Giustizia: i risarcimenti ai detenuti? un "piano carceri" costoso e inefficiente di Domenico Alessandro de Rossi L’Opinione, 29 luglio 2014 L’accusa rivolta all’Esecutivo dal deputato leghista Davide Caparini è lapidaria e non lascia spazio a equivoci: "Il Governo libera e stipendia i criminali per coprire gli scandali del Piano carceri su cui pesa come un macigno un’inchiesta. Se oggi il deficit e l’inadeguatezza delle celle sono evidenti è perché l’adeguamento delle carceri si è arenato con i Governi Monti, Letta e Renzi". Il recente Ddl "svuota carceri" sembra essere più una pezza a colore o, al massimo, un diversivo poco credibile. Certamente non un provvedimento strutturale. Una sorta di tappabuchi da fare con urgenza dopo le molteplici condanne che l’Italia ha ricevuto da parte dell’Unione Europea e dalla Commissione dei Diritti umani dell’Onu per i trattamenti inumani e degradanti che lo Stato infligge a coloro che sono detenuti sottoponendoli ad una permanenza in ambienti carcerari universalmente ritenuti non idonei. Il recente provvedimento approvato da un ramo del Parlamento tenderebbe ad alleggerire l’eccedenza del numero dei detenuti disponendo arresti domiciliari per i reati minori e diminuendo un giorno di pena di carcere ogni dieci. Dulcis in fundo, per coloro che ne faranno richiesta è previsto un premio risarcitorio di otto euro al giorno per aver scontato la pena dentro carceri non "idonee". Multandosi, lo Stato sanziona se stesso in carcere. Grottesco. In sostanza questo vorrebbe essere una sorta di pseudo e più costoso Piano carceri. Peraltro inutile perché non risolutivo in senso strutturale del gravissimo problema del sovraffollamento e delle condizioni tecnico economiche delle stesse strutture edilizie. Invece che con il pigiama a righe, tradizionale abbigliamento dei detenuti di una volta, il nuovo piano si presenta con un variopinto costume da Arlecchino. Servo di due padroni, più consono all’attualità governativa, fatta di appoggi esterni della minoranza e di opposizioni di maggioranza. Da un lato, servo delle disposizioni della Corte europea che ha obbligato l’Italia a muoversi in fretta e furia su posizioni più civili circa il rispetto dei diritti anche di coloro che sono in carcere e, dall’altro, servo di quella parte di elettorato rappresentato da quei moventi politici notoriamente contrari a un provvedimento di amnistia e indulto. A parte i Radicali, convintamente unici e coraggiosi sostenitori dell’amnistia, tra i partiti non manifestamente ostili a questo provvedimento troviamo i sedicenti garantisti di Forza Italia e parte del Ncd. Mentre chiusi a riccio si riconoscono in prima fila la Lega, il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia insieme a una cospicua, quanto velata, parte dello stesso Pd. Comunque tutti pronti a ostacolare in parlamento con discordi motivazioni il provvedimento di amnistia con sfumature diverse: dalla rigida logica vendicativa e manettara a quella più sofisticata del "benaltrismo" politicamente più corretto per i democratici. Ma oltre a tutto ciò sembra essere sfuggito a tutti i partiti, di governo e di diversa opposizione, un fattore quanto mai interessante che si chiama rimborso ai detenuti. Quel provvedimento risarcitorio che lo Stato riconoscerebbe a coloro che, facendone richiesta scritta, avessero subito trattamenti inumani e degradanti costretti in celle non idonee. I punti su cui è d’obbligo fare qualche riflessione sono almeno questi. Primo: chi sarà l’Organo-Decisionale-Terzo (Odt) che dovrà decidere se le celle o gli ambienti in cui è stata reclusa una persona siano effettivamente da ritenere non idonei? Secondo: a seguito di quali documentazioni, prove, scritti, foto e testimonianze tali ambienti saranno riconosciuti ufficialmente non idonei alla detenzione e in base a quali criteri? Altezza, larghezza, profondità, metri quadrati, quantità di luce naturale, introspezione, contiguità e distanza tra il water e il tavolo per mangiare, numero di detenuti per cella? Terzo: nel caso in cui si verificasse una diversità di opinione, cosa molto probabile viste le scarse risorse statali, tra il richiedente (il detenuto sottoposto a misure inumane e degradanti) e l’Odt che invece ritenesse l’ambiente carcerario più che idoneo per una "pena-come-Dio-comanda", cosa si dovrebbe fare? Ricorrere alla Corte di giustizia europea con atti e certificazioni probatorie avverso il parere dell’Odt dello Stato italiano, contrario a sanzionare veramente se stesso? A parte queste osservazioni apparentemente risibili, ma in pratica facilmente sostenibili data la ben nota inefficienza della macchina giudiziaria italiana, c’è un argomento centrale che non convince e che nessuna forza politica ha osato sollevare con forti eccezioni. Che si risolve in una sola domanda, semplice e secca: chi pagherà gli otto euro al giorno per il risarcimento? Con quali soldi e da quali voci di capitolo di spesa? Forse sarà necessaria una nuova tassa? E come si chiamerà? Forse sarà istituito un Fondo Risarcitorio per Detenuti Maltrattati (Frdm). A quanto ammonteranno i risarcimenti per coloro che da venti o trent’anni sono i carcere? E quanti saranno i detenuti che chiederanno gli otto euro? A quanto ammonterà la somma totale dovuta dallo Stato inefficiente costretto a multare se stesso? Si avvicina all’orizzonte una manovrina ad hoc solo per questo nuovo "Piano carceri" tanto inutile quanto inefficiente e costoso. Coloro che pagheranno saranno i cittadini: quelli detenuti, perché costretti in condizioni inumane e degradanti, e quelli "liberi" perché costretti a risarcire le inefficienze di questo Stato incapace e arruffone. Fiduciosi attendiamo risposte. Anche su Twitter. Giustizia: un risarcimento obbligatorio del trattamento inumano nelle carceri di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2014 Nei prossimi giorni il Senato, oltre a occuparsi della propria sorte costituzionale, dovrà convertire in legge il decreto che prevede un rimedio compensativo per chi in carcere ha subito un trattamento inumano o degradante. In particolare, è prevista nel decreto una forma di risarcimento - valevole anche per il futuro - per chi è stato costretto a vivere in meno di tre metri quadri di spazio. Chi è ancora detenuto potrà avere uno sconto di pena di un giorno per ogni dieci scontati in condizioni degradanti, mentre chi ha ormai finito la pena potrà accedere a un indennizzo economico pari a 8 euro per ogni giorno di carcerazione avvenuta in condizioni di violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo così come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Si tratta di un obbligo compensatorio che nasce per l’Italia dalle sentenze di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A causa del sovraffollamento, il nostro sistema penitenziario nel gennaio 2013 con la famosa sentenza Torreggiani è stato ritenuto - al pari di quello russo, il che non ci onora - fuori dalla legalità internazionale. La misura si spera possa dissuadere le autorità dal ritornare a situazioni di affollamento intollerabile. In una democrazia, lo Stato deve accettare che ci siano dei limiti al proprio potere di punire. Nel dibattito parlamentare alla Camera, gli oppositori hanno parlato di regalo ai detenuti, di Stato che paga i criminali e lascia a casa gli esodati. Frasi tipiche di una politica demagogica e di un’idea di democrazia autoritaria, dove le classi sociali vengono inappropriatamente contrapposte. Ai leghisti e alla destra va ricordato che le sanzioni europee sono state determinate proprio dalle loro leggi (su immigrazione in testa, ma anche su droghe e recidiva), che hanno prodotto un sovraffollamento carcerario estremo che ci ha collocato al primo posto tra i Paesi della Ue. Oggi il governo Renzi ha dovuto porre rimedio a una situazione prodotta negli anni precedenti. I dati recenti ci dicono che i detenuti sono adesso poco meno di 55 mila. Va ricordato che ai tempi della condanna della Corte Europea erano circa 66 mila. La decrescita è avvenuta senza che fosse necessario un provvedimento di clemenza. In questi 18 mesi il tasso di criminalità non è cresciuto, nonostante la crisi economica. È evidente che la stagione punitiva dell’iper-incarcerazione era una stagione dettata dall’ideologia neoliberale securitaria e che nulla aveva a che fare con la politica di prevenzione criminale. Ora bisogna mettere a regime le riforme, dare loro organicità, cambiare radicalmente la legge sulle droghe superando il paradigma punitivo, introdurre sanzioni alternative alla detenzione, introdurre il delitto di tortura nel codice penale. Sono passi essenziali per sottrarsi ai rischi della precarietà ed evitare di tornare nella pericolosa melma emergenziale. Giustizia: i decreti sulle carceri e lo "scandalo" dei Tribunali di Sorveglianza di Maria Brucale Il Garantista, 29 luglio 2014 Si occupano degli sconti di pena e dei permessi. Ma gli ultimi due decreti, cosiddetti svuota-carceri, vengono applicati in maniera diversa da città a città. E ora vengono assunte anche persone non preparate. Il decreto legge Cancellieri, il primo inopinatamente denominato "svuota carceri", ha dato il via ad una situazione di caos devastante negli uffici di Sorveglianza di tutta Italia. Nel decreto si stabiliva, tra le misure per mitigare l’insostenibile sovraffollamento carcerario, dopo le sonore bacchettate della Corte Europea, la concessione ai detenuti meritevoli per buona condotta, di uno sconto di pena ulteriore: non più 45 giorni ogni sei mesi, bensì 75. Nella prima stesura del decreto, il beneficio è esteso indiscriminatamente a tutti i detenuti. I ristretti per reati più gravi dovranno aver dimostrato una concreta volontà di recupero sociale. In sede di conversione, però, lo spauracchio della sicurezza, sventolato ad arte da alcune forze politiche e dai compiacenti canali di informazione, prevale su ogni buon senso e si stabilisce per legge che se la detenzione inumana e degradante è patita da chi ha commesso reati di particolare allarme, è cosa buona e giusta. Naturalmente, però, nella vigenza del decreto prima della conversione, una valanga di istanze raggiunge i singoli magistrati di Sorveglianza, Alcuni le decidono subito, tutte, a volte concedendo altre negando il beneficio. Altri aspettano lasciando spirare i sessanta giorni di vita del decreto e subentrare la disciplina penalizzante introdotta dalla legge di conversione e, pedissequamente rigettano le richieste dei detenuti per i reati successivamente esclusi (previsti dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario). Altri ancora, pur dopo la conversione, continuano ad applicare la maggiore decurtazione di pena anche a chi espia pene per i reati non più ammessi purché abbia proposto istanza nel periodo di vigenza del decreto. Dalla valanga di istanze scaturisce una valanga dì reclami diretti stavolta al Tribunale di Sorveglianza, Il lavoro aumenta, il caos pure. Ogni collegio decidente partorisce una sua interpretazione della norma, perfino all’interno dello stesso tribunale, Tanti indirizzi giurisprudenziali quante teste. E così nessuno sa se avrà la sperata riduzione di sanzione, dipende da che giudice ti capita, dalla sua lettura della norma. Gli uffici si ingolfano e tutte le attese e le speranze dei carcerati - richieste di permessi premio, dì permessi di necessità per far visita a un familiare morente, istanze di accesso a misure alternative, alla detenzione domiciliare, al lavoro all’esterno - rimangono sospese e dolenti per tempi via via più dilatati. Il decreto Cancellieri non ha risolto nulla. La situazione carceraria permane drammatica. Il ministro entrante, Orlando, ha il compito di convincere l’Europa che saremo in grado di ripristinare nelle nostre prigioni la legalità attraverso una relazione programmatica che illustri soluzioni concrete e in tempi determinati. E il 30 maggio l’Europa sospende la pena nei confronti dell’Italia. Ancora un anno di tempo e la pressante richiesta di repentine misure risarcitorie in favore dei detenuti che hanno vissuto la carcerazione in spazi asfittici ed angusti, in situazioni di sostanziale brutalità