Giustizia: carceri affollate, risarcimento ai detenuti… l’Italia prova a salvarsi dai ricorsi di Federico Formica L’Espresso, 30 luglio 2014 La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l’Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle. L’Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l’articolo 3 della convenzione dei diritti dell’uomo, secondo il quale "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il "decreto carceri", che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade: Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di "abbuono" sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni "inumane o degradanti" per meno di quindici giorni. Il male minore. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d’un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell’articolo 3. Non è difficile prevedere l’esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L’8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall’articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all’Italia un anno di tempo per mettere la famosa "pezza". Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse "una riparazione effettiva" per le violazioni della Convenzione. "Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti" è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, "è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni". Dalla teoria alla pratica. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un’altra sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come "sentenza Sulejmanovic" - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l’articolo 3 della convenzione dei diritti dell’uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1.000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l’assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento "disumano e degradante". Stabilita l’entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand’è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. "Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione" spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. "I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento". Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all’interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le "lesioni alla dignità umana" patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. "I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza". Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un’altra legge, passata nell’aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l’affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l’approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di "indulto mascherato" mentre secondo il leghista Nicola Molteni "un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile". "Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all’inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò". Giustizia: mafia e servizi segreti; Renzi toglie il segreto di Stato al "Protocollo Farfalla" Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2014 La comunicazione arrivata alla presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi. Oggetto, l’accordo tra il Sisde e l’Amministrazione penitenziaria che permetteva agli 007 di entrare in contatto con detenuti al 41bis. Fava: "Primo passo per ricostruire ruolo apparati". Il premier Matteo Renzi toglie il segreto di Stato dal "Protocollo Farfalla", l’accordo riservato tra Sisde e Amministrazione penitenziaria che consentiva agli 007 di intrattenere contatti con detenuti al 41 bis. La decisione è stata comunicata dal direttore del Dis (Dipartimento per le informazioni e la sicurezza), Giampiero Massolo, alla presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi. Ora la commissione acquisirà la documentazione utile a completare l’indagine avviata sulla vicenda. Il segreto di Stato sul protocollo è emerso nel processo a Roma in cui Salvatore Leopardi, ex funzionario del Dap, e Giacinto Siciliano, ex direttore del carcere di Sulmona, sono accusati di aver girato ai servizi notizie sul pentito di camorra Antonio Cutolo. La circostanza è stata ricordata pochi mesi fa, quando Totò Riina è stato intercettato a colloquio con il boss pugliese Alberto Lorusso nel carcere di Opera, diretto proprio da Siciliano. Sul caso la commissione Antimafia ha svolto diverse audizioni, tra cui quelle di Arturo Esposito, direttore dell’Aisi (che dal 2007 ha preso il posto del Sisde) e dell’ex capo del Dap, Giovanni Tamburino. Dalle audizioni, il cui contenuto è stato secretato, è emerso che non sarebbe mai esistito un "protocollo Farfalla" nel senso di un documento scritto che regola la possibilità per gli agenti del servizio di avvicinare i detenuti al carcere duro. Ci sarebbero invece state due operazioni specifiche e limitate nel tempo, denominate "Farfalla" e "Rientro", svolte nel 2005 e nel 2006, che avevano come obiettivo l’accesso a boss al 41 bis. Nel 2007 entrambe le operazioni sarebbero state chiuse, mentre è stata aperta appunto un’inchiesta da parte della magistratura per verificare eventuali procedure illegali seguite. Nel 2010, poi, è stata sottoscritta una convenzione tra Dap ed Aisi che regola lo scambio di informazioni su detenuti e prevede che siano i vertici delle due amministrazioni ad incontrarsi periodicamente per questo scopo. E gli 007 non possono infiltrarsi nelle carceri o avere un accesso diretto ai detenuti. Negli ultimi due anni si sarebbero registrati una ventina di casi in cui dai servizi segreti sono arrivate al Dap richieste di informazioni su persone in carcere. Rosy Bindi ha espresso apprezzamento per la decisione di Renzi, elogiando la "trasparenza e alla leale collaborazione tra le Istituzioni". Anche il vicepresidente della commissione, Claudio Fava, ha ringraziato il premier ed ha ricordato di aver più volte denunciato "una anomala procedura di collaborazione tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria, sottratta ad ogni controllo della magistratura. La decisione di liberare gli atti del protocollo Farfalla dalla zavorra del segreto di Stato - aggiunge - è un primo passo per ricostruire compiutamente il ruolo che taluni apparati dei servizi hanno svolto in questi anni, non sempre in uno spirito di collaborazione con chi cerca la verità sui grandi delitti di mafia". Giustizia: revocate il 41-bis a Bernardo Provenzano di Antonio Ingroia Il Garantista, 30 luglio 2014 Il senso di quell’articolo è impedire al capimafia di dare ordini alle cosche. Per lui non serve più. È possibile in Italia affrontare il tema delicatissimo della natura, della funzione e dei limiti del regime carcerario differenziato del 41 bis fuori degli schieramenti militanti da tifoseria scalmanata sugli spalti, garantisti da una parte e anti-mafiosi dall’altra? Possibile aprire un dibattuto serio e civile in cui ciascuno ascolti gli argomenti altrui e rispetti l’interlocutore senza insultarlo di essere, a seconda, bieco torturatore di poveri carcerati o complice dei mafiosi? Dopo tanti anni di tentativi a vuoto, nutro più di qualche scetticismo, ma ciò nonostante insisto. A volte l’ostinazione paga. E sono così ostinato da porre una questione tanto delicata sul pivi incandescente banco di prova possibile, visto che si tratta di un caso limite, quello dì Bernardo Provenzano, oggi ricoverato in condizioni di salute assai precarie ma pur tuttavia sottoposto ancora al 41 bis. Le opposte tifoserie enfatizzano, da una parte, il suo stato di salute per qualificare il 41 bis come un accanimento carcerario gratuito equiparabile alla tortura, e dall’altra parte, il suo passato criminale, che ha seminato orribili stragi e omicidi, per osteggiare qualsiasi allentamento nel trattamento detentivo. Del resto, è proprio nei casi limite che vengono sottoposti a verifica i principi generali dell’ordinamento. Principi fondamentali che oggi vengono in conflitto su due nodi cruciali: l’umanità della pena, che secondo costituzione non ha solo finalità retributive, e cioè punitive, ma anche rieducative per il condannato e per la comunità; e, dall’altro lato, il principio, non meno irrinunciabile, della effettività e certezza della pena, principale antidoto contro l’impunità dei colpevoli, impunità su cui ha costruito tanta fortuna, autorevolezza e potere l’organizzazione mafiosa. La soluzione del conflitto è trovare il giusto punto di equilibrio, senza sacrificare nessuno di ei due principi fondamentali ì sistema penale, ma facendo sì che ciascuno sia un limite dell’altro. Una pena umana ma effettiva e certa; una pena certa ma non disumana. Facile a dirsi. Ma vediamo i fatti. Provenzano. Ho conosciuto Bernardo Provenzano per decenni attraverso le carte di tante inchieste: Provenzano ‘"u tratturi", detto così per la facilità con cui spianava - uccidendoli - i propri avversari, interni ed esterni alla mafia, e perciò responsabile di decine e decine di omicidi e stragi fra i più terribili della storia di Cosa Nostra, in ultimo le stragi palermitane del 1992 (Falcone e Borsellino) e le stragi indiscriminate del continente del 1993 che uccisero tante vittime innocenti (a Roma, Firenze e Milano). Ed ho conosciuto, sempre attraverso quelle carte, anche Provenzano "il ragioniere", il raffinato stratega mafioso che sapeva usare la violenza ma anche le arti della diplomazia bellica e della politica. I suoi capolavori criminali in quel periodo furono la strumentalizzazione di un politico