbiamo detto, funziona con lo stesso concetto di un cellulare, è tracciabile, geo-referenziabile e può inviare autonomamente a un server remoto i dati di localizzazione e gli allarmi nel momento in cui si supera il perimetro di una determinata area - ipotizzando non solo i braccialetti elettronici - ma dati in gestione, si badi bene, non venduti allo Stato - ma anche tutta la infrastruttura che, poi, altro non è che una sala controllo dove si alternano alcune persone (difficile immaginarne più di una ventina per un turno di otto ore, quindi 60 persone al massimo). Enzo Bianco che è ministro dell’Interno anziché fare una gara, affida in convenzione diretta la faccenda a Telecom. Siccome si parla di duemila braccialetti a regime - questo è l’auspicio - il costo del tutto per duemila detenuti sarebbe di 9 milioni di euro. Ma per ora sono stati utilizzati solo 90 braccialetti, con un costo, appunto, di circa 5 milioni di euro. Perché in sé i braccialetti costerebbero "poco" (si fa per dire), solo 2 milioni e 400.000 euro. All’anno, naturalmente. Perché Telecom, ovviamente, non intende assolutamente venderli ma solo noleggiarli. Lo Stato li affitta versando nella casse di Telecom 2 milioni e 400.000 euro ogni anno. Poi c’è il costo della cosiddetta Centrale, dove si trova il personale che controlla il sistema. Poi c’è l’infrastruttura. È un attimo, insomma, arrivare a 9 milioni di euro l’anno. La cosa, naturalmente, è talmente smaccata nella sua abnormità che qualcuno si è fatto saltare la mosca al naso. E ha deciso di troncare la Convenzione illegittima con Telecom prima che qualche magistrato - ma finora non se ne è visto uno - decidesse di buttare un occhio su questa assurdità. Telecom, ovviamente, non è rimasta con le mani in mano. L’ex-monopolista fatto ricorso al Tar. Che le ha dato torto. Allora si è rivolta al Consiglio di Stato e, poi, anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. I magistrati del Consiglio di Stato hanno così, subordinato la decorrenza dell’efficacia dell’annullamento del precedente contratto di gestione alla decisione dell’organismo. E, nell’attesa di una decisione, è tutto fermo. Chi ride è Telecom, che ha incassato, finora, milioni di euro dei cittadini ignari di contribuire, ognuno per la sua parte, a gonfiare le casse dell’ex-monopolista. Giustizia: gara "braccialetti elettronici", serve attendere sentenza Corte giustizia europea Adnkronos, 4 luglio 2014 "Nessuna colpevole inerzia può essere ricondotta al Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno per non aver avviato una nuova gara per l’affidamento del servizio del cosiddetto braccialetto elettronico". È lo stesso Dipartimento di Ps a ricordare che "a tutt’oggi, infatti, sussiste uno specifico ostacolo determinato dalla necessità di attendere una sentenza della Corte di Giustizia Europea, al cui pronunciamento il Consiglio di Stato ha subordinato la decorrenza dell’efficacia dell’annullamento del precedente contratto. Pertanto, al momento, qualsiasi iniziativa unilaterale dell’Amministrazione, volta ad una risoluzione anticipata, esporrebbe a possibili azioni di risarcimento danno". Una nuova gara per l’acquisizione di altri braccialetti elettronici "sulla stima di un calcolo effettuato anche con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria potrà essere quindi bandita solo dopo il pronunciamento della Corte di Giustizia". Sappe: la politica degli annunci naufraga nei fatti "La notizia che sarebbero finiti i braccialetti elettronici per il controllo dei detenuti ammessi ai domiciliari è palesemente in contraddizione con la politica degli annunci fatta dai vari Governi che si sono succeduti nel tempo. Dopo aver speso 110 milioni di euro in 10 anni per pochissimi braccialetti, oggi che ne servirebbero siamo, al contrario, senza soldi per acquistarne. E le carceri restano piene di persone che invece potrebbero da subito scontare la pena sul territorio. Il dramma di questo Paese è che nessuno mai paga per questi sprechi e per questi errori. E le emergenze e le tensioni nelle carceri persistono, come sanno bene le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che con esse convivono tutti i giorni, 24 ore al giorno". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando alcuni articoli di stampa odierni. Cisl: su braccialetti nuovo episodio grottesco (Asca) "Sul tema dell’emergenza carceri le difficoltà non sono mai superate completamente". Lo dichiara in una nota il Segretario Generale della Fns Cisl, Pompeo Mannone. "Infatti se da un lato registriamo piccoli passi in avanti, un attimo dopo scopriamo che se ne fanno anche altrettanti indietro: è, infatti, di attualità la notizia che l’utilizzo e quindi la conseguente disponibilità dei braccialetti elettronici, indossati da quei detenuti che ottengono la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, rischia di non essere più utilizzabile dalla Magistratura. Il rischio deriva dall’esiguo numero dei braccialetti disponibili - appena 2000 - che non consentono di rispondere alla forte domanda proveniente dalle magistrature incaricate. Pare che una eventuale nuova gara d’appalto, utile ad acquisire ulteriori "braccialetti" non potrà essere fatta se non a partire dal 2015. Insomma dopo che per anni si sono tenuti quei 2000 braccialetti ad invecchiare in magazzino adesso, dopo adeguamenti normativi che hanno portato la Magistratura a favorirne l’uso, rischiamo di fermare ancora una volta questo nuovo sistema di controllo. La prima e diretta conseguenza di questo ennesimo grottesco episodio all’italiana, almeno per quanto riguarda la gestione, le spese e il dimenticato utilizzo di questo mezzo di sorveglianza, sarà che le persone poste agli arresti domiciliari dai magistrati incaricati non saranno più monitorate elettronicamente, ma questo controllo ricadrà solo sugli appartenenti alle forze dell’ordine, già di per se impegnate con altri gravosissimi compiti e con i loro insufficienti organici. Tutto questo sperando che a qualcuno non torni la voglia di disporre solo custodia in carcere, riaffollando nuovamente gli Istituti che ancora restano con più detenuti dei posti previsti. Giustizia: interrogazione di Roberto Giachetti (Pd) sulla "liberazione speciale integrativa" www.camera.it, 4 luglio 2014 Al Ministro della giustizia. Per sapere, premesso che: la Segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini ha ricevuto una lettera a lei rivolta da alcuni studenti di giurisprudenza iscritti all’Università La Sapienza e detenuti nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, appartenenti al "Gruppo universitario libertà di studiare"; nella lettera si fa presente che la legge n. 10 del 2014, che ha convertito il decreto-legge 146 del 2013, sta causando "enormi disparità di trattamento e diseguaglianze disastrose". Ogni magistrato di sorveglianza ad avviso degli studenti sta dando una sua personale interpretazione all’interno dello stesso Tribunale"; la questione sollevata riguarda il fatto se debbano essere concessi, i giorni di liberazione speciale anche a quei detenuti condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario che avevano fatto richiesta durante la vigenza del decreto-legge 146 del 2013, prima che legge di conversione n. 10 del 2014 li escludesse dal beneficio; moltissimi autorevoli costituzionalisti si legge nella lettera indirizzata all’onorevole Bernardini sostengono che gli effetti di chi ha fatto la richiesta mentre il decreto-legge era in vigore debbano essere fatti salvi, e che la legge si applica dal momento in cui è approvata e vale da quel momento in avanti; in effetti, accade che alcuni magistrati diano questa interpretazione in ossequio alla legge n. 400 del 1988 (articolo 15) e concedano i giorni di liberazione speciale integrativa (30 in più ogni semestre) a tutti coloro che ne abbiano fatto domanda prima della pubblicazione della legge di conversione n. 10 del 21 febbraio 2014. Altri magistrati, invece, sostengono che la legge travolge gli effetti del decreto-legge; se alcuni magistrati di sorveglianza non fossero stati lenti, osservano gli studenti del "Gruppo universitario libertà di studiare", avrebbero avuto la possibilità di espletare per intero il loro lavoro entro i 60 giorni, cosa che del resto alcuni magistrati hanno fatto; la situazione descritta crea, ad avviso degli autori della missiva, situazioni paradossali; capita infatti che, nella stessa cella, detenuti con reati gravi abbiano avuto gli arretrati dei giorni di deliberazione anticipata speciale "perché hanno avuto la fortuna di avere come magistrato di sorveglianza chi interpreta che gli effetti del decreto siano fatti salvi", mentre detenuti con reati meno gravi si siano visti negare i giorni perché la sorte li ha assegnati a magistrati di sorveglianza che interpretano che gli effetti del decreto siano travolti dalla legge di conversione successivamente approvata: quale chiarimento intenda fornire sull’interpretazione del decreto riguardo ai detenuti, condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis citato che hanno presentato richiesta di accesso alla liberazione anticipata speciale nei 60 giorni di vigenza del decreto-legge 146 del 2013; se intenda dare informazioni sul numero dei detenuti che finora hanno avuto accesso alla liberazione anticipata speciale, su quante siano fino a questo momento le domande presentate e su quali siano i tempi medi di definizione delle stesse; se intenda assumere iniziative per rivedere, in considerazione delle finalità del provvedimento, l’esclusione discriminatoria dalla liberazione anticipata speciale dei detenuti condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Giustizia: Cassazione; per i detenuti al "41-bis" è possibile il colloquio con i minori senza vetro www.diritto.it, 4 luglio 2014 Tuttavia, specifica la Cassazione nella sentenza n. 28250 del 1 luglio 2014, il colloquio deve svolgersi in assenza di altri familiari. Infatti, se, da un lato, anche in omaggio ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le esigenze del detenuto devono essere rispettate, compresa quella di mantenere le proprie relazioni coi parenti, dall’altro lato si impone anche la salvaguardia delle esigenze di sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, evitando forme di contatto che possano importare passaggi di oggetti o messaggi all’esterno. La normativa sul punto (art. 41 bis, comma 2-quater, legge sull’ordinamento penitenziario), nella parte in cui regola le modalità dei colloqui con i familiari, prevede che il detenuto sottoposto allo speciale regime di sorveglianza possa usufruire di un colloquio al mese "da svolgersi a intervalli di tempo regolari e in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti". Prevede, inoltre, che i colloqui vengano sottoposti a controllo e a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente. L’amministrazione penitenziaria prevede inoltre che i parenti stretti possano, negli ultimi dieci minuti del colloquio, avere un incontro diretto col detenuto, senza la barriera del vetro divisorio, mantenendo però la precauzione della registrazione del colloquio e impedendo agli altri familiari di partecipare a questa fase finale del colloquio. Nel caso di specie, la decisione del magistrato di sorveglianza aveva previsto la disapplicazione immediata delle circolari vigenti in materia laddove prevedeva l’allontanamento dei familiari durante il colloquio senza vetro divisorio