assimilabili alla tortura. È la volta del nuovo decreto "svuota carceri", appena approvato dalla Camera e transitato al Senato. Ai detenuti che hanno subito una carcerazione in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, spetta una riduzione pena pari a un giorno ogni dieci. Chi non è più ristretto, entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, potrà chiedere "ben" 8 euro per ogni giorno di tortura. Naturalmente le domande andranno vagliate dal Magistrato di Sorveglianza che dovrà valutare la sussistenza dei requisiti e, dunque, l’effettività di una detenzione subita in condizioni trattamentali disumane, in ambiti spaziali del tutto inadeguati con margini di discrezionalità e di interpretazione che il decreto ha lasciato del tutto aperti. È inevitabile che ne derivi la paralisi definitiva dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza. Le migliaia di richieste di graduale ritorno alla vita dei detenuti sono destinate ad attese impensabili. Il decreto prevede quale soluzione un male peggiore, la nomina veloce per i magistrati di Sorveglianza. Il Consiglio superiore della magistratura potrà attribuire le funzioni di magistrato di Sorveglianza, al termine del tirocinio, anche prima del conseguimento della prima valutazione dì professionalità. La novità riguarda i 370 nuovi magistrati ordinari assegnati con il decreto ministeriale del 20 febbraio 2014 in casi di scopertura superiore al 20% dei posti di Magistrato di Sorveglianza in organico. In effetti, di magistrati di Sorveglianza meno formati e preparati si sentiva davvero il bisogno. Giustizia: decreto detenuti, oggi alle 18 termine emendamenti in Commissione al Senato Public Policy, 29 luglio 2014 È stato fissato alle 18 in Commissione Giustizia del Senato il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto Detenuti, approvato la settimana scorsa in prima lettura dalla Camera. Il calendario dei lavori dell’assemblea di Palazzo Madama fissa già l’arrivo in aula del provvedimento per la settimana prossima. Il relatore Felice Casson (Pd) ha spiegato a Public Policy che l’intenzione è comunque quella di approvare il testo - in scadenza il 28 agosto - prima della pausa estiva. Rispetto alla possibilità di apportare modifiche al provvedimento, Casson ha spiegato di voler prima vedere le proposte emendative che arriveranno. Giustizia: Orlando; riforma entro il 20 agosto… nessun motivo per eventuali slittamenti di Claudia Fusani L’Unità, 29 luglio 2014 "Non ci sarà alcun motivo di ritardare l’approvazione della riforma della giustizia in tutti i suoi dodici punti. Nessuna interferenza legata al quadro giudiziario dell’ex presidente Berlusconi (in questo caso all’assoluzione nel processo Ruby, ndr). E nessuno slittamento per il sovraccarico di lavoro e di votazioni da parte del Parlamento. Noi siamo pronti e già intorno al 20 di agosto gli uffici del Ministero saranno in grado di presentare gli articolati. Al netto dei contributi che potranno arrivare da altri soggetti interessati". È netto e deciso il ministro Guardasigilli Andrea Orlando arrivato a Reggio Calabria per incontrare i vertici del Tribunale e della procura - in queste settimane sottoposti a una media di circa venti arresti al giorno - e dell’avvocatura spiazzata a sua volta dall’arresto di due famosi penalisti per un’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti. Nel briefing con i vertici degli uffici, Orlando incontra anche l’aggiunto Nicola Gratteri reduce dal suo ultimo e definitivo no all’offerta della candidatura a governatore in Calabria (al voto in novembre) da parte del premier Renzi. "Ho sempre detto che voglio continuare a fare il magistrato antimafia. L’ho ribadito anche questa volta" sorride Gratteri. Questa città, ormai al secondo anno di commissariamento per infiltrazioni mafiose nella giunta comunale e senza governatore visto che Scopelliti si è dovuto dimettere perché condannato, ha un bisogno disperato di spezzare l’intreccio tra politica e mafia. Diciamo che Gratteri in procura, in tandem con il procuratore Cafiero De Raho, sono una buona notizia per chi sempre spera nel riscatto di questa terra magnifica. "Sono venuto a Reggio Calabria - ha detto il ministro - perché questa realtà rappresenta uno dei punti critici della giustizia ed è in corso da parte dello Stato un’azione forte di contrasto contro la ‘ndrangheta, la più pericolosa tra le forme di criminalità organizzata nel nostro Paese e in Europa". La rivoluzione della giustizia non è solo nei 12 punti (i cui contenuti L’Unità sta raccontando in una serie di articoli). Qualcosa è già partito. Altro è in approvazione (nel decreto sulla Pubblica amministrazione, ad esempio). Provvedimenti che stanno rivoluzionando gli uffici giudiziari. Come l’obbligo per magistrati e avvocati di utilizzare solo atti digitali: non più faldoni polverosi e inaffidabili ma tutto su computer e file digitali. Dal primo giugno il processo 2.0 é obbligatorio nel civile, la vera piaga del sistema giustizia italiano, il più lento (anche otto anni per definire una causa) e quello che incide per un punto e mezzo di Pil (oltre sedici miliardi) sulla nostra bilancia. Ieri proprio a Reggio Calabria sono stati ufficializzati i primi risultati. Via tweet, secondo lo stile renziano. Ma per fortuna spiegati anche a voce. Bene. Sono oltre 41mila (41.342) i depositi telematici effettuati da avvocati e 61mila i provvedimenti telematici depositati da magistrati. Ma soprattutto, e questo è miele per le orecchie del premier, il recupero dei crediti è diventato più veloce con l’aumento (+173%) di ricorsi depositati per decreto ingiuntivo. Questo primo bilancio si riferisce alle settimane comprese tra il primo e il 14 luglio, il 2014 sul 2013 (giugno era stato ancora facoltativo). "Con il pct obbligatorio - scrive Orlando su Twitter - è migliorato il servizio al cittadino. Tempi morti eliminati, procedure velocizzate". Oltre i 140 caratteri del social, il ministro e i tecnici del ministero forniscono a voce e tramite schede dati più eloquenti. Nel regime di obbligatorietà, nel periodo dal 1° al 14 luglio, sono stati "ben 41.342 i depositi telematici complessivi effettuati da avvocati e altri professionisti, di cui 9.796 ricorsi per decreti ingiuntivi e 12.950 memorie endoprocedimentali. Valutando in proiezione tali dati e paragonandoli rispetto ai depositi telematici effettuati nel mese di giugno, quando il deposito telematico era ancora facoltativo, si osserva che i ricorsi per decreto ingiuntivo hanno subito un aumento del 173% e il deposito delle memorie endoprocedimentali dell’88%". Si stanno dunque comportando bene gli avvocati, segno che sono passati i tempi in cui passava l’adagio "causa che pende, causa che rende" e hanno fatto buon viso a cattiva sorte. Si comportano bene soprattutto i magistrati nonostante molti distretti giudiziari siano indietro con la banda larga e la copertura digitale. Per quanto riguarda il deposito telematico da parte dei magistrati - che ammontava già a 608.157 atti nel periodo facoltativo dal 1 gennaio al 30 giugno 2014 -nel periodo di obbligatorietà sono stati più di 61mila i provvedimenti telematici depositati dal primo al 14 luglio. Nonostante l’ostentato ottimismo, sono due le spine nel fianco della riforma con cui il ministro teme di "farsi male": la riforma del Csm e le intercettazioni. Dossier, assicura Orlando, "su cui ascolteremo tutti ma su cui prenderemo presto una decisione". Sulla responsabilità civile dei giudici invece il dado è tratto: "Non sarà diretta, sarà cioè lo Stato a rivalersi sul magistrato che ha sbagliato. Ma è giusto che chi è stato danneggiato dalla giustizia venga risarcito". Bisognerà vedere cosa si intenderà per "danno giudiziario". Sarà comunque un giudice a deciderlo. Giustizia: Procura Europea lontana… c’è solo una proposta della Commissione di Marzia Paolucci Italia Oggi, 29 luglio 2014 Per il guardasigilli "passaggio fondamentale". Ma c’è strada da fare. Procura europea, il ministro Orlando l’ha definita di recente "un passaggio fondamentale per poter parlare di uno spazio unico di giustizia", ma la verità è un’altra perché tra chi non la vorrebbe proprio e chi solo a certe condizioni, la linea del traguardo appare sempre più lontana. A livello Uè, infatti, non c’è ancora neppure un regolamento ma solo una proposta della Commissione europea arrivata un anno fa dopo 15 anni di attesa che rende più perplessi che persuasi e ancora da ridiscutere nel merito. Lo spiega Paola Rubini, l’avvocato responsabile dell’Osservatorio Europa delle camere penali chiamato a esaminare la produzione normativa e giurisprudenziale della Ue e a dare pareri segnalando eventuali criticità alla giunta per permetterle di agire di conseguenza a livello politico. "Dopo 15 anni, ora abbiamo una proposta di regolamento ma stiamo ancora discutendo, persino sull’opportunità della nascita. Certo è che ci sono stati come il Regno Unito, la Spagna e l’Olanda che non vogliono proprio l’istituto perché lo ritengono una lesione del principio di sussidiarietà e della propria sovranità nell’esercizio dell’azione penale e nella perseguibilità di determinati reati". "Mentre", prosegue, "Italia, Francia, Germania e Irlanda discutono sulla proposta esistente di regolamento di attuazione della procura europea pubblicata il 17 luglio 2013. Si tratta di un cammino lungo perché non tutti gli stati accettano una rinuncia a una parte della loro sovranità nell’esercizio della loro azione penale". Le camere penali sollevano dubbi di carattere costituzionale per via di un mancato riferimento alla parità tra accusa e difesa che non sarebbe stata presa in considerazione dalla proposta. Critici per lo stesso motivo anche il senato italiano e il Parlamento europeo: nel primo caso, con un parere al testo della proposta risalente all’ottobre 2013, concentrato sullo scarso bilanciamento tra accusa e difesa, mai citata nel testo della proposta mentre nel secondo, il Parlamento Uè, con una risoluzione fortemente critica del 12 marzo 2014, richiama al rispetto di determinati principi costituzionali come quello della parità tra accusa e difesa. Per la natura dell’istituto, invece, si tratterebbe di un organo monocratico, non necessariamente un magistrato, che per agire a livello sovrannazionale avrebbe bisogno di uno o più procuratori delegati europei nei paesi membri: magistrati ordinari "dal doppio cappello", li chiama l’avvocato, che alla giurisdizione nel proprio paese affiancherebbero anche quella sovranazionale di aiuto al procuratore centrale: esercizio dell’azione penale, rinvio a giudizio, formulazione dell’imputazione e partecipazione all’assunzione delle prove formulando i rimedi disponibili. I reati oggetto di questa superprocura sarebbero invece quelli che vanno a ledere gli interessi finanziari dell’Unione, dalla classica frode all’Iva, al riciclaggio, alla criminalità organizzata e informatica, al traffico di droga e a quello di esseri umani implicante scambi di denari a livello transnazionale. In uno scenario globalizzato di reati contro gli interessi finanziari della Uè spesso connessi ad altri reati, in capo all’attuale Corte penale internazionale, resterebbe quindi una competenza ristretta a crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità. Ma i parlamenti europei sollevano dubbi in merito alla struttura e all’organizzazione istituzionale insieme alla natura e allo scopo delle competenze della superprocura Ue. Lo scenario resta quindi aperto: "Già si sa", anticipa, "che non tutti gli stati aderiranno, visto che, a regola, sarebbe prevista un’approvazione all’unanimità. La strada scelta per l’approvazione sarà quindi quella della cooperazione rafforzata dove basta che nove stati si trovino d’accordo su di un testo condiviso, lo prevede l’articolo 86, paragrafo 1 del trattato di funzionamento della Ue. Ma confesso che al momento fatico a trovare anche quei nove...", ammette l’avvocato. Le camere penali ritengono l’attuale proposta di regolamento poco garantista in termini di tutela dei diritti della difesa "nel testo non declinati specificamente", sottolinea l’avvocato, "e per questo, in ragione dell’inizio del semestre