mafioso che fu sindaco e assessore a Palermo negli anni del sacco edilizio, e cioè Vito Cianci-mino, corleonese come lui; e poi - da ultimo - il traghettamento della mafia dallo stragismo all’affarismo servendosi della "trattativa Stato-mafia". Quel Bernardo Provenzano è stato fra i criminali più sanguinari del secolo scorso. E perciò fra i più pericolosi e colpevoli. E questo resta incancellabile. Ho poi conosciuto un altro Bernardo Provenzano. Lo andai a sentire il 31 maggio 2012, dopo un suo apparente e anomalo tentativo di suicidio, per capire come stava e cosa stava accadendo in quel carcere. Incontrai un uomo vecchio, stanco e malato, che forse avrebbe voluto raccontare qualcosa dì più, ma era frenato da qualcosa o da qualcuno. La situazione di costrizione dove si trovava, le violenze e le minacce che poteva aver subito in carcere, la difficoltà a violare la sua cultura ed il suo codice, o la preoccupazione di danneggiare ì suoi familiari, chissà. Ad ogni modo, non ebbi la sensazione di avere di fronte il capomafia efficiente ed implacabile con le sue vittime che era stato per tutta la vita, come le carte, i processi e le sentenze me lo avevano consegnato. Avrei voluto tornare a sentirlo e approfondire quella verifica, ma non ne ebbi neppure il tempo perché qualche mese dopo lasciai la Procura di Palermo. Ora leggo che le sue condizioni da salute si sono aggravate ed è perciò ricoverato. Immagino che sia un altro Provenzano ancora, sempre più lontano dal boss che "avevo conosciuto sulle carte. Il 41 bis, che ho conosciuto dopo l’introduzione del regime differenziato per i mafiosi nel post-stragismo del 1992, e che ho difeso per anni da critiche militanti ed infondate, era una cosa diversa da quella che vedo oggi. E credo che occorra tornare alla sua ispirazione originaria. Il 41 bis non è stato concepito come afflizione suppletiva per i detenuti ritenuti più pericolosi, ma misura mirata alla specifica finalità preventiva di impedire che i capimafia potessero comunicare con l’esterno per dare ordini, come troppe "volte è accaduto nella storia della mafia. Vige, invece, un generale malinteso sulla reale funzione del 41 bis, malinteso incoraggiato anche dall’estensione di tale regime ad altri detenuti, ritenuti più pericolosi dei comuni, come i terroristi, che però non sono qualificati dalle caratteristiche dell’organizzazione mafiosa capace di tenere ì rapporti con i capi in carcere. Se tornassimo allora all’ispirazione origi-, nana del 41 bis, la sua funzione sarebbe più chiara e dovrebbe quindi essere applicata solo ai capimafia ancora in grado di reggere le fila dell’organizzazione anche dall’interno del carcere, così restituendo senso ed efficacia all’istituto che verrebbe limitato nella sua applicazione ad alcune decine di detenuti, perciò meglio controllati, e andrebbe revocato a chi tali caratteristiche di pericolosità attualmente non ha. Rimesso su binari di razionalità e coerenza rispetto all’ispirazione originaria, il 41 bis potrebbe perciò venire adottato conciliando i principi di umanità e di efficacia e certezza della pena. E la magistratura sarebbe libera da pressioni e condizionamenti delle tifoserie contrapposte per poter decidere se davvero l’attualità delle condizioni di salute di Provenzano e dei suoi rapporti con il mondo di Cosa Nostra possa giustificare la permanente applicazione di un regime che non deve avere alcuna funzione sanzionatoria, ma soltanto la finalità preventiva di impedire i collegamenti col mondo criminale di provenienza. Insomma, il Provenzano che ho conosciuto attraverso le carte dei processi e delle sentenze merita, giustamente, l’ergastolo, invece al Provenzano che ho conosciuto nel 2012, e che ancor meglio potranno valutare oggi i magistrati competenti, il 41 bis a me sembra che non serva, come non serve per tanti altri detenuti per fatti non di mafia. E meglio sarebbe applicare il 41 bis solo ai capimafia in carcere ancora oggi operativi. La mia posizione è ovviamente lontana anni luce da chi, come nel 1993 fece l’allora Ministro Conso, ritenne andasse indiscriminatamente allentato il 41 bis o da chi oggi ne predica l’abolizione. E neppure si tratta di ragioni umanitarie, ma dì applicare la legge secondo la ratio ispiratrice del regime carcerario differenziato per i mafiosi. Ma è possibile oggi aprire un serio dibattito in argomento? Ne dubito. Perché un confronto di idee e non di scontri polemici sì potrà avviare solo quando usciremo dalla logica delle fazioni contrapposte che vedono in un’eventuale revoca individuale del 41 bis quella rinuncia definitiva allo strumento che gli uni temono e gli altri auspicano. Mentre invece la revoca del 41 bis per questo Provenzano non ne intaccherebbe la funzione, anzi la rafforzerebbe, perché il 41 bis resta indispensabile ed utile purché usato secondo la sua funzione originaria (magari riaprendo carceri "dedicati" al 41 bis come Pianosa e L’Asinara, frettolosamente chiusi) senza piegarlo a finalità improprie. E quindi dannose ed abnormi. Ma temo restino parole al vento. Lettere: fare politica a favore dei diritti dei detenuti si può di Domenico Letizia www.radicalicaserta.com, 30 luglio 2014 Nella città invisibile, dove il sovraffollamento delle carceri e i diritti dei detenuti sono temi su cui raramente ci si sofferma, c’è chi opera anche tacitamente affinché questo muro del silenzio crolli definitivamente. Oltre la Chiesa, gli operatori sociali e varie cooperative, ci sono uomini e donne che sostengono chi vive il dramma del carcere nella veste del detenuto o del familiare che assiste alle strazianti condizioni della vita di un carcerato. Una di queste è Carmela Esposito, napoletana da qualche anno iscritta ai Radicali Italiani, che con le sue battaglie a favore dei diritti dei detenuti, ha ottenuto piccoli grandi risultati. "Il mio primo approccio con i Radicali Italiani è avvenuto nel 2012, quando mio marito scrisse una lettera a Irene Testa (Segretaria dell’Associazione "Il Detenuto Ignoto", membro della giunta di Radicali Italiani e responsabile del gruppo di lavoro su Carceri e Giustizia), per esporre la propria condizione di salute a ridosso di una sentenza definitiva e della conseguente condanna frutto di un processo durato circa 10 anni. La mancanza del farmaco salva vita che gli evitava il coma, era la sua preoccupazione più grande. L’intervento della Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, ha fatto sì lui potesse avere il farmaco in cella dal momento della detenzione presso il Carcere di Poggioreale di Napoli". Con queste parole Carmela Esposito ha raccontato il suo progressivo approccio al sostegno dei detenuti. Dopo la carcerazione sono iniziati i colloqui settimanali e nelle lunghe code per accedere alla sala, Carmela ha conosciuto i familiari degli altri detenuti e la drammaticità delle storie che ha avuto modo di ascoltare ogni volta che entrava in quel carcere, hanno lasciato un segno. "In occasione di una delle tante visite - ha dichiarato Carmela Esposito - ho conosciuto Maria Cacace, la madre di Vincenzo Di Sarno, un detenuto affetto da una patologia molto grave: con Maria è nato un rapporto di grande solidarietà e accanto a lei ho condotto una battaglia affinché vengano riconosciuti al detenuto diritti fino a quel momento negati". Nel corso della conferenza stampa del settembre 2013, durante la quale Adriana Tocco ha denunciato le condizione disumane in cui vertono i detenuti campani, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto visita a Vincenzo Di Sarno, il quale ha ottenuto la detenzione domiciliare a scopo curativo. "Per me questa è stata la prima battaglia vinta, con il sostegno di quanti operano a favore dei diritti dei carcerati" ha ribadito Carmela. A seguire e sostenere le battaglie di Carmela è Fabrizio Ferrante che rende pubblico il suo lavoro al fine di sensibilizzare e ottenere manforte dal mondo politico e dalle istituzione. In occasione dell’Assemblea Nazionale dei Radicali tenutasi a Roma nei giorni scorsi, Carmela Esposito ha dichiarato che "questo ed altri episodi sono la dimostrazione che si può fare politica a favore dei diritti dei detenuti anche da soli e senza il sostegno di associazioni". Sensibilizzare le istituzioni, affinché vengano riconosciuti diritti e trattamenti degni è la base da cui partire per ottenere risultati concreti e il sovraffollamento delle carceri è una delle piaghe più grandi da rimarginare. Lettere: decreto carceri, l’Italia nasconde i problemi sotto il tappeto di Valerio Morabito www.blogtaormina.it, 30 luglio 2014 L’oasi felice di Bollate. Il carcere milanese di Bollate è una delle strutture migliori in Italia. La parola chiave tra i secondini e i detenuti è responsabilità e così ci si trova davanti a celle aperte tutto il giorno, detenuti che in gran parte sono occupati a far qualcosa, uomini e donne spesso insieme nelle varie attività di lavoro. Qua dentro si svolgono le opere più disparate. Dal teatro, dove durante l’anno si realizzano spettacoli a pagamento, al laboratorio musicale e di pelletteria o al catering con i detenuti che vanno in giro a portar da mangiare. C’è poi uno sportello giuridico con avvocati e magistrati in pensione, che vengono a fare assistenza gratuita ai detenuti. Ci si tiene impegnati anche con la carta stampata e vengono realizzati due giornali tra le mura del carcere: "Carte Bollate" e "Salute inGrata". Salta all’attenzione l’umanità del penitenziario lombardo e l’area colloqui