tra detenuto e figlio (minore di dodici anni). Il magistrato sosteneva che l’esclusione fosse una misura sproporzionata. Il Ministero della Giustizia ricorreva contro la decisione; la Cassazione ha accolto il ricorso, assumendo che non v’è alcuna violazione dei diritti del detenuto, previsti anche a livello internazionale, nel far rispettare la prescrizione poste a sicurezza degli istituti penitenziari. Per cui il colloquio senza vetro è possibile, con le limitazione già elencate, solo se non vi partecipano altri familiari. Giustizia: Michele Ferrulli morì durante il fermo, assolti i quattro poliziotti accusati di omicidio La Stampa, 4 luglio 2014 Il verdetto della Corte d’Assise di Milano sul caso di Ferrulli, deceduto nel giugno 2011 mentre gli agenti lo ammanettavano. Il pm Ruta aveva chiesto per gli imputati sette anni di reclusione. "Il fatto non sussiste". Con questa formula sono stati assolti dalla Corte d’Assise di Milano i quattro poliziotti che erano imputati di omicidio preterintenzionale per la morte di Michele Ferrulli, il manovale e facchino di 51 anni deceduto per arresto cardiaco tre anni fa mentre gli agenti lo stavano ammanettando a terra. Per loro la Procura aveva chiesto 7 anni di carcere, anche sulla base di una perizia su alcuni video di testimoni che quella sera avevano ripreso la scena, ma i giudici li hanno prosciolti, dopo un processo complicato durato più di un anno e mezzo, non ravvisando a carico loro alcuna responsabilità, nemmeno di tipo colposo. In sostanza, la Corte ha stabilito (le motivazioni saranno note tra 90 giorni) che quella sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante "Monforte Bis", che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell’ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza, senza picchiarlo. Stando alla perizia medica, l’uomo, che quella sera si trovava vicino ad un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell’arresto, da una "tempesta emotiva" che provocò l’arresto cardiaco. Secondo il pm di Milano Gaetano Ruta, però, i quattro agenti lo avrebbero "percosso" nel corso della "colluttazione" con una "violenza gratuita e non giustificabile" che ebbe come conseguenza, non voluta, la morte. Da qui l’accusa di omicidio preterintenzionale (tra l’altro, formulata dal gup in fase di udienza preliminare e che sostituì quella di omicidio colposo contestata dal pm) che tuttavia non ha retto di fronte ai giudici togati (presidente del collegio Guido Piffer) e alla giuria popolare. "Oggi non ho perso solo io, ma ha perso l’Italia". Con queste parole Domenica Ferrulli, la figlia di Michele, ha commentato la sentenza, dopo essere scoppiata a piangere alla lettura del dispositivo, abbracciata da Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, morto nel giugno del 2008 in ospedale dopo essere stato portato alla caserma dei carabinieri a Varese. "È inammissibile - ha detto Domenica Ferrulli - che si siano fatti anni di processo per arrivare a dire che i quattro agenti sono innocenti. Non ho più fiducia nella giustizia italiana, ma continuerò a lottare per la verità". È possibile, infatti, che la Procura ricorra in appello. "È un momento difficile, ma attendiamo le motivazioni per capire - ha spiegato l’avvocato Fabio Anselmo, difensore di parte civile e legale anche nei casi Cucchi, Aldrovandi e Uva - La nostra tesi era in linea con quella della Procura e comunque resta il profondo rispetto per i giudici". I difensori dei quattro agenti, invece, hanno spiegato che "i nostri assistiti sono soddisfatti, ma non sorpresi perché sanno di aver agito correttamente". Nel corso dell’arringa l’avvocato Paolo Siniscalchi aveva sostenuto che Ferrulli quella sera "era una minaccia ed ebbe una reazione rabbiosa nei confronti degli agenti". L’uomo, sempre secondo il difensore, "diede una spallata e fece resistenza", tanto che la centrale operativa inviò altre volanti. E l’altro legale, l’avvocato Massimo Pellicciotta, ha fatto presente che già in altre occasioni Ferrulli si era scagliato contro le forze dell’ordine e aveva opposto resistenza: "Si scatenava ogni volta che vedeva una divisa, per lui la divisa era come un panno rosso per un toro". Dopo la sentenza il difensore ha chiarito che questo verdetto "di piena assoluzione è un esempio, perché dimostra la validità del detto "male non fare paura non avere": i poliziotti non devono avere paura se si comportano bene". Giustizia: la figlia di Ferulli "è l’ultima manganellata… in Italia c’è licenza di uccidere" La Repubblica, 4 luglio 2014 "La sentenza è stata come un’altra manganellata. Significa che in Italia tutto è permesso: c’è licenza di uccidere". È in lacrime Domenica, la figlia 29enne di Michele Ferrulli, dopo la sentenza che ha assolto i poliziotti. Cosa ha pensato in quel momento? "È stato inaspettato, come un’altra manganellata. Dopo tre anni di processi e perizie favorevoli, con le versioni degli imputati continuamente cambiate, i video che mostrano papà picchiato, che supplica aiuto. Era molto eloquente". Perché questa decisione? "Non lo capirò mai. È una sentenza atroce, che lascia sola non solo me, ma l’Italia intera, perché tutti abbiamo perso". Come giudica il processo? "Ero fiduciosa che sarebbero stati giudicati i fatti. Mi è stato detto che la legge non è uguale per tutti, ma questo processo mi faceva sperare, pensavo che qualcosa poteva cambiare. Non è stato così". Cosa farete adesso? "Non ci fermeremo. Oggi hanno ucciso me, e mio padre due volte". Lei ha trovato il video da cui sono partite le indagini. "Non è bastato né il video, né la voce di mio padre. Sentire "il fatto non sussiste" è stato atroce". Cosa pensi dei poliziotti? "Che ora c’è licenza di uccidere. Tutto è concesso". I loro avvocati hanno definito Michele "un violento". "L’unica violenza che ho visto è stata su mio padre, sul suo corpo inerme". Giustizia: così in carcere "hanno suicidato" Niki… un caso da riaprire Il Garantista, 4 luglio 2014 Sono sei anni che chiedo venga riconosciuta e ristabilita la verità "vera" sulla morte di mio figlio Niki. Sei anni di parole inascoltate, menzogne e di perché senza una risposta. Racconto i fatti, perché capisco che a chi legge interessino quelli più del legame tra una madre e suo figlio che va oltre la morte, una morte così innaturale. Ecco dunque i fatti. Nel 2008 Niki ha solo 26 anni e da oltre un anno lavora a San Marino come esperto informatico presso una società. Un lavoro che gli piace, gli dà soddisfazione, nel suo campo infatti è considerato un genio. Tutto insomma sembra andar bene, fino al 19 giugno, quando uno tsunami si abbatte sulla sua vita e sulla nostra famiglia. Quel giorno Niky viene arrestato insieme ad altre persone nell’ambito dell’inchiesta sulle truffe telefoniche del numero 899. L’ipotesi di reato è: truffa informatica. Viene condotto al carcere fiorentino di Sollicciano, ma io verrò a saperlo 24 ore dopo. Prima infatti mi dicono che si trovi in questura, poi nel carcere di Rimini, infine mi dicono che deve essere interrogato dai magistrati fiorentini. Notizie che raccolgo da sola, non ricevo infatti alcuna comunicazione ufficiale. A Niki non viene concessa la telefonata di rito alla famiglia e vengo a sapere del suo arresto da estranei. Chiedo di poter parlare con lui, ma l’avvocato aziendale mi spiega che si trova in regime di isolamento e quindi non gli è consentito parlare con chicchessia. Solo dopo apprendo che, essendo Niky incensurato, si sarebbe dovuto applicare il protocollo di "primo ingresso in carcere", secondo il quale chi proviene dalla libertà ed entra in carcere per la prima volta ha diritto che vengano agevolate le comunicazioni con la famiglia. Il mio Niki invece nei cinque giorni trascorsi in cella ha avuto zero contatti con noi familiari. Il 20 giugno gli viene consegnato un telegramma in cui risulta essere mittente e destinatario, sul telegramma c’è scritto: "Devi nominare dottoressa *** del foro di Bologna, studio ***". Il 23 giugno si svolge l’interrogatorio di garanzia. Lo portano in manette al tribunale di Firenze, ed è lì che riesco a incrociare per un attimo i suoi occhi. Appena un attimo, prima che qualcuno gli giri la testa costringendolo a guardare altrove. Ma cosa aveva mai fatto, mio figlio, per essere trattato con tanta durezza? A me viene intimato di allontanarmi dal blindato: almeno 20 metri di distanza, pena l’arresto. Delle diciassette persone arrestate in questa inchiesta, tutti si avvalgono della facoltà di non rispondere tranne Niki, che invece vuole parlare con i magistrati. Vuole chiarire la sua posizione, così risponde alle domande. Il 24 giugno lo trovano morto, in cella, con un laccio delle sue scarpe intorno al collo. "Suicidio", sentenziano. E archiviano. Archiviano per ben due volte. Potrei dire che Niki non si sarebbe mai suicidato. Che amava vivere, che credeva nella Giustizia e la rispettava. Che la sua breve, splendida vita è stata contrassegnata dalla bontà, dalla passione per il lavoro, dalla correttezza etica e civile. Potrei dire che Niki aveva alle spalle una famiglia solida, che l’amava immensamente e che lui amava. Ma io sono sua madre. Fiera di esserlo prima e anche adesso. Una mamma che avrebbe voluto lavare piatti, preparare colazioni e mai porsi domande come queste. Perché viene portato a Sollicciano, mentre le altre persone arrestate si trovavano a Rimini? Perché gli vengono di fatto negati i contatti con la famiglia? Perché si sarebbe dovuto suicidare, visto che anche la relazione psichiatrica lo descrive come persona strutturata che ha retto bene l’impatto col carcere? E visto che, come gli aveva spiegato uno degli agenti di custodia, l’indomani avrebbero deciso se confermare l’arresto, concedergli i domiciliari o rimetterlo in libertà? Perché non hanno voluto svolgere gli esami tossicologici, nonostante lo avessi richiesto in quanto Niki non fumava, non beveva, né si drogava? Perché alla Procura di Firenze si smarrisce la pratica di opposizione all’archiviazione? Perché gli è stato consegnato un telegramma, visto che il regime carcerario a cui era sottoposto non lo consente, e perché nessuno si è accorto che di quel telegramma Niki era insieme mittente e destinatario? Perché, vista l’ipotesi di reato, non gli sono stati sequestrati i computer, computer che invece sono stati portati via insieme a tutto il resto da chi ha svaligiato il suo appartamento? E non è strano che anche l’azienda dove lavorava ha subìto un furto tale da risultare "priva di ogni bene" alla data del 18 giugno? Perché non si è indagato quando ho inviato ai magistrati il messaggio anonimo ricevuto su un blog in cui si leggeva: "So molto di più sul suicidio/omicidio di Niki Gatti, ma poiché sono coinvolto non posso parlare"? E perché a Niki all’ingresso in carcere sono stati lasciati i lacci delle scarpe, mentre altri oggetti con cui avrebbe potuto fare o farsi del male sono stati trattenuti? Non è forse vero che i lacci non si lasciano nemmeno nelle carceri "normali"? Perché Niki adesso è sottoterra e gli altri indagati continuano a fare grandi affari? Questi sono dati oggettivi, non dettati dal dolore e dall’amore di una mamma. E da mamma dico che giustizia Niki non ne potrà mai avere, perché nessuno gli restituirà la vita. Io però ho il dovere di usare ogni mezzo a mia disposizione perché la sua memoria sia legata alla verità. Come scrisse Niki in un tema a scuola, "in una vicenda bisogna saper raccogliere tutti gli aspetti, in modo che la