europeo di presidenza italiana, le camere penali agiranno in autunno nei confronti del ministro chiedendogli di confrontarsi a un tavolo dove poter esprimere perplessità e contrarietà al testo in essere". Giustizia intervista a Rosario Tortorella (Si.Di.Pe); ecco come la riforma aiuta le mafie… di Nadia Francalacci Panorama, 29 luglio 2014 Tagli, riduzioni e accorpamenti dei dirigenti penitenziari e dei sistemi di controllo dei permessi agevoleranno le organizzazioni criminali. Ecco in che modo. L’intervista a Rosario Tortorella. Svuota-carceri e riforma dell’intero apparato del sistema penitenziario. In Italia è un percorso che ormai da anni, sembra procedere alla cieca tra scelte assurde e incoerenti quasi al limite di una politica "criminale". L’ultimo passo verso il "collasso" del sistema penitenziario sembra essere quello del 15 luglio scorso. Il Gabinetto del Ministro della Giustizia, Orlando ha inviato a titolo di informativa ai sindacati uno "Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con allegato il "Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli Uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia", relativo alla spending review. E che cosa prevede la nuova riorganizzazione? Tagli. Ovviamente. Riduzioni dei ruoli dirigenziali, di educatori, assistenti ma anche di uffici strategici per la lotta alle organizzazioni mafiose presenti sul nostro territorio: Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta e anche quelle meno conosciute ma presenti in tutto il territorio pugliese. Il risultato? Meno controllori ma anche meno controlli delle strutture penitenziarie e di coloro che devono scontare la pena fuori dal carcere. Rosario Tortorella, Segretario Nazionale del Si.Di.Pe., Sindacato dei Direttori Penitenziari, il Ministero della Giustizia, ha ridotto notevolmente molti uffici dirigenziali e personale penitenziario. Quali potrebbero essere le ricadute sulla sicurezza dei cittadini? Quello penitenziario è un sistema complesso che, nel suo insieme, è un’articolazione della struttura di sicurezza dello Stato, non solo in relazione al contenimento delle persone condannate o in custodia cautelare, ma anche in ragione della funzione rieducativa della pena, perché restituire alla società persone migliori significa ridurre il rischio di commissione di nuovi reati e, dunque, garantire maggiore sicurezza ai cittadini. È per questa ragione che non è comprensibile che si voglia affrontare l’emergenza penitenziaria riducendo ulteriormente gli operatori penitenziari e i dirigenti deputati a gestire il complesso sistema penitenziario, soprattutto se si considera che l’Italia è sotto osservazione dell’Europa dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la famosa sentenza Torreggiani, ha condannato il nostro Paese, a causa del sovraffollamento carcerario. Orbene, è vero che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha valutato positivamente i miglioramenti della situazione nelle carceri italiane ma ha rinviato al giugno 2015 un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal Governo per affrontare il problema del sovraffollamento. E se miglioramenti ci sono stati, questi, sono in buona parte attribuibili anche all’impegno dei Dirigenti penitenziari e del personale penitenziario. Rientrare nei parametri della Cedu, non significa solo assicurare lo spazio vitale ai detenuti, ma anche riempire di contenuti la detenzione per finalizzarla al recupero. E con questi tagli, ovviamente, nessun progresso potrà essere realizzato, anzi, semmai, è prevedibile un peggioramento della situazione. Non c’è dubbio, quindi, che una spendig review applicata al personale penitenziario determinerebbe gravi conseguenze che ricadrebbero sull’utenza e sui cittadini, in quanto si altererebbero i delicati equilibri del complesso sistema penitenziario e si indebolirebbe significativamente il complessivo sistema della sicurezza dello Stato in danno dei cittadini. I dirigenti penitenziari rientrano nel Comparto Sicurezza e sono da sempre destinatari del trattamento giuridico ed economico del personale dirigente della Polizia di Stato…. Quanti ruoli dirigenziali saranno eliminati e quanti Provveditorati Regionali saranno accorpati? Relativamente ai dirigenti penitenziari non generali, ovvero, dei ruoli di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna, si prevedono ben due tagli per ben 53 posti di funzione, che vanno ad aggiungersi alle riduzioni precedenti di ben 127 posti. Questo ultimo taglio porterà la dotazione organica da una situazione iniziale di 543 dirigenti, a soli 363, con una complessiva riduzione di 180 dirigenti penitenziari. E quali saranno le conseguenze, in termini pratici… Vi sono regioni, come la Sardegna, in cui un solo dirigente ricopre la direzione di tre, o anche quattro, istituti penitenziari. Peraltro, un carcere, sia pure il più piccolo, senza Direttore, primo garante dei principi di legalità nell’esecuzione penale, essendo egli armonizzatore delle esigenze di sicurezza e di quelle trattamentali, sposterà l’asse gestionale, per forza di cose, su altre figure; pertanto, venendo meno anche le già ridotte figure professionali del trattamento (anzitutto funzionari giuridico-pedagogici e funzionari della professionalità di servizio sociale), questo asse non potrà che essere il personale di polizia penitenziaria. In tal modo, la dimensione del penitenziario diverrà, per forza di cose, prevalentemente securitaria e, quindi, meramente custodiale. Più grave è la situazione dei dirigenti penitenziari del ruolo di esecuzione penale esterna, i dirigenti, cioè, che dirigono gli uffici che si occupano delle misure alternative. Esistono, infatti, Regioni dove un solo dirigente penitenziario del ruolo di esecuzione penale esterna ricopre tutti, o pressoché tutti, gli uffici attribuiti al ruolo di appartenenza. Peraltro, non si può fare a meno di evidenziare che gli interventi normativi rivolti al potenziamento delle misure alternative, imporrebbero una particolare attenzione verso gli uffici di esecuzione penale esterna che sono già in grandissima sofferenza e che lo saranno, ancor più, per effetto dell’ampliamento delle loro competenze con la messa alla prova. Quindi, con le riduzioni di organico il loro già scarso numero, determinerà l’impossibilità gestionale delle carceri e degli uffici di esecuzione penale esterna. Assieme ai dirigenti saranno soppressi anche dei Provveditorati regionali… Sì, si vorrebbero sopprimere ben cinque Provveditorati Regionali dell’Amministrazione penitenziaria: i Provveditorati della Calabria e della Basilicata, accorpandoli a quello della Puglia; il Provveditorato delle Marche, accorpandolo all’Abruzzo-Molise; il Provveditorato dell’Umbria, accorpandolo al Lazio; il Provveditorato della Liguria, accorpandolo a quello del Piemonte-Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste; creando così macro provveditorati logisticamente ingestibili e che, comunque, snaturano la loro funzione di prossimità agli istituti e ai servizi penitenziari. In particolare, la soppressione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Calabria, con sede a Catanzaro, e il suo accorpamento, insieme a quello della Basilicata, al Provveditorato della Puglia, con sede a Bari, sarebbe davvero un fatto di una gravità inaudita, perché verrebbe meno un importante presidio dello Stato in una regione già afflitta da profonde piaghe e, prima tra tutte, quella della criminalità organizzata. È notorio, infatti, che la ‘ndrangheta è la più potente organizzazione criminale di stampo mafioso e che, purtroppo, la Calabria è ancora la terra dove, in alcuni paesi, le processioni religiose si fermano per fare omaggio con le sacre effigi davanti alla porta di casa degli ‘ndranghetisti. La soppressione del Provveditorato danneggerebbe gravemente la Calabria ed i calabresi, contribuendo al declino della regione e aumentando il senso di solitudine e di abbandono da parte dello Stato che già affligge i cittadini onesti, che sono poi la maggior parte. Senza contare che é assurdo pensare a qualunque tipo di attività di coordinamento, indirizzo e di controllo degli istituti e dei servizi penitenziari della Calabria da parte di un Provveditorato che si troverebbe a Bari (circa 500 km dagli istituti del reggino, raggiungibile con una media di 5 ore di viaggio in automobile, a causa delle infelici reti stradale e ferroviaria). Questo vuol dire, pure, che qualunque procedimento amministrativo relativo agli istituti penitenziari calabresi e di competenza del Provveditorato, vedrebbe allungati i tempi di definizione, con buona pace della funzionalità e dell’efficienza amministrativa per i servizi all’utenza. Per capire meglio. Quali sono le funzioni di questi Provveditorati? Essi svolgono, in tutti i settori di competenza dell’Amministrazione (gestione del personale, dei detenuti, delle risorse economiche, dei servizi di traduzione e piantonamenti, ecc.), una funzione essenziale di coordinamento, di indirizzo e di controllo degli istituti e dei servizi della regione, ma anche propulsivo e di interrelazione con gli organi regionali delle altre amministrazioni. Ad esempio il neo Provveditorato Puglia-Basilicata-Calabria dovrebbe gestire ben 26 istituti penitenziari distribuiti su un territorio impervio e difficile anche sotto il profilo dei collegamenti. Senza contare che unificare due Provveditorati critici e complessi, operanti entrambi in terre di criminalità organizzata (Calabria e Puglia), significa creare le condizioni per impedire l’efficace funzionamento di una struttura che é anche un presidio dello Stato. Un danno incalcolabile alla società civile calabrese in cambio di un risparmio da nulla o poco più di nulla che si sarebbe potuto ottenere con una diversa utilizzazione delle risorse e senza danno ad un territorio, la Calabria, e ad un sistema, quello penitenziario, in estrema crisi. Giustizia: Assistenti Sociali; ok alle nuove norme sui minori, ma no agli automatismi Adnkronos, 29 luglio 2014 Valutare gli effetti che le norme che estendono la possibilità di permanenza nelle carceri minorili fino a 25 anni, contenute nel decreto sulle misure compensative ai detenuti, avranno sul sistema della giustizia minorile. A richiamare l’attenzione sulle novità introdotte dal dl, approvato alla Camera e ora in fase di conversione al Senato, è il Consiglio nazionale ordine assistenti sociali. "Condividiamo il principio dell’immissione nel circuito penale minorile di giovani fino al compimento del 25° anno di età, ma ciò non può semplicisticamente essere considerato un automatismo", dichiara la presidente del Cnoas Silvana Mordeglia. "È paradossale che una norma che è nata per porre un parziale rimedio alle inadempienze del sistema italiano, proprio in un settore delicato come quello minorile, oggetto di riconoscimento e di attenzione positiva nel resto del mondo - denuncia Mordeglia - rischi di creare serie difficoltà di realizzazione a causa di un impianto organizzativo che risente della carenza di risorse, in particolare di quelle professionali". Il principio per cui chi non ha ancora compiuto i 25 anni e che attualmente si trova nel circuito penale per adulti, dove percorsi per i cosiddetti ‘giovani adulti’ esistono pressoché solo sulla carta, possa essere seguito con modalità diverse, spiegano gli assistenti sociali, "è completamente condivisibile, anche perché è scientificamente dimostrato che le misure alternative proprio in questa età, con percorsi progettuali mirati, abbassano notevolmente la recidiva". Altro elemento non trascurabile è il "forte risparmio sui costi rispetto alla carcerazione", così come "la possibilità di non far transitare in carceri per adulti al compimento del ventunesimo anno di età, come invece avviene oggi, giovani che hanno condanne significative per reati commessi da minorenni". Tuttavia, osserva il Cnoas, "omogeneizzare e rendere ‘compatibili’ esigenze e caratteristiche di infradiciottenni e giovani fino ai 25 anni sia all’interno degli Istituti penali minorili sia nelle attività degli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm) richiede tempo e risorse così come è