non è quella stanza (in stile cinematografico) in cui un vetro separa il detenuto dai familiari, bensì è un giardino con tavolini, ombrelloni e giochi per i bambini. Il degrado delle carceri italiane. Se degli ispettori provenienti da Bruxelles visitassero la struttura di Bollate, penserebbero che la situazione delle carceri italiane è all’avanguardia. Peccato, però, che esistono realtà lontane anni luce dalla struttura del milanese. Edifici vecchi e costruiti in luoghi non idonei per una città contemporanea, celle piccole e prive di qualsiasi servizio, sovraffollamento inimmaginabile, assenza di alternative costruttive all’interno del carcere. Insomma, è un incubo e Bollate diventa un’oasi nel deserto. In questi anni l’Italia è stata richiamata più di una volta ai suoi doveri e il Presidente della Repubblica Napolitano ha sottolineato l’urgenza di intervenire per "superare la realtà di degrado civile e di sofferenza umana degli istituti penitenziari". Il problema è anche architettonico e forse occorrerebbe riflettere sulla possibilità di rendere questi posti più umani. Renzo Piano, con Le Murate di Firenze - ex complesso carcerario, ha dimostrato che da un luogo del genere si può far emergere ben altro. Il decreto carceri e gli indennizzi ai detenuti. Certo, non è il caso di una struttura che deve ospitare sempre dei detenuti, però è un esempio in grado di mostrare come la bellezza e l’umanità può essere presente in ogni angolo. Basta saperla scorgere. Nel frattempo i vari governi che si susseguono non sembrano particolarmente interessati alla vicenda e a risolvere il problema alle origini. Si limitano soltanto a mettere delle toppe. Con una logica del genere non sorprende che si cerchi di nascondere sotto il tappeto i problemi sin troppo evidenti del sistema carcerario e per evitare sanzioni dalla Corte europea, la Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Per aggirare una pioggia di risarcimenti milionari, lo Stato ha messo le mani avanti e, dopo l’approvazione da parte del Senato del Decreto carceri, concederà un risarcimento in denaro a chi è già uscito dal penitenziario oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di abbuono sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. O, ancora, a chi ha vissuto in condizioni "inumane o degradanti" per meno di quindici giorni. I Radicali chiedono risposte al Ministro della Giustizia. Il governo, dunque, prova a buttare acqua sul fuoco. Le carceri italiane necessitano di tutto. Dal personale (compresi psicologi, educatori, assistenti sociali e magistrati di sorveglianza) alla semplice pulizia. In verità questo dl carceri aumenterà gli agenti penitenziari e i magistrati di sorveglianza, ma è troppo poco. Il penitenziario di Bollate dovrebbe essere preso come esempio da tutte le altre strutture, invece non si fa nessun passo avanti e i Radicali, come sempre, sono una forza politica attenta ad un problema simile. La segretaria nazionale Rita Bernardini, in sciopero della fame da 28 giorni per il rispetto al diritto delle cure dei detenuti, è in attesa di una risposta da parte dell’esecutivo su alcune domande inerenti la situazione delle carceri italiane: "Grazie al vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, abbiamo potuto rivolgere alcune domande al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Ora attendiamo una rapida risposta, visto che si tratta di dati già tutti disponibili presso il Dap; e grave sarebbe se non lo fossero, essendo il nostro Paese sottoposto a monitoraggio da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa chiamato a verificare l’esecuzione della sentenza Torreggiani (quella per cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Cedu: tortura / trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti"). Abruzzo: il Pd raccoglie l’appello di Di Nanna e Grifoni di "Amnistia giustizia e libertà" www.abruzzo24ore.tv, 30 luglio 2014 "Ritengo doveroso condividere con voi questo momento di confronto serrato con le Istituzioni parlamentari e il governo nazionale, affinché venga adottato un provvedimento di amnistia ispirato al rispetto dei diritti umani fondamentali". Lo ha scritto il Consigliere regionale del Pd e Presidente della Quarta Commissione consiliare, Luciano Monticelli, ai referenti teramani di Amnistia Giustizia e Libertà, Vicenzo Di Nanna e Ariberto Grifoni, in risposta alla loro lettera-appello per sensibilizzare i rappresentanti delle Istituzioni rispetto al problema delle morti in carcere e delle condizioni di salute dei detenuti. "Da sempre - rileva Monticelli nella lettera - la mia azione politica è stata ispirata agli irrinunciabili valori della giustizia, libertà, uguaglianza e pace. La mia esperienza amministrativa quale Sindaco della città di Pineto è costellata di iniziative, manifestazioni ed incontri che avevano sempre questi valori, quali minimo comune denominatore. Il provvedimento di amnistia - continua - è stato espressamente richiesto dalla Regione Abruzzo con specifica risoluzione e oggi, che mi onoro di ricoprire un ruolo rilevante in seno al Consiglio regionale, sento ancora più forte il dovere di intervenire e far sentire la mia voce affinché quella risoluzione abbia seguito e non rimanga lettera morta". Preannunciando una sua visita al penitenziario di Teramo, il Consigliere Monticelli conclude così la sua lettera: "Assicuro sin d’ora il mio massimo impegno ed esprimo il più vivo compiacimento per questa battaglia che state combattendo e che combatteremo insieme in nome e nel rispetto dei valori sanciti nella nostra Carta costituzionale". Livorno: è pronto ma non apre il nuovo padiglione delle Sughere costato 20 milioni di Lara Loreti Il Tirreno, 30 luglio 2014 Il padiglione è pronto, il collaudo c’è. Ma un atto formale blocca tutto. E la nuova struttura che sorge all’interno del carcere - che dovrebbe ospitare 150/180 detenuti - resta chiusa. La maledizione del nuovo padiglione delle Sughere continua a imperversare. Si sta parlando di un’ala in costruzione da 7 anni e che doveva essere pronta da almeno due. Le facciate sono perfette, sul tetto ci sono i pannelli solari e nel magazzino dell’istituto detentivo giacciono tutte le suppellettili, dalle brande ai materassi, dalla bilance ai cuscini, destinate alle nuove celle. Eppure, ancora una volta, c’è qualcosa che blocca l’inaugurazione dell’edificio. Non sono bastati incontri, tavole rotonde, proteste, sopralluoghi di politici, e persino l’inchiesta penale della Procura di Roma, tuttora in corso, su come siano stati spesi i soldi pubblici destinati alla ristrutturazione delle Sughere e di altri cinque carceri italiani. Un affare di edilizia pubblica, quello livornese, da 20 milioni di euro. Si ricorda, infatti, che gli investigatori avevano messo gli occhi sulla struttura di via delle Macchie a causa di problemi strutturali emersi all’interno del nuovo edificio (infiltrazioni, ascensori allagati, ingranaggi arrugginiti) ancora prima della fine dei lavori. Adesso quella brutta storia - almeno dal punto di vista strutturale - è superata perché il collaudo esiste. Lo spiegano il garante dei detenuti delle Sughere, Marco Solimano, e quello regionale Franco Corleone. "La notizia ora è che finalmente il padiglione è agibile - ironizza il garante delle carceri per la Toscana, che ha seguito da vicino tutta la vicenda - manca solo il collaudo della cucina, che però non è vincolante per il momento. Io personalmente, un paio di settimane fa ho parlato con il responsabile dell’ufficio Beni e servizi del Dipartimento di Roma il quale mi ha confermato che è tutto pronto. Segno che il nostro interessamento è stato utile". Ma allora cosa blocca l’apertura del padiglione? Il punto è che non è stato ancora formalmente consegnato alla direzione del carcere. Lo conferma la stessa Santina Savoca, direttrice delle Sughere: "Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione dal dipartimento, è tutto in sospeso. Il collaudo è stato fatto, ma non ci dicono nulla di più. È tutto in forse, non sappiamo ancora neanche che tipo di detenuti saranno ospitati all’interno". E c’è chi dice che tutto sarebbe slittato a dopo l’estate per evitare problemi legati alle ferie. "Questi ritardi continui sono una vergogna, qui siamo di fronte a una burocrazia incredibile - tuona Solimano - anche perché gli slittamenti si riversano su tutte le attività ricreative dei detenuti e sul famoso decreto che prevede le 8 d’ore d’aria per la popolazione carceraria. Ormai, da quando la struttura è pronta, è passato un mese". Un’altra incognita è legata all’utilizzo del padiglione: che tipo di detenuti ospiterà? Per il momento di parla di quelli "comuni": niente alta sicurezza e niente sezione femminile, come invece vorrebbe il garante Solimano, sostenuto in questo dal suo omologo regionale Corleone. "La sezione femminile a Livorno è storica e riaprila sarebbe necessario per evitare da una parte la dispersione delle detenute livornesi e dall’altra il sovraffollamento dell’ala di Pisa - dice Solimano - Così facendo si agevolerebbero anche i familiari delle detenute che potrebbero accedere più facilmente ai colloqui". La partita dunque resta aperta. Solimano garante "precario" dei detenuti Continua ad esercitare il ruolo di garante dei detenuti, ma la carica è "scaduta" con l’elezione della nuova amministrazione comunale. Dopo 4 anni di lavoro, Marco Solimano è in attesa della nomina del nuovo garante, che spetta al sindaco, Filippo