verità ci venga mostrata". Ho appreso dai giornali che c’è stata la prima udienza del processo, dopo sei anni. Spero che qualcuno faccia riaprire il caso del "suicidio" di Niki. Per seguire sviluppi e approfondimenti sulla vicenda, il punto di riferimento è nikiaprilegatti.com Lettere: le carceri e la comunicazione che disinforma di Maria Giovanna Medau* Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2014 Ci avevano detto, poche settimane fa, che l’Ue aveva apprezzato gli sforzi fatti dall’Italia per rendere più vivibili le carceri, abbiamo assistito ai numerosi trasferimenti dei detenuti che avevano modificato il numero delle presenze nei singoli istituti, abbiamo preso atto, con la sentenza della Cassazione, che la legge Fini Giovanardi era illegittima e ci apprestavamo a gioire in attesa del pacchetto giustizia, quando, come un fulmine a ciel sereno il carcere è tornato alla ribalta della cronaca. Due morti suicidi, un tentativo di suicidio sventato e l’Italia condannata per i pestaggi nel carcere San Sebastiano di Sassari, avvenuti nell’aprile del 2000. Non solo lo Stato dovrà risarcire il detenuto vittima delle violenze, ma lo stesso nostro sistema giudiziario viene chiamato in causa perché considerate troppo leggere "le pene comminate agli agenti autori di quelle violenze". Non ci consola pensare che questa condanna è il risultato delle battaglie per chiedere l’introduzione, anche nel nostro sistema, (buoni ultimi in Europa) del reato di tortura e trattamenti inumani. Ci preoccupa, invece, leggere nella stampa sarda, a firma di un dirigente dell’area educativa del Ministero della Giustizia, in una prosa forbita, oserei dire aulica, ma che Giorgio Bocca avrebbe definito "ermetica", perché dice tutto e il contrario di tutto, che dobbiamo imparare la lezione dell’Europa e da lì partire, ma non dimenticare che tutti, cittadini e operatori, siamo responsabili(!) perché vogliamo rispondere a qualsiasi reato col carcere e abbiamo ammassato la gente nonostante gli istituti penitenziari potessero contenere solo un certo numero di detenuti". E' la filosofia del tutti responsabili, nessun responsabile. Ma per onestà intellettuale va ricordato che "non tutti sono passati nelle strettoie del silenzio "che associazioni, politici non asserviti, semplici cittadini, operatori penitenziari, gli stessi sindacati della polizia penitenziaria, hanno, da anni, denunciato i problemi che oggi sono esplosi, che uomini delle istituzioni, che sapevano, hanno taciuto la reale situazione delle nostre carceri, che onesti funzionari avevano fatto proposte non onerose per i contribuenti, con un piano di ristrutturazione di vecchi istituti, certamente "più umani", nelle dimensioni, dei mega istituti "all’americana" lontani dai centri abitati e da occhi indiscreti , ma essi sono stati o allontanati o ignorati, preferendo i progetti delle "nuove carceri" più utili agli affari di una certa politica. Il nostro è diventato il Paese degli uomini per tutte le stagioni. Si esaltano progetti quali l’apertura delle celle, che più che avvicinarsi all’articolo 27 della Costituzione, il "carcere serve a ri-educare il reo" ci fa pensare, usando una metafora scolastica, ad una infinita ricreazione, è come se nella scuola per non lasciare "chiusi in aula gli studenti, perché non ci sono laboratori per tutti, si lasciassero gli alunni in cortile. La socializzazione fine a se stessa non serve. Ci si dimentica che la maggioranza dei detenuti così detti comuni, quelli delle porte girevoli, ha conseguito appena la licenza media, spesso ottenuta in carcere, e non ha acquisito alcuna professionalità, non padroneggia la lingua italiana, non legge i quotidiani, guarda la tv generalista, ha svolto lavori saltuari, scarsamente retribuiti e raramente assicurati, proviene da famiglie problematiche e quando uscirà dal carcere si troverà al punto di partenza, perché lo Stato si occupa di detenuti non di ex detenuti. La detenzione è puro ozio e ricreazione, talvolta, per la maggior parte dei detenuti. Ecco se non guardiamo in faccia questa realtà, che è la realtà del 137% del debito pubblico, delle tasse reali al 54%, dei pensionati, a parità di reddito, tartassati quattro volte più dei francesi e più degli stessi lavoratori attivi, con la disoccupazione giovanile che sfiora in alcune zone del sud il 44%, non capiamo che tutto questo pesa, anche, sulla riforma delle carceri. Non si capisce come e perché il Paese dovrebbe reagire e fare uno sforzo per uscire da questo tunnel. Nell’era della comunicazione, la politica e molta stampa allineata, disinforma anziché informare, parla come gli slogan pubblicitari, descrive le meraviglie del prodotto prima di immetterlo sul mercato e quando, immancabilmente lo si compra e lo si prova ci accorgiamo che quasi niente di quanto promesso è vero. E' successo per il pacchetto giustizia, tanta enfasi, tanta attesa e ancora nulla di fatto. Ai giovani parlamentari ricordo, se non l’avessero letto nei libri di storia preparando l’esame di maturità, che le leggi più avanzate del nostro paese, quelle che ci avvicinarono ai paesi democratici d’Europa e ai dettami costituzionali, tra queste il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la tutela della maternità, la scuola media unificata, per citarne alcune, e la stessa legge dell’ordinamento penitenziario, furono approvate in un Paese lacerato dal conflitto di classe, dal terrorismo di destra di matrice fascista e di sinistra di matrice marxista, e non a caso tra i primi a cadere sotto il fuoco delle Br furono il professor Paolella tra i padri della legge 354 e agenti di custodia, perché i terroristi non volevano il cambiamento. Quel professor Paolella, va ricordato, ideatore del trattamento individualizzato dei detenuti (oggi in crisi), da fare anche con l’ausilio di esperti preposti per individuare, attraverso l’osservazione scientifica della personalità, le cause della devianza e, rimuoverle, se possibile, anche con le misure alternative alla detenzione, il lavoro, il sostegno. Diciamo questo perché il confronto fra diversità, quando c’è la volontà politica di cambiare, è vincente, ma il confronto fra alleanze spurie, ideologicamente non chiare nella loro visione della società, porta all’immobilismo dei veti incrociati. L’Italia di oggi ha perso il coraggio della chiarezza degli anni del dopoguerra e ha acquisito quel linguaggio criptico, tanto criticato dall’antitaliano Giorgio Bocca. Un nuovo ermetismo, oggi, tocca la politica, l’economia, la stampa, tutto viene annunciato, descritto per punti, come le slide di un power point, ma mai attuato. Ma noi crediamo ai sogni che ci fanno ben sperare per il futuro dei nostri figli: l’Europa. Ieri è iniziato ufficialmente il semestre italiano, i politici appena un mese fa ci hanno detto più Europa per tutti, speriamo pensassero più Costituzione e diritti per tutti e allora perché, semplicemente, non partire da qui. Cosa nel nostro sistema penitenziario e giudiziario ci allontana dall’Europa? Correggiamolo è così difficile per le commissioni di Camera e Senato? Non facciamo pagare le multe ai contribuenti onesti, ancora loro, per le inefficienze di una politica e di uno Stato che si auto assolve, attribuendo ad altro da sé la responsabilità. Lo stesso discorso si può estendere ad altri settori e per favore, quando siamo più avanti dell’Europa, non cambiamo ciò che abbiamo fatto bene e prima degli altri, ci apprezzeranno tutti e allora sì che l’Italia, europeista da sempre, come dimostrano i nostri giovani che studiano e lavorano fuori dal paese, potrà, per sei mesi almeno, essere una guida e poi chissà. *psicologa-psicoterapeuta ex-esperto in criminologia clinica per 36 anni nella casa Circondariale di Cagliari Emilia Romagna: detenuti ma "cittadini sempre"... una task force per il reinserimento di Tiziana Pisati Corriere della Sera, 4 luglio 2014 Una task force di 50 associazioni di volontariato schierate dalla Regione Emilia Romagna per fare fronte comune, fuori e dentro le carceri, allo scopo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, sia sostenendoli con percorsi formativi finalizzati ad un effettivo reinserimento lavorativo e sociale, sia incidendo sul territorio perché sia pronto, culturalmente e con attività concrete, ad accoglierli una volta riabilitati. Succede da Piacenza a Rimini con il progetto pluriennale "Cittadini sempre", che parte da un presupposto: non si può più prescindere dal coinvolgimento del territorio. Il tentativo è quello di fare squadra con un percorso di formazione comune per volontari, agenti, formatori, psicologi del carcere, oltre che mettere in piedi un sistema d’informazione diffusa sulle opportunità presenti sul territorio, condivisione delle azioni e protocolli d’intesa che inglobino tutti i soggetti chiamati ad operare in area penale: carcere, istituzioni locali, servizi sociosanitari e Terzo Settore. Primo passo compiuto: la mappatura delle realtà e attività che gruppi di cittadini e volontari mettono in campo al fianco dei detenuti, anche con l’intento di potenziarne l’operato in termini qualitativi e quantitativi). Passo successivo, già in corso, l’attuazione di 9 progetti, uno per ogni città, coordinati dai Csv del territorio (Centri Servizi per il volontariato). Allo sbocco occupazionale è riconosciuto un ruolo fondamentale per promuovere il reinserimento sociale e ridurre i rischi di recidiva. Così a Rimini si tenta, ad esempio, di incentivare la partecipazione delle aziende "come opportunità per coniugare creazione di valore e responsabilità sociale", a Piacenza si punta alla condivisione di un orientamento sulle opportunità di lavoro in rete, a Parma a laboratori di orticoltura. Tutti quanti prevedono di sensibilizzare la cittadinanza sui problemi della popolazione carceraria. Totale risorse stanziate dalla Regione: 36.000 euro che i Csv hanno integrato con risorse interne o provenienti da Comuni, Province, Asl. Toscana: sovraffollamento carceri, il Pd regionale chiede rapidi interventi di Enzo Brogi (Consigliere regionale Pd) www.lavaldichiana.it, 4 luglio 2014 Riceviamo e pubblichiamo una nota dei consiglieri del Partito Democratico della Regione Toscana relativa al tema del sovraffollamento carceri. "Dobbiamo fare di tutto affinché questa situazione possa essere superata quanto prima; è necessario che ogni livello istituzionale, a partire dal nostro, faccia il possibile perché le condizioni in cui vertono i nostri istituti penitenziari sono indegne per un Paese civile. In diversi casi le amministrazioni penitenziarie hanno cercato di migliorare le proprie strutture, ma è evidente che anche questo sforzo non è sufficiente. E i numeri che ci arrivano dalla relazione del garante purtroppo ce lo confermano. Sappiamo bene che buona parte di questa situazione è stata provocata dagli effetti della Fini-Giovanardi, della quale nonostante la dichiarazione di incostituzionalità, persistono i danni; quindi facciamo in modo di intervenire quanto prima perché si possa finalmente voltare pagina" (Marco Spinelli, consigliere regionale Pd) "L’impegno del garante dei detenuti, Franco Corleone, purtroppo è inversamente proporzionale ai risultati. La situazione nelle nostre carceri è grave, ancora un altissimo numero di persone, resta dentro in attesa di giudizio. Per buona parte dei casi si tratta di persone che se non ci fosse stata la disastrosa Fini-Giovanardi, in carcere neanche ci sarebbero finite. Probabilmente sarebbero