Giustizia: da Renzi una "rivoluzione annunciata"… ma per ora niente decisioni di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2014 Il governo dei tecnici doveva muoversi nel perimetro stretto delle "riforme possibili" ma garantendo interventi di "qualità". Così non è stato. Il governo delle larghe intese doveva ampliare quel perimetro e proseguire sulla strada avviata, integrando e correggendo. Così non è stato. Il governo Renzi, il più politico in assoluto, avrebbe dovuto avere la strada in discesa quanto a obiettivi e a misure per realizzarli con trasparenza e rapidità. Così non è stato. Fin dal suo insediamento, è apparso defilato e confuso sulla giustizia, privo di una visione d’insieme e finanche della volontà di cambiare passo, salvo cavalcare (con indubbia destrezza mediatica) la cronaca che spietatamente gli ricordava emergenze croniche e priorità. Così ieri mattina - allo scadere dell’ultimo giorno dell’ultimo mese del cronoprogramma renziano, quello destinato alla riforma globale della giustizia - abbiamo appreso che il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia hanno avuto "un incontro molto importante per elaborare delle linee guida che non sono dei titoli ma argomenti importanti per rivoluzionare il sistema giustizia". E in serata Renzi ha snocciolato 12 punti - altrettanti titoli - assicurando che - salvo per le intercettazioni - i testi sono già tutti pronti ma il governo vuole aspettare due mesi per dare ai cittadini la possibilità di dire la loro. Insomma, parliamone. Parliamone ancora. Se la riforma annunciata subisce un altro rinvio è perché il governo vuole farne una "rivoluzione" all’insegna della "partecipazione". In buona sostanza, dopo quattro mesi e a poche ore dall’atteso Consiglio dei ministri che - rinvio dopo rinvio - doveva finalmente dar corpo agli annunci con un pacchetto organico di misure - così organico da imporre alle Camere uno stop su corruzione, prescrizione, auto-riciclaggio e falso in bilancio - il premier e il guardasigilli hanno "elaborato" le "linee guida" della "rivoluzione" di settembre sulla giustizia. I testi possono aspettare. Non c’è fretta, si dice, perché tanto il Parlamento è "ingolfato" da altre riforme. Non c’è fretta, si spiega, perché quel che conta è arrivare a progetti "concertati" e "ponderati". Non c’è fretta, si mormora, perché con Silvio Berlusconi alleato delle riforme istituzionali è opportuno aspettare tempi politicamente migliori. Ma è difficile sfuggire alla sensazione che la giustizia resti ancora un terreno troppo scivoloso per assumersi la responsabilità politica di scelte chiare e tempestive. Meglio continuare a "parlarne" e a far finta che quelle "linee guida" siano già la rivoluzione promessa (l’unica novità operativa è l’avvio da oggi del processo civile telematico, che però viene da lontano e non dal governo Renzi). E questo è un terreno su cui il premier ha gioco facile, visto che da mesi, ormai, non c’è giornale o tv che non parli dell’imminente "rivoluzione", "stretta", "svolta" del governo. Certo, il metodo di lavoro è importante. E due mesi in più non spostano molto se il risultato finale è efficace (anche se è un po’ buffo immaginare che sotto il sole di luglio e di agosto fiorisca un dibattito sulla giustizia e che il governo riscriva i suoi testi). Ma tutto si può dire salvo che sulla giustizia si sia all’anno zero quanto a dibattiti e proposte, parlamentari, ministeriali, scientifiche. Tutto si può dire salvo che temi come falso in bilancio, auto-riciclaggio, prescrizione, concussione, efficienza del processo civile e penale non siano stati sviscerati in ogni sede, nazionale e internazionale. Tutto si può affermare, salvo che la corruzione sia un accidente che ci ha spiazzato o solo una questione di "ladri" e non anche di "regole" che ai ladri hanno consentito di cavarsela quasi sempre e quindi di dilagare. Se il governo ambiva a giocare un ruolo da protagonista, avrebbe dovuto mettersi subito al lavoro, non farsi prendere in contropiede dalle inchieste su Expo e Mose e, semmai, giocare d’anticipo. Avrebbe così imposto il suo passo al Parlamento e non una frenata. Sul civile e sul penale, sono rimasti nel cassetto testi già pronti e "concertati". Tutto da rifare, sembrerebbe. In compenso sono riemersi, come temi centrali, la responsabilità civile dei magistrati e le intercettazioni: proprio come ai tempi di Monti, quando sul tavolo doveva esserci solo l’anticorruzione. Un dejà vu di cui avremmo fatto volentieri a meno, visti i risultati. Giustizia: violenze al "San Sebastiano" nel 2000, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia Ansa, 2 luglio 2014 Gli agenti colpevoli degli atti di violenza avvenuti nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000 non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso. La Corte europea dei diritti umani ha quindi condannato l’Italia per aver sottoposto a trattamento inumano e degradante Valentino Saba, uno dei detenuti. Valentino Saba è uno dei detenuti che denunciarono gli atti di violenza. La Corte ha stabilito che lo Stato gli deve versare 15mila euro per danni morali. Lui ne aveva chiesti 100mila. Nel condannare l’Italia la Corte di Strasburgo mette in causa i tempi lunghi del processo, il fatto che molti colpevoli sono stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi, e che chi è stato condannato ha ricevuto pene troppo leggere in rapporto ai fatti per cui era stato incriminato. Ad esempio i giudici indicano come pene troppo leggere la multa di 100 euro inflitta a uno degli agenti che non ha denunciato le violenze commesse dai suoi colleghi, o il fatto di aver sospeso la condanna al carcere per altri agenti. Nella sentenza i giudici sottolineano inoltre che le autorità italiane non hanno indicato se le persone sotto processo sono state sospese durante il procedimento come stabilisce la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. I giudici di Strasburgo, però, hanno anche stabilito che Valentino Saba è stato sottoposto a trattamento inumano e degradante ma non a tortura, come sostenuto da lui. Giustizia: Associazione Antigone; introdurre subito il delitto di tortura nel Codice penale Ansa, 2 luglio 2014 Per la seconda volta in pochi giorni l’Italia viene condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’art. 3 della Convezione per le violenze delle forze dell’ordine su persone fermate o arrestate. Dopo il caso di Dimitri Alberti, stavolta la corte riconosce le violenze subite da Valentino Saba il 3 aprile 2000 all’interno del carcere di Sassari dove era detenuto. Ma stavolta la Corte Europea va oltre il riconoscimento delle violenze, condannando l’Italia anche per non aver pienamente soddisfatto il requisito di un’indagine approfondita ed efficace, come stabilito nella propria giurisprudenza, arrivando così alla prescrizione per molti degli imputati. "Finalmente, dopo 14 anni - dichiara Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone - giustizia viene fatta ma, ancora una volta, per arrivarci è stato necessario l’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Riteniamo indegne per un per un paese civile come l’Italia - che dovrebbe riconoscere a tutti un trattamento rispettoso e degno della persona umana - queste continue condanne. Ed è altresì grave che, quando violazioni dell’articolo 3 avvengono, il nostro sistema giudiziario non riesca a ripristinare situazioni di giustizia. Questo anche perché in Italia non esiste il delitto di tortura. Se ci fosse stato i tempi di prescrizione non sarebbero stati così brevi". "Per questo - prosegue Gonnella - riteniamo non più rinviabile la convocazione di un tavolo politico che dia risposte ferme su alcuni temi per i quali la discussione non è più rinviabile: l’inserimento del reato di tortura nel codice penale; l’impunità per chi commette atti di violenze verso persone che si hanno in custodia; meccanismi di educazione e formazione adeguati per il personale delle forze dell’ordine". Si ricorda che fu proprio Antigone a sollevare il caso delle violenze nel carcere di Sassari quando fu avviata la più grande inchiesta continentali mai avvenuta nella storia per la violenza nelle carceri. In questo caso si trattava di detenuti comuni. Furono coinvolti con arresti quasi 100 fra poliziotti e operatori. Di seguito un estratto del terzo rapporto sulle condizioni di detenzione "Antigone in carcere" nella quale si parlava del caso. "Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto. Colpirono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fecero esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta seguì quella dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti furono lasciati senza viveri del "sopravvitto" e senza sigarette. Il 3 aprile 2000 venne organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vennero brutalmente picchiati. I parenti protestarono. Scattarono le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontrò i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzarono una fiaccolata. Il 3 maggio 2000 la Procura emise 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vennero coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante del reparto". [...] "Gavino P., cella 75, gli dà il cambio. Quel giorno, al momento dell’incursione era nella fossa dei leoni, un cortile a cui si accede passando attraverso un tunnel. Stesso percorso, braccia dietro la schiena, fino alle sale colloqui. "Quel giorno, da quando mi hanno messo le manette mi sono come spento. Ricordo che mi hanno denudato, che qualcuno mi ha detto che così mi stancavo di fare il boss. Ho fatto anche finta di svenire, con la speranza che mi mollassero, ma loro mi picchiavano anche a terra. Nella sala colloqui ho visto uno di noi tutto sporco, se l’era fatta addosso. [...] "Il comandante mi aveva afferrato l’orecchio, cercava di strapparmi l’orecchino - dice un altro detenuto, Massimo D. - Una guardia era intervenuta per difendermi. "Con te facciamo i conti dopo", gli aveva detto il comandante. Costantino C. chiude la lista testimoniale. "Così la finisci di fare il galletto", gli avevano detto. Fra le immagini più terribili quella di un compagno, con la testa immersa in un secchio d’acqua". Giustizia: la condanna per i "fatti di San Sebastiano" è una sconfitta severa per tutti di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 2 luglio 2014 Nelle carceri si respira un’aria diversa: si mette al centro il detenuto e la sua dignità di uomo. Abbiamo provato a ripartire così, senza guardarci indietro, come si fa quando la paura ci attanaglia e lo sgomento costruisce fili sottili dentro lo stomaco. Abbiamo provato a dimenticare, perché gli anni sedimentano gli animi e la sabbia appesantisce il dolore e incrosta i ricordi. Ma quella ferita, quella tristezza sotto traccia, è riaffiorata con la sentenza dell’Europa che condanna lo Stato italiano per maltrattamenti contrari all’umanità nei confronti di un detenuto. È accaduto nel 2000, a Sassari, nel carcere di San Sebastiano. Sono stati giorni duri, bui, sono stati momenti sospesi in un vuoto senza senso, attimi intensi pieni di sconcerto e di costernazione. Le sentenze che sono state scritte hanno riportato la verità