Nogarin. È compito infatti del primo cittadino scegliere la persona che svolgerà quel ruolo per i prossimi 5 anni, parallelamente al mandato del sindaco. Sarà lui a decidere se confermare Solimano o se optare per un nome nuovo. "Il giorno dopo le elezioni - spiega l’attuale garante - ho scritto una lettera al sindaco in cui evidenziavo che la mia carica era finita, dando comunque la mia disponibilità a svolgere i compiti del garante, fino alla nuova nomina. Cosa che sto facendo. Il sindaco mi rispose dicendo avrebbe provveduto appena possibile. Si tratta di una sua decisione, che ovviamente prenderà in assoluta autonomia". Intanto Solimano continua a frequentare ogni giorno il carcere e a battersi per i diritti dei detenuti. La scorsa settimana ha anche partecipato a una rappresentazione teatrale insieme alla vicesindaco Stella Sorgente. "Lei mi ha ribadito - spiega Solimano - che io resto in carica fino alla nuova nomina". Napoli: appello per detenuto di Secondigliano; va operato d’urgenza o rischia di morire Ansa, 30 luglio 2014 "Se non verrà, al più presto, sottoposto, in un centro clinico specializzato, ad un delicato intervento chirurgico finalizzato alla sostituzione della valvola aortica, Sebastiano Pelle, rischia di morire in carcere". È quanto scrive, in un’istanza presentata al gip del Tribunale di Roma, l’avvocato Angela Giampaolo, legale di Pelle, di 54 anni, di Careri (Reggio Calabria), attualmente detenuto nel carcere di Secondigliano, a Napoli. Sebastiano Pelle, soprannominato "Pelle-Pelle", è stato coinvolto nell’operazione antidroga "Good Luck", eseguita nel maggio del 2012 su direttive della Procura di Roma. Dopo un periodo di irreperibilità, Pelle è stato arrestato dai carabinieri a Careri nell’agosto del 2013. Nel processo col rito abbreviato, conclusosi nel maggio scorso, Pelle è stato condannato ad 8 anni di reclusione per traffico di droga. "Il Gip del Tribunale di Roma - aggiunge l’avvocato Giampaolo - nel maggio scorso, rispondendo ad una nostra precisa istanza, ha invitato il Dap ad attivarsi con la massima sollecitudine per reperire un’altra idonea sistemazione per Pelle, viste le gravi patologie accertate non solo dal nostro consulente ma anche dal perito nominato dal giudice. Dalle perizie effettuate è chiaramente emerso che le condizioni di Pelle sono assolutamente incompatibili con l’ordinario regime di detenzione carceraria. Insistiamo, quindi, affinché Sebastiano Pelle venga trasferito al più presto in una struttura sanitaria adeguata quale cittadino italiano e padre di sei figli e a tutela del suo diritto alla salute, costituzionalmente garantito e previsto anche dalle convenzioni internazionali". Roma: Argentin (Pd); a Regina Coeli ci sono barriere architettoniche e ascensore rotto Dire, 30 luglio 2014 "Ieri sono entrata a Regina Coeli e anche lì ho trovato le barriere architettoniche. Eppure sono romana di Roma: i tre gradini pensavo di farli con più facilità. L’ascensore per i disabili era rotto e come un pacco ben confezionato sono stata tirata su da quattro forzutissime guardie. Io e la mia carrozzina a mo’ di sedia del Papa siamo così entrate a Regina Coeli". Lo racconta alla Dire la deputata Pd, Ileana Argentin. "Sono andata in carcere per incontrare Sergio Ruggeri, l’uomo che ha ucciso il figlio disabile e la moglie malata nell’aprile scorso", prosegue. "Gli sono stati rifiutati gli arresti domiciliari perché il pm non ha creduto alla sua disperazione, ma io, pur non giudicando, sono dalla parte di quest’uomo". Argentin gli crede perché lei, come deputato disabile, riceve ogni giorno decine di richieste di aiuto da genitori anziani o malati per l’assistenza di ragazzi con handicap gravi. "Lui ha fatto - sottolinea l’esponente democratica - un gesto d’amore. Ci sono i fogli firmati dalla moglie che gli chiede questa prova: "Se mi vuoi bene uccidi me ed Alessandro", gli scrive Maria Teresa. E lui dopo tanti mesi ha esaudito consciamente questa richiesta". Dopo questo incontro, che l’ha colpita profondamente, Argentin dice che in lei "è salita sempre di più la convinzione che la politica deve velocizzare i tempi: la proposta di legge sul "Dopo di noi" è in commissione Affari sociali della Camera, è finita la discussione generale e siamo alle audizioni. Per settembre arriveremo all’unificazione dei testi di legge che attualmente sono 3 e poi, dopo il parere della commissione Bilancio, all’aula. Spero tanto che per il 3 dicembre, giornata internazionale dell’handicap, la legge sia stata approvata e si possa iniziare ad applicarla. I disabili in Italia sono circa 5 milioni e circa un terzo hanno bisogno del "Dopo di noi". Come mi ha detto Sergio: non dimentichiamo e che la sua storia sia l’ultima", conclude. Velletri (Rm): detenuto scappa a piedi dall’auto dei carabinieri, è caccia all’evaso www.blitzquotidiano.it, 30 luglio 2014 È uscito dall’auto dei carabinieri e si è dato alla fuga a piedi, con le manette ancora ai polsi. La fuga di Omar Lahbim, pregiudicato di origine marocchine, è iniziata a Velletri nel pomeriggio del 28 luglio, mentre i carabinieri lo scortavano in tribunale per un’udienza. Subito è iniziata la caccia all’evaso nelle campagne di Velletri e sul litorale di Roma, dove l’uomo era stato arrestato e vive. Il Messaggero scrive: "Era stato arrestato la sera prima dai militari della stazione di Tor San Lorenzo (Ardea), per maltrattamenti alla giovane moglie romena nella zona delle Salzaree. Dopo il processo per direttissima tenutosi ieri (28 luglio, ndr) al Tribunale di Velletri, il 34enne su disposizione del giudice doveva essere tradotto in carcere dai tre carabinieri che lo scortavano, ma qualcosa non è andato per il verso giusto, e poco prima dell’arrivo al cancello del penitenziario di Contrada Lazzaria, nelle campagne di Velletri, al confine con i territori di Aprilia e Cisterna, quando la gazzella ha rallentato, lo straniero è riuscito ad aprire lo sportello posteriore e correndo come un pazzo si è dileguato tra le vigne e gli uliveti della zona. I due militari hanno cercato di raggiungerlo rincorrendolo ma non sono riusciti a bloccarlo". Unità cinofile, elicotteri e circa 100 agenti hanno dato la caccia all’evaso sia a Velletri che sul litorale romano, dove l’uomo vive: "È la prima volta che durante una traduzione al carcere veliterno un detenuto riesce a fuggire da un auto delle forze dell’ordine. Ora bisognerà capire cosa è accaduto, visto che le auto in dotazione alle forze dell’ordine hanno le sicure bloccate dall’interno e dall’esterno quando c’è un detenuto a bordo e le traduzioni degli arrestati secondo le disposizioni giudiziarie vengono fatte almeno da tre militari, due davanti e uno dietro vicino alla persona da tradurre in carcere". Matera: dal carcere alla maturità col massimo dei voti, ora vuole iscriversi all’università di Piero Quarto Quotidiano della Basilicata, 30 luglio 2014 Un giovane 31enne siciliano diventa ragioniere con 100 e ora punta a iscriversi all’Università: un esempio di riscatto. Un cento che vale forse più di altri. Uno stimolo ed un esempio di lavoro, studio, integrazione che funge anche da stimolo per quelle istituzioni che lavorano al fianco dei detenuti. La storia è quella di un ragazzo di 31 anni, proveniente dal carcere di Palermo, che ha ottenuto qualche giorno fa a Matera presso l’istituto tecnico commerciale e per geometri Olivetti la maturità. È diventato ragioniere con il massimo dei voti, un 100 che vale ancora di più. Il giovane ha frequentato per tre anni con altri suoi compagni i corsi scolastici sotto la guida dei docente dell’istituto Olivetti e la supervisione del direttore della casa circondariale di Matera dottoressa Percoco. "È un ragazzo che ha sempre mostrato una grossa passione per lo studio e che è arrivato già con una valutazione molto alta" racconta la professoressa Liliana D’Ercole dell’Olivetti, "ha mostrato addirittura oggi l’intenzione di iscriversi all’Università e di frequentare una facoltà, credo ad indirizzo economico. È un ragazzo che ha studiato e a cui nulla, come mi ha sottolineato anche il presidente della commissione d’esame, è stato regalato. Nessun occhio particolare ma solo la voglia di emergere". Il giovane che ha anche una moglie ed una figlia continuerà probabilmente a mettere a frutto le conoscenze accumulate nel triennio di ragioneria Igea: "all’esame ha voluto mostrare di conoscere anche il territorio in cui si trova, ha portato Carlo Levi e anche la prima guerra mondiale. È sembrato da subito uno studenti che ha una grande voglia di imparare, delle capacità sotto il profilo dei lavori creativi ed è uno studente che crede molto nelle sue capacità. Ovviamente questo risultato" ha spiegato ancora la professoressa D’Ercole, "è il frutto della sinergia che si è creata tra l’Olivetti e la casa circondariale, con la dottoressa Percoco, il dottor Gentile, la dottoressa Catalano che hanno fatto sì che la scuola potesse essere sempre presente nella crescita di questo studente". Il destino probabilmente di questo giovane studente è quello di spostarsi in una nuova sede dove poter intraprendere anche gli studi universitari, di certo il carcere e le difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro non lo stanno demoralizzando ma anzi lo stimolano a cercare una via d’uscita diversa. Il senso vero di un momento di forte riscatto ed emancipazione che mostra anche l’impegno civile che viene mostrato dai docenti e dalla stessa casa circondariale. Questo