passati da altri percorsi, attraverso strutture volte alla riabilitazione per chi ha problemi di tossicodipendenza. Stiamo parlando di luoghi dove in 14 metri quadrati vivono spesso 4 o 5 persone di età, lingua, cultura, religioni diverse. Siamo troppo deboli nella rieducazione e troppo forti sulla pena: tutto questo è inaccettabile. La notizia dell’ennesimo suicidio a Sollicciano è di soli due giorni fa; inoltre, siamo un Paese dove ancora se a un bambino che ha i genitori detenuti chiedi dove abita, risponde in carcere. In un Paese civile, in una condizioni normale, tutto questo non esisterebbe. Dobbiamo incalzare il governo centrale, ma anche i nostri livelli istituzionale devono fare di più, i primi tagli alla sanità, ad esempio, vengono fatti proprio nelle carceri". Genova: nuove regole per la custodia cautelare, decine di detenuti scarcerati www.genova24.it, 4 luglio 2014 Uno dei primi a uscire è stato S.L. per il quale ieri si sono aperte la porte del carcere di Pontedecimo, dove era detenuto per due violenze sessuali (con un anno ancora da scontare) ma con lui tra ieri e oggi il Tribunale di Genova ha dovuto "liberare" una settantina di detenuti e molti altri ne seguiranno. Un decreto legge entrato in vigore il 28 giugno rivoluziona infatti le regole della custodia cautelare. D’ora in poi i giudici non potranno più tenere in carcere in attesa di condanna definitiva gli imputati per cui si prevede una pena finale uguale o inferiore a tre anni, neppure se plurirecidivi o giudicati socialmente pericolosi. La norma è contenuta nel decreto legge numero 92 (che dovrà essere convertito in legge entro due mesi), ennesimo tentativo di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e sfuggire alle pesanti sanzioni minacciate all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il decreto prevede anche una riduzione di pena di un giorno ogni dieci per i detenuti che si sono trovati a scontare la condanna in condizioni di sovraffollamento, sconto che si aggiunge alla liberazione anticipata portata da 45 a 75 giorni a semestre da una legge del 2013 . Quello che sta provocando le maggiori perplessità tra i tecnici e giuristi è l’automatismo della legge, che non dà margini di discrezionalità al giudice, come commenta il prof. Francesco Viganò dell’università di Milano: "Il risultato pratico di questa novità legislativa è quello di impedire il soddisfacimento di qualsiasi esigenza cautelare, anche la più pressante, a fronte di conclamate situazioni di inadeguatezza degli arresti domiciliari, rispetto ad imputati di reati di notevole allarme sociale, le cui pene tuttavia raramente superano, in concreto, i tre anni di reclusione: dai furti in abitazione alle piccole rapine, allo stalking e ai maltrattamenti in famiglia, nonché " per passare a reati tipici dei colletti bianchi alla corruzione per l’esercizio delle funzioni o all’illecito finanziamento ai partiti. Con l’impossibilità, per di più, per il giudice procedente di disporre la custodia cautelare in carcere nemmeno in caso di trasgressione degli obblighi inerenti alla misura in concreto applicata". Perplessi anche i pubblici ministeri e i giudici del tribunale genovese, anche se nessuno è ancora in grado di valutare i numeri esatti delle scarcerazioni che riguardano appunto i detenuti in attesa di sentenza definitiva (oltre la metà); secondo le prime stime potrebbero essere dal 10 al 20% del totale. Di sicuro c’è che a Genova secondo nei corridoi della Corte d’appello e del Tribunale stanno arrivando carrelli pieni di istanze di scarcerazione. Parma: carenza negli organici della Polizia penitenziaria, il caso arriva in Senato www.parmaquotidiano.info, 4 luglio 2014 Ha deciso di raccogliere l’allarme lanciato dai sindacati dei lavoratori del carcere il senatore parmigiano Giorgio Pagliari, autore di una interrogazione parlamentare in cui si pongono al centro le esigenze della struttura cittadina e le criticità della stessa, a partire dalle carenze di personale che si fanno registrare proprio nel momento in cui nuovi detenuti di elevato spessore criminale divengono ospiti dell’istituto penitenziario cittadino. "In questi ultimi tempi presso gli Istituti Penitenziari di Parma si stanno registrando condizioni di lavoro mai viste prima, nella storia dell’istituto - afferma Pagliari. Questa è la conseguenza di una forte carenza di personale: su 479 unità ne risultano in servizio effettivo solo 319, poiché altre 86 unità sono distaccate presso altre sedi. Come se non bastasse, il numero degli affettivi tende a diminuire costantemente a causa dei distacchi presso altre sedi e dei pensionamenti, senza che gli inserimenti siano sufficienti a compensare gli stessi. Per quanto riguarda i detenuti, oggi il loro numero è di 570, tra cui numerosi per reati di associazione mafiosa e camorristica, mentre la capienza del carcere sarebbe di 370. Si violano in questo modo i parametri di quadratura minima disponibile dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo". Il senatore parmigiano Giorgio Pagliari chiede dunque al governo di provvedere all’assegnazione, di un "congruo numero di unità di polizia penitenziaria aggiuntive all’attuale organico dei penitenziari di Parma", oltre che il trasferimento di un idoneo numero di detenuti. Mancano 160 agenti: sicurezza a rischio La grave carenza di personale mina la sicurezza del carcere di Parma, sede do detenzione di diversi carcerati illustri, da Totò Riina a Marcello Dell’Utri. A dirlo è la Uil-Pa, sindacato di polizia penitenziaria, che racconta di una struttura con un sistema di videosorveglianza mal funzionante, di sovraffollamento, di troppi secondini dislocati in altre sedi e di troppi servizi fuori dal carcere per quelli che sono rimasti: per seguire i coscritti ammalato in ospedale, si sguarnisce il presidio in via Burla. C’è bisogno di 160 guardie in più. "In questi ultimi tempi presso - scrivono Angelo De Mariani e Filippo Santoro, segretari Uilpa di Parma, in una lettera inviata al ministro della Giustizia Andrea Orlando e a tutti i livelli dell’amministrazione penitenziaria da Roma in giù - gli Istituti penitenziari di Parma si stanno registrando condizioni di lavoro mai viste prima, nella storia dell’istituto. A fronte di una pianta organica pari a 479 unità ne risultano assegnate 405 di cui in servizio effettivo soltanto 319 poiché 86 unità sono distaccate per motivi diversi e sparse per varie sedi regionali, extraregionali e "romane". Da quanto sopra e da ciò che si andrà adesso ad illustrare, emerge un grave disinteresse degli Uffici Superiori, che a poco più di un anno dalla cruenta evasine che ha reso il Carcere di Parma famoso in tutta Italia, non hanno fatto nulla per porre rimedio al passato e per scongiurare eventi simili per il futuro. Per quanto concerne l’organico, il numero delle unità continua a diminuire, sempre a causa dei distacchi presso altre sedi o di pensionamenti; ed in occasione delle imminenti assegnazioni del nuovo corso agenti, le intenzioni del Dipartimento, pare, constano un implemento di sole 5 unità a fronte della carenza di ben 160". "Per quanto concerne i detenuti - prosegue la lettera di denuncia -, invece, si assiste giornalmente a trasferimenti in questa sede di soggetti di elevato spessore criminale, già a capo di organizzazioni mafiose o camorristiche, ovvero di elevato impatto mediatico come nel caso di un noto ex parlamentare. Tali assegnazioni gravano ancor di più sui carichi di lavoro del personale, ormai costretto a turni estenuanti al fine di assicurare livelli minimi di sicurezza che ormai sono solo una chimera. A tutto ciò va aggiunto che con l’inizio dei lavori la realizzazione di un nuovo padiglione detentivo è stato necessario individuare nuovi posti di servizio da dover assicurare con le unità disponibili e neanche in questo caso i Superiori uffici hanno provveduto ad assegnare ulteriori unità al fine di poter garantire un adeguato livello di sicurezza". "I sistemi di videosorveglianza e vigilanza in generale - affermano De Mariani e Santoro -, che dovevano essere dopo l’evasione ristrutturati in toto, continuano a vacillare, ed il personale è costretto a compensare con turni di lavoro massacranti. Oggi a Parma sono ristretti 570 detenuti, per una capienza regolamentare che conterebbe 350 posti. In pratica un sovraffollamento pari alò doppio della capienza prevista. Inoltre la presenza all’interno dell’istituto di un centro diagnostico terapeutico composto da una popolazione detenuta AS3, cioè di soggetti con alto indice di pericolosità, che necessita di continue visite e ricoveri ospedalieri unita alla carenza di personale, impongono di operare secondo un modello organizzativo basato sull’emergenza, con tutte le vulnerabilità che ne derivano per la sicurezza dell’istituto". "In questi giorni si è arrivati ad avere ben 4 piantonamenti presso il locale ospedale civile con un impiego minimo di ben 32 unità giornaliere solo per l’espletamento di detto servizio che corrispondono all’intero organico del locale nucleo territoriale di Polizia penitenziaria (Ntp). L’entità numerica dell’organico del locale Ntp non è pertanto in grado di sopportare un simile carico di richieste di piantonamenti e, conseguentemente, al fine di assicurare tutti gli altri servizi di traduzioni per giustizia, trasferimenti e visite ospedaliere, si è costretti ad utilizzare il personale addetto a mansioni interne all’istituto sottraendolo ai posti di servizio interni, già fortemente compromessi e assorbiti, con ulteriori ripercussioni sulla sicurezza dell’intero istituto. Ciò comporta che la stessa organizzazione del lavoro su tre quadranti comincia a non essere più sufficiente per rispondere alle deficienze, soprattutto in termini di piantonamenti, ove si è arrivati anche a turni di otto ore, espressamente vietati". "Per quanto sopra - si conclude la lettera al ministro Orlando, si chiede ai competenti Uffici dell’Amministrazione penitenziaria di ricordarsi degli istituti penitenziari di Parma provvedendo all’assegnazione di unità di polizia penitenziaria nonché di valutare la possibilità di trasferire un congruo numero di detenuti, proprio per rendere più idonee le condizioni di lavoro, ma anche di civiltà all’interno dei reparti. Laddove non si possa procedere ad assegnare nuovo personale, si chiede di verificare la natura di tutti i distacchi e di far rientrare tutte le unità che non hanno più titolo". Piacenza: detenuto in tribunale estrae lametta, bloccato da agenti di Polizia penitenziaria Ansa, 4 luglio 2014 Un detenuto di origine magrebina ristretto nel carcere di Piacenza portato dal giudice di pace per un’udienza, prima di entrare nell’aula ha tentato di estrarre dalla bocca una lametta: gli agenti di polizia penitenziaria però lo hanno immobilizzato e gli hanno tolto la lametta che, forse, voleva usare per aggredire. Lo riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), e Francesco Campobasso, segretario regionale. "È uno dei tanti episodi che quotidianamente si verificano con i detenuti - dicono - e che solo grazie alla professionalità della polizia penitenziaria, spesso, non giungono a conseguenze gravissime. Questi episodi dimostrano che con i tanti delinquenti che popolano le carceri italiane non bisogna mai abbassare la guardia, altro che vigilanza dinamica e vergognosi risarcimenti. Sono gli agenti che dovrebbero essere risarciti per l’abbandono in cui li lascia spesso l’amministrazione, per i