processuale e oggi l’Europa ci dice che quelle storie sono state analizzate in maniera sbagliata. Difficile mettersi dalla parte di qualcuno, oppure giudicare chi dovrebbe garantire quotidianamente lo Stato di diritto. Quei giorni duri e cupi, dove tutti siamo passati nella strettoia del silenzio, dove abbiamo assistito agli arresti eccellenti, dove dei poliziotti sono finiti in cella ecco, in quei giorni, nessuno ha vinto. Fu una sconfitta severa per tutti. Ma fu anche un punto di partenza diverso e fu una linea sottile nella quale si delimitava il passato e il futuro. Le sentenze hanno condannato e assolto e la storia processuale è cristallizzata. Oggi l’Europa ci suggerisce una strada, un momento di riflessione cui nessuno si può sottrarre: operatorie cittadini. Perché si parla di tortura, di diritti, di libertà, ma si parla, soprattutto, di dignità. Da alcuni anni gli sforzi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono tutti votati al superamento di questa strana emergenza non voluta dalla struttura, ma nata da scelte legislative effettuate dalla politica. Infatti, se le carceri scoppiano è perché, come paese, abbiamo sempre voluto rispondere al reato, a qualsiasi reato, con il carcere. E abbiamo ammassato la gente nonostante gli istituti penitenziari potessero contenere solo un certo numero di detenuti. Si è continuato, negli anni, a recludere piuttosto che a includere. Quello stare chiusi, quel non poter fare praticamente niente al caldo o al freddo, quel non poter avere nessuna alternativa ad una cella tre metri per tre dove, come nel caso del vecchio carcere di San Sebastiano, si viveva gomito a gomito e con un bagno all’interno della cella, con un piccolo muro divisorio. Dove la tensione era all’ordine del giorno, dove era impossibile poter progettare attività trattamentali, dove l’ordine non aveva più un senso logico, dove la dignità non trovava nessun luogo per accovacciarsi ecco, all’interno di quella bolla immensa è successo. Sono stati attimi assurdi, raccontati dai detenuti e ricordati nelle aule processuali. Sono stati i rumori, i lamenti, le paure, la follia forse, sono stati i gesti inconsulti, le scelte sbagliate, quelle per le quali delle persone sono state condannate. Ma all’Europa non è bastato. La corte ha sottolineato la lunghezza dei nostri processi, il nostro farraginoso modo di costruire la giustizia, la lieve entità delle pene nonostante fosse stato assodato che il pestaggio dei detenuti fu attuato. L’Europa ci chiede di riflettere. Quel risarcimento al detenuto ha questo significato: non deve più accadere. Mai più. Gli sforzi degli ultimi anni sono andati in questa direzione. Le carceri sono state aperte, gli spazi amplificati, oggi nelle carceri si respira un’aria diversa, si prova a mettere al centro il detenuto e il trattamento, c’è la consapevolezza dell’errore e c’è anche la volontà di ripararvi. La sentenza sui fatti di Sassari ci costringe a riguardare dentro gli errori, a respingere con forza quegli avvenimenti, a giocare la partita solo ed esclusivamente sulla dignità delle persone. Giustizia: al San Sebastiano la legalità cedette il passo alla "galleria degli orrori" di Daniela Scano La Nuova Sardegna, 2 luglio 2014 Il 3 aprile del 2000 settanta agenti in mimetica fecero una mattanza nelle celle. I detenuti furono fatti spogliare e poi furono massacrati prima di essere trasferiti. Il giudizio più duro, una fotografia fatta di parole, è contenuto nella sentenza che applica la prescrizione. "Quel giorno nella casa circondariale di Sassari si passò da un luogo di detenzione legale, dove la libertà è privata a seguito di precise regole, anche costituzionali, a luogo dove la legalità cedette il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di mostrare la propria durezza al nuovo comandante". Quando scrisse queste parole, nel 2010, il giudice Massimo Zaniboni del tribunale di Sassari era consapevole che il tempo aveva giocato a favore dei sette agenti imputati di avere partecipato alla più violenta ritorsione collettiva che uomini in divisa abbiano mai messo in atto nei penitenziari italiani. Quando il giudice descrisse quella che definì "la galleria degli orrori" di San Sebastiano, nelle motivazioni della sentenza di uno dei tanti processi, erano trascorsi dieci anni da quella mattina del 3 aprile del 2000. Era l’ora d’aria quando, rispondendo a una chiamata collettiva ai penitenziari di tutta l’isola, settanta agenti in mimetica entrarono nelle celle e nei "passeggi" del carcere e cominciarono a picchiare selvaggiamente i detenuti dopo averli costretti a spogliarsi. Ad attenderli nella grande rotonda c’erano i vertici dell’amministrazione penitenziaria: il provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia, la direttrice del carcere Maria Cristina Di Marzio, il nuovo comandante Ettore Tomassi. Di quest’ultimo è rimasta, a eterna memoria del delirio collettivo di quel giorno, l’immagine di un uomo ebbro di potere che nella sala colloqui trasformata in stanza delle torture urlava "sarò il vostro dio" ai detenuti nudi e sanguinanti. Poi si disse che la situazione era sfuggita di mano, che qualcuno si era fatto male durante un trasferimento di massa ma solo perché aveva reagito. Non era andata così. Tutto era cominciato il 17 marzo quando, richiamati dal clamore mediatico scatenato dalla rumorosa "rivolta delle posate" sbattute dai detenuti contro le sbarre per protestare contro le condizioni di vita nel carcere, a San Sebastiano erano arrivati cinque commissari del Comitato parlamentare per i problemi nei penitenziari. Quel giorno i detenuti parlarono, raccontarono, denunciarono ad alta voce cose che raggelarono il sorriso sui volti dei vertici dell’amministrazione penitenziaria. E anche il carcere, la vecchia prigione, si presentò nella sua veste lisa e indecente. Giuseppe Della Vecchia disse di non essersi mai vergognato tanto. Qualcuno doveva pagare per quella cocente umiliazione. Il 3 aprile, mentre i detenuti sfilavano nudi verso la sala colloqui, qualcuno in divisa forse provò paura e vergogna. Ma nessuno alzò un dito per ristabilire lo stato di diritto. Anche questa è storia. Giustizia: nuova condanna della Corte di Strasburgo, Italia feroce con i detenuti di Micol Ranieri Il Garantista, 2 luglio 2014 Gli agenti colpevoli degli atti di violenza avvenuti nel 2000 nel carcere sardo non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso nei confronti di Valentino Saba. Da Strasburgo nuova tegola sull’Italia per trattamenti inumani ai danni dei detenuti, Per la seconda volta in. pochi giorni la Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro Paese per aver violato l’articolo 3 della Convenzione per le violenze delle forze dell’ordine su persone fermate o arrestate, Dopo il caso di Dimitri Alberti, i giudici di Strasburgo ieri hanno riconosciuto le violenze subite da Valentino Saba il 3 aprilo 2000 all’interno del carcere San Sebastiano di Sassari, Saba è uno dei detenuti che denunciarono quei pestaggi, ora lo Stato dovrà versargli 15mila euro per danni morali. Ma non è tutto. Stavolta la Cedu è andata oltre il riconoscimento delle violenze, condannando l’Italia anche per non aver pienamente soddisfatto il requisito di un’indagine approfondita ed efficace, come stabilito nella propria giurisprudenza. Nel mirino dei giudici i tempi lunghi del processo e il proscioglimento per prescrizione di molti degli imputati. Nella sentenza i giudici sottolineano inoltre che le autorità italiane non hanno indicato se le persone sotto processo siano state sospese durante il procedimento, come stabilisce la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. "Finalmente, dopo 14 anni giustizia viene fatta ma, ancora ima volta, per arrivarci è stato necessario l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo", ha commentato Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone, "Riteniamo indegne per un per un paese civile come l’Italia, che dovrebbe riconoscere a tutti un trattamento rispettoso e degno della persona umana, queste continue condanne, Ed è altresì grave che, quando violazioni dell’articolo 3 avvengono, il nostro sistema giudiziario non riesca a ripristinare situazioni di giustizia, Questo anche perché in Italia non esiste il delitto di tortura. Se ci fosse stato i tempi di prescrizione non sarebbero stati così brevi". "Per questo - prosegue Gonnella - riteniamo non più rinviabile la convocazione di un tavolo politico che dia risposte ferme su temi come l’inserimento del reato di tortura nel codice penale; l’impunità per chi commette atti dì violenze verso persone che si hanno in. custodia; meccanismi di educazione e formazione adeguati per il personale delle forze dell’ordine". "Per quanto ancora il Parlamento potrà sottrarsi dall’affrontare il più ampio dibattito sulla giustizia e sulla responsabilità, davanti al popolo elettore, di votare un’amnistia alla luce del sole contro l’imbroglio di una giustizia che si ritrova sempre di più ad essere violenta contro i deboli, ma raggirabile dai forti? Quanto occorrerà ancora aspettare per introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura la cui negazione mina le fondamenta dello Stato di Diritto? È con questo volto che il Premier Matteo Renzi vuole presiedere il semestre europeo?" chiedono la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini| e la segretaria dell’associazione "Il detenuto ignoto", Irene Testa. I fatti di Sassari erano così descritti nel terzo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione: "Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto, Colpirono con. le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fecero esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta seguì quella dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti furono lasciati senza viveri del "sopravvitto" e senza sigarette. Il 3 aprile 2000 venne organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vennero brutalmente picchiati, I parenti protestarono. Scattarono le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile incontrò i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzarono una fiaccolata. Il 3 maggio la procura emise 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari, Verniero coinvolti il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante del reparto". Nel rapporto anche il tragico racconto dì alcuni detenuti; "Gavino P,, cella 75, gli dà il cambio, Quel giorno, al momento dell’incursione era nella fossa dei leoni, un cortile a cui si accede passando attraverso un tunnel. Stesso percorso, braccia dietro la schiena, fino alle sale colloqui. "Quel giorno, da quando ini hanno messo le manette mi sono come spento. Ricordo che mi hanno denudato, che qualcuno mi ha detto che così mi stancavo di fare il boss, Ho fatto anche finta di svenire, con la speranza che mi mollassero, ma loro ini picchiavano anche a terra. Nella sala colloqui ho visto uno dì noi tutto sporco, se l’era fatta addosso". "Il comandante mi aveva afferrato l’orecchio, cercava di strapparmi l’orecchino - dice un altro detenuto, Massimo D. Una guardia era intervenuta per difendermi". "Con te facciamo i conti dopo", gli aveva detto il comandante, Costantino