tipo di risultato servono anche a caratterizzare e definire nel tempo il valore di una comunità come quella materana rafforzando più di tutto l’obiettivo di un traguardo prestigioso come la capitale della cultura nel 2019. Del resto questo tipo di risultato e di integrazione non è certamente usuale e semplice da raggiungere come conferma la stessa professoressa D’Ercole: "devo dire che gli sforzi sono grandi per cercare di coinvolgere i ragazzi detenuti che studiano, molto spesso si tratta di un tentativo di fare qualcosa di diverso più che di voglia davvero di studiare. Non è facile affrontare queste situazioni anche perché nel sessanta per cento dei casi non c’è una grande voglia, si fa fatica ad insegnare a questo tipo di studenti. Eppure" racconta la professoressa D’Ercole, "si cerca di passare da una lezione classica ad aspetti specifici e particolari che possano motivarli. Si cerca di passare del tempo ad insegnare la cosiddetta educazione alla legalità. Cerchiamo di inviare dei messaggi positivi anche se non sempre bastano queste tipo di sollecitazioni e di esortazioni". Considerazioni quelle della docente che non solo mostrano la difficoltà e la specificità di un servizio come quello che viene svolto con i detenuti ma che danno ancora più importanza ad un risultato come la maturità con il massimo dei voti che viene ottenuta con una costanza di voti e di risultati prolungata nel tempo e confermata anche nel corso dell’esame di maturità. Un messaggio che dà speranza e dà stimolo al lavoro che viene svolto quotidianamente e mostra un risultato che esalta e lusinga. Non solo lo studente ma tutti coloro che si sono impegnati per arrivare a questo tipo di risultato. Foggia: detenuto ferisce due agenti di Polizia penitenziaria, protesta del Sindacato Sappe Ansa, 30 luglio 2014 Due agenti di Polizia penitenziaria sono rimasti leggermente feriti (prognosi di cinque e 10 giorni) nel carcere di Foggia dopo essere stati aggrediti da un detenuto. L’aggressione, secondo quanto riferito dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), è stata compiuta ieri da un detenuto 45enne della provincia di Napoli che sta scontando una condanna definitiva per reati comuni. Dopo essere stato accompagnato nell’infermeria del carcere per la somministrazione di medicinali, mentre tornava in cella il detenuto ha aggredito con calci e pugni un poliziotto penitenziario che lo accompagnava, facendolo rotolare per terra. Un altro agente è intervenuto ed è stato anche lui colpito con un pugno, ma è riuscito ad immobilizzare a terra il detenuto. In aiuto dell’agente sono intervenuti altri suoi colleghi e il detenuto è stato ricondotto in stanza, mentre i due agenti feriti sono stati medicati al pronto soccorso degli Ospedali Riuniti di Foggia. Il Sappe sottolinea in una nota che "gli episodi di aggressione ad agenti ha ormai abbondantemente superato la soglia fisiologica" e che queste aggressioni "sono eventi annunciati poiché la carenza di personale, oltre 50 unità, costringe alla movimentazione dei detenuti, non tenendo conto delle minime norme di sicurezza". Il Sappe chiede quindi "all’Amministrazione centrale e regionale un intervento con l’invio di personale presso il penitenziario di Foggia, in quanto la situazione diventa sempre più delicata, e non si escludono accadimenti drammatici che - conclude il sindacato - oltreché colpire il carcere, potrebbero creare problemi anche alla sicurezza pubblica". Teatro: Compagnia della Fortezza, il "Santo Genet" delle rose e dei carcerati di Andrea Porcheddu www.linkiesta.it, 30 luglio 2014 Ci sono tornato due volte, a vedere Santo Genet, della Compagnia della Fortezza. Ho avuto il privilegio di non fermarmi alla prima impressione, ma di continuare a interrogarmi, a scontrarmi, a emozionarmi con lo spettacolo firmato da Armando Punzo con i detenuti del carcere di Volterra. Il primo giorno mi ero confuso, irritato, sperso in quel labirinto di corpi, di specchi, di parole, di eccessi: quei marinaretti, più che a Querelle, mi facevano pensare a una pubblicità di Moschino. E invece, Santo Genet è un viaggio in una spirale di ossessioni e perdizioni, è la messa in vita non solo di infiniti frammenti che compongono una nuova e sorprendente unità, ma è anche una concrezione, reale immediata sublime, dell’opera e dell’esistenza dello scrittore francese. C’è un legame antico tra Jean Genet e la Compagnia della Fortezza: non poteva essere altrimenti. Sarà anche perché lui, l’autore de Le serve, conobbe per la prima volta il carcere a 16 anni, alla Petite Roquette, per "vagabondaggio, contravvenzione del regolamento ferroviario e appropriazione indebita". A quel primo arresto, ne seguiranno altri: entrava e usciva dal carcere ma, a un certo punto della sua carriera di piccolo criminale, Jean Genet si mette a scrivere. Possiamo dire, anzi - seguendo Chantal Dahan - che "comunque, dalla sua cella, da un "buco", emergerà una scrittura, un universo immaginario così potente, dalle ripercussioni così forti, che questo mondo non cesserà di dire il suo nome". Dal delinquente allo scrittore: ecco la genealogia che accompagna da anni - a partire da I Negri, storico allestimento di Punzo del 1996 - il percorso frastagliato, difficile, a tratti contraddittorio della Fortezza di Volterra. Non poteva essere altrimenti: e forse non poteva esserci autore più adatto per toccare il culmine (strutturale, drammaturgico, poetico, individuale) della teatralità recente del gruppo. Quasi che gli spettacoli precedenti, non solo lo studio dello scorso anno, fossero in qualche modo "propedeutici" a questa amara e spettacolare epifania. È lo stesso Punzo ad accogliere il gruppo degli spettatori: dopo i controlli di rito, accompagnati e sorvegliati dai disponibilissimi agenti di custodia; dopo la lunga attesa dovuta alle incerte condizioni metereologiche, saliamo la rampa che immette nel cortile della fortezza medicea che si staglia sopra Volterra. Troviamo lui, giullare, giocoliere, funambolo del sentimento: maitresse - dirà il regista di sé sul finale, seguendo le suggestioni genettiane - di un bordello disperato e umanissimo. Accogliendoci sulla soglia simbolica di quel mondo a parte, Punzo sospende il tempo, porta gli spettatori in una dimensione che esula da qualsiasi coordinata. Siamo là, di fronte al tutto e al nulla: seguiamo quell’incantatore, passiamo attraverso due file di marinai alla Querelle de Brest che assumono pose classiche e grottesche (i marinaretti che non mi avevano convinto). Infine entriamo nello spazio bianco di un cimitero monumentale e posticcio, che occupa tutta l’area del cortile del carcere. Qui troviamo le prime figure di attori-narratori dai vestiti eccentrici; una donna giovane sposa velata a lutto; quattro bambini-angeli con i loro strumenti musicali; un pianista cui spetta il compito di dare l’emozione della musica (il bravo Andrea Salvadori). In questo intro è subito chiarito il clima emotivo: lo struggimento, il lirismo decadente, quella commistione blasfema di sacro e profano, quell’amore impossibile - carnale e poetico - evocato e ricercato, che brucerà sottopelle per tutto lo spettacolo. A far da cifra ai costumi (meravigliosamente esagerati di Emanuela Dall’Aglio) ecco una frase dalla seconda edizione del Journal du voleur: "Vi è dunque uno stretto rapporto tra i fiori e gli ergastolani. La fragilità, la delicatezza dei primi sono della stessa natura della brutale insensibilità dei secondi. Il mio turbamento è nell’oscillazione tra gli uni e gli altri. Se dovessi rappresentare un forzato - o un criminale - lo adornerei di tanti fiori che lui stesso sparirebbe sotto di loro divenendo un altro, gigantesco racconto". Dunque fiori ovunque, rose e delicati anemoni, che verranno lanciati, alla fine, in un omaggio lirico e mortifero. Poi il gruppo di spettatori - come prassi degli ultimi allestimenti - si sposta all’interno, nello stretto corridoio, nelle piccole celle, nella saletta in cui è ricavato il minimo teatro della compagnia. Lo spazio è reso ancora più claustrofobico dalla miriade di specchi, di ogni forma e dimensione, appesi ovunque, e dalle pareti ricoperte di teli neri. E poi un’infinità di oggetti, di paccottiglia da devozione pop (madonne e altarini), cineserie, candele, ancora fiori: in una cella, infine, gli aspri ritratti di Genet - elaborati dal genio pittorico di Mario Francesconi - cui fa da contraltare un San Sebastiano in carne e ossa, pronto a essere segnato a colpi di rossetto. In mezzo a queste infinite wunder kammer macabre, ecco una teca in cui giace la sposa-Querelle; ecco i tanti personaggi che si aggirano dando voce ai frammenti delle opere di Genet: Le balcon, Notre-dame-des-Fleurs, Miracle de la rose… Gli accenti, le lingue sono diverse: come in una Java d’antan, danzano insieme mondi di marginalità, di perversione, di criminalità. Ci si perde, in quel labirinto umano: gira la testa, cresce la confusione, manca l’aria. È tutto qui il mondo di Genet: in queste bellezze maschie e femmine, in questi sogni raccontati a sfottò, in quelle solitudini, in quel dolore, nell’orrore e nel delitto: "io credo al mondo delle prigioni - scriveva in Notre-Dame - alle sue abitudini deprecate. Accetto di viverci come, morto, accetterei di vivere in un cimitero…". Ma ecco, improvviso e dolente, un valzerino, che fa ballare detenuti e spettatori. Poi tutti fuori, ancora, per il finale solenne e amaro come una messa funebre: è il cimitero, l’unico