doppi turni di servizio che spesso devono svolgere per la mancanza di personale". Cagliari: Sdr; detenuto gravemente malato, vada in comunità o in residenza assistenziale Ansa, 4 luglio 2014 Un detenuto rinchiuso e costantemente monitorato da circa due mesi in una cella di Buoncammino è "incompatibile" con il Centro Diagnostico Terapeutico, dove si trova. Nuova denuncia sulle condizioni dei detenuti della Casa Circondariale cagliaritana da parte dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme". La presidente Maria Grazia Caligaris riferisce che il detenuto, M. A. di 44 anni, è affetto dalla malattia di Wilson con cirrosi epatica e con gravi ripercussioni sul comportamento e le capacità cognitive. "Canta giorno e notte, allaga quotidianamente la cella, parla a voce alta e si agita in continuazione manifestando chiaramente - afferma - una totale incompatibilità con la detenzione. Non può essere curato ed è assurdo che continui a restare in carcere. È indispensabile che l’Azienda Sanitaria individui una struttura alternativa". La sua permanenza a Buoncammino "sta creando seri problemi al detenuto, al personale di polizia penitenziaria, ai medici e agli altri cittadini privati della libertà. A causa del grave disturbo infatti l’uomo, che finirà di scontare la pena il prossimo gennaio, non è in grado di badare a se stesso e mette in atto comportamenti imprevedibili e fuori da qualunque logica che stanno rendendo invivibile il reparto destinato ai detenuti ammalati, peraltro sempre sovraffollato". "È indispensabile - conclude la presidente di Sdr - attivare al più presto le iniziative opportune affinché l’uomo possa essere accolto in una comunità, dove peraltro si trovava prima dell’ingresso a Buoncammino, o in una residenza sanitaria assistenziale". Novara: recupero del patrimonio ambientale, detenuti al lavoro all’Allea San Luca www.novaratoday.it, 4 luglio 2014 Conclusa la settima Giornata di recupero del patrimonio ambientale. Rimossi i rifiuti, ripuliti i vialetti e ripulite le griglie di raccolta di acqua piovana intasate da terra e foglie, Si è svolta ieri, mercoledì 2 luglio, in pieno centro storico la settima Giornata di recupero del patrimonio ambientale con l’impiego dei detenuti della Casa circondariale. I lavori, coordinati e supportati operativamente e logisticamente da Assa ed eseguiti da sette detenuti del carcere di via Sforzesca in permesso, hanno interessato l’Allea San Luca, il più grande polmone verde della città. Ad accogliere i detenuti al loro arrivo, il presidente di Assa, l’avvocato Marcello Marzo, che ha avuto parole di soddisfazione per i lavori che vengono compiuti in queste giornate, organizzate di concerto da Assa, Comune di Novara, Magistratura di Sorveglianza, Ufficio esecuzioni penali esterne e Casa Circondariale. "È un intervento molto importante - ha sottolineato Marzo - in quanto interessa un punto nevralgico di passaggio quale è l’Allea San Luca. Ripulendo dai rifiuti e facendoci carico anche delle necessarie manutenzioni, seppur non di competenza di Assa, diamo maggior decoro a quest’area molto frequentata della città a beneficio di tutti i novaresi". Sono stati rimossi i rifiuti vari da aiuole, siepi e arbusti, è stata fatta la mondatura dalle infestanti attorno alle panchine, sono stati puliti i vialetti, mondata l’erba e ripristinati i cordoli. Sono state inoltre pulite le griglie di raccolta di acqua piovana intasate da terra e foglie, ponendo in questo modo finalmente rimedio alla formazione ad ogni pioggia di grosse pozze d’acqua attorno alla fontanella che ne impedivano la possibilità di utilizzo. Sono stati chiusi alcuni pozzetti rotti, è stato sistemato in alcuni punti il porfido, si è provveduto alla predisposizione delle tavole di legno per ripristinare le panchine rotte, sono infine stati sostituiti i gradini, che erano pericolosamente sbrecciati, dello scalone che porta a largo Morsuillo congiungendo largo Monsignor Leone Ossola ai Giardini Vittorio Veneto. I lavori hanno interessato largo Monsignor Leone Ossola e parte di viale IV Novembre con relativo controviale. Riprenderanno mercoledì prossimo, 9 luglio, per continuare pulizia e sistemazione dell’Allea lungo viale IV Novembre, l’area del Monumento ai Caduti e viale Grandi. Lanciano (Ch): inaugurato il "tunnel dei colloqui" per detenuti e familiari www.lopinionista.it, 4 luglio 2014 Nel carcere di Lanciano è stato inaugurato ieri il tunnel dei colloqui per detenuti e familiari, che grazie a lavori di riqualificazione ha cambiato del tutto l’aspetto. Il grigiore e il senso di oppressione hanno lasciato il posto ai colori dei paesaggi realizzati da Diba Cavaliere di Vasto e Maura Trucco di Fossacesia, entrambe pittrici, che hanno lavorato gratuitamente. L’intervento è stato effettuato grazie ad una donazione della Polizia municipale di Montesilvano con la quale sono state comprate le vernici, i pennelli e tutto il materiale necessario per concretizzare il progetto, finalizzato a rendere più accogliente e vivibile il carcere. Presenti all’inaugurazione il comandante dott.ssa Marsiglia, l’assessore alla P.U. di Montesilvano e la direttrice del carcere di Lanciano dott.ssa Maria Lucia Avantaggiato in Varone. "Vogliamo rendere più umano il carcere - spiega la direttrice. Dobbiamo ringraziare il corpo Polizia municipale di Montesilvano (Pe) per il contributo apportato". Il responsabile del settore colloqui Antonini: "Qui passano molti bimbi che vengono a trovare il padre. Mentre si cammina, si sente il rumore metallico delle celle che si aprono, e trovarsi in un lungo corridoio asettico non può che aumentare la malinconia. Per questo siamo orgogliosi di questo lavoro: contribuisce a migliorare l’ambiente". Alla presentazione anche una delegazione della Polizia municipale di Montesilvano assieme a Maria Rosaria Parlione, assessore comunale di Montesilvano, in rappresentanza del sindaco Francesco Maragno. Entrambi hanno avuto un ruolo fondamentale nel progetto. "Organizziamo una raccolta fondi ogni anno - spiega Antonella Marsiglia, comandante dei vigili urbani - il 20 gennaio, giorno di San Sebastiano nostro protettore. Quest’anno abbiamo deciso di devolvere la somma raggranellata per riqualificare quest’area del carcere: tutto lo staff ci ha proposto il progetto che è stato ideato da Angela Garzia, avvocato pescarese". Padova: Artan, il detenuto-pasticcere "così in carcere ho iniziato a sognare una nuova vita" di Silvia Bergamin Il Mattino di Padova, 4 luglio 2014 "Da sette anni sono in carcere, al Due Palazzi, mentre da quattro ho iniziato a lavorare, prima alla manutenzione delle bici, ora ai dolci. In autunno mi sposo, tra un anno tornerò libero. Il mio sogno è quello di aprire una pasticceria, voglio mettere a frutto quello che ho imparato in questi anni. Ero, sono dietro le sbarre, ma con il lavoro la vita e la dignità sono entrate". Artan Tahiri, 29 anni, kosovaro, è uno dei pasticcieri del carcere di Padova premiati da Davide Paolini del Gastronauta di Radio24. I detenuti-pasticceri sono stati in trasferta - premio per un giorno a Curtarolo negli stabilimenti del Gruppo Agugiaro & Figna Molini, accolti anche dal sindaco, Fernando Zaramella, e dal prefetto Patrizia Impresa. Il Gastronauta aveva lanciato un sondaggio coinvolgendo oltre trecento locali; alla fine a vincere è stata la Pasticceria Giotto del Carcere di Padova. "Una volta tanto è il carcere che varca il muro di cinta per incontrare la società e non viceversa", il commento di Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto. Agugiaro si è detto particolarmente fiero di poter premiare "l’unica pasticceria situata in un carcere italiano che dovrebbe essere da esempio per l’etica e i valori morali che guidano questa realtà". "Considero importante che la società civile gratifichi e sostenga questo tipo di eccellenze", le parole del prefetto. Il sindaco ha chiosato con un auspicio: "Spero che questo tipo di collaborazioni, che vedono una realtà produttiva locale fornire un supporto ad un’attività del carcere con la fornitura della farina, si moltiplichino; è bello lavorare insieme in un progetto costruttivo di autentica rieducazione". Livorno: l’isola-carcere della Gorgona, dove il bianco nasce in un anfiteatro naturale di Antonio Valentini Il Tirreno, 4 luglio 2014 Da un punto di vista istituzionale, l’isola di Gorgona è la circoscrizione numero due del Comune di Livorno. Nella sostanza è un grumo fatto di tutto e del suo contrario: bellezze incontaminate e tormenti di chi vi è recluso, propositi di riscatto e umana propensione all’accidia, senso di libertà che si specchia in un mare azzurro che di più non si può e opprimente isolamento dal mondo e dalle sue cose, a testimonianza che le barriere della natura sanno imprigionare gli uomini più di quanto riescano a fare le loro formidabili fortificazioni. La Gorgona è anche monumento granitico alle occasioni sprecate: volevano sfruttarne il territorio per fini agricoli e non ci sono riusciti; volevano farne un paradiso terrestre ma una nave, l’eurocargo Venezia, finì per perdervi un bel numero di bidoni tossici, pieni di catalizzatori per la desolforazione del petrolio; volevano trasformarla in centro turistico di prim’ordine e poi si sono arresi alla sua vocazione originaria. Che poi è quella di assecondare i disegni del suo destino: rimanere una casa di reclusione. Per queste e altre ragioni l’isola di Gorgona resta un laboratorio, dove si sperimenta quanto è possibile senza che sul continente, distante 39 chilometri di mare e più mille anni luce, se ne abbia apprezzabile percezione. Ad esempio sul suolo italico è inimmaginabile una mucca zen, che proprio per questa virtù eviterà il macello, graziata per decreto dal direttore della casa penale, Carlo Mazzerbo: "Perché zen - anticipa la domanda -? Chiedetelo a Marco Verdone". Il veterinario, per inciso, che cura gli animali della colonia penale con metodi omeopatici: "Un giorno ero seduto, preso dai miei pensieri e mi accorsi di avere al fianco la mucca Valentina - racconta. Io meditavo. Ebbi la sensazione che lei facesse altrettanto". Ebbene su quest’isola montuosa e grande come 220 campi di calcio, tutti hanno occasione di meditare: i 70 detenuti, chiamati a spurgare le loro anime dai gravi reati commessi; le sessanta guardie carcerarie che passano l’intera vita lavorativa assieme a loro; i dieci residenti abituati al silenzio, all’isolamento e ai venti di mare che da ogni quadrante battono sulle coste rocciose. I più hanno un approccio trascendente con la vita, dopo averla svuotata dalle frenesie e dal consumismo, circoscritto a poche cose essenziali. Come dire che il volume dei beni immateriali dell’isola deborda dal suo perimetro, misurabile in un pugno di chilometri. E contagia la terraferma: la storia della maialina Bruna, nata con un difetto a una zampa posteriore e destinata anzitempo alla macellazione, commosse i bambini di una scuola elementare di Livorno, che con accorati appelli e disegni pastellati giunsero in suo soccorso. Il direttore Mazzerbo non si fece pregare e firmò il secondo decreto di grazia: "Questa dev’essere l’isola dei diritti per tutti. E quando dico tutti mi riferisco a uomini, animali e piante", spiega il dirigente penitenziario, a quanto pare lui per primo sulla strada di una consapevolezza zen. In realtà uccidere un animale per macellarlo dopo essersene presi cura, costituisce il modo peggiore e più inumano per rieducare chi è detenuto a causa