necessario che siano chiariti alcuni passaggi, ad esempio, se è possibile e corretto far permanere nel circuito minorile degli infra-venticinquenni che hanno condanne o procedimenti penali per fatti commessi durante la maggiore età e così via. E, non in ultimo, la consistenza del fenomeno, ad oggi non certa". Il Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali chiede pertanto garanzie per il funzionamento del Dipartimento per la Giustizia minorile "cui sono dati nuovi compiti ma le cui sorti sono sempre messe in discussione nonostante la dimostrata efficacia degli interventi posti in essere nell’interesse dei ragazzi coinvolti, e nel pieno rispetto di quanto chiaramente indicato dalle disposizioni internazionali, tra l’altro ratificate dal nostro Paese". Da mesi, ricorda il presidente Mordeglia, "richiamiamo l’attenzione del Governo e dell’opinione pubblica sulla necessità di aumentare le risorse impegnate nel settore della giustizia minorile continua . Gli assistenti sociali sono solo 350, e si devono far carico degli oltre 19mila ragazzi ed ora si affidano nuovi compiti agli Ussm, come quello di occuparsi dei giovani fino ai 25 anni. Anche loro, come gli altri, hanno la necessità e il diritto di accedere a un progetto personalizzato che prevede la messa in rete di risorse che solo in parte possono essere quelle utilizzate per i minorenni". "Gli assistenti sociali - dice Mordeglia - tengono conto delle peculiarità di ciascun giovane, costruiscono insieme a lui un percorso individualizzato di reinserimento sociale che prevede l’attivazione di risorse differenziate. Come è possibile fare questo con numeri così risicati? La nostra paura è che, con questi presupposti, si rischi di ipotecare il futuro di questi ragazzi". Da qui l’invito a adottare "tempi e modalità condivise con chi lavora sul campo. È necessario dare indicazioni concrete e efficaci su come agire per garantire il miglior percorso ai soggetti interessati. Non è tempo per improvvisare". Giustizia: l’On. Giachetti interroga Orlando sui dati riguardanti le carceri italiane www.radicali.it, 29 luglio 2014 Rita Bernardini: "Ora attendiamo una rapida risposta, visto che si tratta di dati già disponibili presso il Dap". "Grazie al Vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, abbiamo potuto rivolgere alcune domande al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Ora attendiamo una rapida risposta, visto che si tratta di dati già tutti disponibili presso il Dap; e grave sarebbe se non lo fossero, essendo il nostro Paese sottoposto a monitoraggio da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa chiamato a verificare l’esecuzione della sentenza Torreggiani (quella per cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Cedu: tortura/trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti)". Così si è espressa la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini giunta oggi al 28° giorno di sciopero della fame insieme ad oltre 300 cittadini e a Marco Pannella che sostengono il Satyagraha "per il rispetto del diritto alle cure dei detenuti". Dopo l’appello lanciato nei giorni scorsi attraverso i microfoni di Radio Carcere, dai quali la Segretaria di Radicali Italiani si era rivolta a Giachetti, puntualmente è giunta l’interrogazione parlamentare che fa riferimento a quanto sollevato dai Radicali in merito ai dati relativi alle capienze, al sovraffollamento, ma non solo. L’interrogazione presentata da Giachetti chiede chiarimenti sul modo in cui vengono calcolate le cosiddette capienze regolamentari degli istituti penitenziari le quali, secondo una sentenza della Corte Cassazione (la n. 5728/2014) e della stessa Corte Edu devono essere misurate al netto degli arredi. L’atto di sindacato ispettivo del Vicepresidente della Camera si fonda sul principio -fondamentale in democrazia- del diritto dei cittadini alla conoscenza: si chiede, infatti, al Ministro della Giustizia di fornire un monitoraggio costante di ciascuno dei 205 istituti penitenziari quanto a capacità ricettiva legale, detenuti presenti, possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, aerazione disponibile, accesso alla luce e all’aria naturali, qualità del riscaldamento e rispetto delle esigenze sanitarie di base, il tutto con rifermento esplicito alle regole penitenziarie europee adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio D’Europa. Giustizia: 500 racconti per il Premio letterario "Goliarda Sapienza", dedicato ai detenuti Adnkronos, 29 luglio 2014 Racconti dal carcere. Parole e pensieri oltre le sbarre, per rimettersi in gioco e costruire un futuro diverso. Il "Premio letterario Goliarda Sapienza-Racconti dal carcere", promosso dal Dap (Dipartimento Amministrazione penitenziaria) Dipartimento per la Giustizia minorile, Siae e InVerso Onlus, sta per concludere la 4° edizione. L’unico premio letterario in Europa dedicato ai detenuti adulti e minori affiancati da importanti scrittori, quest’anno apre le porte anche alla poesia. Una giuria specifica valuterà i migliori componimenti in versi selezionati tra le centinaia in concorso. Per la narrativa sono circa 500 i racconti giunti da tutte le carceri d’Italia e 26 finalisti (20 per la sezione "Adulti", 6 per la sezione "Minori") abbinati, come nelle precedenti edizioni, a scrittori e artisti molto noti nel ruolo di tutor letterari. I 26 racconti finalisti, con le introduzioni dei rispettivi tutor, saranno pubblicati a novembre, da Rai Eri, nel volume "Il giardino di cemento armato. Racconti dal carcere", a cura di Antonella Bolelli Ferrera. Il libro sarà presentato il 13 novembre, in occasione della cerimonia di premiazione che si terrà a Roma, presso la Casa circondariale di Regina Coeli. La giuria, presieduta da Elio Pecora, costituita da Salvatore Niffoi, Daria Galateria, Enrico Vanzina, Folco Quilici, Lirio Abbate, Angelo Maria Pellegrino, Luca Ricci, Marco Ferrari e Andrea Di Consoli, sceglierà i vincitori (1°, 2° e 3° classificato) della sezione "Adulti" e i vincitori della sezione "Minori". I 26 finalisti riceveranno in premio un pc portatile dotato di strumenti didattici e i vincitori anche un premio in denaro. Una giuria costituita da Silvia Bre ed Eraldo Affinati e presieduta da Elio Pecora, premierà la migliore poesia della sezione "Adulti" e della sezione "Minori". "Potrebbe apparire un rapporto in cui c’è una persona che dà, lo scrittore, e una che riceve, il detenuto. Invece non è così - spiega Antonella Bolelli Ferrera, che del premio è ideatrice e curatrice - i tutor vivono un’esperienza umana che li arricchisce come persone e come narratori dell’anima e del nostro tempo". Molti gli spunti di riflessione che si possono ricavare dal racconto sulla giovane profuga siriana, sul bambino-soldato somalo, o quello in cui la mamma insegna come fabbricare le stecche di droga; dall’albanese che ha vissuto gli sgomberi di Rosarno, ai tanti figli di detenuti e detenute costretti a un alienante "turismo penitenziario". C’è il pluriassassino devoto a padre Pio, il delirio di un naziskin, la cronaca di un suicidio in cella; ma anche il racconto di come si vive sapendo di non uscire mai più di prigione, quello del viaggio della speranza su una carretta del mare fino alla cella d’isolamento; dalla parabola di una vita "dentro" e poi quella "fuori" dove niente è più come prima. In molti di questi casi, oltre ad esperienze di vita toccanti ed estreme, emerge anche un autentico talento narrativo, che i tutor hanno ben evidenziato nelle loro introduzioni. Gino Paoli, presidente Siae (principale ente sostenitore del Premio), è stupito dal ritmo incalzante che emerge dai racconti di giovani detenuti. "Alcuni testi - dice - sembrano nati per la musica". I Tutor della sezione "Adulti" sono Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo, Erri De Luca, Francesca Melandri, Antonio Scurati, Valeria Parrella, Mirella Serri, Antonella Lattanzi, Andrea Vianello, Giordano Bruno Guerri, Federico Moccia, Andrea Purgatori, Valerio Evangelisti, Fiamma Satta, Silvia Calandrelli, Massimo Lugli, Marco Buticchi, Roberto Riccardi, Marco Franzelli e Maurizio de Giovanni. I tutor della sezione "Minori" sono invece Carlo Verdone, Cinzia Tani, Pino Corrias, Alessandro D’Alatri, Marida Lombardo Pijola e Gloria Satta. Madrina è la scrittrice Dacia Maraini. Giustizia: la storia di Giulio Petrilli, che per sei anni non ha potuto né parlare né leggere di Damiano Aliprandi Il Garantista, 29 luglio 2014 Accusato di banda armata e di far parte di Prima Linea, ancora giovane, viene messo - senza la sentenza definitiva - in isolamento. Un periodo terribile per cui oggi chiede un risarcimento. A 58 anni Giulio Petrilli abbandona l’Italia per andare a lavorare in Serbia, a Belgrado. Giulio viene arrestato il 23 dicembre 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata per un suo presunto coinvolgimento nell’organizzazione Prima Linea: dopo quasi sei anni di carcerazione preventiva, viene però dichiarato innocente. La sua non è soltanto una delle tante, troppe storie di malagiustizia, ma va anche inquadrata in quel cupo periodo emergenzialista, in cui in nome della lotta al terrorismo si sacrificavano le garanzie costituzionali. E in nome di quella lotta fu messo in atto un vero e proprio "rastrellamento giudiziario" arrestando chiunque appartenesse a qualche formazione extraparlamentare. Inoltre in maniera sistematica veniva praticata la tortura per estorcere confessioni e nomi di eventuali complici. All’epoca furono in pochi tra i politici a denunciare l’abuso giudiziario e poliziesco. I due grandi partiti di massa, la Democrazia cristiana e il partito Comunista, rimasero silenti. In parlamento solo Leonardo Sciascia, eletto tra le fila dei Radicali, prese la parola e denunciò la situazione con parole tremendamente attuali: "In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!". È questo il contesto, sociale e politico, che fece da sfondo all’arresto di Giulio Petrilli. L’accusa è pesantissima: partecipazione a banda armata con funzioni organizzative. L’allora Pm Armando Spataro, che emise il mandato di cattura, sosteneva che Petrilli fosse coinvolto nell’organizzazione terroristica Prima Linea e chiese una condanna a undici anni. A quei tempi Giulio era uno studente universitario di ventuno anni, iscritto alla facoltà di Lettere a L’Aquila. Un ragazzo pieno di ideali e voglia di cambiare il mondo: sogni che si infrangono contro la condanna in primo grado a a otto anni di reclusione. Condanna che inizia a scontare, passando da un carcere all’altro in un regime detentivo peggiore dell’attuale 41-bis: quello regolato allora dall’articolo 90, che prevedeva l’isolamento totale. In appello Giulio fu assolto e nel maggio dell’86 tornò definitivamente libero con la sentenza di assoluzione confermata dalla Cassazione. Nonostante l’errore giudiziario, Petrilli non è mai stato risarcito per l’ingiusta detenzione. Anzi, la domanda di risarcimento è stata respinta per ben due volte. La prima volta perché la sentenza di assoluzione è arrivata prima della riforma del codice di procedura penale, che nel 1989 ha introdotto la riparazione per ingiusta detenzione, senza però prevedere la retroattività. La seconda bocciatura ha dell’incredibile: i magistrati, oltre a negargli il risarcimento, lo condannarono anche a pagare le spese processuali. Motivazione? Gli dissero che con le sue frequentazioni aveva tratto in inganno gli inquirenti. Giulio però non demorde. In questi anni ha portato avanti una lunga battaglia, conducendo scioperi della fame e presentando ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. Ma il risarcimento gli viene ancora negato. Per questo oggi ha deciso di scrivere al presidente del Consiglio. Voglio dieci milioni di euro per i sei anni di carcere Giulio Petrilli, che è stato sottoposto ad anni di carcere per poi essere assolto, e mai risarcito per l’ingiusta detenzione, ha scritto una lettera al presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi. "Gentile presidente Renzi", scrive, "visto che la legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati prevede di inoltrare il ricorso e anche il risarcimento al presidente del consiglio dei ministri, le inoltro la richiesta di risarcimento danni, quantificabile in dieci milioni di euro, per l’errore giudiziario commesso dal procuratore del tribunale di Milano e la Corte dello stesso tribunale che mi condannò in primo grado. Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione in giudizio d’appello presso il tribunale di Milano. Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell’attuale 41 bis. Anni d’isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989". Sono consapevole", conclude, "che il ricorso andava presentato entro 3 anni dalla sentenza di assoluzione definitiva, ma dopo il carcere le mie condizioni psicofisiche non mi consentirono di farlo". Lettere: notte di compleanno fra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2014 Il 27 luglio è stato il compleanno di Carmelo Musumeci. Dalla sua cella ci ha fatto pervenire questo scritto: "Lacrime che cadono in un mare di silenzio, in una notte nera/eterna/piena di solitudine/ Buon compleanno Carmelo/La tua ombra". (Tratto da: "L’Assassino dei Sogni" di Carmelo Musumeci, Giuseppe Ferraro. "Stampa Alternativa" prezzo 1.00 euro ISBN 978-88-6222-417-8). Era la notte del 27 luglio 2010 quando la mia ombra scriveva sul suo diario: "Oggi compio cinquantacinque anni. Nel cielo ci sono le stelle e la luna. Afferro le sbarre con le mani. Le stringo con tutta la mia forza e urlo al mio cuore che è l’ora dei limoni neri, del buio e del dolore". Sono passati altri quattro anni. Ed eccomi ad affrontare un altro compleanno da uomo ombra. Un altro ancora. Stesso cielo. Stessa luna. Stessa pena. Stesse mani che stringono le sbarre. E la mia stessa ombra che continua a scrivere sullo stesso diario. Un ergastolano non ha paura più del futuro o dei giorni a venire, perché non ha più nessun domani, giacché vivrà solo del passato. Molti uomini ombra non hanno nessuna speranza perché non si può sperare su un futuro che non si ha più. E a volte credo che non ci sia rimasto più niente a parte la nostra ombra. La pena dell’ergastolo è una condanna irragionevole, sotto ogni punto di vista. Credo che condannare una persona a essere cattiva e colpevole per sempre non solo dovrebbe essere un peccato per qualsiasi religione, ma dovrebbe essere considerato un reato per qualsiasi paese civile. Penso che la pena dell’ergastolo sia un assassinio senza spargimento di sangue, una pena che non cambia la persona in meglio, ma piuttosto finisce per distruggerla, perché non siamo neppure ammazzati, però siamo eliminati per sempre dalla società. Fra pochi mesi la mia ombra entrerà nel ventiquattresimo anno ininterrotto di carcere, ma continua a gridare fra le sbarre: datemi un fine pena, anche fra diecimila anni, ma datemelo, perché c’è davvero poca giustizia in una condanna che non finisce mai. Calabria: Orlando esclude soppressione di Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Ansa, 29 luglio 2014 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha assicurato che il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che ha sede a Catanzaro non sarà trasferito o soppresso e che l’accorpamento riguarderà solo Puglia e Basilicata. Lo rende noto il consigliere comunale di Catanzaro Vincenzo Capellupo che venerdì scorso, insieme al presidente della Provincia di Cosenza Mario Oliverio, ha incontrato Orlando. "Da settimane - afferma Capellupo in una nota - circola sulla stampa, tra operatori del settore ed amministratori, la notizia allarmante di soppressione e trasferimento in Puglia dell’importante ufficio con la perdita per la Calabria di un fondamentale presidio di legalità. Proprio per tali motivi mi sono adoperato perché al Ministro giungesse forte la necessità di mantenere in Calabria e a Catanzaro una tale Istituzione. Dopo aver ascoltato le mie ragioni il Ministro mi ha assicurato che la sede calabrese non verrà trasferita o soppressa". "Insieme al presidente Mario Oliverio - conclude Capellupo - ho espresso la mia soddisfazione al ministro Orlando per la disponibilità, per la sensibilità dimostrata verso il capoluogo di Regione e per lo sforzo nell’affermare il principio di legalità in Calabria. Nei prossimi giorni il Ministro ufficializzerà i dettagli della questione". Sindaco Catanzaro: lotta Ente per Provveditorato "Le rassicurazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sulla soppressione, da ritenere a questo punto scongiurata, della sede regionale del Provveditorato per l’Amministrazione penitenziaria della Calabria sono benvenute". Lo afferma, in una nota, il sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. "Mi fa piacere - prosegue - che anche i partiti di opposizione, dopo mesi di dure battaglie portate avanti dall’Amministrazione comunale, dal Consiglio e dall’intervento diretto del senatore Piero Aiello, si siano interessati per tutelare il presidio catanzarese del comparto giustizia. Evitando penalizzazioni esiziali per il Capoluogo e per l’intero territorio regionale. È molto apprezzabile, inoltre, che anche a livello governativo si sia preso atto che lo schema di riforma del ministero, nella misura in cui avrebbe accorpato il presidio calabrese con Puglia e Basilicata, istituendo la sede a Bari, avrebbe fortemente compromesso un settore essenziale per un territorio complicato, difficile e con l’acqua alla gola per l’invasività della criminalità organizzata". "Evidentemente - conclude Abramo - gli incontri che ho avuto con il sottosegretario del ministero Cosimo Maria Ferri, l’interrogazione in Parlamento del senatore Aiello, le denunce del commissario straordinario della Provincia Wanda Ferro, e di alcuni consiglieri dell’Amministrazione di Palazzo De Nobili, sono servite a porre l’attenzione di tutti su quei punti della riforma che avrebbero portato indietro il territorio calabresi di almeno trent’anni". Parma: un carcere senza democrazia… 540 detenuti, solo due votanti alle elezioni europee www.parmaquotidiano.info, 29 luglio 2014 Le mura del carcere sono troppo spesse anche per la democrazia. Il Garante regionale per i detenuti ha rilevato con disappunto la bassissima percentuale di votanti alle ultime elezioni europee e amministrative nei penitenziari dell’Emilia-Romagna: a Parma, con circa 540 detenuti, hanno votato appena in due. In tutta l’Emilia-Romagna sono 58 i detenuti che hanno votato alle elezioni del 25 maggio scorso. Si tratta di un numero in calo rispetto a quello registrato nelle precedenti consultazioni elettorali, alle quali avevano preso parte 92 persone. A prima vista il dato potrebbe trovare spiegazione nella generale tendenza a recarsi maggiormente alle urne in occasione delle elezioni nazionali che non in quelle europee. Tuttavia, ad un’analisi più approfondita è possibile constatare che in alcuni territori il numero dei detenuti votanti è rimasto sostanzialmente invariato (se non addirittura aumentato), mentre in altri è decisamente crollato. In dettaglio, a Bologna hanno votato 19 persone (11 nel 2013), a Ferrara 18 (13 nel 2013), a Piacenza 5 (6 nel 2013), a Rimini 1 (15 nel 2013), a Ravenna 2 (23 nel 2013), a Reggio Emilia 3, a Parma 2, a Forlì 6, a Castelfranco Emilia nessuno (come nel 2013). Rispetto al numero complessivo dei detenuti presenti - che nella nostra regione si attesta sulle 3.200 persone -, comunque, sono complessivamente pochi quelli che esercitano il diritto di voto. Questo è motivato prevalentemente dalla massiccia presenza di stranieri (che negli istituti dell’Emilia-Romagna sono 1.600) e dal fatto che per molte persone alla condanna consegue anche l’interdizione dal diritto di elettorato attivo. A ridimensionare ulteriormente il dato, poi, contribuiscono anche una serie di difficoltà di ordine amministrativo. Per esercitare il suo diritto, infatti, il detenuto deve far pervenire al Sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto una dichiarazione della propria volontà di esprimere il voto nel luogo in cui si trova, con in calce l’attestazione del direttore dell’istituto comprovante la sua detenzione. Una volta segnalato nell’apposito elenco, si può votare nel luogo di detenzione, ma previa esibizione della tessera elettorale (che, in caso di persone altrove residenti, dovrà essere recapitato entro il giorno delle elezioni). Sicuramente, quindi, la complessità del luogo carcere, la carenza di informazioni e le procedure burocratiche aumentano la difficoltà dei detenuti ad esprimere il proprio voto, nonostante questo costituisca un diritto costituzionalmente garantito e fondamentale per sentire riconosciuto il proprio diritto di cittadinanza. Risulta pertanto imprescindibile il lavoro di sollecitazione realizzato all’interno delle strutture, sul quale anche i Garanti sono chiamati a fare la loro parte per favorire in massimo grado la circolazione delle informazioni. Da questo punto di vista, è possibile registrare che le province nelle quali il numero di detenuti votanti si è mantenuto più costante sono proprio quelle nelle quali è presente anche una figura di garanzia a livello territoriale. Lodi: da dieci avvocati un "grazie" alla direttrice del carcere Stefania Mussio Il Cittadino, 29 luglio 2014 Una lettera scritta dai componenti della Commissione di formazione permanente dell’Ordine degli Avvocati. Una difesa netta di Stefania. Mussio, fino a pochi giorni fa direttrice del carcere di Lodi, è stata assunta in queste ore dai componenti della commissione di formazione permanente dell’ordine degli avvocati di Lodi. La commissione - composta dagli avvocati Silvia Allais. Cristiano Castioni, Augusto Cornalba, Patrizia Cortesini, Luca Marcarini, Paolo Muzzi, Claudio Quartieri, Roberto Rota, Carlo Speziani, Cristina Zanasi - ci ha fatto pervenire una lettera che di seguito integralmente pubblichiamo. Egregio direttore, spesso non è facile trovare nelle istituzioni e nelle amministrazioni dello Stato persone che interpretino il proprio ruolo in modo tale da non essere semplici ingranaggi di un sistema, ma soggetti propulsivi della realizzazione degli obbiettivi che la nostra Costituzione ci pone. Quando ciò avviene, riteniamo sia compito dell’avvocatura ed insieme degli organi di informazione, che costituiscono il primo presidio di tutela dei diritti del singolo di fronte alla Stato, segnalarne la presenza affinché il loro operare possa essere di stimolo ed esempio per tutti. La dottoressa Stefania Mussio, direttrice della Casa circondariale di Lodi sino a qualche giorno fa, era ed è una di tali persone. Non interessa in queste brevi righe esaminare quali siano state le circostanze per le quali la dottoressa sia stata o si sia allontanata dalla direzione dell’istituto di detenzione cittadino, pur consapevoli che esse abbiano più volte occupato nelle scorse settimane le colonne del quotidiano che ella dirige. Interessa soltanto evidenziare ai lettori, del Suo (del Nostro) giornale che da alcuni anni e cioè da quando la dottoressa Mussio ha assunto la direzione di via Cagnola al 2, il carcere ha cominciato ad assumere centralità nella vita cittadina, fatto questo che ha permesso di intraprendere un percorso biunivoco di avvicinamento tra chi è detenuto e chi fa parte della società civile. Vedere condannati ad una pena detentiva vendere in Broletto al mercato del giovedì mattina dolci (tra l’altro buonissimi) preparati nelle cucine del luogo di detenzione, essere spettatori di rappresentazioni teatrali nelle quali i detenuti recita-no sotto la direzione di un regista professionista, partecipare a concerti o conferenze all’interno delle mura del carcere organizzati con la collaborazione dei detenuti stessi, sono solo alcune delle attività che sono state rese possibili dalla direttrice Stefania Mussio la quale, nel rispetto dell’ordinamento penitenziario, ha per prima capito e fatto capire che il vero protagonista del carcere è il detenuto. E poiché dal pensiero illuminista di Cesare Beccaria in poi, è dato acquisito dalla civiltà giuridica che la pena debba tendere innanzitutto alla rieducazione del condannato cosi come indicato nell’art 27 della nostra carta costituzionale, la dottoressa Mussio crediamo abbia bene praticato tale insegnamento, sopperendo alle