C. chiude la lista testimoniale. "Così la finisci dì fare il galletto", gli avevano detto, Fra le immagini più terribili quella dì un compagno, con la testa immersa in un secchio d’acqua". Giustizia: quei pestaggi nel carcere San Sebastiano di Sassari… di Irene Testa (Segretaria dell’associazione "Il Detenuto Ignoto") Il Garantista, 2 luglio 2014 Arriva una condanna dall’Europa per gli aberranti pestaggi che subirono circa trenta detenuti del carcere di San Sebastiano nel 2000. Alcuni di loro nel frattempo sono deceduti senza avere giustizia. Oggi, grazie al ricorso presentato dai legali del detenuto Valentino Saba, emergono due dati importanti: le condanne ridicole per gli agenti autori del reato, e sette prescrizioni per decorrenza dei termini, tra chi scelse di farsi processare con il rito ordinario. Si trattò di una vera e propria macelleria umana compiuta ai danni di persone indifese che non solo furono umiliate psicologicamente, ma ben più torturate brutalmente anche fisicamente. Basta rileggersi gli articoli usciti nei quotidiani locali di quei giorni per capire di che cosa si sta parlando, per non parlare di quanto ancor prima di allora i nostri legislatori avrebbero dovuto fare: introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. La Convenzione Onu contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984 è stata ratificata dall’Italia nel 1988. Prevede espressamente che gli Stati introducano e sanzionino specificamente il reato di tortura così come è descritto, ma questo non è ancora successo nel nostro Paese. Ma se pure non fosse mai accaduta una simile barbarie come quella del pestaggio di San Sebastiano, a nostro modo di vedere tutti coloro che son stati detenuti in quel carcere dovrebbero essere oggi risarciti per aver vissuto in quell’infame struttura. Per quanto ancora l’Italia dovrà continuare ad essere una vergogna europea in termini di diritti umani e di giustizia? E perché mai l’Italia, anziché prevedere misure urgenti per deflazionare carceri e tribunali e porre fine immediatamente alla tortura del sovraffollamento preferisce invece ritenere di poter rimborsare questa tortura stabilendone un prezzo oltremodo vergognoso? Dal 28 giugno scorso, i detenuti che hanno subito atti di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti per più di 15 giorni, potranno usufruire di una riduzione della pena pari al 10% del periodo di maltrattamento. Per coloro, invece, a cui non potrà essere applicato lo sconto (o perché il maltrattamento è inferiore a 15 giorni oppure il periodo di pena ancora da scontare non è tale da consentire l’applicazione della misura risarcitoria) il magistrato liquiderà al detenuto "una somma di denaro in una misura che viene forfetariamente fissata in 8 euro per ogni giornata" di maltrattamento in carcere. Questo è quanto prevede il Decreto carceri predisposto a seguito del pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo che con la sentenza dell’8 gennaio 2013 (sentenza pilota Torreggiarli e altri) ha accertato la violazione, da parte dell’Italia, dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sotto la rubrica "proibizione della tortura" pone il divieto di pene disumane per colpa del sovraffollamento nelle carceri. Ma quanti risarcimenti ancora dovrà pagare lo Stato (con i soldi di tutti i cittadini, quindi) per l’ipocrisia dei legislatori? Nei giorni scorsi, il professor Emilio Santoro, docente di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze mette in guardia: la nuova possibile condanna potrebbe riguardare il lavoro tra le mura dei penitenziari: sottopagato e legato a minimi di oltre 20 anni fa e in netto contrasto con la giurisprudenza europea secondo cui le violazioni riguarderebbero praticamente tutti i detenuti che lavorano in carcere: circa 25 mila persone. La lista delle possibili condanne si fa lunghissima. C’è chi paventa altre possibili condanne per i circa 40 bambini che vivono ancora oggi in regime di detenzione. Non sarà sfuggito ad alcuni lettori il caso del bambino di quasi 7 anni rinchiuso nel carcere fiorentino di Sollicciano, in totale contrasto con quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario. Ma neanche questo argomento, che finora pareva aver toccato la sensibilità di tanti legislatori a partire dai vari Ministri della Giustizia che per anni han portato avanti il mantra del "Mai più bambini in carcere", ha portato la politica a varare soluzioni coraggiose e risolutive. A denunciare lo stato di illegalità, la condizione criminale a cui sono sottoposti uomini e donne rimangono gli addetti ai lavori, le associazioni, e i Radicali. Non è un caso se, da alcuni giorni, la Segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini ha intrapreso l’ennesimo sciopero della fame per chiedere allo Stato italiano di fermarsi, di legiferare e di smettere di torturare. Giustizia: senza giusta pena… l’Italia (ri)condannata dalla Corte dei diritti dell’uomo di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 luglio 2014 Per la seconda volta in pochi giorni la Corte europea per i diritti umani richiama il governo per aver violato le garanzie di un detenuto e per non aver punito adeguatamente i responsabili. Il caso risale al 2000, quando una trentina di detenuti di San Sebastiano, a Sassari, vennero picchiati come ritorsione per una protesta pacifica. Con un’altra condanna della Corte europea dei diritti umani, per l’Italia non poteva aprirsi in modo peggiore il semestre di presidenza europea. Per la seconda volta in pochi giorni, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato una violazione dell’articolo 3 della Convezione per le violenze delle forze dell’ordine su persone fermate o arrestate. Sottolineando soprattutto ancora una volta, dopo il recente caso di Dimitri Alberti, che gli agenti colpevoli degli atti di violenza - avvenuti stavolta nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000 - non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso. Le cause di questa sorta di "impunità" sono molte: un processo che si è allungato per oltre otto anni con la conseguenza che molti colpevoli sono stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi, e anche per l’inefficacia dell’azione sanzionatoria. Secondo quanto appurato dai giudici europei, infatti, sono state comminate pene troppo leggere. Ad esempio, uno degli agenti è stato condannato per omessa denuncia e dunque sanzionato solo con una multa da 100 euro, mentre altri suoi colleghi sono riusciti ad ottenere la sospensione della condanna alla reclusione. Non solo: la Cedu rileva anche la difficoltà di appurare se gli agenti penitenziari responsabili delle violenze siano stati poi adeguatamente sottoposti ad azione disciplinare. Il governo italiano non lo dice. Per i giudici di Strasburgo, però, il detenuto che ha presentato il ricorso - Valentino Saba, che fu tra coloro che subirono violenze e che oggi dovrà ricevere dall’Italia un risarcimento di 15 mila euro per danni morali, anche se lui ne aveva chiesti 100 mila - è stato sottoposto a trattamento inumano e degradante ma non a tortura, come sosteneva l’ex detenuto. Nel procedimento davanti alla Cedu si erano costituiti parte "amicus curiæ", sostenendo le ragioni di Saba, il Partito Radicale italiano, quello Transnazionale transpartito e l’associazione "Non c’è pace senza giustizia". All’epoca dei fatti, il caso venne sollevato proprio sul manifesto dall’associazione Antigone. Che nel terzo rapporto sulla condizione delle carceri scriveva: "Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto. Colpirono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fecero esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta seguì quella dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti furono lasciati senza viveri del "sopravvitto" e senza sigarette. Il 3 aprile 2000 venne organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vennero brutalmente picchiati. I parenti protestarono. Scattarono le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontrò i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzarono una fiaccolata. Il 3 maggio 2000 la Procura emise 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vennero coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante del reparto". E invece della condanna europea si dice "sorpreso" il segretario del Sappe, Donato Capece: "Lo abbiamo detto e lo voglio ribadire: a Sassari non ci fu nessuna spedizione punitiva contro i detenuti ma si tenne una necessaria operazione di servizio per ristabilire l’ordine in carcere a seguito di una diffusa protesta dei ristretti". Ecco perché, molto probabilmente, come sottolinea la Cedu, gli autori di quei "trattamenti inumani e degradanti" non subirono un’adeguata azione disciplinare, mantenendo il loro posto in servizio. Giustizia: Sabelli (Csm); la Cedu evidenzia i problemi…. ora fuori dal derby ideologico di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 luglio 2014 Intervista a Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. "D’accordo con Renzi sul metodo di dialogo. Basta con i pregiudizi: i nostri interessi sono gli interessi di tutti". L’ultima condanna della Corte di Strasburgo all’Italia per il caso delle violenze subite dai detenuti del carcere di San Sebastiano di Sassari solleva "molteplici e diversi" problemi di quel sistema sul quale Matteo Renzi e il Guardasigilli Orlando hanno appena annunciato una riforma in 12 punti auspicando di aprire nel Paese un lungo dibattito pubblico. Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, accetta l’invito a uscire dal "derby ideologico" che preclude il confronto. "D’accordo con il presidente del Consiglio - dice - si abbandoni qualunque atteggiamento pregiudiziale che si fonda sui luoghi comuni e che vede la difesa corporativa laddove invece il legittimo interesse di categoria coincide anche con gli interessi generali". Presidente Sabelli, i giudici di Strasburgo ancora una volta bacchettano l’Italia perché, detta in poche parole, non è stata capace di garantire una giustizia giusta. Ma non c’è anche un problema "culturale" di vicinanza eccessiva tra i corpi di polizia e la magistratura inquirente? La separazione delle carriere risolverebbe o acuirebbe il problema? Non ho letto a fondo la sentenza, ma mi sembra che in questo caso non ci sia stata alcuna disattenzione della magistratura inquirente o giudicante. Mi soffermerei invece su alcuni molteplici e diversi nodi che vengono evidenziati e che poi coincidono in parte con quelli già elencati ieri sera (lunedì sera, ndr) dal premier Renzi. La lunghezza dei processi, l’efficacia dell’azione giudiziaria, l’adeguatezza della risposta sanzionatoria. Bisognerebbe studiare il caso specifico per capire quali sono i motivi per cui il processo si è allungato molto ma il problema ha un carattere generale e riguarda sia il civile che il penale. E tra le tante cause, la più importante sta nell’azione combinata dell’impugnazione e della prescrizione come è prevista nell’attuale disciplina, la legge ex Cirielli che va senz’altro riformata. Anche il giudizio sull’inadeguatezza dell’azione disciplinare o penale sollecita la necessità di riconsiderare la reale efficacia