di un omicidio. Ragion per cui mucche, maiali e capre in prospettiva saranno risparmiate, non avendo loro alcuna colpa per l’essersi incarnate in forme diverse da quelle umane. È meglio, dunque, coltivare i frutti della terra. Ad esempio l’olivo, fiore all’occhiello dell’agronomo Francesco Presti che ne ha caratterizzato una varietà autoctona, il "bianco di Gorgona", di cui esistono poche piante ultra-centenarie, circondate dai sentori di cisto e rosmarino, di elicriso e cineraria. Alcuni esemplari dai tronchi concavi curvi e bitorzoluti sfiorano i vigneti piantati su un ettaro di terra, in un anfiteatro naturale che tempera l’effetto delle brezze marine. I detenuti vi producono un bianco (vermentino e ansonica) che manco a dirlo si chiama "Gorgona": 2700 bottiglie bordolesi e 350 magnum. A sovrintendere l’operazione, dal valore più solidaristico che commerciale, i Frescobaldi, arcinota famiglia vinattiera italiana, e in particolare il marchese Lamberto, che è riuscito a coinvolgere nell’impresa un’autentica squadra di fuoriclasse: Nicoletta Doni ha ideato l’originale etichetta sui cui compare una lunga dedica di Andrea Bocelli; i Pinchiorri di Firenze hanno elaborato alcune ricette specifiche e Nicolò D’Afflitto, il grande enologo di famiglia, sovrintende alla vinificazione. La prima vendemmia con la supervisione dei Frescobaldi è datata 2013 e l’accordo di collaborazione con il penitenziario durerà ancora tre lustri: "Nel luglio 2012 fui incuriosito da una e-mail della direzione carceraria che chiedeva supporto nella gestione di un vigneto da un ettaro sull’isola di Gorgona - ricorda Lamberto. Telefonai e proposi di trovarci l’indomani, sull’isola. L’imbarazzo fu evidente: c’erano da risolvere questioni burocratiche, da fare i permessi, da trovare un’imbarcazione… Alla fine io e Nicolò (D’Afflitto, ndr.) riuscimmo ad arrivare e subito restammo colpiti da questo piccolo ma bellissimo vigneto". Nei prossimi anni la superficie vitata quasi raddoppierà, estendendosi ai terreni attigui a quelli già coltivati e ai terrazzamenti sparsi un po’ ovunque, fatti con una precisione che nulla ha da invidiare a quelli della Liguria di Ponente, patria riconosciuta del Pigato. In quest’oasi i detenuti pensano a lavorare le viti e a tenere ordinata la cantina, piccola e coi tini che accecano per quanto sono lucidi. Molti di loro sperano, una volta scontata la pena, che qualche produttore li prenda alle proprie dipendenze. E se anche Carmelo Casella, 54 anni e dieci da scontare, è disilluso ("manca il lavoro per la gente comune, figuriamoci per gli ex-carcerati"), Luigi Giuseppe Polieri, poco oltre la quarantina, ci spera: "Non è un sogno. Uno di noi è stato assunto da Frescobaldi nella tenuta di Collesalvetti. Può di nuovo accadere, no?". D’altronde la via zen alla realizzazione umana disegna scenari sconfinati, che neppure il pessimismo più cupo può cancellare. Il loro vino, il "Gorgona", può esser valutato solo mettendo da parte canoni e paradigmi. Ha un naso fresco e agrumato, è intenso senza essere concentrato, privo delle note surmature tipiche dei vini insulari. Non ha nulla di concettuale, per il palato è come un flash. Ma possiede una straordinaria bevibilità, è allegro e piacevole. Intanto Carlo Mazzerbo è stato insignito, durante l’ultimo Vinitaly, del titolo di benemerito dell’enologia italiana. È la prima volta che, a memoria d’uomo, un funzionario dell’amministrazione penitenziaria si fregia di un riconoscimento del genere. Chissà, forse lo zen ci ha messo lo zampino. Sassari: il carcere di San Sebastiano, un monumento alla memoria di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 4 luglio 2014 Un anno senza San Sebastiano significa, fisicamente, un anno colmo di silenzio in quel piccolo isolato nel centro della città. Significa che le voci del carcere non sono sparite ma si sono semplicemente spostate a quindici chilometri di distanza, fuori dalla città. Bancali è la nuova periferia, così come quel tratto di via Roma era periferia alla fine del 1800 e così come Buoncammino a Cagliari o il colle di San Michele ad Alghero e Badu e Carros a Nuoro. Si costruivano gli istituti penitenziari fuori dai centri abitati nella speranza che i problemi rimanessero all’esterno di quella comunità. Lo si faceva, a dire il vero, anche con gli ospedali e i cimiteri. È la paura del confronto con ciò che l’uomo teme di più: la salute, la giustizia terrena e quella divina. Così, quando nei primi giorni di luglio del 2013 il carcere di San Sebastiano chiudeva definitivamente le proprie porte a chi aveva un debito con la giustizia o con chi, in ogni caso, avrebbe dovuto attendere gli esiti del processo, i sassaresi - tutti cresciuti all’ombra di quel carcere divenuto anno dopo anno sempre più vicino alla città - si trovavano per la prima volta con una città orfana di un penitenziario costruito, così come era accaduto nel 1875, fuori dalla propria quotidianità. Magari fra meno di cento anni Bancali si riavvicinerà alla città o, comunque resterà meno isolato. In ogni caso, oggi, il rapporto fisico tra il cittadino di Sassari e il carcere non c’è più. È come evaporato, dissolto. Sono rimaste le vecchie mura ma restituiscono a chi vi passa il rumore sordo delle voci, l’eco di parole incomprensibili. San Sebastiano rappresentava un monito o un modo come un altro per considerare il carcere comunque un "servizio" per la comunità. Oggi quel carcere - e tutto quello che ha rappresentato - è solo da annoverare nell’armadio dei ricordi. Fra vent’anni i nuovi avvocati e in nuovi giudici varcheranno quei gradini del Tribunale e troveranno sicuramente qualcuno che gli racconterà di quando i detenuti erano dentro quel gran quadrato a forma di stella con la rotonda in mezzo. San Sebastiano è quindi un monumento alla memoria. Così come la Rotonda di Tempio e il carcere, anch’esso dismesso, di Oristano. Fra qualche mese un altro monumento alla sofferenza chiuderà per sempre, il più grande e più importante della Sardegna: Buoncammino lascerà il posto al nuovo complesso penitenziario, a 25 km. dal capoluogo sardo, tra i comuni di Uta e Capoterra. Anche da quelle parti il carcere si allontana. Come possiamo restituire la memoria ad un luogo come San Sebastiano? Ci sono degli accordi tra il comune, le opere pubbliche, il ministero della Giustizia, la Soprintendenza ai beni culturali, l’agenzia del demanio affinché il vecchio carcere possa essere valorizzato, razionalizzato e riqualificato. Ci sono le premesse perché almeno un braccio possa essere adibito a museo lasciando intatte le celle, le scritte sui muri, la varie incrostazioni, i silenzi e le sofferenze accumulate negli anni. Un museo che possa ripercorrere storicamente il cammino dell’uomo all’interno di un passaggio fondamentale legato alla detenzione e alla mancanza di libertà. Un cammino fatto di storie, argomentazioni, leggi che nel corso degli anni si sono modificate, sino a rivoluzionare il concetto di "pena e di sofferenza". Un museo che restituisca la dignità a tutti coloro che hanno attraversato la rotonda, hanno sentito l’eco fortissimo gonfio di speranza, hanno sorriso e pianto, urlato e fatto ballare il "candeliere", quello costruito dai detenuti che quest’anno, per tradizione e per continuare a mantenere il contatto con la città, potrà ballare per la prima volta nel carcere di Bancali. Perché se è vero che San Sebastiano è stato dismesso, i detenuti, i loro problemi, le loro storie, insieme a tutti i volontari e gli operatori che nel penitenziario ci lavorano, sono ancora vivi e fanno parte della città. Sono un quartiere, forse periferico, ma pur sempre un quartiere di Sassari. Carinola (Ce): Comunità di S. Egidio e Valentina Stella, canzoni e solidarietà nel carcere di Carmela Maietta Il Mattino, 4 luglio 2014 A molti è parso un segno. Un segno beneaugurante. Perché quando una buona notizia arriva proprio quando il pensiero sta volando oltre le mura del carcere, ti senti quasi autorizzato a sperare che forse presto anche tu puoi oltrepassare la soglia di quel portone e continuare la tua vita da cittadino libero. Nell’istituto di pena di Carinola, dove la Comunità di S. Egidio ha programmato una delle prime tappe di solidarietà e di amicizia verso i detenuti accompagnate da uno spettacolo musicale, l’artista Valentina Stella sta cantando "Mente e cuore" quando per Luigi arriva la comunicazione che può salutare i compagni di cella e riprendersi il cammino interrotto. È un momento di commozione generale e Valentina è molto brava a cogliere l’attimo e a riannodare i fili solidali che ha subito intessuto con gli ospiti della struttura penitenziaria. Comincia, dunque, da Carinola il ciclo di eventi che la Comunità di S. Egidio ha previsto per questa estate in diversi istituti di pena della Campania nell’ambito delle diverse attività, ricorda uno dei più attivi animatori, Antonio Mattone, che sono svolte con una particolare attenzione alle fasce più deboli. E per i 500 ospiti dell’istituto in regalo una giornata diversa, di quelle che ti consentono di dare libero corso al pensiero e alla speranza. Con Valentina Stella, accolta dalla direttrice del carcere, Carmen Campi, e dagli applausi, oltre che dei detenuti, del vescovo di Sessa Aurunca, Franco Piazza; del provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, Tommaso Contestabile; del presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Carminantonio Esposito; del sindaco Luigi De Risi; del vicecapo del Dap, Francesco Cascini. E Valentina Stella non si risparmia, sostenuta dall’entusiasmo dei suoi spettatori. E proponendo, tra applausi scroscianti, il meglio del suo repertorio come "Indifferentemente" e "Passione Eterna". E coglie nel segno quando attacca "Chesta sera" e "Comme faccio senza ‘e te". E quando Luigi, che ha riacquistato la sua libertà, va via senza nascondere la propria emozione, Valentina gli regala "Nu Penziero". E nei pensieri di chi ha maggiore bisogno di aiuto, compresi i detenuti, la Comunità di S. Egidio cerca di trovare un angolo, sottolinea Antonio Mattone, perché non vada persa la speranza che può esserci sempre qualcuno che possa fare da appiglio per riprendere una strada senza tortuosità. E dopo Carinola i prossimi appuntamenti in programma sono per Poggioreale e il carcere di Pozzuoli. Napoli: gita a Sorrento per gli internati dell’Opg, la rete di solidarietà e la presa in carico Il Mattino, 4 luglio 2014 Una giornata davvero indimenticabile quella che hanno vissuto 16 internati dell’Opg di Napoli in gita a Sorrento con la Comunità di Sant’Egidio. Per il 5° anno consecutivo, con la sapiente regia di Salvatore Tuccillo, giornalista enogastronomico della penisola sorrentina, la comunità ha voluto regalare una giornata di libertà a chi vive in quelli che sono i retaggi dei manicomi criminali. Accompagnati da educatori, operatori dell’Asl NA1 che ha messo a disposizione 3 pulmini, e dagli amici della comunità di Napoli e di Roma, gli internati hanno fatto la prima tappa nella splendida Baia di Puolo, dove alcuni di loro sono scesi in spiaggia tra le famiglie e i primi bagnanti e hanno potuto fare un bellissimo bagno mentre gli altri hanno preferito sedersi ai tavolini di un bar, passeggiare nel borgo dei pescatori e prendersi un bel caffè. C’è chi non ha resistito alla tentazione e ha voluto subito mangiarsi una bella pizza margherita. Franco sogna di tornare in questa bella spiaggia con la famiglia, Attilio guarda il panorama in