Meno custodia cautelare e più reinserimento Il Mattino di Padova, 28 luglio 2014 Galan, l’arresto divide anche i detenuti. Custodia cautelare o processo in libertà? Confronto al Due Palazzi. Sul caso dell’arresto di Giancarlo Galan, sotto accusa nell’inchiesta per lo scandalo Mese e le tangenti, si dividono anche i detenuti del Due Palazzi, che attraverso la Redazione di Ristretti Orizzonti collaborano con il Mattino. Intanto l’ex governatore cambia strategia difensiva in vista dell’udienza del Tribunale del Riesame. Conoscendo bene le galere, non saremo mai fra quelli che urlano "In galera, in galera!" quando un politico o un imprenditore rischiano l’arresto: tutte le volte che è possibile, preferiamo di gran lunga che una persona attenda il processo da libero, e che la custodia cautelare in carcere sia davvero usata solo in caso di effettiva pericolosità del presunto autore del reato. Però sul caso di Giancarlo Galan, l’ex governatore della Regione Veneto arrestato di recente, le opinioni dei detenuti non erano così concordi, e allora abbiamo deciso di dare spazio ai tanti contrari al suo arresto, ma anche a chi pensa che i reati "dei potenti" debbano essere trattati con più severità di quel che succede oggi. Penso che i potenti debbano smetterla di farla franca Nella redazione di Ristretti Orizzonti in una delle ultime discussioni l’argomento al centro del confronto è stato l’arresto di Galan, il gruppo in quest’occasione si è diviso in due fazioni, la più consistente si è espressa contro l’arresto, l’altra in favore. Io mi sono schierato con quest’ultima, e provo a spiegare la mia presa di posizione. Io sono in carcere per aver commesso dei reati, i miei reati sono reati di droga, armi, rapine e furti, tutti questi elementi creano allarme sociale perché si tratta di reati violenti dove i danni sono visibili. Quando ho commesso questi reati ero consapevole che sarei finito in carcere, ho fatto una scelta di vita sicuramente discutibile e oggi giustamente ne pago le conseguenze, da quasi due anni ho la fortuna di avere dei percorsi che mi fanno riflettere sulle mie scelte, e oggi chiaramente posso dire che chi commette dei reati non riesce ad avere attenzione e rispetto per la società che lo circonda. Ma quando penso a chi commette reati come le frodi bancarie, a chi intasca mazzette, a chi dirotta appalti pubblici a favore di ditte amiche, dico che queste persone devono andare in carcere, il fatto che siano laureate, benestanti, gente della cosiddetta buona società, non le rende diverse da tutti gli altri, queste persone non devono essere immuni dalla legge, se la legge è davvero uguale per tutti. Non sono un forcaiolo ma penso che i potenti debbano smetterla di farla franca, le statistiche riguardo i reati finanziari in Italia parlano chiaro, si va in galera poco o per nulla, e secondo me bisogna cambiare questa mentalità del dire: tanto i potenti non pagano mai. Io voglio portare un piccolo esempio: se una persona influente pilotasse un appalto a favore di qualche ditta a lui gradita danneggiando cosi la ditta concorrente che per sua sfortuna non ha amici influenti, e che è così costretta a mandare a casa gli operai, e fra questi operai c’è qualcuno che perdendo il lavoro perde tutto quello per cui ha sudato una vita e preso dal panico commette atti irreparabili come quelli che si vedono in tv ultimamente, chi ne sarebbe il responsabile? Invece l’altro esempio è ancora più diretto: cosa fai se ti svegli e da un giorno all’altro i tuoi risparmi messi in banca non ci sono più? Ecco per questi motivi io dico che il carcere è giusto nei confronti di queste persone, non differenti da me e dagli altri delinquenti che creano allarme sociale. Non tutti i reati richiedono l’uso della violenza, ma questo non vuol dire che solo chi è violento va fermato e messo in carcere perché pericoloso, altrettanto pericolosi sono quelli che riducono famiglie sul lastrico stando comodamente seduti in palazzi e sedi importanti. Chiudo ribandendo ancora un volta che non sono contrario al carcere, come mezzo di rieducazione (ma che lo sia in modo serio) anche per quelli che educatamente hanno impoverito migliaia di famiglie, usando una violenza subdola, approfittando della fiducia che viene riposta in loro dai cittadini. Erion Celaj Il carcere non può essere la soluzione per tutti i mali In questi giorni si parla molto di arresti eccellenti, come quello di Galan, dopo che il manager Piergiorgio Baita pare abbia spifferato tutti i maneggi degli appalti nel Veneto, provocando un’ecatombe che rischia di portare dietro le