fisiologiche debolezze del sistema con un programma rieducativo che nulla ha da invidiare a realtà a noi non lontane e costituenti indiscutibilmente eccellenze in campo di espiazione della pena (si pensi alla casa di reclusione di Bollate). In un tempo nel quale piovono dalla Corte di Giustizia Europea condanne per i trattamenti disumani e degradanti che subiscono in Italia i detenuti per le carenze strutturali che non assicurano ai. singoli talvolta neppure tre metri quadri di spazio in ogni cella, la dottoressa Mussio, per quanto possibile, ha sfatato il mito fallace che vede i chiavistelli quale presidio alla sicurezza. Di pari passo ad una recente ristrutturazione dell’edificio che ospita un centinaio di detenuti ma che è ancora troppo datato ed angusto per gli standard europei, la direzione di via Cagnola degli ultimi anni e coloro che con la stessa hanno più strettamente collaborato (istituzioni e fondazioni cittadine, professionisti e volontari) ha cercato di fare in modo che il carcere divenisse un punto di riferimento culturale, ricreativo ed informativo per la cittadinanza, avendo sempre a mente l’obbiettivo primario di ogni luogo di detenzione e cioè quello di far trascorrere ad un condannato un certo tempo in privazione di libertà di movimento col fine di reinserirlo nella collettività. In molte occasioni, nell’organizzazione di eventi formativi cui la nostra commissione è preposta, abbiamo avuto modo di incontrare la direttrice fuori e dentro le mura del carcere sempre indaffarata e sorridente e qui la vogliamo ricordare con in braccio Martini, un cagnolino di piccola taglia assai grazioso che le faceva compagnia, quasi a sdrammatizzare la temperie del luogo ove svolgeva le sue funzioni. Le auguriamo ora che i nuovi incarichi che la impegneranno per il futuro non le spengano mai il sorriso e che l’esperienza lodigiana possa esserle di aiuto per ciò che ancora di positivo potrà fare per coloro che devono restare in carcere. E ci auguriamo che chi ha preso il suo posto continui il percorso di integrazione tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori, l’unico che possa se non garantire, quanto meno facilitare, la rieducazione dei primi e la sicurezza dei secondi. Giustizia: Sappe; ore di tensione tra detenuti e agenti, nel carcere si è rischiata la rivolta Agi, 29 luglio 2014 "Ore di grande tensione si sono vissute nella mattinata di ieri all’interno del carcere di Taranto ove un paio di detenuti dopo aver distrutto la loro stanza avrebbero incitato tutti gli altri detenuti a rivoltarsi contro il personale di Polizia penitenziaria". Lo denuncia in una nota il Sappe, il Sindacato degli agenti della Polizia penitenziaria. "Fortunatamente - è scritto nella nota del Sappe - è giunto prontamente sul posto il comandante di reparto che dopo aver parlato con i rivoltosi ha risolto il tutto non senza conseguenze per i poliziotti penitenziari poiché un paio sarebbero dovuti ricorrere alle cure dell’ospedale. Ormai il problema della sicurezza del carcere di Taranto, considerata l’irresponsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, a cominciare dal Dap a Roma e per finire al provveditore regionale a Bari, non consente più perdite di tempo". Per il Sappe, "è necessario che il prefetto di Taranto prenda in mano la situazione e convochi con urgenza un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto alla presenza dell’Amministrazione penitenziaria e dei sindacati che tutelano i lavoratori su cui ricade la tragicità della situazione. Ormai - conclude la nota - è tempo di fatti poiché è in gioco oltreché la sicurezza del carcere e dei lavoratori quella della città di Taranto e dei propri cittadini". Palermo: Sappe; ieri due detenuti dell’Ipm "Malaspina" hanno aggredito tre agenti Agi, 29 luglio 2014 Due detenuti del carcere minorile "Malaspina" di Palermo hanno aggredito ieri tre agenti di custodia. Lo riferisce Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe, secondo il quale l’attacco è stato immotivato. "L’aggressione è stata proditoria e violenta, posta in essere senza una spiegazione logica da due soggetti particolarmente violenti, uno è dentro per il reato di strage", afferma Capece, che esprime solidarietà ai poliziotti feriti e critica la riorganizzazione della giustizia minorile proposta dal governo perché a suo avviso è "impensabile inserire detenuti di venticinque anni nei penitenziari minorili, perché è impensabile far convivere negli stessi ambienti carcerari adulti di venticinque anni con bambini di quattordici". Enna: i detenuti realizzano video sulle note di "Happy", il tormentone di Pharrell William Ansa, 29 luglio 2014 I detenuti del carcere di Enna protagonisti del video sulle note di "Happy" il tormentone di Pharrell William che ha fatto il giro del Web. Si tratta del primo video di questo genere realizzato dentro un carcere italiano. Il filmato, realizzato nei corsi professionali Anfe regionale di Fotografia dal regista Paolo Andolina, racconta piccoli spezzoni di vita quotidiana dei reclusi. Si vedono i detenuti in cella che fanno ginnastica con mezzi di fortuna, che preparano, in cella, una succosa passata di pomodoro o stirano utilizzando una caffettiera. Il video integrale sarà pubblicato su You Tube. Quello che il regista racconta comunque non è certo la realtà del carcere, fatta di privazione di libertà e a tratti di sofferenza, piuttosto il tentativo di essere felici anche dietro le sbarre seppure "per qualche momento", come si legge all’inizio del filmato. "Durante le riprese, che sono durate una quindicina di giorni, abbiamo verificato che la musica e il "fare" creano un’armonia che diventa nutrimento per l’Anima - dice Paolo Andolina. Il titolo, "Happy dentro", racconta, infatti, giocando sul doppio senso, che dentro, una dimensione di spazio ma anche emozionale, si può provare ad essere allegri". Alle riprese hanno partecipato anche il direttore della Casa Circondariale, Letizia Bellelli, il comandante della Polizia Penitenziaria, Giuseppe Scarlata ed alcuni agenti. "Lungi dal volere rappresentare un’immagine edulcorata ed esageratamente spensierata della realtà penitenziaria, la partecipazione, al fenomeno virale Happy anche da parte della nostra comunità penitenziaria la rende meno chiusa, isolata, separata", osserva il direttore Bellelli. Brescia: "tempi bui" al carcere di Verziano, manca il carburante e anche l’illuminazione di Angela Amarante www.fpcgil.lombardia.it, 29 luglio 2014 "Lungo il muro di cinta il pattugliamento andrebbe fatto in auto, ma non c’è il carburante. Allora si fa a piedi, ma le luci non funzionano, e non ci sono nemmeno delle torce. Di notte il Verziano sembra un edificio abbandonato". Calogero Lo Presti, coordinatore lombardo Fp-Cgil, descrive così le condizioni del carcere bresciano, dove la sicurezza dovrebbe essere in primo piano. In realtà è compromessa al punto che anche portare d’urgenza un detenuto in ospedale può essere un problema: da qualche settimana non c’è benzina in 2 auto di servizio. Le luci lungo il camminamento esterno, invece, non funzionano da mesi. "La Direzione ha demandato la questione al Provveditorato regionale, che non ha mai dato risposte - prosegue Lo Presti. Ricordo che, a queste pessime condizioni di lavoro, si aggiungono gli straordinari non pagati da dicembre 2013 e il contratto non rinnovato dal 2010". Vercelli: usura; arrestati due agenti della Polizia penitenziaria, vittime i loro colleghi di Roberto Maggio La Stampa, 29 luglio 2014 Prestavano soldi con interessi mensili dal 20 al 100%. In un caso, a fronte di un prestito da 1.200 euro, ne hanno chiesti indietro 6.500. Un grosso giro di usura che avveniva tra agenti di polizia penitenziaria è stato scoperto dalla procura della Repubblica di Vercelli in collaborazione con Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Torino: le indagini hanno portato - al momento - all’arresto di quattro persone, due finanziatori e due poliziotti che facevano da tramite. I due finanziatori sono Catalin Botezatu, originario di Vercelli ma titolare di esercizio pubblico a Carpignano Sesia, e Diego Corona, risicoltore di Pezzana. I due agenti arrestati (attualmente sono ai domiciliari) sono Salvatore Zarelli e Bruno Crisafio, quest’ultimo temporaneamente in servizio all’Uepe (Ufficio esecuzioni penitenziarie esterne) di Vercelli. Le vittime erano quasi sempre colleghi agenti della polizia penitenziaria, a cui gli strozzini sono arrivati a chiedere fino a 30 mila euro in restituzione di un prestito. Gli usurai, con i soldi intascati, si compravano vestiti firmati, rolex d’oro, cellulari da migliaia di euro dagli Emirati arabi. I dettagli dell’operazione "Tendenza" sono stati presentati dal procuratore capo Paolo Tamponi e dal sostituto procuratore Davide Pretti. "Non avevamo idea della portata di questi fatti", ha commentato il direttore del carcere di Vercelli, Tullia Ardito. Roma: selezione Associazione Calciatori, domani "amichevole" contro detenuti Rebibbia La Presse, 29 luglio 2014 Dopo la vittoria del Memorial Clagluna da parte della Selezione Aic guidata da Francesco D’Arrigo, le tre squadre formata da calciatori "senza contratto", attualmente impegnati nel ritiro precampionato a Coverciano, saranno nuovamente di scena mercoledì 30 luglio prossimo per altrettante gare amichevoli. Tra queste spicca la gara, promossa da Aic Onlus (la Onlus dell’Associazione Calciatori che si occupa di iniziative sociali e attività di carattere benefico) contro la squadra del Carcere di Rebibbia che sarà ospite dell’Aic presso il centro Tecnico Federale per una intera giornata all’insegna della solidarietà. Una delegazione della Casa Circondariale del penitenziario romano, composta da guardie carcerarie e detenuti, è stata infatti invitata da Aic Onlus a Coverciano per un’iniziativa del tutto particolare che prevede il pranzo, la visita al Museo del Calcio e la partita amichevole (ore 17,30) contro la Selezione AIC guidata da Francesco Porro. Le altre due Selezioni Aic guidate da Francesco D’Arrigo e Ettore Donati giocheranno rispettivamente a Pontedera contro l’U.S. Pontedera (alle ore 17) e a Coverciano contro l’A.C. Tuttocuoio (alle ore 18). Ricordiamo la suddivisione dei tre gruppi. Gruppo D’Arrigo: Alfonso Enrico, Baiocco Davide, Bruno Salvatore, Catacchini Fabio, Dossena Andrea, Guerri Simone, Italiano Vincenzo, Lamma Giuliano, Mannini Daniele, Minelli Mauro, Mingazzini Nicola, Perna Armando, Plasmati Gianvito, Potenza Alessandro, Pugliese Giuseppe, Regonesi Pierre Giorgio, Rinaldi Giuseppe, Semioli Franco, Soligo Evans, Tedesco Giacomo, Tiribocchi Simone, Vergassola Simone. Gruppo Donati: Agomeri Antonelli Filippo, Anaclerio Michele, Bariti Davide, Beati Nicola, Catinali Edoardo, Crocetti Lorenzo, Dallamano Simone, De Agostini Michele, Di Dio Palmiro, Giannusa Vincenzo, Girardi Domenico, Iorio Angelo, Mancinelli Roberto, Mandorlini Davide, Marchini Davide, Pavanello Marco, Pippa Andrea, Piva Simone, Romondini Fabrizio, Sambugaro Filippo, Scugugia Battista, Tranchitella Dario, Tricoli Paolo, Vinci Alessandro. Gruppo Porro: Agius Andrei, Bianchi Daniele, Biancolino Raffaele, Bolzan Riccardo, Bricca Andrea, Brighi Marco, Cangi Francesco, Cano Andrea, Cappai Roberto, Caso Patrizio, Essabr Oussama, Ferretti Andrea, Franzese Francesco, Giovannini Gianluca, Ingrosso Gianmarco, Marino Daniele, Pezzella Luigi, Rossi Paolo, Santarelli Giorgio, Santonocito Luca, Sciannamè Claudio. Cinema: "Ospedali Psichiatrici Giudiziari, fine corsa. Come è stato possibile?" Ansa, 29 luglio 2014 Su Zammù Multimedia un documentario dell’Università Catania con foto, filmati e interviste. Il 31 maggio 2015 gli ultimi sei ospedali giudiziari psichiatrici (Opg) italiani saranno definitivamente chiusi. Zammù Multimedia, il centro di produzione audiovisivo e giornalistico dell’università di Catania, ha scelto di realizzare un servizio speciale, collegato alla presentazione del documentario "Aria" del professore Franco Migliorino, ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Ateneo, realizzato nel 2006 e adesso riproposto. Lo speciale, dal titolo "Ospedali Psichiatrici Giudiziari, fine corsa. Come è stato