del nostro sistema sanzionatorio che è troppo centrato sulla pena detentiva, spesso inflitta ma inapplicata, piuttosto che su sanzioni pecuniarie, interdittive o patrimoniali che sarebbero spesso molto più efficaci. La separazione delle carriere invece è un problema molto serio che richiede una valutazione complessa: uno dei motivi della nostra contrarietà sta nella tutela della cultura della giurisdizione, che è anche cultura delle garanzie e che deve continuare ad appartenere sia al pm che al giudice. Solo in questo modo chi fa le indagini si proietta anche nella prospettiva processuale. Inoltre, staccare il pm dal resto della magistratura solleva il problema della natura di questa figura, e desta forti preoccupazioni sull’autonoma e sull’indipendenza. È questa una delle 12 priorità della riforma annunciate da Renzi e Orlando. Le condivide o sembrano anche a lei solo "pannicelli caldi", come ha detto il presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma? Il metodo adottato dal presidente Renzi mi sembra condivisibile: stiamo parlando di una riforma ambiziosa e perciò è indispensabile seguire un metodo fondato sull’ascolto di tutti i soggetti interessati e sul confronto prima di aprire la fase decisionale. Nel merito, occorre da parte mia una certa cautela: in generale i temi individuati sono quelli rilevanti, a partire dalla necessità di smaltire i procedimenti civili pendenti valorizzando strumenti deflattivi come l’arbitrato e la negoziazione assistita. Strumenti che possono funzionare se sono previsti una serie di incentivi a percorrere la via stragiudiziale. Prevedendo interessi di mercato e non legali: per esempio applicando gli interessi bancari sulle spese legali da pagare. In questo modo i tempi processuali sicuramente si accorcerebbero. Ma in generale bisognerà vedere poi il testo delle riforme. I tempi lunghi dunque sarebbero un problema di abuso del processo e non di organizzazione del lavoro dei tribunali? I problemi sono tanti, ma di abuso del processo parla anche l’ultimo decreto legge, il 90/2014, quello sull’età pensionabile dei magistrati. Renzi ha invitato a deideologizzare il dibattito. Lei accoglie questo invito? Sono d’accordo a uscire dal "derby ideologico", come l’ha chiamato Renzi qualche settimana fa. Per esempio sulle correnti del Csm si dice: bisogna procedere per meriti e non per appartenenza. Ma al centro della nostra riflessione abbiamo sempre messo appunto il tema della trasparenza. L’esercizio dell’autogoverno è una cosa seria ma è anche uno strumento che si realizza nell’autonomia e nell’indipendenza. Renzi dice: responsabilità civile su modello europeo… Che è molto variegato: nei Paesi anglosassoni non è prevista, in altri Paesi europei il modello è meno incisivo di quello italiano. Questo è uno degli argomenti da "derby ideologico", appunto. Attenzione a quando si parla di errori giudiziari: ogni parte di un processo potrebbe sentirsi vittima di errore. E anche il Consiglio d’Europa dice chiaramente che va esclusa l’azione di rivalsa diretta sul giudice perché paralizzerebbe qualunque processo, sarebbe una forma di intimidazione in prevenzione che impedisce l’autonomia. Ecco, una riforma così non si può fare a suon di blitz come quelli a cui abbiamo assistito alla Camera con l’emendamento Pini. Giustizia: Sappe e Ugl; non fu una spedizione punitiva, agenti ogni giorno in prima linea La Nuova Sardegna, 2 luglio 2014 La sentenza della Corte europea non è piaciuta al sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Il segretario generale del Sappe Donato Capece si dice "sorpreso" per la decisione arrivata a distanza di 14 anni dai "Fatti di San Sebastiano". "Lo abbiamo detto e lo voglio ribadire - spiega Capece - a Sassari non ci fu nessuna spedizione punitiva contro i detenuti ma - rileva il sindacalista - si tenne una necessaria operazione di servizio per ristabilire l’ordine in carcere a seguito di una diffusa protesta dei detenuti, operazione di servizio che venne contrastata con violenza da alcuni degli stessi ristretti. Se non si dice questo, se non si contestualizzano i fatti. Non si può non tenere conto delle decine di poliziotti arrestati ingiustamente e poi assolti. Queste semplificazioni - osserva il segretario del Sappe - fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente in prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della penitenziaria che svolgono il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. È utile ricordare - conclude Capece - che negli ultimi 20 anni la penitenziaria ha sventato, in carcere, più di 16 mila tentati suicidi e impedito che quasi 113 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". Dello stesso avviso Giuseppe Moretti, segretario dell’Ugl polizia penitenziaria: "Le responsabilità degli agenti vengono prese sempre più di mira, ma difficilmente ci si sofferma ad analizzare le condizioni in cui donne e uomini del Corpo sono costretti ad operare". Per il il senatore di Sel Peppe De Cristofaro la condanna della Corte europea indica invece non la gravità di un caso isolato, ma di un intero costume che deve assolutamente cambiare. Per gli agenti vale una sorta di impunità a priori, per cui anche quando vengono considerati colpevoli le pene devono essere alleggerite in virtù della loro appartenenza alle forze dell’ordine. Ciò è del tutto inaccettabile - conclude De Cristofaro - e proprio questa perversa abitudine ha voluto denunciare, con la sua sentenza di condanna, la Corte europea". Giustizia: "lavoro forzato" per 25mila detenuti, l’Italia di nuovo a rischio di condanna Dire, 2 luglio 2014 Dopo la proroga concessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul sovraffollamento, potrebbe finire sul banco degli imputati il lavoro in carcere: sottopagato e in netto contrasto con la giurisprudenza europea. Sarebbe una nuova e imprevedibile sentenza "Torreggiani". Carceri italiane e amministrazione penitenziaria di nuovo al centro di un ciclone che potrebbe avere proporzioni e ricadute pari alla storica condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Torreggiani. Se per quest’ultima l’Italia ha ottenuto una proroga di un anno per migliorare le condizioni dei vita dei detenuti in carcere, la nuova possibile condanna riguarda il lavoro tra le mura dei penitenziari: sottopagato, legato a minimi di oltre 20 anni fa e in netto contrasto con la giurisprudenza europea. A lanciare l’allarme è Emilio Santoro, docente di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze, secondo cui le violazioni riguarderebbero praticamente tutti i detenuti che lavorano in carcere: circa il 40 per cento di essi, intorno a 25 mila persone. Numeri che fanno pensare ad una nuova Torreggiani, un rischio che potrebbe incrinare la fiducia della Corte nei confronti degli sforzi compiuti dall’amministrazione penitenziaria per far fronte al sovraffollamento carcerario. Retribuzioni ferme agli anni 90. In carcere il lavoro viene pagato meno di quanto previsto dai contratti nazionali collettivi per le stesse mansioni svolte in libertà. "La retribuzione per il lavoro carcerario deve essere circa l’85 della retribuzione prevista dai contratti collettivi - spiega Santoro a Redattore sociale -, ma lo Stato italiano continua a fare il calcolo sulla retribuzione prevista dal contratto collettivo del 1993 e non l’ha mai più aggiornata. Quindi continua a pagare le retribuzioni che dava più di vent’anni fa". Chi se ne accorge, tra i detenuti, spesso si appella alla giustizia ordinaria e il giudice del lavoro finisce per condannare lo Stato italiano a pagare la differenza della retribuzione calcolata sulla base dei dati aggiornati. "L’Italia è già normalmente condannata dalla giustizia ordinaria - spiega Santoro - ma i ricorsi non sono tanti, anche perché il detenuto deve mostrare le buste paga che gli ha dato l’amministrazione penitenziaria che in genere pochissimi detenuti recuperano. Il processo poi è lungo e si recuperano solo pochi spiccioli". Sul tema è intervenuta anche la Corte di Cassazione, aggiunge Santoro, per dire che non solo è illegittimo il riferimento al ‘93, ma anche la riduzione a circa l’84 per cento. Anno 2006, cambiano le regole. Se per circa 30 anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato la possibilità che il lavoro in detenzione potesse anche non venir pagato, negli ultimi anni qualcosa si è mosso nella direzione opposta. "Il primo cambiamento è avvenuto nel 2006 - racconta Santoro -. È entrata in vigore la nuova versione delle regole minime europee per il trattamento dei detenuti che hanno cominciato a dire che il detenuto ha diritto alla retribuzione alla pari del lavoratore libero". Per far sì che anche la Corte europea cambiasse la propria giurisprudenza, però, sono stati necessari ancora altri anni. Fino al 2013. "Lo scorso anno, la Corte europea ha cambiato la propria giurisprudenza su questo punto - spiega Santoro - e ha affermato che il detenuto in esecuzione di pena deve essere pagato come il lavoratore libero. Altrimenti è lavoro forzato. Quindi, non solo può condannare uno Stato a risarcire il detenuto, ma può condannarlo anche perché viola un diritto umano del detenuto a una pena che è sanzionatoria, esattamente come nel caso della Torreggiani". Infine: cosa rischia l’Italia. Finché si tratta di pochi euro per altrettante poche ore di lavoro da rimborsare, allo Stato italiano è sempre convenuto far finta di nulla e risarcire solo i detenuti che se ne accorgevano e chiedevano conto. Ora la vicenda rischia di complicarsi ulteriormente e di finire sul tavolo della Corte europea che potrebbe infliggere risarcimenti ben più consistenti. "Sono stato più volte al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a dire di adeguare le retribuzioni dal 93 al 2014 - racconta Santoro, ma mi hanno sempre risposto che preferiscono pagare quando ci sono i ricorsi perché non ci sono i soldi. Se i ricorsi iniziano ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo, però, c’è il risarcimento per la lesione della dignità il discorso cambia completamente: per il caso Torreggiani si contano tra i 25-26 euro al giorno, da aggiungere ai 3-4 euro l’ora del risarcimento per l’adeguamento della retribuzione". Se ad oggi le richieste di risarcimento per la mancata piena retribuzione sono state facilmente ammortizzate, le cose potrebbero complicarsi in futuro. "I detenuti lavorano a rotazione, a volte per un mese o due mesi l’anno e con orari di 20 ore settimanali - spiega Santoro. Per questo, le richieste di risarcimento erano minime, perché le ore di lavoro erano poche. Ma quando il risarcimento non è più dovuto alla sola differenza di retribuzione, ma è dovuta al fatto che si è lesa la dignità umana torniamo ai risarcimenti calcolati con la Torreggiani dove c’è la lesione della dignità umana". Pochi i ricorsi, ma potrebbero aumentare. Difficile fare una stima esatta di quanti siano stati ad oggi i ricorsi al giudice del lavoro. Secondo Santoro potrebbero essere circa un centinaio, ma spesso in carcere i numeri dei ricorsi crescono col crescere del passaparola tra i detenuti. Quel che è certo è che la nuova "Torreggiani" riguarderebbe tutti i detenuti che lavorano in carcere. Ad oggi, però, non