teatro possibile, dice Genet, l’unico luogo della poesia: "Poesia, io vivrò, guardandomi morire" scriveva da qualche parte. E quei travestiti, quest’immaginario ostentatamente macho e omosessuale, declina rapidamente in una festa macabra, in un compianto, dove - come in un rito popolare - si inneggia a feticci di carta, copie appena abbozzate di quegli stessi personaggi che avevamo incontrato sino a quel momento. Statue, portate a braccia, in un lungo epilogo dove noi, spettatori ormai sperduti nelle nostre identità fragili, abbagliati da un sole improvviso che fende le nuvole di un luglio troppo piovoso, cerchiamo frastornati di mettere assieme i tasselli di questo enorme gioco, andato in frantumi, che è la vita. La vediamo, la nostra e la loro vita, celebrata proprio, paradossalmente, nell’amore. Eccola, alla fine, l’altra parola chiave: l’amore. Si avverte, in ogni istante, in ogni gesto, in ogni sguardo, il bisogno esasperato d’amore, di presenza, di calore. L’amore e l’erotismo che sono eternamente legati alla morte, e qui - in questo carcere come altrove - al delitto, alla violenza, al sopruso. Reclusione e mancanza vanno assieme a desiderio e ansia di libertà. Eppure, nonostante tutto, si compie ancora il miracolo della rosa, la poesia: per usare ancora le parole di Genet di Notre-Dame, "la poesia, sempre fa che il terreno vi venga a mancare sotto i piedi, e vi risucchia nel cuore di una meravigliosa notte". Si lanciano i fiori, qualcuno è commosso, tutti applaudono. Ce ne andiamo, speranzosi e disperati. Immigrazione: Cie Ponte Galeria a Roma; tunisino sospende protesta delle labbra cucite Ansa, 30 luglio 2014 Ha sospeso la protesta e permesso a un medico di togliergli la sutura dalla bocca uno dei due immigrati che da quattro giorni tengono le labbra cucite nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria a Roma. Lo ha reso noto la direttrice della struttura, Floriana Lo Bianco. Si tratta di un tunisino di 27 anni che era già stato detenuto nel Cie a maggio. Al momento prosegue la protesta contro i tempi di permanenza l’altro immigrato, un algerino di 28 anni che ieri ha avuto prorogata per altri 30 giorni dal giudice di pace la detenzione nel centro. Entrambi gli immigrati hanno precedenti penali, secondo quanto riferito, e hanno ricevuto un decreto di espulsione dall’Italia. Stati Uniti: caso di Chico Forti, ecco perché va riaperto il processo di Marco Perduca (Rappresentante all’Onu del Partito Radicale) Il Garantista, 30 luglio 2014 "Life without parole" significa ergastolo senza condizionale, una condanna che di solito viene riservata per efferatissimi crimini o per criminali incalliti. Life without parole è la pena inflitta, ormai 14 armi fa, a Enrico "Chico" Forti da una giuria di Miami dopo un processo durato neanche un mese. Era il 15 giugno del 2000, quando Forti fu ritenuto colpevole di "aver personalmente e/o con altra persona o persone, ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di (certo tal) Dale Pike". Le prove dell’accusa? Zero. Quello di Chico Forti è solo uno degli oltre 3.100 casi di italiani detenuti all’estero. Ogni vicenda fa storia a sé, ci son innocenti, colpevoli, ragazzi, donne e uomini, maltrattati, torturati, persone a volte anche a rischio di pena di morte. Tanti e tali sono i casi, che da sei anni esiste un’associazione che si chiama Prigionieri del silenzio che si batte per portare all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica alcuni tra i casi più eclatanti di questi connazionali incarcerati all’estero. La sentenza Forti resta però alquanto problematica. Pare impossibile che una giuria abbia potuto ritenere qualcuno colpevole di omicidio "oltre ogni ‘ragionevole dubbio" con prove tanto flebili quanto confuse e che mai, tra l’altro, hanno trovato un riscontro fattuale, anzi. Una successiva dettagliata verifica circa la fondatezza di quelle "prove circostanziali", con ulteriori valutazioni indipendenti, ha prodotto una tale quantità di dubbi che il sospetto che i fatti fossero andati in modo completamente diverso da come furono presentati dall’accusa è divenuto certezza in tutti coloro che hanno partecipato alla ricostruzione degli eventi. Col passare del tempo, e grazie alle insistenze dei famigliari e di un gruppo sempre crescente di persone preoccupate per la storte di Chico Forti, il caso "Forti" è entrato anche nei palazzi del potere. All’inizio con lettere private ai ministri degli esteri, poi con interrogazioni parlamentari e infine anche con delle visite nel carcere di Miami - io stesso ho visitato Chico due volte. Il 28 luglio la Camera ha iniziato la discussione dì una mozione firmata da tutti i gruppi parlamentari che chiede al governo di facilitare la riapertura del processo. Questione sicuramente delicata ma possibile, L’incessante e impagabile impegno della famiglia è riuscito a coinvolgere l’ex giudice e parlamentare Ferdinando Imposimato e la criminologa Roberta Bruzzone nell’ampliare la ricostruzione dei fatti, offrendo fondamentali spunti di richiamo alle norme internazionali riconosciute anche dagli Stati Uniti al fine di poter riaprire il processo. Negli anni, nel mio piccolo e assieme al senatore Giacomo Santini, ho cercato di tallonare il governo per avviare quell’attenzione politica che non aveva caratterizzato i predecessori del ministro Giulio Terzi di Sant’Agata. Tanto Emma Bonino che l’attuale ministra non hanno fatto mancare la fattiva attenzione della Farnesina alle sollecitazioni della famiglia Forti. Roberta Bruzzone ha dato recentemente alle stampe buona parte del suo enorme lavoro di ricostruzione. Il materiale da lei puntigliosamente raccolto nel libro II grande abbaglio sarà fondamentale per il lavoro dell’avvocato James Tacopina che ha deciso di farsi carico del tentativo di riapertura del processo. Altrettanto fondamentale, oltre alla raccolta di fondi necessari al collegio di difesa, sarà la partecipazione del governo a quella fase di revisione e, ultimo ma non ultimo, un contatto diplomatico ai massimi livelli con. l’amministrazione Obama per aggiornarla sugli sviluppi processuali. Non si tratta di chiedere un sostegno a una campagna innocentista ma di chiedere che giustizia venga fatta sulla base di prove e non illazioni. Durante la XVI Legislatura c’è capitato di visitare decine di carceri in Italia e qualcuno anche in Africa e nei paesi dell’est, ho ascoltato centinaia di racconti di malagiustizia, maltrattamenti, disperazione umana di ogni genere, mai però m’era capitato di dover andare a trovare un amico, qualche conoscente sì, ma un amico mai. Con Chico, sempre che lui lo voglia, dopo dieci minuti di chiacchiere capisci che hai a che fare con qualcuno che avrebbe potuto esserti amico - e non solo per la comune passione per la vela e il surf. hi carcere Chico Forti lavora senza retribuzione, per buona parte della giornata insegna inglese e cultura generale ai suoi compagni di galera generalmente di origine latino-americana. Non ha mai subito un provvedimento disciplinare, anzi, è un modello di comportamento. È rispettato dai peggiori e dai migliori nonché dalle guardie carcerarie. Chico Forti era e resta un patito di sport estremi, quello più estremo di tutti si chiama oggi ricerca della verità e della giustizia per se stesso. Si tratta di uno sport che un giorno si potrebbe esser chiamati a praticare anche in prima persona, allenarsi con Chico, dietro le sbarre da oltre 5110 giorni, potrebbe tornar utile anche a noi stessi. India: caso marò; Comitato Internazionale Croce Rossa esaminerà gli aspetti umanitari Adnkronos, 30 luglio 2014 Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha dato la propria disponibilità alle famiglie dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, da due anni trattenuti in India, ad esaminare la vicenda sotto il profilo umanitario e iniziare un dialogo con gli Stati interessati. "Ma non si muoverà un passo se non dopo l’autorizzazione dei due fucilieri e delle loro famiglie", assicura Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana. "Il comitato internazionale - chiarisce Rocca - ha solitamente un mandato per intervenire nelle situazioni di conflitto, valutare se le condizioni dei detenuti rispettiamo le convenzioni internazionali. Nella vicenda che riguarda i due militari italiani, ci troviamo in una situazione ibrida che sotto il profilo del diritto viene trattata non secondo il diritto dei conflitti ma come diritto interno dello Stato indiano. Ed è proprio la questione che andrebbe esaminata con le parti". "Al momento - prosegue il presidente della Cri - non c’è stata alcuna risposta da parte delle famiglie dei marò ma la disponibilità del comitato è arrivata da poco, quindi pensiamo che debbano avere il tempo di valutare la proposta". Una volta che le famiglie avranno accettato la disponibilità del comitato "si avvierà una fase di dialogo con i governi, italiano e indiano, per cercare di risolvere e mediare la situazione". Il dialogo, una volta avviato, "avviene sempre su base confidenziale tra il comitato internazionale e i governi", che sono stati già "informati della disponibilità del comitato. Noi come Croce Rossa Italiana - rimarca il presidente Rocca- non abbiamo alcun mandato su questa vicenda, abbiamo solo risposto alle richieste della società civile e alle persone che ci hanno scritto chiedendoci di occuparci della questione dei due fucilieri di marina italiani, in India da oltre due anni". Cocer