possibile?" è sul portale di Zammù Multimedia (www.zammumultimedia.it) a disposizione delle testate giornalistiche che vogliano riproporlo. Il documentario è accompagnato da un’intervista al prof. Migliorino realizzata dal giornalista Salvo Catalano e da una recensione del prof. Alessandro De Filippo, ricercatore di Storia e critica del cinema e di Cinema fotografia e televisione. In "Aria" vengono mostrate le fotografie ritrovate dentro uno scatolone abbandonato nell’archivio dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Le immagini - stanze vuote di ogni forma di vita - sono accompagnate dalla lettura di alcune lettere scritte dagli internati e da alcuni psichiatri del tempo. Radio Zammù ha inoltre realizzato un’intervista a uno dei principali collaboratori del noto psichiatra Franco Basaglia: il prof. Peppe Dell’Acqua, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, personalità di rilievo nazionale in questa materia. Dell’Acqua cita i manicomi criminali di imminente chiusura (Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Aversa, Secondigliano, Reggio Emilia) e pone il problema delle nuove Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che li sostituiranno, auspicando che venga definitivamente abbandonata la visione che ne fa "luoghi di totale assenza di soggettività", "luoghi di negazione". Mondo: pena di morte, emergenza senza fine, 14 esecuzioni in pochi giorni di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 29 luglio 2014 Iran, Somalia, Vietnam: non si fermano le esecuzioni alla pena capitale. La denuncia dell’ong italiana. E Teheran conferma il suo primato di "Stato-boia". A pochi giorni dalla presentazione del rapporto annuale sulla pena di morte, Nessuno tocchi Caino denuncia quattordici esecuzioni. In Iran dieci persone, quattro donne e sei uomini sono state giustiziate nel giro di due giorni per crimini legati alla droga. In Somalia una ragazza di 14 anni è stata uccisa con rito pubblico dai miliziani di al-Shabaab con l’accusa di essere una spia governativa, mentre in Vietnam sono stati giustiziati tre uomini con iniezione letale. I boia di Teheran. Un primo anno coperto di sangue quello della presidenza di Hassan Rohani. Eletto nel 2013, Rouhani durante la campagna elettorale aveva promesso una "carta dei diritti civili" ponendosi come alterativa "moderata" al predecessore Mahmud Ahmadinejad. Purtroppo, deludendo le aspettative, Teheran non ha cambiato rotta, soprattutto nel campo dei diritti umani. Analizzando le stime, con circa 900 esecuzioni dall’estate del 2013, l’Iran è tornato indietro di quindici anni. Gli ultimi in ordine di tempo a essere giustiziati sono stati dieci iraniani di cui otto con impiccagione collettiva nella città di Birjand il 20 luglio. La giustizia di al-Shabaab. Farhiyo Abdinasir Mohamed, una ragazza somala di 14 anni, è stata giustiziata in pubblico da miliziani di al-Shabaab. La colpa, secondo i giornali locali, quella di essere una spia del governo federale. Secondo i miliziani, la ragazza avrebbe ammesso di aver passato informazioni a funzionari governativi. Dopo esser stata arrestata e interrogata, la ragazza è stata tenuta prigioniera per alcuni giorni. Dopo l’esecuzione pubblica nella città di Dinor un portavoce dei miliziani ha avvertito tutti i presenti di non intrattenere alcun rapporto con il governo. A partire dal mese di marzo, sono almeno otto gli uomini giustiziati dagli Al-Shabaab con l’accusa di spionaggio in favore del governo e di agenzie di intelligence straniere. I condannati suicidi. La pena di morte è tornata in Vietnam. Dopo lo stop del 2012, anno in cui Hanoi non aveva eseguito nessuna condanna capitale, le esecuzioni sono riprese. Tre solo nel mese di luglio 2014 a poche ore di distanza l’una dall’altra. L’arresto delle esecuzioni nel 2012 non è stato dettato da un cambiamento di rotta del governo, ma dal rifiuto dell’Unione Europea di vendere le sostanze necessarie a confezionare l’iniezione letale. A causa di questo blocco, Hanoi ha dovuto rimandare le esecuzioni, ma questa attesa, unita all’incertezza della data dell’esecuzione, ha portato molti detenuti alla psicosi e in alcuni casi al suicidio in cella. Guinea Equatoriale: pronto nuovo esposto alla procura di Roma sul caso Berardi di Andrea Spinelli Barrile Vita, 29 luglio 2014 Intervista al Senatore Luigi Manconi. Il Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato in prima linea nella battaglia per salvare l'imprenditore pontino imprigionato nelle galere di Bata. Non vede un epilogo la tragica epopea di Roberto Berardi, imprenditore pontino imprigionato nelle galere di Bata, in Guinea Equatoriale: accusato di appropriazione indebita da Teodorin Obiang, figlio del dittatore /presidente equatoguineano Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, e condannato a 2 anni e 4 mesi (e ad 1,4 milioni di euro di risarcimento); formalmente graziato, Berardi resta detenuto e privato dei più fondamentali diritti umani (la negazione dell'assistenza medica, le violenze fisiche e psichiche continue, la lontananza dalla famiglia, l'isolamento perpetrato per mesi) fino a quando non risarcirà l'ex socio, "il Principe di Malabo" Teodorin Obiang Nguema Mangue. Abbiamo intervistato il senatore del Partito Democratico Luigi Manconi, una vita spesa per la tutela dei diritti umani con l'associazione "A Buon Diritto": Manconi, che è anche Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, è l'unico nel panorama politico italiano ad essersi attivato personalmente, e concretamente, per aiutare la famiglia Berardi a venire a capo di questa tragica esperienza. Grazie all'avvocato Fabio Anselmo, candidato laico al Csm dal MoVimento 5 Stelle e famoso in Italia per essersi occupato (tra i tanti) del caso Cucchi, del caso Uva e del caso Aldrovandi, e ad un servizio del Tg1 (a dimostrazione di come la copertura mediatica di questo caso sia importante), il senatore Manconi è venuto a conoscenza della vicenda estera di Roberto Berardi, entrando poi in contatto con la ex moglie Rossella Palumbo. E proprio a Rossella Palumbo il senatore Manconi rivolge parole di affetto e stima, dandone un'immagine di "forza dolce ed intelligente, la vera protagonista di questa vicenda: una persona davvero superiore". Lei è l'unico che si occupa e preoccupa concretamente del caso Berardi. Cosa state facendo in questo momento? Penso che la situazione rischi di trovarsi in un vicolo cieco. Noi abbiamo esperito numerose strade fino ad oggi: dall'ambasciatore della Guinea Equatoriale in Italia alla Commissione Iustitia et Pax del Vaticano, da una mia lettera inviata alla Segreteria di Stato sua Eminenza Pietro Parolin fino al nuovo ambasciatore italiano in Camerun, dalla Croce Rossa Italiana alla filiera rappresentata dalla Farnesina fino al console Massimo Spano. Abbiamo fatto tutto il fattibile e il possibile: la prossima settimana presenterò un esposto, già in buona parte scritto, al procuratore della Repubblica di Roma Pignatone, nel quale segnalo le violazioni di diritti umani a danno del nostro connazionale Roberto Berardi. Come mai non si riesce a venirne a capo in alcun modo? Roberto Berardi costituisce il capro espiatorio utile da agitare davanti alle inchieste che in almeno due paesi, Stati Uniti e Francia, sono condotte nei confronti del figlio del despota della Guinea Equatoriale (Teodorin Obiang Nguema Mangue, ex-socio e accusatore di Berardi, nda). Ci sono due azioni giudiziarie in corso, una in fase di indagine e l'altra quasi a dibattimento. In presenza di queste due azioni giudiziarie è molto utile poter dire "il colpevole non è il figlio del presidente ma questo signore, che a tutt'oggi ha una condanna nel nostro paese". Mi sembra una tecnica efficace, alla quale non possono rinunciare perchè significherebbe appunto far risultare ancora maggiori le responsabilità del socio di Berardi, il figlio del Presidente Obiang. Questa è la mia lettura. In base a questa lettura allora le numerose promesse di grazia da parte del Presidente sono una palese bugia... Non so che dirle. So che la posizione delle autorità a me trasmessa con molta nettezza dall'ambasciatrice della Guinea Equatoriale in Italia è la seguente: la grazia è stata promessa e dunque sarà sicuramente concessa, ma questa riguarda la pena detentiva e non può riguardare l'altra parte della pena, che è il risarcimento pecuniario, che mi pare ammonti a 1,4 milioni di euro. La diplomazia italiana invece che tipo di percorso sta intraprendendo? Nessuno lo sa ma nel mondo ci sono 3300 italiani in prigioni straniere. Ovviamente non tutte le prigioni sono come quelle della Guinea Equatoriale, il che vuol dire che alcune saranno anche peggiori sia chiaro, e ovviamente molti dei nostri connazionali sono detenuti in penitenziari di Stati di diritto, con garanzie. 3300 persone: la nostra diplomazia fatica e, dunque, fa quello che può fare. Non mi sento oggi di dire che la Farnesina non faccia quanto in suo potere, anche perchè la diplomazia risponde a regole e leggi che io non sono in grado di valutare. Io opero in parallelo e vedo che anche quello che noi facciamo fuori dal linguaggio e dai comportamenti del Ministero degli Esteri si scontra contro un muro che sembra oggi impermeabile. Essendo la famiglia Obiang molto devota, fanno ingenti donazioni alla diocesi africana, il Vaticano potrebbe essere una buona "carta" da giocare per la liberazione di Berardi? Penso che potrebbe essere non buona ma ottima. Non va dimenticato che in un periodo di tempo inferiore a un anno il Presidente della Guinea Equatoriale ha incontrato Papa Francesco due volte, il che non è da tutti. Penso che sia un'ottima carta: anche qui, non sono in grado di giudicare ma mi sento di volermi rivolgere con la più accorata decisione alla Segreteria di Stato del Vaticano, chiedendo di intervenire attraverso il suo nunzio apostolico perchè Berardi sia liberato. Non giudico, sia chiaro: però a questo punto devo dire che, e chiedo scusa per quella che sembra una battuta ironica, non so più a che santo votarmi e dunque mi rivolgo a Sua Eminenza Parolin. (Effettivamente il 25 ottobre 2013 Obiang ha visitato ufficialmente il Vaticano incontrando Papa Francesco. Una visita che ha avuto come centrale il momento della ratifica di un accordo tra Santa Sede e Repubblica di Guinea sulle relazioni tra Chiesa e Stato. Un accordo che suggella le buone relazioni bilaterali, riconosce la personalità giuridica della Chiesa e delle sue istituzioni e guarda anche al matrimonio canonico, i luoghi di culto, le istituzioni educative, l'assistenza spirituale ai fedeli cattolici negli ospedali e nelle carceri. 