c’è stata ancora nessuna condanna da parte della Corte europea su questo tema, aggiunge Santoro, "perché il cambiamento è stato molto recente, iniziato nella seconda metà del 2013". Due i casi presi in considerazione dalla Corte, senza alcuna condanna. Il primo caso riguarda la Bulgaria, dove per la Corte europea i fatti risalivano a prima del 2006 per cui ha evitato la condanna. Il secondo caso, invece, riguarda l’Austria che ha scampato la condanna per via degli sconti di pena per il lavoro fatto in carcere dai detenuti. "Due sentenze poco conosciute perché non riguardano l’Italia - spiega Santoro, ma appena la cosa di diffonderà, inizierà il tam tam tra i detenuti italiani e tutti potranno presentare facilmente il ricorso. Dopotutto, è ancora più facile che dimostrare che vivi in meno di 3 metri quadrati in cella, perché porti la retribuzione che hai avuto". Documentata, ironia della sorte, dalla stessa amministrazione penitenziaria. Giustizia: il caso di Erri De Luca, lo stato democratico e il processo alle opinioni scomode di Luigi Manconi e Federica Resta Il Foglio, 2 luglio 2014 Una delle prove della "superiorità morale" della sinistra - che notoriamente non esiste - consiste nel seguente dettaglio (dettaglio?). Nel fatto, cioè, che conosciamo diverse persone decisamente di sinistra disposte a pronunciarsi e, se necessario, a battersi, per la tutela delle garanzie di avversari politici. È successo, molti anni fa, a proposito di Francesco De Lorenzo e di Paolo Cirino Pomicino; potrebbe succedere, ora, per quanto riguarda i limiti imposti dal 41 bis alla concessione di benefici a Totò Cuffaro, ma è accaduto in passato numerose volte. Non si dimentichi che la campagna "E se fossero innocenti?", relativa ad alcune (sottolineiamo alcune) imputazioni per Francesca Mambro e Giusva Fioravanti venne promossa, tra gli altri, da esponenti di sinistra. E che il Manifesto sostenne una nostra iniziativa umanitaria a favore di Andrea Insabato, condannato per aver realizzato un attentato contro la redazione del "quotidiano comunista". Ma gli esempi possono essere tanti. Eccone un altro, a disposizione di chi lo voglia, per i prossimi mesi. A ottobre Francesco Storace sarà giudicato per "vilipendio" nei confronti del capo dello stato e rischia, se condannato, una pena da uno a cinque anni. All’origine c’è un articolo particolarmente greve (persino per gli stessi standard di Storace) contro la senatrice a vita Rita Levi Montalcini. A Giorgio Napolitano che definiva "indegno quello scritto", Storace replicava chiamando "indegno" il capo dello stato. Va da sé che il processo contro Storace e quella imputazione costituiscono un reperto anacronistico e illiberale del passato, che andrebbe immediatamente abrogato. Dunque, se c’è da firmare, firmiamo subito. Per Storace e nonostante Storace. Ma non si è sentita finora la voce di Storace, e nemmeno quella di Giuliano Ferrara, a sostegno di Erri De Luca. Quest’ultimo è imputato di istigazione a delinquere per una dichiarazione in cui manifestava la propria contrarietà a un’opera (la Torino-Lione) ritenuta inutile e la propria solidarietà al movimento No Tav. E il "sabotaggio" sarebbe il delitto cui, secondo la procura di Torino, De Luca avrebbe istigato i suoi lettori. Letteralmente, De Luca aveva parlato in effetti proprio di "sabotaggio" della Tav, come unica alternativa alle mediazioni fallite. E come sabotaggio in senso letterale e tecnico sembrerebbe averlo inteso la procura: ovvero quella forma particolare di danneggiamento di "macchine, scorte o strumenti destinati alla produzione (…) industriale" (art. 508 c. p.). E alla commissione (del tutto eventuale e ipotetica) di tale reato, De Luca avrebbe, appunto, istigato. Ma proprio a questo delitto si riferiva De Luca dicendo che la Tav "va sabotata"? Forse intendeva, più verosimilmente, il sabotaggio in senso atecnico; quale azione politica di contestazione e contrasto, ma non necessariamente violenta. In quest’ipotesi, quindi, De Luca risponderebbe penalmente per aver espresso un’opinione, al più aver fatto propaganda politica avversa a un’iniziativa del governo; nell’esercizio, dunque, di un diritto fondamentale. E l’imputazione ricorderebbe un po’ quella "propaganda antinazionale" che solo da otto anni non è più reato. E comunque, se anche alludesse non al sabotaggio in senso lato, ma proprio a quel particolare danneggiamento punito dal codice, De Luca risponderebbe pur sempre di un’opinione. Che non sarebbe legittimo punire neppure per evitare che quegli atti di ipotetica violenza cui egli istigherebbe vengano poi, effettivamente, realizzati. In una democrazia, infatti, il limite ultimo cui può spingersi la pena è quello del tentativo: di quegli atti, cioè, finalizzati in maniera diretta e inequivocabile alla commissione di un delitto. Spingersi oltre vorrebbe dire processare e punire, appunto, le intenzioni. Non a caso, regimi totalitari come quello nazista punivano il tentativo allo stesso modo del reato consumato, ritenendo di dover sanzionare non la lesione di un bene giuridico ma l’intenzione criminosa manifestata, indifferentemente, in parole o atti. Sanzionare solo il "fatto" umano. La conquista più grande dei sistemi liberali è stata invece sostituire al diritto penale delle intenzioni il diritto penale del fatto, limitando cioè la punibilità alle sole azioni manifestate con atti esteriori, lesivi di valori essenziali per l’ordinamento. Scriveva già Hobbes: "Per le intenzioni, che non si manifestano mai come atti esteriori, non vi è posto all’accusa umana (…) delitti sono solamente quelle colpe che possono essere presentate davanti al giudice, e che perciò non sono semplici intenzioni". Le Costituzioni moderne hanno poi codificato il principio di materialità come presupposto di legittimazione della pena, che può sanzionare solo il "fatto" umano, che sia oltretutto lesivo di beni giuridici. La stessa apologia è stata ritenuta dalla Consulta legittima solo in quanto intesa come non limitata alla mera "manifestazione di pensiero pura e semplice, ma a quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti" (sent. 65/1970). In altre parole, sembra affermarsi - e finalmente - l’idea che una democrazia, preoccupata di proteggersi con un sistema di pene da opinioni e idee per quanto scomode, confessi così la propria debolezza. Giustizia: al boss Pietro Aglieri, detenuto a Rebibbia, proibito il libro scritto dal suo legale Ansa, 2 luglio 2014 Al boss Pietro Aglieri, detenuto nel carcere di Rebibbia, è stato impedito dall’istituto penitenziario di ricevere il libro "Dalla parte sbagliata", che parla del processo sulla strage di via D’Amelio in cui il capomafia è imputato, scritto e inviatogli dal suo avvocato, Rosalba Di Gregorio. Il difensore ha ricevuto dal suo assistito copia del provvedimento con cui gli si negava la possibilità di ricevere il volume sulla base di una sentenza della cassazione del 2013. "Lo scopo della sentenza - obietta il legale - è impedire i contatti dei mafiosi con i clan, possibili attraverso i familiari. Questo libro riguarda un processo in cui lui è imputato ed è scritto dal suo difensore. Esiste un ufficio censura, se il carcere ravvisa nel libro elementi eversivi informi la procura". In passato ad Aglieri sono stati negati i libri di studio universitari che gli avrebbero consentito di sostenere gli esami per una laurea in filosofia. "La ratio della pronuncia è , comunque, quella di bloccare la possibilità, per i detenuti al 41 bis, di avere contatti con le organizzazioni criminali, ricevendo o inviando, attraverso stampa e libri, messaggi criptati", spiega il legale. "Nel caso in specie, il libro è spedito dal difensore". "L’estensione, da parte dell’amministrazione del carcere, di questa disciplina preventiva - aggiunge - è altamente lesiva, intanto, del ruolo professionale e della dignità della figura dell’avvocato, che tutelerò nelle sedi competenti". Lettere: l’ottusa e malvagia regola che vieta di tenere in cella più di due libri… di Adriano Sofri Il Foglio, 2 luglio 2014 Io non sono amico di Dell’Utri. Sulle sue vicende penali mi informo attraverso articoli e libri, come quelli esemplari di Enrico Deaglio. Al di là delle vicende penali, mi importa quello che ho appreso sui suoi rapporti trapanesi con un boss mafioso come Vincenzo Virga, ora condannato anche come mandante dell’omicidio di Mauro Rostagno. Detto questo, considero del tutto ottusa e malvagia la regola che vieta di tenere in cella più di due libri. Regole analogamente stupide - sui libri, sulla penna, sulla perpetua luce notturna, sulla domandina con su scritto: "Prega…" - vennero fatte valere anche per me, che mi vi opposi, per me e per gli altri, e ottenni che cambiassero. I regolamenti, tanto più nei luoghi chiusi, non hanno per lo più altro senso che di essere vessatori. Ma le condanne penali, per qualsiasi reato, non possono permettersi d’essere vessatorie. Le limitazioni che la loro esecuzione impone possono giustificarsi solo con ragioni vere di sicurezza, non col gusto dell’umiliazione o dell’esasperazione. Nei giorni scorsi si è sollevato un giusto scandalo sul divieto, azzardato dal ministero inglese, di spedire libri ai detenuti. Cercando di giustificarsi, il ministro ha spiegato che i detenuti possono tenere in cella per regolamento fino a 12 libri, ma solo in prestito dalla biblioteca del carcere o, in deroga, con un provvedimento particolare che premia la buona condotta (!), acquistandoli o facendoseli spedire. Le biblioteche di galera sono avventurose e spesso inaccessibili - per non dire dell’assenza di libri di altre lingue e letterature, adeguate alla attuale popolazione carceraria - e che la lettura debba essere un premio alla buona condotta è un’idiozia o un pretesto alla cattiveria. Ci sono altri paesi in cui la lettura in carcere è valutata per una riduzione proporzionale della pena. Notizie come il divieto di tenere libri in cella, divulgate per la notorietà e la protesta di Dell’Utri, servono in particolare a far immaginare ai pigri quali divieti si applichino ai detenuti ignoti, quelli che il razzismo involontario chiama i poveracci. Intanto, che a Dell’Utri siano stati consentiti "15 libri e un vocabolario", è una buona notizia, cioè una notizia normale. Lettere: sulle carceri tanti convegni… e niente fatti di Pino Corrias (Scrittore) Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2014 L’altro giorno ho partecipato al mio millesimo convegno su "Emergenza carceri". Stesse facce di sempre, stesse buone intenzioni, una rimpatriata. Il tema era la cultura: se sia possibile praticarla dentro il labirinto carcerario onorando quel nobile dettato costituzionale che vincola la pena alla riabilitazione del detenuto, il risarcimento sociale alla sua presa di coscienza e (possibilmente) al suo reinserimento una volta saldato il debito. Mi sono permesso di dire che l’unica forma di praticabile evasione dal carcere sia l’istruzione e dunque la lettura, l’ascolto di quei cuori narranti che sono i libri. E che forse sarebbe più utile comprare libri per le misere biblioteche carcerarie, piuttosto che finanziarie convegni dove danzano le nostre vane parole che ascoltiamo sempre e solo tra noi. Una