sbarre i maggiori notabili che hanno imperato nella Regione Veneto negli ultimi due decenni. A dirla tutta l’ex Presidente della Regione Veneto Galan poteva uscire con più onore dalla vicenda che lo ha condotto in carcere e fare più bella figura costituendosi, ma non intendo giudicare l’uomo, saranno i giudici a farlo. Io credo comunque che sarebbe stato più corretto lasciare libero Galan, avrebbe potuto difendersi meglio e con maggiore dignità. Sono dell’idea che non solo Galan avesse il diritto di affrontare da uomo libero il suo processo, ma che moltissimi dei detenuti in attesa di giudizio avrebbero diritto di affrontare il processo da persone libere con dignità, senza essere messi alla gogna, subendo a volte una pena aggiuntiva in anticipo sulla eventuale sanzione penale. Il carcere prima del giudizio è spesso una barbarie, per gli uomini che hanno espiato una pena ingiusta non esiste una misura in grado di risarcire il male che hanno subito, perché non esiste il mezzo di restituire la dignità strappata a un uomo messo alla berlina con una custodia cautelare ingiusta. E non ci sarà serenità nella giustizia finché ci saranno i forconi mediatici che anticipano le sentenze dei giudici: quando un uomo viene maltrattato dai media, nessuno può ridargli la sua vita distrutta. La famiglia, seppure incolpevole, viene travolta anch’essa ed è proprio la famiglia a pagare in modo più pesante. La nostra società è stata schiacciata negli ultimi decenni da una politica e da una informazione che hanno spesso coperto le magagne dei potenti, spostando il pensiero della gente comune alle semplificazioni sulle questioni della sicurezza, dove si finisce per criminalizzare l’immigrato, prestare enorme attenzione ai reati di strada e invece tanta disattenzione alla corruzione di chi ha in mano le leve dell’economia e della politica. È comprensibile che il cittadino comune oggi trovi soddisfazione nelle disgrazie di un potente. Si sente maltrattato da una classe dirigente che non difende la capacità di acquisto del suo stipendio e finisce per pensare che tutti i politici rubano e che tutti prendono mazzette, ma è arrivato il momento di fermarci a recuperare quel senso della misura che rimette la giustizia sui binari della serenità e della discrezione, lasciando che le persone si possano difendere da liberi cittadini e i giudici che devono giudicarle non siano schiacciati da quella macchina infernale della politica e dell’informazione che, invece, oggi schiaccia tutti, colpevoli e innocenti. Chi sarà riconosciuto colpevole sconterà la sua pena come avviene in ogni parte del mondo, ma il carcere non può essere la soluzione per tutti i mali. Il carcere è un’ignominia per tutti, colpevoli e innocenti, e dove non c’è un vero pericolo per la società è meglio non rinchiuderci nessuno. Bruno Turci Solidarietà fra le sbarre a Giancarlo Galan Chi ruba una mela fa galera, chi ruba miliardi fa carriera: è un detto popolare, uscito fuori quando nella Redazione di "Ristretti Orizzonti" abbiamo parlato dell’arresto dell’uomo politico che avevamo conosciuto qui nel carcere di Padova durante l’ultimo Congresso di "Nessuno Tocchi Caino" a dicembre del 2013. Ed è risultato che la stragrande maggioranza dei "giornalisti detenuti" (ed io fra quelli) a differenza dei suoi colleghi parlamentari, ha ritenuto non necessario il suo arresto e ha sottolineato con forza che "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva" (articolo ventisette della Costituzione). Noi non ci siamo però fermati solo alla solidarietà all’uomo arrestato e sbattuto in prigione, ma abbiamo anche criticato Giancarlo Galan che in passato ha fatto parte di un’alleanza e di un partito che, forse anche per scopi elettorali, hanno approvato molte leggi "carcerogene", che hanno finito per riempire le carceri di poveri, immigrati e tossicodipendenti. Adesso dispiace che Galan sarà costretto sulla sua pelle a constatare quanto squallore e quanta ingiustizia sociale ci siano nelle nostre Patrie Galere. Sarà costretto ad accorgersi che la cosa più brutta della prigione non è la mancanza di libertà, ma piuttosto che la tua vita dipende da altri, e tu devi per forza sottostare alle loro imposizioni, come l’assurda regola che puoi fare una sola telefonata a settimana, della durata di dieci minuti, ai tuoi famigliari. È difficile spiegare a un figlio o a una figlia certi incomprensibili divieti del carcere, come pure è difficile da spiegare che in uno Stato di Diritto a volte si pensi di punire una persona con il carcere preventivo ancora prima di saperla colpevole. Io non so se