silenzio, con sguardo intenso. La singolare comitiva si è poi spostata nel ristorante "da Filippo" a Sorrento dove è stata accolta dalla cortesia di Enzo Maresca e di tutto il personale, e dove sotto un bellissimo pergolato di limoni ha potuto gustare un pranzo davvero eccezionale: antipasto di terra con fior di latte e prosciutto crudo, gamberetti di Crapolla sale e pepe, insalata di calamari con patate lesse, fritto di calamaretti e pesce bandiera. Quindi trofie vongole e zucchine e per secondo trancio di tonno al graten su foglia di limone con purea di patate e un assaggio di baccalà fritto. Per finire una bella torta fatta dallo chef. Nel frattempo si sono uniti alla tavolata il vescovo di Sorrento mons. Franco Alfano, il magistrato di sorveglianza la dott.ssa Margherita Di Giglio e il direttore sanitario della struttura, il dott. Michele Pennino. Un clima di festa scandito da applausi, risate e da serene chiacchierate, una gita che gli internati dell’Opg non dimenticheranno facilmente. "Non mi sembra vero!" ha esclamato Ciro, uno degli ospiti, mentre Giuseppe non faceva il bagno a mare da oltre 10 anni. Una giornata straordinaria ma anche una giornata verso la normalità nell’attesa della chiusura definitiva degli Opg. Quella di Sorrento non è stata solo una bellissima gita, ma anche un evento che guarda al futuro, al percorso che queste persone con gravi disagi psichiatrici e sociali dovranno affrontare. Non a caso l’assenza della polizia penitenziaria sta a significare che la rete territoriale dovrà essere la grande protagonista per accompagnare e il reinserimento nella società degli internati. Questo significa che i servizi sociali e i dipartimenti di salute mentale dovranno prendere in carico queste persone disagiate, e che le comunità di accoglienza non possono essere dei parcheggi ma dei luoghi di vero reinserimento sociale. La Riforma con il superamento degli Opg è possibile, e questa bellissima giornata testimonia che si può aprire una pagina nuova per il futuro di queste persone, segnate pesantemente dalla vita e dalla malattia. Isernia: per visita del Papa concerto musicale della banda della Polizia penitenziaria Ansa, 4 luglio 2014 In occasione della visita del Sommo Pontefice a Isernia il prossimo 5 luglio 2014, la Banda musicale dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria (A.N.P.PE.) terrà un concerto gratuito per la cittadinanza. "Appena saputo della visita del Papa a Isernia, abbia offerto all’Assessorato provinciale alle politiche sociali la nostra disponibilità a tenere un concerto musicale, gratuitamente e per tutta la cittadinanza, saldare i rapporti che legano l’Istituzione da Lei rappresentata, il Personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia che aderisce all’Anppe e il Santo Padre", spiega Donato Capece, presidente nazionale dell’Anppe, che ha incaricato dell’organizzazione il dirigente nazionale Emilio Fattorello e quello locale Luigi Frangione. "L’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria (Anppe) è l’unica Organizzazione, a livello nazionale, rappresentativa del personale del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia e del Corpo di polizia penitenziaria in congedo. Tra le sue finalità statutarie vi sono quelle di tramandare le tradizioni del Corpo; di svolgere e migliorare ogni possibile assistenza sociale, culturale, ricreativa e sportiva; di attuare rapporti di solidarietà; di rinsaldare lo spirito di amicizia tra il personale in quiescenza e quello in servizio; di glorificare i Caduti del Corpo; di contribuire alla prevenzione della criminalità attraverso un’opera d’ordine culturale, politica e sociale; di collaborare con le Istituzioni, gli Enti locali e le Associazioni di categoria in attività di volontariato, di tutela dell’ambiente, di soccorso pubblico, di calamità naturali e di protezione civile. Con D.P.R. 14 luglio 2008, trascritto nel Registro Araldico dell’Archivio Centrale dello Stato in data 8 settembre 2008 e registrato nei Registri dell’Ufficio Onorificenza e Araldica della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 22 settembre 2008 "foglio 57, reg. 2008 sono stati concessi all’Anppe lo Stemma e il Gonfalone e, con Decreto del Ministro della Giustizia del 25 febbraio 2010, l’Associazione è stata posta sotto la tutela del Ministero della Giustizia". L’Anppe ha una propria Banda musicale, composta dal Maestro e da 43 elementi, che suonerà per le strade di Isernia nel giorno della visita del Santo Padre, grazie alla collaborazione con l’Assessorato provinciale alle politiche sociali. "Da tempo" conclude Capece "l’Anppe partecipa, su tutto il territorio nazionale, a cerimonie e a manifestazioni di carattere civile e militare e coopera con gli Enti locali per attività di vigilanza, di controllo, di assistenza e di volontariato, secondo direttive delle varie Amministrazioni, ricevendo sempre soddisfacenti apprezzamenti." Catania: "Il Re da salvare", un cortometraggio per i detenuti del carcere di Giarre www.gazzettinonline.it, 4 luglio 2014 "Il Re da salvare". È il titolo del cortometraggio che è stato proiettato nella sala teatro della Casa Circondariale di Giarre, quale risultato finale del laboratorio artistico di scrittura creativa e teatro "Dalle parole alla scena", realizzato dall’I.I.S. Fermi-Guttuso C.T.P. 13, grazie all’iniziativa del dirigente scolastico, dr.ssa Tiziana D’Anna, in collaborazione con la Casa Circondariale. Un social movie, all’interno di un istituto di pena è un fatto di per sé eccezionale, perché, si sa, le porte di un carcere non si aprono tanto facilmente. Grande emozione per l’incontro tra i ristretti del carcere di Giarre, sezione a regime aperto, e le Istituzioni Scolastiche. Partecipata e intensa è stata anche l’attività realizzata con la sperimentazione di una progettualità condivisa nel miglioramento dei rapporti umani nonché nell’integrazione culturale e nell’abbattimento delle barriere di marginalizzazione. Dopo qualche perplessità iniziale, quando ancora la realizzazione del corto sembrava un sogno irrealizzabile, una ventina di corsisti della sezione a regime aperto si sono messi in gioco, lezione dopo lezione, dapprima intervenendo nel laboratorio di scrittura creativa e successivamente lavorando con entusiasmo nella veste di narratori, attori, sceneggiatori, ma anche di collaboratori e tecnici. Il corto è stato realizzato nel carcere giarrese dove la videocamera è entrata grazie all’autorizzazione del Ministero della Giustizia e del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria ed alla disponibilità del direttore dell’Istituto, Aldo Tiralongo, del Comandante, dr. Bruno, e dei funzionari giuridico pedagogici, F. Cocuzza e M. Romano. Difficile, se non impossibile da raccontare, sottolinea il Dirigente D’Anna, anche per il tipo di rapporto che si è creato con i detenuti e per la sinergia con la direzione, con la dottoressa Romano, gli educatori e il comandante di polizia penitenziaria. Attraverso 60 ore di vita dietro le sbarre, insieme ai giovani detenuti, il regista Daniele Nunzio Consoli, affiancato dalla prof.ssa Marisa Brancato, ha trasformato l’aula scolastica in un vero e proprio set cinematografico. Quello che ha preso corpo è stato il racconto di una quotidianità diretta, che i detenuti, afferma il regista Consoli, hanno voluto condividere. I ragazzi hanno attribuito all’evento una grande valenza sia a livello formativo che emozionale, anche grazie all’instaurazione di un assiduo confronto su sistemi valoriali alternativi ed alla promozione di principi di legalità. Oltre agli obiettivi specifici, quali il potenziamento della lingua italiana e la comprensione degli aspetti tecnici della realizzazione di un cortometraggio, il progetto è stato importante per aver consolidato in loro l’autostima e per averli resi partecipi di tutte le difficoltà legate alla realizzazione di progetti in regime di detenzione, nel rispetto delle regole e dei diritti. Al progetto, altresì, ha partecipato un’ospite di eccezione, l’attrice Elaine Carmen Bonsangue, soddisfatta di condividere una simile esperienza con i ristretti. Guinea Equatoriale: Senatore Manconi; Roberto Berardi in ospedale, bisogna sia liberato Tm News, 4 luglio 2014 "Sono stati necessari tre lunghissimi giorni per ottenere il rispetto di un elementare diritto, riconosciuto da tutti gli stati del mondo. Finalmente Roberto Berardi, imprenditore di Latina detenuto da un anno e mezzo in un carcere della Guinea Equatoriale, è stato ricoverato in ospedale. La diagnosi è nota da tempo: polmonite ed enfisema polmonare". È quanto dichiara il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani a Palazzo Madama. "Dunque, per la prima volta, dopo 18 mesi e una successione di abusi, illegalità e violenze, e dopo un isolamento durato oltre duecento giorni, - aggiunge il senatore Manconi - a Berardi viene riconosciuto l’insopprimibile diritto alla salute. Dopo che, per settimane, al detenuto, provato da attacchi di malaria, era stata negata qualsiasi cura. Si tratta di un piccolo risultato positivo, perché Berardi - nonostante il provvedimento di grazia solennemente annunciato dal Presidente della Guinea equatoriale Obiang e reiteratamente confermato - resta prigioniero. A nulla sono valsi finora gli sforzi, così tenaci e intelligenti, dei suoi familiari e l’attività del nostro Ministero degli esteri, costantemente impegnato, in mezzo a inenarrabili difficoltà, nel dare assistenza ai circa 3300 connazionali detenuti nelle carceri di tutto il mondo". "Dopo aver ottenuto il ricovero in ospedale - conclude Manconi - chiediamo che il nostro console possa incontrare al più presto Roberto Berardi in piena autonomia e nella più totale riservatezza. Le sue gravi condizioni di salute ci spingono a ribadire con forza sempre maggiore che la battaglia per la liberazione del nostro connazionale deve riprendere immediatamente". Albania: Osce; carceri sovraffollate e ogni un detenuto costa allo stato 439 euro al mese Nova, 4 luglio 2014 L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, Osce si è detta preoccupata della situazione degli istituti penitenziari in Albania, che continuano ad essere sovraffollati. "È una situazione problematica. Ogni detenuto costa allo stato 439 euro al mese, e questi sono soldi che pagano i cittadini", ha dichiarato l’ambasciatore dell’Osce a Tirana, Florian Raunig, secondo il quale "la detenzione in carcere dovrebbe essere adottata come estremo provvedimento e nei casi strettamente previsti dalla legge". Secondo Raunig, l’Albania dovrebbe estendere l’applicazione di condanne alternative alla reclusione. Spagna: torture a prigionieri in Irak, militare condannato al carcere preventivo Ansa, 4 luglio 2014 Un giudice militare, col parere favorevole della Procura, ha condannato al carcere preventivo un soldato spagnolo per torture e maltrattamenti a due prigionieri nella base delle truppe spagnole a Diwaniya, in Iraq. Si tratta della prima condanna per torture emessa da un tribunale militare spagnolo dall’inizio della democrazia, secondo quanto anticipa oggi El Pais. La sentenza segue un’inchiesta aperta nel marzo 2013 dopo la pubblicazione, da parte del quotidiano, delle immagini dei maltrattamenti, avvenuti nel 2004 a Diwaniya. Nelle immagini si vedevano tre militari accanirsi con calci sui due prigionieri in cella, mentre altri due assistevano alla scena e un terzo la filmava. Il Codice penale militare spagnolo prevede pene