Marina Militare: perché il silenzio di Renzi e Mogherini? Il caso marò arriva in Australia. La radio di Stato, la Sbs Network, intervista il Capitano di fregata Antonio Colombo, rappresentante del Cocer della Marina Militare: "La cosa che non mi piace - spiega l’ufficiale - è che non ho ancora sentito una volta Renzi, la Mogherini, non parlano di questi ragazzi! Ma perché non parlano? Li ignorano. Vogliono fare in modo che la cosa cada nel dimenticatoio? Io non lo capisco, e non lo dico da militare ma da italiano". "Sono pronto a festeggiare i 1.000 giorni di permanenza in India dei ragazzi che avverrà il 12 di novembre", dice lasciandosi andare ad una provocazione. "Cercheremo di attirare l’opinione pubblica con qualche forma di iniziativa, non so quale, dovremo studiarla, dovremo pensarci. Che sia un’iniziativa che faccia riflettere che 1.000 giorni lontani dagli affetti, lontani dal Paese, lontani dalla divisa, lontani dallo svolgere quotidianamente un lavoro veramente importante e impegnativo sono pesanti, sono lunghi". A giudizio dell’esponente del Cocer Marina, dietro alla decisione di rimandare i due fucilieri di Marina in India "ci sono delle motivazioni di opportunità economiche". Il delegato della rappresentanza militare denuncia "una lesione dei diritti, c’è un problema anche di aver consegnato dei militari, dei cittadini italiani, a uno Stato che ha ancora in vigore la pena di morte, quindi ci sarebbero stati mille motivi per non rimandarli indietro", rimarca Colombo. L’ex ministro degli Esteri "Giulio Terzi - prosegue Colombo - con grande onestà si è dimesso, dimostrando solidarietà alle Forze Armate in un momento difficilissimo, e ne sta pagando ancora il prezzo". Da allora, rileva il delegato Cocer, nessun chiarimento ulteriore nemmeno su come l’Italia intende far valere il diritto all’immunità funzionale di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. "No, non è stato chiarito anche perché nemmeno loro ce l’hanno chiaro", dice Colombo riferendosi ai rappresentanti istituzionali italiani. Per il delegato del Cocer, Renzi è "partito con il piede sbagliato in sede Ue, non ha detto una parola nel suo discorso, e questo per noi militari è stato un grosso schiaffo". Definisce "inspiegabile che non ne parli la Comunità Europea, ma è inspiegabile anche che l’Onu nei vari incontri sull’argomento pirateria e antipirateria ignori completamente questa vicenda". "Nei primi passaggi che abbiamo fatto parlando dei fucilieri incontrando le istituzioni, ci è stato chiesto profilo basso", aggiunge Colombo, secondo il quale "farli giudicare e condannare in India sarebbe un segnale pessimo per tutti i miei colleghi che stanno operando in ambito internazionale, e sono tanti. Sarebbe un segnale pessimo e assolutamente non è da accettare". Vito (Fi): ad inizio campionato calciatori con fiocco giallo All’indomani del sorteggio del calendario della nuova stagione di Serie A il presidente della Commissione Difesa della Camera Elio Vito (Forza Italia,) rende nota una lettera inviata nei giorni scorsi al presidente della Lega Serie A, Maurizio Beretta, con la quale ha chiesto che alla prima giornata di campionato i calciatori di tutte le squadre indossino un fiocco giallo, in segno di solidarietà con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò che da quasi novecento giorni sono trattenuti ingiustamente in India. "Sono convinto - afferma il presidente Vito - che questa iniziativa di solidarietà nei confronti dei due militari possa anche contribuire a migliorare l’immagine del nostro calcio". "L’avvio del prossimo Campionato di Calcio di Serie A - scrive il deputato nella missiva -, può rappresentare una ulteriore importante occasione per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso di Latorre e Girone e per testimoniare loro solidarietà e vicinanza. Le propongo, quindi, che i calciatori di tutte le squadre scendano in campo, nelle partite della I giornata, con un fiocco giallo". Unione Europea: la Corte di Strasburgo condanna la Polonia per le prigioni della Cia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 30 luglio 2014 E un successo dal sapore amaro. Varsavia avrebbe potuto fare i conti con se stessa ma non ha saputo farlo", ha commentato Mikolaj Pietrzak avvocato del saudita Al Nashiri dopo il verdetto della Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che ha condannato Varsavia per violazione dei diritti umani. Il suo assistito era stato additato come il principale regista dell’attentato esplosivo contro il cacciatorpediniere USS Cole affondato nel Golfo di Aden. L’altro detenuto riabilitato dalla sentenza di Strasburgo è il palestinese Abu Zubaydah, che era stato arrestato due anni dopo in Pakistan. Per Pietrzak che aveva deciso di seguire pro bono Al Nashiri, tutt’oggi detenuto a Guantánamo, si tratta di un’occasione mancata per il proprio paese: la Polonia resta infatti l’unico paese del Vecchio Continente ad aver aperto un’inchiesta sui black sites gestiti dall’intelligenza americana. Un’iniziativa dettata da calcoli politici che era stata voluta nel 2008 dall’ex-presidente Lech Kaczynski per minare una volta e per tutte la credibilità dell’Alleanza della Sinistra Democratica (Sld),partito di centro-sinistra già travolto a suo tempo dallo scandalo tangenti "Pkn Orlen". Diverso la situazione in Lituania e Romania dove la discussione non è mai uscita fuori dalle camere, a volte con esiti paradossali: nel caso di Vilnius un’inchiesta parlamentare aveva confermato l’esistenza di due "stalle" della Cia nei dintorni della capitale, la Procura non è tuttavia riuscita a provare che gli interrogatori si fossero svolti nei luoghi indicati. Sulla stessa falsariga, Bucarest dove l’indagine parlamentare condotta dalla senatrice rumena Norica Nicolai del Partito Nazionale Liberale (Pnl) era finita in un vicolo cieco. Abu Zubaydah e Al Nashiri sono entrambi detenuti a Guantánamo. Difficile dire come possano usufruire del risarcimento che il governo polacco dovrà pagare per il suo coinvolgimento nel programma di consegne straordinarie della Cia. Non sorprende il fatto che soltanto la Corte di Strasburgo, libera dai vincoli dei segreti di stato, potesse diventare il luogo adatto a mettere fine all’impunità europea in materia di extraordinary renditions. Come nel caso di "El Masri contro Macedonia", è di una sentenza importante ottenuta senza la collaborazione delle autorità Usa. Il vaso di Pandora sull’esistenza di siti neri in Europa, creati e gestiti dai servizi segreti americani con la complicità delle autorità locali si era aperto nel 2005 in seguito a un’inchiesta del Washington Post alle denuncie di Human Rights Watch. Le due relazioni presentate al Consiglio d’Europa dall’ex magistrato svizzero Dick Marty avevano successivamente confermato il coinvolgimento di agenti dei servizi nazionali europei nelle consegne e nei trasferimenti di persone sospettate di terrorismo. Protetto da alberi e filo spinato il black site dell’intelligence americana in Polonia era situato nel villaggio di Stare Kiejkuty nelle regione Masuria. Una struttura messa a nuovo con i finanziamenti dell’amministrazione Bush. Probabile che i 15 milioni di dollari che due agenti americani avrebbero consegnato in una valigia diplomatica a un funzionario dell’Agencja Wywiadu (AW) siano serviti a mettere in piedi anche un centro di formazione per tecniche di interrogatorio utilizzato dai servizi segreti polacchi. Il portavoce del Ministero degli esteri Marciti Wojciechowski ha annunciato che la Polonia potrebbe presentare ricorso entro tre mesi alla Grande Camera della corte di Strasburgo. Secondo il governo il verdetto della corte sarebbe "prematuro" visto che Varsavia non ha ancora concluso le proprie indagini sulle prigioni fantasma. Difficile sperare di rovesciare la sentenza: la corte ha infatti condannato Varsavia all’unanimità soprattutto in virtù della sua mancata collaborazione alle indagini. Le lungaggini dell’inchiesta avviata nel 2008 e avvolta nel segreto di stato non sono state ancora superate. La scadenza del termine per le indagini è stata oggetto di continui rinvii da parte della Procura polacca. Quattro anni dopo, il fascicolo coperto da segreto istruttorio era stato trasferito da Varsavia a Cracovia in barba ad ogni criterio di competenza territoriale. Secondo i media locali, la decisione di riassegnare l’indagine sarebbe stata presa poco prima che il procuratore Jerzy Mierzewski si apprestasse a iscrivere nel registro degli indagati l’allora numero uno dell’AW, Zbigniew Siemiatkowski. Varsavia ha smesso di temporeggiare rifiutandosi di fornire alcuna documentazione a Strasburgo. Il governo di Tusk aveva offerto alla corte la possibilità di consultare il fascicolo in una cancelleria civile in territorio polacco a condizione che non fosse operata alcuna trascrizione degli atti. Per un portavoce della Procura generale l’ostacolo principale alla chiusura delle indagini è da individuare nelle difficoltà a ottenere informazioni oltreoceano. Un rappresentante del governo Tusk ha sottolineato prima della sentenza che la Polonia ha offerto alla Corte di Strasburgo anche la possibilità di consultare gli atti in campo neutro attraverso l’Ambasciata di Polonia presso il Consiglio d’Europa. "Sarebbe fuorviarne suggerire che la Corte abbia rifiutato dì prendere conoscenza dei documenti. Strasburgo ha offerto molte volte alla Polonia la possibilità di presentare gli atti tanto ai difensori del ricorrente quanto alla corte stessa", ha spiegato Amrit Singh dell’Open Society Justice Initiative. Difficile che il Dipartimento di giustizia Usa sia disposto ad accettare qualsiasi richiesta di estradizione per gli agenti coinvolti nella gestione dei siti neri in Europa. Secondo Malgorzata Szuleka dell’ong Helsinki Foundation for Human Rights "se l’intelligence polacca facesse un passo indietro fornendo alla Procura i documenti comprovanti la collaborazione tra i servizi segreti dei due paesi, le accuse potrebbero essere formulate anche senza l’appoggio Usa". Unione Europea: la Russia chiede alla Corte Edu di indagare sulle carceri della Cia www.italian.ruvr.ru, 30 luglio 2014 Le indagini sul posizionamento delle carceri segrete della Cia nel territorio europeo dovrebbero essere tenute non solo in Polonia, ma anche in altri Paesi dell’Ue, ha dichiarato il rappresentante per i diritti umani del Ministro degli Esteri russo Konstantin Dolgov. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo il 24 luglio ha riconosciuto che le autorità polacche hanno violato i diritti umani, consentendo alla Cia nel 2002 di detenere due prigionieri sul suo territorio. Inoltre, la Polonia è diventata uno dei Paesi europei che ha partecipato al programma speciale degli Stati Uniti per la lotta contro il terrorismo, nel cui quadro il territorio di questi Paesi funzionava da cosiddette carceri, dove venivano torturati i sospetti. Insieme alla Polonia durante l’udienza sono state menzionate la Romania e la Lituania. Medio Oriente: Hamas; liberate i detenuti, sono più di 180 quelli catturati in questi giorni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 luglio 2014 Lo sciopero della fame, durato 63 giorni e lanciato ad aprile da 200 prigionieri politici palestinesi, si è concluso prima del mese sacro di Ramadan, il 24 giugno. Gaza non era ancora sotto le bombe, ma la campagna militare contro la Cisgiordania ha tolto visibilità alla battaglia dei detenuti. Eppure, la questione dei prigionieri politici resta centrale per il movimento di liberazione della Palestina, nonostante non occupi mai i tavoli negoziali tra Tel Aviv e Ramallah. A rimetterci l’accento è Hamas che - tra i dieci punti di un eventuale accordo di cessate il fuoco con Israele - chiede la liberazione dei 56 ex detenuti scarcerati con l’accordo Shalit dell’autunno 2011 e arrestati di nuovo durante le operazioni di ricerca dei tre coloni scomparsi vicino Hebron. "Un’operazione durissima quella compiuta in Cisgiordania dal 12 al 30 giugno - spiega al manifesto Muraci Jadallah, avvocato e ricercatore di Addameer, organizzazione che tutela i prigionieri politici palestinesi. Con l’accordo Shalit furono liberati 1.027 detenuti. Moltissimi sono stati nuovamente arrestati nei tre anni successivi, 56 quelli catturati nel mese di giugno. In quelle tre settimane sono stati spiccati 77 ordini di detenzione amministrativa, una misura cautelare che viola il diritto internazionale e prevede l’arresto senza accuse formali né processi". Degli attuali 5.271 prigionieri palestinesi dietro le sbarre di un carcere israeliano, 377 arrivano da Gaza. Costretti a seguire la sanguinosa offensiva militare dalle loro celle, molti di loro hanno ricevuto la più dolorosa delle notizie dagli schermi di una tv o dalla voce della radio: la perdita di un familiare, in alcuni casi dell’intera famiglia, sotto le bombe sganciate da Israele. Salali Hamas, Rami Zweidi, Ahmad ai-Sufi e tanti altri hanno pianto da soli, impotenti, lontano dalle loro case ridotte in macerie. Gli avvocati che hanno avuto il permesso di far loro visita nella prigione di Nafta hanno raccontato di uomini in stato di choc, altri che tentavano di riconoscere un parente in tv, mentre le telecamere riprendevano rapidamente i corpi portati via dalle ambulanze. Ai 377 gazawi prigionieri, nei giorni scorsi se ne sono aggiunti 180, letteralmente rapiti dalle forze militari israeliane penetrate dentro Gaza durante l’offensiva via terra a Rafah e Khan Younis, al confine sud. Secondo Israele si tratta di miliziani di Hamas e Jihad Islamica. Diversa l’opinione palestinese: "L’esercito israeliano ha arrestato circa 180 persone - riprende Murad - Alcuni di loro sono stati catturati mentre erano dentro le ambulanze, feriti. Sono civili, non miliziani, che Israele vuole utilizzare per ottenere informazioni sulle attività della resistenza o la presenza di tunnel, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Sembra che alcuni siano stati rilasciati, ma non riusciamo ad avere informazioni certe o ad entrare in contatto con loro a causa della situazione a Gaza. Anche le associazioni per i diritti umani della Striscia hanno difficoltà a contattarli o anche solo a sapere i nomi di tutti quelli ancora prigionieri". La lotta che viene combattuta dietro le sbarre è da decenni una delle colonne del movimento di liberazione nazionale, seppur spesso messa in un angolo dall’attuale leadership palestinese, vuoi per non irritare la controparte israeliana durante i negoziati, vuoi perché in carcere sono rinchiuse figure politiche di grande carisma - Marwan Barghouti e Ahmad Sàadat su tutti - che potrebbero mettere a rischio la posizione del presidente Abbas. Hamas, puntando ancora sui prigionieri politici, si garantisce una volta di più il rispetto della popolazione occupata: "La società civile palestinese, di cui Addameer è parte, sostiene la resistenza palestinese e la richiesta di liberazione dei prigionieri. Secondo il diritto internazionale, questi prigionieri vanno protetti in quanto detenuti politici. Ogni accordo possibile di tregua deve prevedere il rilascio di tutti, in particolare dei 56 liberati con l’accordo Shalit e poi catturati di nuovo". Quell’accordo, che portò alla liberazione del soldato Giiad Shalit dopo 5 anni in mano ad Hamas in cambio di oltre mille palestinesi, è stato violato da Israele. Un anno dopo Tel Aviv ha violato l’accordo di cessate il fuoco che metteva fine all’operazione Colonna di Difesa. Se Hamas dovesse ottenere il rilascio dei 56, c’è già chi scommette su quanto impiegherà l’esercito per riportarli dietro le sbarre, insieme ad una consistente fetta delle leadership del movimento di resistenza. Teenager americano detenuto in Israele Un teenager americano di 15 anni è detenuto dallo scorso 3 luglio dalle autorità israeliane. Lo ha detto la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Jen Psaki. Il ragazzo, di nome Mohamed Abu Nie, è stato arrestato con l’accusa di aver preso parte alle proteste a Gerusalemme Est, lanciando sassi contro i manifestanti e attaccando la polizia. Inoltre, avrebbe avuto con sè un coltello. Ad assistere Nie è l’ambasciata americana a Tel Aviv, che è in contatto con la sua famiglia e il suo avvocato. Marocco: graziati oltre 13 mila detenuti per la "Festa del trono" di Mohammed VI Nova, 30 luglio 2014 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha emanato un decreto di grazia, in occasione del 15esimo anniversario della sua ascesa al trono di Rabat, che riguarda 13 mila e 218 detenuti. Tra coloro che usufruiranno della grazia, secondo quanto spiega l’agenzia di stampa marocchina "Map", ci sono anche 119 casi umanitari. Lo scorso anno per la stessa occasione il monarca aveva fatto uscire di prigione più di 14 mila persone. Il diritto di grazia per i detenuti è previsto dall’articolo 58 della Costituzione marocchina. Egitto: arrestati agenti penitenziari per fuga di due detenuti dal carcere di Ismailia Nova, 30 luglio 2014 Il procuratore generale egiziano Hisham Barakat ha ordinato ieri l'arresto del guardiano del carcere di Ismailia, Wael Azzam, del suo vice e di altri dodici agenti di polizia per la fuga di due pericolosi criminali dalla prigione. Entrambi gli evasi erano stati condannati a morte per omicidio, secondo quanto riferisce il quotidiano "Al Masry al Youm". Il carcere di Ismailia si trova nel nord dell'Egitto. Gran Bretagna: il governo ci ripensa, ok alle chitarre con corde d’acciaio in carcere www.rockol.it, 30 luglio 2014 "Una vittoria del buon senso". Così il deputato laburista di Cardiff Kevin Brennan ha commentato il dietrofront del governo britannico, convinto da una sua petizione ad annullare il divieto di custodire in carcere - per presunti motivi di sicurezza - chitarre equipaggiate con corde di acciaio. La sua campagna contro la impopolare misura restrittiva, coordinata assieme al cantautore Billy Bragg (promotore dell’iniziativa Jail Guitar Doors che consiste proprio nel procurare chitarre ai detenuti a scopo ricreativo e rieducativo), era stata appoggiata da musicisti di altissimo profilo come David Gilmour, Johnny Marr e membri dei Radiohead. "L’efficacia della musica nell’aiutare i detenuti nel loro percorso di riabilitazione è ben documentata", ha detto Brennan ricordando di avere lanciato la sua petizione dopo che "alcuni di loro mi avevano scritto spiegandomi di avere messo da parte le piccole somme guadagnate in carcere per comprarsi una chitarra, e quanto fosse stato terapeutico per loro, prima del bando, imparare a suonare lo strumento. Se vogliamo ridurre la propensione a commettere altri crimini dobbiamo appoggiare attività utili come questa". Molto soddisfatto anche Bragg, che ha rivelato di avere tenuto "in stallo diversi progetti che comportano l’uso delle chitarre. Ora queste iniziative potranno proseguire, consentendo a chi usa la musica in carcere di portare avanti un lavoro così importante".