buona mezzora più tardi ho salutato un vecchio amico, anche lui relatore, che doveva proprio scappare. Mi ha sussurrato: "Scusami, mi dispiace non poterti ascoltare". Non ho avuto il coraggio di dirgli che avevo già parlato. A sua insaputa e forse anche mia. Ma la sua gaffe è stata una rivelazione: non solo facciamo convegni invece di biblioteche, ma neanche lì (ci) stiamo ad ascoltare. Lettere: fare lezione in carcere… qui la scuola mette alla prova se stessa di Giuseppina Pimpini (Docente della Scuola Media nel carcere di Teramo) Il Centro, 2 luglio 2014 Tra cartine sbiadite, rumori di porte metalliche, visi curiosi, frastornati, a volte intimiditi, svariate lingue e culture, mi anima la stessa passione, la stessa dedizione, e provo la sensazione di vivere al tempo stesso un privilegio e una situazione limite. La scuola in carcere è un laboratorio dove si sperimentano i criteri essenziali dell’insegnamento. Sollecitata da tante tensioni, la scuola mette alla prova se stessa, i suoi metodi, i suoi materiali, le sue risorse umane. Pochi compiti... difficile studiare in cella in poco spazio, con tanti rumori; molto lavoro in classe e una programmazione quasi individuale: gli alunni hanno già la loro idea del mondo, della vita, ed anche uno stile di apprendimento a cui bisogna adeguarsi. Spesso hanno un’idea negativa di sé e quindi vanno incoraggiati e sostenuti, affinché l’esperienza scolastica diventi un percorso significativo e motivante: l’adulto, soprattutto se detenuto, ha difficoltà a mettere a nudo le proprie deficienze culturali. La scuola, quindi, deve diventare un percorso che richiami alla memoria dell’anima un ricordo caldo, non solo una possibilità di uscire dalla cella, ma un luogo di conoscenza, di cultura, di stimolo, in cui si scoprono cose nuove e si trova uno spazio positivo nella propria vita. Per me come docente tutto è amplificato, le frustrazioni come le gratificazioni, ma i risultati gratificano di più, proprio perché avvengono in una situazione difficile. Avverto forte il dovere , soprattutto in carcere, di rendere l’ aula un luogo all’interno del quale ciascuno impari ad affrontare la vita, a conoscere se stesso e ad acquisire la capacità di scegliere liberamente, proprio grazie all’unica cosa che non si potrà mai comprare , la cultura. Cagliari: Sdr, nuovo lutto a Buoncammino detenuto di 67 anni muore per infarto Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2014 Nuovo tragico episodio a Buoncammino dove un detenuto B. M. di 67 anni ha avvertito un improvviso malessere. L’uomo si è recato nell’infermeria della Casa Circondariale ma proprio mentre parlava con i Medici si è accasciato. Non c’è stato nulla da fare. Secondo i primi accertamenti si è trattato di un arresto cardio-respiratorio fulminante. A chiarire le cause sarà l’autopsia. "Destano sconcerto e preoccupazione - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" - apprendere che nella Casa Circondariale di Cagliari siano stati registrati due eventi luttuosi nell’arco di appena tre giorni. In questo caso si è trattato di un evento acuto imprevedibile ma è chiaro che le condizioni generali dell’Istituto richiedono un supplemento di attenzione da parte delle Istituzioni". Palermo: Uil-Pa Penitenziari; all’Ucciardone celle fatiscenti per oltre 500 detenuti Dire, 2 luglio 2014 Nel carcere Ucciardone di Palermo sono ci sono oltre 500 detenuti. Celle buie, divorate dalla muffa. Cucinini accanto ai gabinetti. Letti a castello in stanze che potrebbero ospitare un solo detenuto. Garitte fatiscenti. Impianti elettrici a rischio. È la fotografia della Uil-Pa Penitenziari, in un reportage del luglio scorso, dedicato alle carceri italiane, che testimonia lo stato di degrado degli ambienti di vita dei detenuti ma anche degli stessi agenti penitenziari. Nel carcere Ucciardone, secondo i dati di luglio 2013, sono 519 i detenuti collocati in solo 5 sezioni aperte su 8 e dunque, nelle celle singole vengono rinchiusi anche tre detenuti. Entro 5 anni le cose dovrebbero cambiare, sono previsti nuovi posti in più e nuovi padiglioni tra Palermo, Trapani, Siracusa, Caltagirone. Ma, all’attivazione dei nuovi padiglioni e dunque di nuovi posti per i detenuti, non corrisponde un aumento del personale di polizia penitenziaria. Lo scorso aprile, a scendere in piazza a Palermo davanti all’Ucciardone sono stati i poliziotti penitenziari della Sicilia aderenti a Sappe, Uil, Sinappe, Ugl e Cgil, che rappresentano oltre il 70% dei lavoratori. Delegazioni delle 26 carceri siciliane con la partecipazione dei segretari nazionali, che hanno denunciato la mancanza di almeno mille poliziotti. Il carcere dell’Ucciardone è la casa circondariale più antica dell’Isola ubicata in via Enrico Albanese. Il nome deriva dal siciliano "u ciarduni", a sua volta dal francese "chardon", che vuol dire cardo: un tempo, infatti, questa pianta commestibile veniva coltivata nel terreno in cui sarebbe poi sorto l’edificio. Nel carcere ci sono la scuola elementare, la media e il liceo scientifico. Poi, tra le attività, si fanno cucina, giardinaggio, un corso di mosaico, un corso di pc e, inoltre c’è la fruibilità di una biblioteca. L’imponente struttura è situata in pieno centro storico, vicino al quartiere di Borgo Vecchio, nei pressi del porto. È stato progettato all’inizio dell’ottocento dall’architetto Nicolò Puglia e riformato, come oggi si vede, dall’architetto palermitano Emmanuele Palazzotto. Nel 1842, con il trasferimento dei detenuti dallo storico carcere della Vicaria, poi trasformato in Palazzo delle Reali Finanze dallo stesso architetto Palazzotto, iniziò la sua attività. Verona: il decreto "svuota carceri" arriva a Montorio, liberati venti detenuti in un giorno www.veronasera.it, 2 luglio 2014 Le nuove norme prevedono che il giudice non applichi la custodia cautelare in cella e nemmeno gli arresti domiciliari se è possibile che l’imputato benefici della sospensione condizionale della pena. Lo svuota carceri fa uscire 20 "ospiti" anzitempo. Sono gli effetti immediati del decreto-legge del governo approvato in Consiglio dei ministri un paio di giorni fa, in materia di sovraffollamento delle patrie galere. Per tutta la settimana i cancelli della Casa circondariale di Montorio Veronese si apriranno non per far entrare, bensì per far uscire. Le nuove norme prevedono che il giudice non applichi la custodia cautelare in carcere e nemmeno gli arresti domiciliari se è possibile che l’imputato benefici della sospensione condizionale della pena. In più il magistrato dovrà studiare "a fondo" e nel caso in cui riuscisse a prevedere che la pena non sarà superiore a tre anni non potrà decidere per la custodia in carcere ma "solo" i domiciliari. I provvedimenti "svuota-carceri", che non hanno mai smesso di far discutere dal momento in cui sono trapelate le prime indiscrezioni, mirano a pene alternative al carcere. E solo il tempo potrà giudicare se più o meno validi: attuabili deterrenti come l’allontanamento dai famigliari, l’obbligo di firma, il divieto di dimora e quello all’espatrio. A Montorio, come spiega il Corriere Veneto, gli effetti si sono tradotti in una ventina di detenuti in meno che hanno costretto i cancellieri della sezione penale di Verona a notificare di volta in volta il via libera che arrivava dai giudici di sorveglianza. Complessivamente, comunque, stando alle stime della stessa cancelleria penale dell’ex Mastino dovrebbero risultare "una quarantina" i detenuti che nell’arco di questa settimana verranno interessati dal provvedimento. In ogni caso, a ottenere in anticipo la libertà sono soprattutto persone finite dietro le sbarre per reati contro il patrimonio (furti e rapine, purché non a mano armata) e connessi al piccolo spaccio di droga. Secondo la garante dei detenuti, Margherita Forestan, nell’ultimo caso rientrerebbe il 40 percento della popolazione carceraria di Montorio. Rimini: la Garante; riduzione del sovraffollamento e miglioramento condizioni strutturali Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2014 Una decisa riduzione del sovraffollamento, un miglioramento delle condizioni strutturali e igieniche, basta con più di due detenuti per cella e, in tutte le sezioni detentive, il regime "a celle aperte". Nel corso della sua visita alla Casa circondariale di Rimini, il 30 giugno scorso, insieme alla direttrice Rosa Alba Casella, la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha preso atto di numerosi miglioramenti, a partire dal consolidamento del trend positivo relativo all’abbattimento del numero di detenuti presso la struttura penitenziaria riminese. Un miglioramento dovuto in particolare alla riduzione degli ingressi: alla data del 30 giugno, erano infatti 104, mentre a gennaio risultavano 166. La composizione del dato relativo ai detenuti è attualmente così strutturata: 50 stranieri, 35 tossicodipendenti, 34 imputati, 20 appellanti, 11 ricorrenti, 39 definitivi, 5 semiliberi e 4 ammessi a lavorare all’esterno. La presenza media nel mese di giugno è stata di 114 detenuti. Nelle sezioni detentive non ci sono più di due detenuti per cella, e in tutte le sezioni vige il regime "a celle aperte", con i detenuti che possono restare all’esterno della camera detentiva fino a 9 ore al giorno circa. La decisa riduzione del sovraffollamento si accompagna ad un miglioramento delle condizioni strutturali e igieniche del carcere, sottolinea la Garante nel suo resoconto: sono prossimi ad essere ultimati i lavori nella seconda sezione, la cui ristrutturazione permetterà di recuperare circa 25 posti, e sono stati sanificati gli ambienti della prima sezione, al momento in condizioni accettabili anche se risultano necessari lavori complessivi di ristrutturazione, che potrebbero iniziare una volta che la seconda sezione sarà tornata operativa grazie allo spostamento dei detenuti dalla prima sezione nei nuovi ambienti. Gli stessi detenuti fra quelli muniti di adeguata professionalità, fa notare Bruno, potrebbero occuparsi di questi lavori, se venissero stanziate dall’amministrazione penitenziaria risorse dedicate al lavoro all’interno del carcere. In ogni caso, nell’ambito della piena realizzazione del circuito penitenziario regionale la struttura penitenziaria in questione sarà destinata ad ospitare persone che non sono condannate in via definitiva, ma in custodia cautelare, per cui, per quanto riguarda il lavoro, è difficile pensare a stabili lavorazioni interne a causa del turn over. L’ultimo rapporto semestrale dell’Ausl di Rimini, a seguito della visita effettuata il 14 giugno 2014, anche in ragione di un esposto fatto all’Ausl stessa da parte di alcuni detenuti, lamentando la presenza di topi e di insetti striscianti, ha rilevato che non sono state riscontrate presenze, né tracce come deiezioni o insetti morti: si è rilevato unicamente che in alcune celle non sono presenti le pilette degli scarichi, da cui potrebbero entrare topi o altri piccoli animali. A tal proposito si è acquisita ed è agli atti documentazione dalla quale risulta che vengono periodicamente effettuati interventi di derattizzazione, l’ultimo dei quali effettuato l’11 marzo di questo anno. Nell’organizzazione degli spazi detentivi risulta pienamente operativa la