Giancarlo Galan sia innocente o colpevole, ma so per certo che è colpevole lo Stato italiano che consente che una persona sia messa alla berlina (insieme ai suoi familiari) prima di essere giudicata colpevole in nome del popolo italiano. Carmelo Musumeci Giustizia: il mantra giustizialista e la parola "assolto" di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 28 luglio 2014 Attenzione a queste due parole: assolto; assoluzione. Tra un po’ la macchina della nebbia informativa comincerà con i commi, i distinguo, i chiaroscuri, le eccezioni, i però, i tuttavia, le rettifiche, le correzioni, le ombre e le penombre per dire che no, "motivazioni della sentenza alla mano", Berlusconi non è stato davvero assolto, non è successo veramente che il giudice ha pronunciato le parole "il fatto non sussiste" e "il fatto non costituisce reato". Eccepiranno, scruteranno con attenzione ogni risvolto. Quella parola, "assoluzione", appare a loro così indigesta, così inaccettabile, che chiederanno alle parole dei giudici nelle loro sacrali "motivazioni" un appiglio per dimenticarla. Oggi sono scossi da un brivido di scoramento: "assolto". Domani faranno in modo che "assolto" sia cancellato dalla memoria collettiva, per imporre la loro verità colpevolista e forcaiola, i loro teoremi, le loro ossessioni giustizialiste. "Assolto": è bene imprimersela nella mente, questa parola. I professionisti della frittata rovesciata sono già pronti a vincere la battaglia delle parole. Assolto. Assoluzione. E così sia. È già successo con Giulio Andreotti e con la sentenza che lo ha assolto per associazione mafiosa dopo dieci anni dalla sua messa sotto accusa, dopo tonnellate di carte, di testimoni, di atti giudiziari tanto imponenti quanto incapaci di provare quello che i giudici hanno ritenuto non provato. Per cui, nel 2003, sentenza d’appello poi confermata in Cassazione, il giudice "assolve Andreotti Giulio" perché il fatto contestatogli "non sussiste". Non rimane niente del cuore delle accuse, i baci mafiosi, gli incontri segreti, al cinema con il boss, le fughe dagli alberghi palermitani. Niente, demolito, annichilito: alle 17 e 54 del 2 maggio del 2003 il presidente Salvatore Scaduti legge il dispositivo della sentenza in cui si dice che si procede all’assoluzione dell’imputato perché "il fatto non sussiste". Tutti i fatti successivi all’80, la carne viva del processo, non provati. Poi arriva l’ancora di salvataggio mediatica. Le "motivazioni". La "prescrizione" per i fatti prima dell’80. Prima dell’80: cioè tutti i presunti incontri con i mafiosi no, tutti i processi da aggiustare no. Ma la prescrizione "prima" sì. L’assoluzione, il cuore del processo, viene dimenticata, cancellata. E la macchina orwelliana della riscrittura della storia parte con il mantra: Andreotti non è stato assolto, non c’è stata assoluzione. Quelle parole pronunciate alle 17 e 54 del 2 maggio del 2003 ("il fatto non sussiste") buttate nel dimenticatoio per fare spazio ai nuovi dogmi del Ministero della Verità dei giustizialisti. E così adesso, sicuro. Sono già partiti i motori. Aspettando le benedette "motivazioni" si dice che Berlusconi sia stato assolto ma solo in virtù di una legge cambiata. Le parole "assolto" e "assoluzione" saranno cancellate dalla damnatio memoriae. Ricordarle adesso, prima che la macchina della riscrittura prenda velocità. Giustizia: Galan e la buffonata di votare un arresto di Filippo Facci Il Foglio, 28 luglio 2014 A proposito dei parlamentari che hanno spedito un collega in galera senza aver letto una riga sul suo caso. Poi ci sono quelli che "la Camera non deve entrare nel merito, deve solo stabilire se c’è fumus persecutionis": e come lo stabilisci, se non entrando nel merito? Come lo stabilisci, se non leggendo le carte per verificare se i magistrati abbiano rispettato la lettera della legge, se vi fossero, cioè, i noti presupposti per chiedere una carcerazione? La relazione della giunta per le autorizzazioni a procedere, retta da un bancario, è stata vergognosa per evasività sul caso Galan: "Non deve e non può la giunta sovrapporsi all’autorità giudiziaria nel valutare se la custodia cautelare sia necessaria o opportuna... Deve invece limitarsi a verificarsi se la coerenza logica tra fatti, riscontri e qualificazione giuridica conduca a formulare una richiesta di misura cautelare plausibilmente motivata". Una supercazzola. Questa in lingua italiana come in giuridichese è una supercazzola: con l’aggravante liquidatoria di aggiungere, poi, che "lo sviluppo investigativo e procedimentale non sembra affetto da fumus