fino a 25 anni di carcere per il reato di torture ai prigionieri. Il militare, appartenente alla Brigada Plus Ultra II, dispiegata con 1.300 soldati in Iraq dal dicembre 2003 all’aprile 2004, è stato trasferito nel carcere militare di Alcalá de Henares (Madrid). Egitto: "un anno di torture e arresti", intervista alla scrittrice Ahdaf Soueif di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 4 luglio 2014 Marce e catene umane in tutto l’Egitto, con piazza Tahrir chiusa dall’esercito, hanno segnato il primo anniversario dall’arresto dell’ex presidente Mohammed Morsi. La sua deposizione diede il via al colpo di stato militare che ha portato alla guida del paese, l’ex ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi, incoronato da una farsa elettorale lo scorso maggio, boicottata dalla maggioranza degli egiziani. Il golpe ha dato il colpo di grazia alle aspirazioni democratiche di migliaia di attivisti in Egitto, motivati dalle imponenti rivolte del 2011. E ha favorito il ritorno al potere o il consolidamento dei militari in altri paesi del Medio oriente, dalla Siria alla Libia fino all’Iraq. Abbiamo incontrato nel suo appartamento di Zamalek, isola al centro del Cairo, l’intellettuale di sinistra e attivista Ahdaf Soueif, autrice del capolavoro Il Cairo. La mia città la nostra rivoluzione (Donzelli, 2013). Ahdaf, columnist de The Guardian, fa parte di una famiglia di sinistra: i suoi nipoti Alaa Abdel Fattah e Mona Seif sono stati condannati il primo a 15 anni di reclusione per aver violato la legge anti-proteste, la seconda resterà in carcere, insieme ad altri 23 attivisti, fino al settembre prossimo, per aver partecipato ad una marcia verso il palazzo presidenziale contro la stessa legge, la scorsa settimana. Com’è cambiato l’Egitto dopo il golpe del 3 luglio 2013? Nell’ultimo anno ci sono stati 41mila arresti, centinaia di detenuti sono stati torturati, molti attivisti vengono arrestati con procedure illegali, sono state approvate norme incostituzionali, ingiuste; sono cresciuti i privilegi dell’esercito, i militari hanno ricevuto pagamenti extra, miliardi di contratti sono stati concessi ad aziende controllate dall’esercito; è cresciuto un discorso semi-fascista ed estremista, mentre è stata diffusa xenofobia e sospetto. Qual è il suo ricordo di Rabaa al-Adaweya? Il più grande massacro (costato la vita a migliaia di islamisti ndr) della storia egiziana. Polizia e militari sono andati lì per punire e terrorizzare con l’accordo dell’Unione europea e dell’ex vice presidente Mohammed Baradei (che poi si è dimesso ed è riparato all’estero ndr). Da quel momento non penso più agli anniversari. Ogni giorno ci sono morti e arresti, sparizioni, in particolare il governo è contro i giovani. Com’è la Costituzione voluta dall’esercito dopo il golpe? Va riscritta. Una Costituzione dovrebbe essere un progetto di lungo periodo, quella in vigore è stata scritta per succhiare il sangue della rivoluzione. Gli articoli sulle libertà non garantiscono alcun diritto, non viene definita la tortura secondo i criteri internazionali. Si è avviata la militarizzazione di corti e sindacati. E i giudici sono in prima linea nella repressione delle proteste... La legge anti-proteste esclude il diritto di contestare senza una logica, è una norma anti-costituzionale. Il sistema giudiziario è implicato nella repressione e lavora per censurare le contestazioni. Eppure c’è un movimento di giovani giudici pronti a lasciare il paese, alcuni di loro vorrebbero citare Sisi per crimini contro l’umanità dopo la strage di Rabaa. Non solo, ci sono intellettuali, anche comunisti, che continuano a giustificare l’operato dell’esercito... Alaa al-Aswany è tornato indietro sui suoi passi e ha ripreso a criticare l’esercito. Da quel momento gli hanno impedito di scrivere. Sono stata sorpresa quando ho visto poeti, intellettuali e scrittori sostenere l’esercito il giorno del golpe. Odiano gli islamisti, sono cresciuti in un sistema autoritario e credono nelle gerarchie, nella retorica del nuovo Nasser. È di ieri la notizia che in Egitto, nei primi sei mesi del 2014, ci sono stati oltre 1.600 tra scioperi e proteste dei lavoratori. Non crede sia ora di formare un forte movimento politico di sinistra? Certo, chiediamo giustizia sociale e diritti umani. Abbiamo creato un comitato di coordinamento a cui prendono parte anche Ong. Il nostro primo scopo è l’organizzazione per superare la frammentazione della sinistra egiziana. I primi firmatari del nostro manifesto sono 150 e includono l’avvocato per i diritti umani Khaled Ali, i socialisti rivoluzionari e il movimento 6 aprile. Siamo contro Sisi ma sosterremo candidati indipendenti alle parlamentari. E non chiamiamo traditore chi ha scelto di votare per Hamdin Sabbahi (rivale di Sisi che ha ottenuto il 3% alle presidenziali, ndr). Siamo anti-capitalisti e per la ridistribuzione della ricchezza. A che punto è l’accordo tra polizia e militari per reprimere le contestazioni? Nell’anno e mezzo in cui la giunta militare era al potere, dal febbraio 2011 al giugno 2012, ha scoperto quanto la sua popolarità si fosse erosa. E così ha mobilitato la polizia spingendola nello scontro con le persone in piazza. Da quel momento il dipartimento morale dell’esercito ha lavorato sui soldati: ora polizia e militari sono abituati a vedere nei contestatori dei traditori, pagati dall’estero, e per questo a ucciderli. Egitto: i Fratelli musulmani hanno denunciato 54 casi di stupro tra le detenute egiziane Nova, 4 luglio 2014 I Fratelli musulmani egiziani hanno denunciato l’esistenza di prove che certificano la registrazione di 54 casi di stupro avvenuti nei mesi scorsi nei centri di detenzione egiziani, dove sono state rinchiuse le attiviste che sostengono il deposto presidente Mohammed Morsi. Secondo una fonte degli oppositori, la commissione d’inchiesta formata a marzo scorso ha certificato gli stupri avvenuti nei centri di detenzione della polizia, nelle carceri e anche nelle volanti e nei blindati della sicurezza dopo l’arresto delle manifestanti. Mauritania: completato trasferimento detenuti salafiti da base esercito a carcere Nouakchott Nova, 4 luglio 2014 È stato completato ieri il trasferimento dei 14 detenuti salafiti che si trovavano nella base militare di Salahuddin verso il carcere centrale di Nouakchott, in Mauritania. Secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa mauritana "Ani", ieri sera è stato trasferito l’ultimo gruppo di detenuti. Il trasferimento è stato deciso dopo la morte avvenuta in circostanze misteriose di uno dei 14 detenuti salafiti che ha provocato forti protesta tra gli islamici locali. Si tratta di detenuti condannati a morte per reati legati al terrorismo che dopo la sentenza del tribunale erano stati portati in una località ignota e che solo ora è stato reso noto che si trattava di una base militare. Stati Uniti: Mosca esige dagli Usa assistenza medica per il detenuto russo Yaroshenko www.italian.ruvr.ru, 4 luglio 2014 Mosca esige che gli Stati Uniti concedano le cure mediche necessarie in carcere al cittadino russo Konstantin Yaroshenko. Lo ha dichiarato Konstantin Dolgov, il plenipotenziario del ministero degli Esteri per i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. Secondo lui, il pilota, gravemente malato, ha bisogno di cure e diagnosi con la partecipazione di medici russi. Al momento il cittadino russo è stato privato anche dell’assistenza medica di base, compresa quella del dentista. In precedenza il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov si era direttamente rivolto al segretario di Stato John Kerry con la richiesta di indagare a fondo il caso. Yaroshenko sta scontando una condanna a 20 anni negli Stati Uniti per traffico di droga. Stati Uniti: "Orange Is the New Black", un telefilm sulla vita nelle carceri femminili di Sandra Martone www.vertigo24.net, 4 luglio 2014 Mamma Netflix, dopo House of Cards, ha tirato fuori dal suo produttivo ventre un’altra serie televisiva degna di nota: Orange is The New Black. Tratta dalle letterarie memorie di Piper Kerman, "Orange Is the New Black: My Year in a Women’s Prison", il telefilm narra le vicende realmente accadute alla stessa scrittrice, Piper, condannata a scontare quindici mesi al Litchfield, un carcere federale femminile, per aver trasportato una valigia piena di soldi di provenienza illecita per Alex Vause, una trafficante di droga internazionale e un tempo sua amante. La storia di Piper, benché avvincente e non priva di colpi di scena, è però solo la scusa per presentare e raccontare, puntata dopo puntata, la realtà di un carcere femminile e le storie delle sue detenute attraverso una serie di digressioni che ogni volta diventano story lines autoconclusive dell’episodio e, al contempo, storie parallele a quella madre che mostrano le fazioni e la realtà, nuda e cruda, di quel che accade in un penitenziario gineceo. Arrivato negli Stati Uniti alla seconda stagione, Orange the New Black nei suoi primi 12 episodi è stato in grado fin da subito di delineare i tratti distintivi delle sue innumerevoli protagoniste, che all’interno di Litchfield sono aggregate in gruppi che hanno come fondamento la loro etnia. Bianche con bianche, latine con latine e nere con nere, le unioni in quel del penitenziario non sono di certo distanti dal concetto di banda, con tanto di gestione del territorio e traffici illeciti all’interno del limitato spazio di un carcere. Odi, amori, amicizie, bisogno incessante di affetto proveniente non solo dalla condizione di segregazione ma anche, e soprattutto, da vissuti non semplici che hanno portato le ragazze a dover scontare una pena: questi sono i sentimenti più quotati di una serie televisiva coraggiosa e interessante che, se con la prima stagione aveva comunque messo in moto un buon ingranaggio, anche di condanna sociale delle condizioni nelle carceri, con la seconda serie preme ancora di più l’acceleratore su questo punto e sugli abusi di potere non solo delle guardie, molto spesso anch’esse vittime di un sistema, ma proprio sulla speculazione politica che c’è intorno al sistema penitenziario americano. Un telefilm coraggioso dunque, che molto spesso viene annoverato e plaudito solo per avere al suo interno delle omoerotiche relazioni, quando invece il motivo principe del suo successo, anche di critica, è da attribuire alla veridicità di ogni cosa che mostra - in un tripudio di errori e imperfezioni - che sottolineano la fragilità di alcune umanità e non solo di quelle colpevoli e per questo condannate. "Un errore giudiziario, uno sbaglio, una situazione estrema mostrano come sia facile finire in galera. Mostrano come chi si crede al sicuro, chi lascia le carceri alla loro oramai endemica disumanità, divori se stesso. Dallo stato delle carceri si comprende lo stato della democrazia di un paese: più le carceri sono disumane, più si sta distruggendo il diritto. La dignità delle carceri - questo è il passaggio fondamentale talvolta difficile da cogliere - non è un favore fatto ai criminali, ma è la vera costruzione della sicurezza di chi crede che non ci sia mondo più lontano dal proprio che quello. Entri per un micro reato ed esci criminale." Così ha scritto Roberto Saviano proprio su Orange is the New Black, che quest’anno ha fatto incetta di premi ai Critics Choice Television Awards e che, finalmente, è possibile vedere, nella sua prima stagione, in Italia sul canale Streaming On Demand Infinity di Mediaset Premium.