separazione fra imputati e condannati in via definitiva ed è stato adibito uno spazio destinato all’accoglienza dei detenuti che fanno ingresso in carcere, prima che vengano collocati nelle ordinarie sezioni. Risulta non essere pienamente utilizzata la sezione Andromeda a custodia attenuata, che ospita 11 detenuti a fronte di una capienza prevista di 15, in cui vengono collocati i detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, selezionati dalla direzione e dell’Ausl, in attesa dell’accesso a misure alternative alla detenzione con finalità terapeutiche: alla sezione Andromeda si accede dopo un percorso nella sezione Cassiopea, dove sono collocati detenuti tossicodipendenti. Sono infine in corso di definizione progetti fra direzione del carcere e Comune al fine di impiegare i detenuti in lavori di pubblica utilità all’esterno del carcere, con il territorio riminese che offre particolari risorse in tal senso. Sassari: Uil-Pa su caso Erittu; agenti di Polizia penitenziaria assolti, ora il riscatto sociale di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 2 luglio 2014 "I nostri colleghi meritano il giusto riscatto sociale e per questo ci attiveremo affinché quanto accaduto non venga dimenticato in fretta". Sono le parole di Francesco Piras, coordinatore regionale della Uil penitenziari. Il sindacato interviene una settimana dopo la sentenza del processo per la morte sospetta in carcere del detenuto Marco Erittu. Per quella vicenda erano stati arrestati Pino Vandi (considerato il mandante dell’omicidio) e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna accusato di aver aperto la cella della vittima consentendo ai presunti assassini di mettere in atto il loro piano (entrambi erano stati poi mandati ai domiciliari). Erano invece imputati di favoreggiamento altri due agenti: Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda. Tutti sono stati assolti dai giudici della corte d’assise "perché il fatto non sussiste". Una formula che ha un preciso significato: Marco Erittu non fu ammazzato ma si suicidò. "Prendiamo atto - dice oggi il coordinamento regionale della Uil penitenziari - della sentenza che assolve il personale di polizia penitenziaria della casa circondariale di Sassari finito sotto processo a causa delle dichiarazioni di un "presunto collaboratore di giustizia" (Giuseppe Bigella ndc), reo confesso e già condannato per i medesimi fatti". Ma il sindacato si sofferma soprattutto sull’angoscia patita da chi ha "vissuto un vero dramma". Imputati e familiari, nella fattispecie. "In questo frangente la giustizia ha trionfato a favore del personale di polizia penitenziaria ingiustamente coinvolto, restituendo loro un minimo di serenità e dignità personale per quanto patito negli ultimi anni. Ma il nostro pensiero è anche rivolto alle famiglie di questo personale, per il dramma vissuto accanto ai loro congiunti". Da qui la successiva riflessione: "È necessaria una riforma strutturale e ponderata della giustizia, in particolare, come questo ultimo caso richiama, sull’attuale modalità di applicazione delle misure cautelari personali e sull’attendibilità dei collaboratori di giustizia. Infatti un’altissima percentuale di cittadini ogni anno rimane coinvolta in gravi vicende giudiziarie, cittadini che poi risultano estranei ai fatti attribuiti. La loro vita però è segnata per sempre, non avendo, in tantissimi casi, la possibilità di riscattare appieno l’immagine e la dignità personale agli occhi dell’opinione pubblica". E concludono: "Anche per questo, sperando che il personale interessato esca di scena definitivamente e quanto prima da questa vicenda, ci attiveremo affinché non si dimentichi in fretta quanto accaduto e supporteremo in ogni modo il giusto riscatto sociale dei nostri colleghi. Per il momento la vera giustizia ha per fortuna sancito l’inattendibilità del "collaboratore" e ha ridato un po’ di lustro all’intero sistema penitenziario sassarese e al personale che opera al suo interno". Perugia: i detenuti si "diplomano" giardinieri e aprono un orto botanico in carcere Redattore Sociale, 2 luglio 2014 Si chiude in questi giorni a Perugia il secondo anno del corso promosso da Apv e Caritas con in finanziamento del Cesvol. Nella casa di reclusione un’area sarà destinata alle coltivazioni. Con l’esame orale e relativo rilascio dell’attestato di partecipazione, in programma in queste prime due settimane di luglio, si conclude il 2° anno del "Corso di Botanica" per detenuti del "Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia Capanne", che rientra nel Progetto formativo del "Laboratorio di Botanica" organizzato dall’Associazione perugina di volontariato promossa dalla Caritas diocesana, realtà ecclesiale che opera da 30 anni e più nel mondo carcerario, ospedaliero della disabilità e degli anziani. Entusiasti i partecipanti (una decina dei quaranta detenuti che avevano fatto richiesta di ammissione al corso) e soddisfatti i volontari dell’Apv, in primis il docente, professor Mauro Roberto Cagiotti, e tutor-coordinatore del progetto, Feliciano Ballarani. "Nel periodo ottobre 2013 - giugno 2014 - spiegano Cagiotti e Ballarani -, gli studenti hanno mostrato un vero interesse alla partecipazione del "Corso di Botanica". Durante lo svolgimento dello stesso sono emerse interessanti situazioni di comportamento solidale tra gli studenti. Molti di loro, seguendo alcuni programmi alla Tv, riportavano le notizie e spesso ne scaturiva un dibattito stimolante per approfondimenti da vari punti di vista relativamente alle scienze botaniche". Sorprendente anche la costanza dei corsisti nel partecipare il martedì e il mercoledì, dalle ore 13 alle 15, alle lezioni che si svolgevano negli spazi messi a disposizione dalla direzione del carcere per l’attuazione di questo significativo progetto formativo. È un progetto rivolto alla risocializzazione-educazione del detenuto in attesa dell’espletamento della pena, che lo sostiene a riconquistare la sua dignità di uomo. Al termine del corso, aggiungono gli stessi Cagiotti e Ballarani, "si è avviata la realizzazione di un piccolo Orto botanico nell’aria prospiciente al Penale con il contributo del CesVol, centro di servizi al volontariato di Perugia, in cui verranno poste a breve delle piante ricoverate in cassettoni seminterrati in cui sarà possibile effettuare delle operazioni di coltivazione, propagazione, taleaggio etc., nonché seguire il ciclo di sviluppo di varie specie prevalentemente aromatiche utilizzate sia nell’arte culinaria che di interesse apistico". Ad ottobre 2014 inizierà il 3° anno del corso, che prevede l’approfondimento delle conoscenze di utilizzo delle piante poste in vaso a riguardo delle loro proprietà alimentari, fitochimiche, fitoterapia e delle melissoflora. Sia per il 2° che per il 3° anno, l’Apv si avvale del finanziamento del CesVol. Chieti: l’Associazione "Voci di dentro Onlus" istituisce un punto di ascolto legale Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2014 Dal 4 luglio resterà aperto ogni venerdì, dalle 11 alle 13, nella sede dell’associazione a Chieti, in via De Horatiis 6. A Chieti sono circa cento i detenuti ristretti nella casa circondariale di Madonna del Freddo e in città le presenze straniere crescono sempre più: spesso queste persone, soggetti deboli, non hanno punti di appoggio e sono soggette a maggiori difficoltà nel momento in cui si trovano a dover sbrigare una pratica, richiedere delle informazioni di carattere tecnico o, più sinteticamente, ripartire nella società. L’associazione Onlus Voci di dentro, da sempre attenta all’inserimento sociale degli svantaggiati, ha istituito un Punto di ascolto legale dedicato a questo tipo di utenza. Ne fanno parte gli avvocati soci di Voci di dentro: Alessandra Baldassarre, Matilde Giammarco, Mauro Morelli, Alessandra Paolini ed Enrico Raimondi. Il Punto di ascolto legale assisterà gratuitamente ex detenuti e cittadini stranieri e intende essere un servizio di consulenza e aiuto in merito alle problematiche relative agli ex detenuti e agli immigrati (accesso al lavoro, discriminazioni, contratti, ricongiungimenti familiari, ecc.). A partire dal 4 luglio il Punto di ascolto resterà aperto ogni venerdì mattina, dalle ore 11 alle 13, presso la sede di Voci di dentro in via Concezio De Horatiis n. 6 a Chieti. Voghera (Pv): grazie al Museo Orlandi la scienza entra anche in carcere di Marco Quaglini La Provincia Pavese, 2 luglio 2014 "E…state con la scienza", all’interno del carcere vogherese. L’assessorato alle attività museali di Voghera promuoverà anche per quest’anno, in collaborazione con il civico Museo di Scienze naturali Orlandi, degli incontri all’interno di via Prati Nuovi. Si tratta del naturale proseguo del progetto che da parecchi anni ormai il museo cittadino porta avanti all’interno della struttura con i vari gruppi di detenuti ospitati. In particolare, in estate vengono proposti una serie di incontri con diversi autori ed esperti al fine di offrire degli spunti di riflessione e di dibattito, ma anche di svago. Come detto, l’iniziativa, alla sua seconda edizione, durerà tutta l’estate e vedrà anche ospiti prestigiosi ed interessanti. Già a giugno c’è stato il primo appuntamento. Dai dirigenti della ditta Maserati è stato tenuto un convegno dedicato proprio alla storia dell’omonima famiglia, che come è noto ha origini vogheresi. È stata data la parola al figlio di Umberto Panini che ha raccontato la coinvolgente storia del padre, fondatore peraltro della prestigiosa casa editrice a lui dedicata. "Coinvolge tutti i gruppi di detenuti: mi è piaciuto come sta funzionando perché da spazio al dibattito corretto, educato e profondo. Emergono spunti interessanti, anche grazie alla serietà dei detenuti nel capire l’opportunità che gli viene offerta", commenta il direttore del museo Simona Guioli. Il prossimo incontro, che non è aperto al pubblico, si svolgerà domani e vedrà ospite Don Gino Rigodi, responsabile di Comunità Nuova che giungerà a Voghera per illustrare il suo nuovo libro "Ricostruire la speranza". La rassegna proseguirà poi con altri appuntamenti per tutto il mese di luglio. Mantova: l’internato all’Opg che non vuole uscire "se mi cacciate vi faccio del male…" Gazzetta di Mantova, 2 luglio 2014 "Io da qui non mi muovo. Se mi costringete a uscire giuro, vi faccio del male". La minaccia, presa molto sul serio, è quella di un ospite dell’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Stando alla legge, da poco approvata dal governo, tutti gli ospiti dell’Opg che hanno finito di scontare la pena devono essere rimessi in libertà. Lui, 44enne della provincia di Genova, da vent’anni rinchiuso nella struttura castiglionese, non ne vuole sapere. La sua richiesta è stata quindi accolta, evitando in questo modo possibili conseguenze alla comunità. È finito all’Opg per aver massacrato di botte proprio uno psichiatra. Soffre di una schizofrenia molto grave. Un caso singolare, senza dubbio, ma che dimostra la complessità di un problema che l’esecutivo ha risolto in modo troppo affrettato. Nelle prossime settimane saranno rimessi in libertà altri venti ospiti. Si tratta di detenuti che hanno ampiamente superato il periodo di internamento al quale erano