19 articoli entrati in vigore proprio il 25 ottobre scorso. ndr) Lei si occupa di diritti umani da una vita: quali sono le più gravi violazioni che sta riscontrando nel caso Berardi? Ci sono tre nette ed inequivocabili violazioni dei diritti umani. La prima è il fatto che sia stato sottoposto a trattamento inumano e degradante, nel senso che ha indubitabilmente subito violenze e sevizie documentate, documentazione tanto più credibile perchè mai è stata smentita dalle autorità della Guinea. Seconda violazione: Berardi si trova da ormai 8 mesi in stato di isolamento. Negli stati democratici l'isolamento viene deciso con un provvedimento motivato e con una scadenza predeterminata: nel caso di Berardi non è stato possibile accertare nulla di tutto questo. Terza questione il suo stato di salute, che impone un ricovero in ospedale, cosa che non è avvenuta. L'ultimo ricovero, che ha visto una raccomandazione dei medici di una permanenza ospedaliera di venti giorni, si è risolto in una permanenza di 48 ore. Si tratta di un uomo con enfisema polmonare e polmonite. Noi ci siamo posti questa domanda: come mai si fa tanta fatica a parlare sui media del caso di Roberto Berardi? Quale è la sua opinione? Io penso un paio di cose in merito. Primo punto: contrariamente a quello che si crede l'Italia è un Paese con una fragilissima cultura garantista. Per capirci: un assunto fondamentale della cultura dei diritti umani è che il valore degli stessi prescinde da una dichiarazione di colpevolezza o di innocenza. Una simile affermazione, in Italia, è del tutto impopolare. Seconda questione: il carcere costituisce il grande rimosso della coscienza nazionale. Il carcere è il luogo del male, il luogo dove il male viene simbolicamente rappresentato e dove viene materialmente imprigionato. Siccome il male è una tentazione di tutti gli esseri umani, non è facile pensarlo quel luogo: è più facile rimuoverlo. Tutto qui. (Tre settimane fa, ci spiega il senatore Manconi, l'Unione Africana si è riunita a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale. Una riunione per certi versi storica, anche se passata sotto silenzio: Israele inviò una delegazione al fine di partecipare al summit di Malabo e per cominciare a tessere la tela diplomatica per il suo ingresso proprio nell'Unione Africana; tentativo finito nel nulla per la ferma opposizione di Mohamed Ould Abdel Aziz, Presidente mauritano e attuale Presidente dell'Unione. Per anni l'Unione è stata presieduta proprio da Teodoro Obiang, Presidente equatoguineano, e nella riunione di poche settimane fa si è anche deciso, con il favore di 52 membri su 53, di opporsi collettivamente alla possibilità che la Corte Penale Internazionale possa giudicare uno di loro per genocidio, strage e crimini contro l'umanità - una tutela non solo per le cariche più alte ma anche per "gli apparati". Proprio a Malabo, proprio nel paese africano più critico in materia di tutela dei diritti umani. ndr) Lisa Misol di Human Rights Watch in Africa faceva, poco tempo fa, un'affermazione ben precisa: nelle "paure" delle autorità equatoguineane per la liberazione di Berardi c'è anche quella di spionaggio: l'imprenditore pontino potrebbe rivelare rapporti inconfessabili tra aziende occidentali importanti ed il regime della Guinea Equatoriale... Non lo escludo, ma sono una persona patologicamente, clinicamente sospettosa di questo sistema di sospetti. Non so se Berardi possa dire delle cose pericolose per delle aziende o per qualcuno. Non lo so. Faccio un ragionamento diverso: Berardi, condannato e rinunciatario all'Appello, è simbolicamente e concretamente un formidabile strumento sul quale riversare le responsabilità per le inchieste americane e francesi che dicevo prima. è perfetto. Quasi come se avesse patteggiato, perchè in qualche modo ha patteggiato. Stati Uniti: alla Camera esame di mozione per Chico Forti, l’italiano detenuto da 14 anni Ansa, 29 luglio 2014 "Ha avuto inizio oggi in Aula l’esame della mozione a mia prima firma con la quale si chiede al governo di assumere ogni iniziativa possibile, in Italia e in sede internazionale, per sostenere Chico Forti, da 14 anni ingiustamente detenuto a Miami, nella sua battaglia per la riapertura del processo". È quanto afferma Mauro Ottobre, deputato delle minoranze linguistiche che ha presentato una mozione parlamentare sottoscritta da oltre cinquanta deputati appartenenti ai diversi gruppi parlamentari, al di là degli schieramenti di maggioranza ed opposizione. "La Camera - sostiene Ottobre - è chiamata ad un voto, che auspico sia unanime, contro ogni pregiudizio. Un voto che sarebbe un atto istituzionale a sostegno della domanda di giustizia e di libertà di Chico Forti. Per la prima volta dopo anni di iniziative da parte dei familiari, delle associazioni di volontari, di cittadini, il Parlamento ha l’opportunità di approvare ed indicare una scelta: il caso Forti come un caso nazionale che impegni le istituzioni e il governo". Ottobre (Patt): in Aula per sostenere innocenza "Ha avuto inizio oggi in Aula alla Camera l’esame della mozione a mia prima firma con la quale si chiede al governo di assumere ogni iniziativa possibile, in Italia, in sede internazionale, per sostenere Chico Forti, da 14 anni ingiustamente detenuto a Miami nella sua battaglia per la riapertura del processo. Il voto avverrà nei prossimi giorni". Lo riferisce in una nota Mauro Ottobre, deputato trentino del Patt, che ha presentato una mozione parlamentare sottoscritta da oltre cinquanta deputati appartenenti ai diversi gruppi parlamentari, al di là degli schieramenti di maggioranza e opposizione. "La Camera - ha sostenuto Ottobre nella illustrazione in aula della mozione - è chiamata ad un voto, che auspico sia unanime, contro ogni pregiudizio. Un voto che sarebbe un atto istituzionale a sostegno della domanda di giustizia e di libertà di Chico Forti. Per la prima volta dopo anni di iniziative da parte dei familiari, delle associazioni di volontari, di cittadini, il Parlamento ha l’opportunità di approvare ed indicare una scelta: il caso Forti come un caso nazionale che impegni le istituzioni e il governo". "Sotto il profilo processuale, il nuovo avvocato difensore di Chico Forti, Joe Tacopina, ha affermato che vi siano prove certe della sua innocenza - ha aggiunto Ottobre - che dimostrano come la condanna di colpevolezza sia avvenuta non soltanto sulla base di indizi contraddittori o inesistenti ma anche di un pregiudizio sostanziale. La prospettiva della revisione del processo è dunque concreta e più che fondata. Compito delle istituzioni e della politica - ha concluso - è accompagnare e sostenere tale percorso in sede europea e in ragione dei rapporti bilaterali con gli Usa". Svizzera: il Consiglio di Stato vuol rispedire in patria i detenuti stranieri di Paolo Padoin www.firenzepost.it, 29 luglio 2014 Il Mattino di Ginevra informa che il Consiglio di Stato di quel cantone ha deciso che un concreto rimedio al problema del sovraffollamento carcerario può essere quello di rimandare nel loro paese d’origine i detenuti stranieri perché espiino là la loro pena. Per questo i giudici amministrativi hanno interessato il Dipartimento federale di giustizia e polizia. L’esecutivo svizzero punta a rinnovare e perfezionare le convenzioni già esistenti con il Marocco e la Romania, principali paesi interessati. Quest’accorgimento potrebbe essere esteso a tutti i cantoni svizzeri ed essere poi introdotto in altri paesi che lo ritengano opportuno. Tornando a casa nostra è noto che il sovraffollamento nelle carceri italiane (oltre 65.000 detenuti rispetto a 47.000 posti, secondo i dati 2013) è stato oggetto di alcune sentenze di condanna del nostro paese da parte della Corte europea dei diritti umani e di procedure comunitarie. Il problema è aggravato dal fatto che nei nostri istituti di pena sono presenti circa 23 mila detenuti stranieri, che rappresentano quasi la metà delle persone complessivamente raccolte dalle strutture penitenziarie. La cittadinanza più diffusa tra i detenuti stranieri è quella marocchina (19,0%), seguita da quella rumena (15,9%) e da quella tunisina (12,4%). Una soluzione come quella avanzata dagli svizzeri potrebbe risolvere il sovraffollamento delle carceri in Italia senza necessità di spese strutturali o di sconti di pena, amnistia o indulti? Nicola Molteni, vicepresidente del gruppo Lega Nord a Montecitorio e componente della Commissione Giustizia, ha avanzato la proposta già dal 2013, affermando che questa potrebbe risolvere una situazione "grave per due motivi: da un lato i detenuti extracomunitari affollano le nostre carceri rendendole invivibili, dall’altro rappresentano un costo per la collettività sia in termini economici che securitari". Israele: Udi, 19 anni, disertore "vado in carcere per non bombardare Gaza" Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2014 Udi sconterà sei mesi nella prigione militare "Prison Six" per aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito. In Israele decine di soldati si rifiutare di andare in guerra nella Striscia, mentre nel mondo si moltiplicano le manifestazioni organizzate da esponenti delle comunità ebraiche contro l’operazione "Protective Edge". Udi Segal, 19 anni, israeliano, sta aspettando di essere preso e incarcerato nella prigione militare Prison Six dalle autorità del suo paese. L’accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito: "Israele può continuare questa occupazione, ‘but not in my name’, non nel mio nome", racconta aIlFattoQuotidiano.it. Un sondaggio del Jerusalem Post rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione Protective Edge. Dall’altra parte, però, almeno 50 soldati dell’Israel Defense Force hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione e migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti Neturei Karta, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ieri in tremila sono scesi in piazza Rabin, a Tel Aviv, per manifestare contro i raid d’Israele sulla Striscia. "L’appoggio del paese alla politica del primo ministro, Benjamin Netanyahu, è ancora forte - spiega Segal - ci sono molte persone, però, che sono stanche di questa guerra. Solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione". A New York, Parigi,Londra, migliaia di ebrei hanno manifestato in strada al grido di "Palestina libera" e "no allo stato d’Israele" per protestare contro la politica militare del premier israeliano. A capo della maggior parte di queste manifestazioni c’erano gli ebrei ortodossi di Neturei Karta, un movimento antisionista nato a Gerusalemme nel 1938. Il principio che muove il gruppo e i rappresentanti dell’ortodossia ebraica che non appoggiano le idee sioniste, però, non è di matrice politica, ma religiosa. Sostengono, infatti, che la costituzione di uno stato d’Israele violi le leggi della tradizione religiosa. Secondo i testi sacri, la diaspora ebraica è il frutto dei numerosi peccati commessi dal popolo d’Israele e solo l’avvento del Messia potrà restituirgli una patria. L’accusa mossa da Neturei Karta nei confronti dei sostenitori dello stato ebraico è quella di violare le leggi della tradizione religiosa, strumentalizzandola per meri fini politici. I membri del movimento sostengono che l’Onu, riconoscendo lo stato d’Israele, abbia commesso un’ingiustizia anche nei confronti del popolo ebraico. "Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria - racconta Segal - ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione". In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. "Non so ancora di preciso quanto rimarrò in carcere - continua Segal, anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro". Anche 50 soldati israeliani hanno deciso di rifiutare qualsiasi incarico nei territori occupati. Lo hanno comunicato con una lettera al Washington Post in cui spiegano i motivi che hanno portato alla loro decisione: "Ci opponiamo - scrivono - all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare". Quello di Udi Segal, però, non è un caso isolato. Il primo risale 1954, quando Amnon Zichroni, militare, chiese di essere sollevato dal servizio militare perché pacifista. Da quel momento in poi sono molti i movimenti che raggruppano, per motivi diversi, obiettori di coscienza o militari che si rifiutano di servire l’esercito. Nel 1982, durante la guerra tra Israele e Libano, è nato il movimentoYesh Gvul formato da veterani dell’esercito che si rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Questo "rifiuto selettivo" si estese, successivamente, anche ai territori occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere nei territori occupati è l’Ometz Le Sarev o "Coraggio di rifiutare". I 623 componenti del movimento, formatosi nel 2002, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare. Per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al premio Nobel per la pace. Egitto: il presidente al Sisi grazia 354 detenuti per la fine del Ramadan Nova, 29 luglio 2014 Il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha graziato 354 detenuti per la festa della fine del Ramadan. Secondo quanto ha annunciato il generale Mohammed Ratib, vice ministro dell’Interno egiziano, al giornale "al Ahram", "il consiglio per i Diritti umani ha visitato ieri in occasione della festa islamica le carceri del paese non registrando alcuna violazione". Inoltre il vice ministro ha assicurato che "tutte le carceri sono dotate di sistemi di sicurezza e le guardie hanno anche armi pesanti e non si temono ribellioni". Il giornale egiziano ha quindi seguito la scarcerazione dei detenuti graziati avvenuta ieri in diversi centri di detenzione del paese in seguito alla grazia presidenziale.