stati condannati. "Tutti quanti - ha chiarito il direttore Andrea Pinotti - saranno prelevati dai servizi psichiatrici dei comuni di residenza, per lo più del Piemonte e della Lombardia. Nessuno sarà abbandonato". Questo al momento della "liberazione", ma poi? Nel giro di pochi mesi comunque quasi trecento detenuti internati perché considerati socialmente pericolosi, saranno liberi. In questo modo verrebbe eliminata la piaga dei cosiddetti "ergastoli bianchi" con la quale gli internati, a forza di proroghe, passano la loro vita in Opg. Per ognuno di loro, a seconda della residenza, sarà indicato il centro di salute mentale al quale dovrà fare riferimento. Ma non è automatico. Il detenuto-paziente potrebbe decidere di andarsene per i fatti suoi. Non sono previsti controlli. Modena: Sappe; detenuto magrebino tenta di aggredire ispettore di Polizia penitenziaria Gazzetta di Modena, 2 luglio 2014 È accaduto nel carcere di Sant’Anna: il magrebino era responsabile di una rissa. Protesta il sindacato Sappe. Un detenuto proveniente da Piacenza, dove si era reso responsabile di una rissa, ha tentato di aggredire un ispettore della polizia penitenziaria, verso il quale ha rivolto sputi e insulti, nel carcere modenese Sant’Anna. "Lo stesso soggetto - dichiarano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale - in precedenza, sempre a Modena, aveva minacciato un sovrintendente e il comandante. Si tratta di un detenuto magrebino, ristretto nel regime aperto, a vigilanza dinamica. Il reparto detentivo interessato non ha adeguati sistemi di video sorveglianza, necessari per garantire l’incolumità del personale e degli altri detenuti". "Questa - commenta il sindacato della polizia penitenziaria - è l’ennesima dimostrazione del fallimento dell’attuale gestione delle carceri, fatta di totale lassismo e disinteresse per i problemi della sicurezza. Nel carcere di Modena ci sono 430 detenuti". Foggia: rappresentanza calcio a 5 Comune ha giocato un’amichevole contro i detenuti www.puglialive.net, 2 luglio 2014 Una rappresentanza del prossimo Consiglio comunale di Foggia, capitanata dal sindaco Franco Landella, ha preso parte alla giornata conclusiva manifestazione denominata "Sportivamente 2014", con una gara di calcio a 5 giocata all’interno della Casa circondariale di Foggia. L’evento è stato organizzato dall’insegnante Luigi Talienti, in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, la direzione e l’area trattamentale del penitenziario di via delle Casermette, la società del Foggia Calcio, il Centro Territoriale Permanente, l’Associazione Qualità della Vita e l’Ordine degli avvocati di Foggia. In un’ora di tempo tutti i problemi ed i pensieri hanno lasciato spazio ad una sana attività agonistica, coinvolgendo anche gli altri ospiti della Casa circondariale che hanno assistito alla partita conclusiva di "Sportivamente 2014". E come da pronostico i rappresentanti del Consiglio comunale, forse ancora troppo appesantiti da una campagna elettorale lunga e stressante, hanno dovuto arrendersi ai vincitori del torneo. Ma il vero risultato, più che dal campo di gioco, è arrivato dagli organizzatori della manifestazione, che hanno centrato in pieno l’obiettivo prestabilito. "L’articolo 27 della nostra Costituzione riconosce la funzione rieducativa della pena. E l’Ordinamento Penitenziario prevede esplicitamente che nei confronti dei detenuti debba essere attuato un trattamento rieducativo individualizzato che tenda al loro reinserimento sociale - ha detto il sindaco Franco Landella, che a fine gara ha premiato i vincitori del torneo di calcio a 5. Mi congratulo con Luigi Talienti e con tutte le associazioni che hanno organizzato questa splendida manifestazione, che intende dare un riscatto sociale attraverso lo sport a chi ha incontrato maggiori difficoltà nel corso del proprio cammino". Droghe: pena rivista anche per chi ha patteggiato, dopo bocciatura della Fini-Giovanardi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2014 Anche chi ha patteggiato per reati di droga ha diritto a una revisione della sua pena, per effetto della parziale abolizione della legge Fini-Giovanardi dopo la dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale che ha condotto a una rivisitazione della disciplina. La Cassazione, con la sentenza 28198 depositata ieri, afferma l’applicabilità del trattamento più favorevole al reo, anche quando la pena è stata concordata dalle parti. Una sanzione meno severa che è il risultato della rinnovata distinzione tra droghe pesanti e leggere, tornata in auge con le tabelle della Iervolino Vassalli (Dpr 309/90). A beneficiare del principio affermato dai giudici della quarta sezione penale il ricorrente, condannato a un anno e quattro mesi di reclusione, oltre 34.500 euro di multa per aver coltivato e detenuto marijuana. La Suprema corte annulla dunque la precedente sentenza, senza rinvio con contestuale trasmissione degli atti al Tribunale di Napoli Nord, perché la cancellazione della norma incide sulla pena concordata e determina la "caducazione del patto". La Corte di cassazione si esprime così su un ricorso che, in punta di diritto, sarebbe stato inammissibile perché sollevava un difetto di motivazione infondato. La Suprema corte ricorda però che, come stabilito da una precedente sentenza della Sezioni unite (23428/2005), esiste una chance di arrivare a un giudizio di cognizione anche per le impugnazioni inammissibili, ed è rappresentata proprio dall’abolitio crimins o dalla declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice. Come avvenuto nel caso esaminato. Droghe: l’uomo dello Stato che non rispetta la fragilità e il dolore di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 2 luglio 2014 C’è una strada tortuosa e dura, quasi tutta in salita e, soprattutto, con pochissime vie di uscita. È la strada dell’angoscia che strappa un figlio ai propri genitori, alla madre, un figlio intrappolato nelle contraddizioni e nelle curve della vita. Non è facile squarciare quella tua carne dalle nefandezze e da quel nero catrame che avvolge il futuro degli occhi della tua creatura. Non è facile e occorrono le parole, quelle giuste, occorrono i silenzi, quelli veri, occorrono gli sguardi: quelli in grado di ascoltare. Il prefetto Reppucci (ormai ex) ha sbagliato proprio tutto. Parole che pesano quelle del dottor Reppucci e che vanno ricordate. Parole riprese da un video e quindi genuine, come genuina è stata la sua pantomima da attore consumato, bravo per una farsa, ma non per un dramma. Nella conferenza stampa organizzata a Perugia, Reppucci decide per un’analisi sociologica sulle famiglie e davanti al procuratore generale e alti ufficiali delle forze dell’ordine dice: "Il cancro sta nelle famiglie, se una madre non si accorge che il figlio si droga ha fallito, si deve solo suicidare". Il suo incredibile monologo ha continuato nell’analisi sulla lotta alla droga che non può essere lasciata solo alle forze di polizia: "Noi non possiamo fare da badanti e tutori al posto delle famiglie - ha gridato con intercalare di espressioni napoletane - se uno mette al mondo dei figli poi deve stare attento a quello che fanno. Se io avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano lo prenderei a schiaffi. Uno che beve per strada imbambolato io non lo accetto proprio". Poteva essere un monologo degno di un populista puro, di un passante per caso, di uno che non conosce a fondo il problema e invece queste cose le diceva un alto rappresentante dello Stato. Ora, capisco che a volte, nelle conferenze, soprattutto se si usa parlare a "braccio", ci possano essere delle incomprensioni, delle uscite "poco felici". Capita. Ci si rende conto quasi subito degli errori, basta osservare la platea e si corregge il tiro. Ci vuole mestiere, insomma. E il dottor Reppucci mestiere ne aveva da vendere. Quindi intendeva dire quello che ha detto, magari in maniera più aulica, ma quello era il concetto. Duro, cattivo, senza via di uscita. Le parole hanno sempre un peso specifico e chi esercita il mestiere di prefetto sa benissimo quale è il dosaggio dei pensieri, il giusto modo di presentare i fatti, i buoni silenzi da conservare. La droga non è un argomento da conferenza stampa, non è un rosario di consigli da suggerire, non ci sono soluzioni semplici e, in alcuni casi, non ci sono soluzioni. Ho conosciuto moltissimi ragazzi che hanno modificato il loro cammino, sono finiti nell’eroina, nella solitudine e nella disperazione e non sono riusciti a spiegare le loro scelte. Li ho visti urlare, mentire, nascondersi, giurare che non sarebbe più accaduto, che il carcere li avrebbe cambiati e nessuno voleva scommettere su di loro. Ho visto madri con mani nodose e asciutte, con volti inutili alle lacrime, con sguardi verso una soluzione che non arrivava. Non sarebbe mai arrivata. La droga non è una malattia, non si risolvono le azioni complesse con uno schiaffo. Sarebbe troppo bello e sarebbe troppo semplice. Non si scherza con il dolore delle persone, con chi nasconde il proprio figlio, con chi racconta le bugie per amore, solo per amore. Bisognerebbe utilizzare molto di più il silenzio degli sguardi, osservare con più intensità i problemi che ci girano intorno e lasciare le ricette facili agli imbonitori, ai furbi e a coloro che hanno sempre la soluzione per tutte le stagioni. Gli uomini, signor ex prefetto sono abbastanza complicati e sono tutti diversi nelle loro scelte. Bisognerebbe partire dalle diversità per comprendere il sociale e in ogni caso, l’analisi ci restituirebbe altre complessità. Per fortuna. Gran Bretagna: detenuto tenta evasione con una pistola fabbricata con il sapone di Claudia Masala www.urbanpost.it, 2 luglio 2014 Al carcere di Bedford, in Gran Bretagna, un detenuto ha tentato l’evasione con una finta arma da fuoco di sapone: progettava da tempo la fuga. Al carcere di Bedford l’arte debutta anche in prigione. Un detenuto, che da tempo conservava il sapone che gli veniva consegnato, è stato colto in flagrante durante la realizzazione di un’arma finta che gli avrebbe agevolato la fuga. L’uomo, infatti, dopo aver consegnato l’arma alle forze dell’ordine, ha ammesso che da tempo organizzava la sua fuga e aveva deciso di emulare il famosissimo rapinatore di banche degli anni 30: John Dillinger che tentò diverse volte di evadere usando maniere violenti. Si riporta che una volta tentò di fuggire usando un arma da lui elaborata di legno. Alcuni testimoni del carcere britannico dicono: "Verniciata di nero, sarebbe stata impossibile da distinguere da una vera e propria pistola." Il Daily Mirror ha poi comunicato che una fonte della prigione afferma: "La pistola di sapone era stata realizzata nella giusta forma e dimensione con cura artigianale". Il penitenziario, dopo aver trasferito l’uomo in isolamento e segnalato l’episodio alla polizia, ha confermato che l’arma non era mai stata usata in precedenza e non c’è stato alcun ferito. Le guardie dichiarano: "La violenza o il possesso di oggetti illeciti non sono tollerati nei nostri carceri, e il nostro staff rimane vigile per qualsiasi tipo di contrabbando. L’incidente è stato sottoposto alla polizia come una cosa naturale. Il piano fortunatamente è fallito".