persecutionis". Stop, fine, avanti un altro. E i giornali e anche Libero si sono già divertiti a demolire le probabilità che uno come Giancarlo Galan possa effettivamente scappare (certo, oggi fanno delle carrozzelle velocissime) o possa ripetere il reato e inquinare le prove sotto cotanta pressione sociale. Si potrebbe aggiungere che l’inchiesta sul Mose è sostanzialmente terminata, dunque ogni cautela carceraria appare improbabile; che mettere in galera una persona alla fine di luglio, potente o stracciona che sia, equivale a lasciarla cuocere inutilmente per tutto agosto; che l’indisponibilità degli inquirenti ad ascoltare Galan offre il fianco al sospetto che preferiscano interrogarlo al fresco per ottenere il massimo. Per quale ragione gli abbiano rifiutato i domiciliari e l’abbiano spedito addirittura a Opera, a quasi 300 chilometri da Venezia, resta infine un altro mistero procedurale. Ma noi non dobbiamo occuparci di procedure, noi non dobbiamo entrare nel merito, dobbiamo solo stabilire se c’è fumus persecutionis: e come, con una perizia psichiatrica sui magistrati? Non sappiamo: mentre su quel che accade in Parlamento, in compenso, sappiamo tutto. Un tempo gli inquirenti spedivano alle camere una documentazione selezionata per motivare le proprie richieste di poter procedere o di fare arresti o anche solo acquisire tabulati; le posizioni dei singoli parlamentari venivano debitamente compilate a Milano se ne occupava il pm Gherardo Colombo ed era un lavoraccio, peraltro c’era la necessità di non scoprire troppo le carte di indagini che erano tutt’altro che concluse: persino Giovanni Falcone, quand’era direttore degli Affari penali in via Arenula, ebbe a lamentarsi che i pm spedivano richieste troppo striminzite. Ora i magistrati spediscono tutti i faldoni e arrivederci. Il documento su cui ha lavorato la giunta per le autorizzazioni a procedere, l’altro giorno, è un malloppo di 740 pagine (un compendio dell’ordinanza del gip) dove il problema di non poter procedere contro Galan viene posto a pagina 736: ma poi ci sono anche diciotto faldoni (18) che la giunta avrebbe dovuto esaminare. Il risultato, la sintesi, è stata la supercazzola di cui sopra: potete immaginare con quale coscienza i deputati abbiano espresso il loro voto di coscienza. Il resto lo sapete. Le assenze in Forza Italia, lo scrutinio inutilmente segreto, gli ordini di scuderia, il cinismo. Il piddino Davide Faraone, intervenendo a Omnibus su La7, ha involontariamente fatto capire di aver votato senza aver letto mezza carta, e seguendo soltanto le indicazioni di partito: ma così fan tutti, o quasi. L’autorizzazione all’arresto a questo punto va abolita, perché viene concessa in base a sondaggi che ormai sono a senso unico, sappiamo benissimo che aria tira e quanto i leader siano prostituiti agli umori popolari. L’arresto di Francantonio Genovese fu tra i casi più impressionanti, con la prima pagina dell’Unità a festeggiare le manette per un parlamentare del Pd: uno che, peraltro, era stato candidato già da indagato e che poi è diventato il trofeo di un torneo elettorale tra Renzi e Grillo. Qualcuno aveva letto mezza carta, anche tra i giornalisti? E qualcuno ebbe a capire perché pochi giorni dopo l’arresto, d’un tratto, le esigenze cautelari svanirono e lo mandarono a casa? Poi ci sono gli altri. A Nicola Cosentino andò come era già andata a Luigi Bisignani, a Luigi Lusi, ad Alfonso Papa: colpevoli anzitutto di un timing sfigato, di essere divenuti materia di scambio per alleanze in vista delle amministrative, per la tenuta del governo Monti, per baratti inutili sulla legge elettorale: un mercatone a scacchi. Nel caso di Alfonso Papa, la Lega si disse favorevole all’arresto e riuscì al tempo stesso a lasciare libertà di coscienza ai propri parlamentari: un caso di coscienza precettata. Ormai i parlamentari non fingono neppure più di averle lette, le carte: e i giornalisti tengono loro compagnia. Gli unici che le leggono sicuramente sembrano i soliti radicali, che pure, con un’acrobazia rimasta inspiegata, riuscirono a votare a favore delle manette per Papa: il cui arresto, oltretutto, fu poi giudicato illegittimo direttamente dal tribunale. Naturalmente c’è anche il caso di chi è stato risparmiato, vergogna: tipo il piddino Alberto Tedesco, che poi fu scagionato dalle accuse. Però, chissà: l’avessero arrestato, forse, non l’avrebbe fatta franca. La Casta, sapete. Sino a poco tempo fa si pensava che i voti sugli arresti dovessero essere segreti affinché la coscienza parlamentare potesse avere qualche rigurgito. Per Galan il voto è stato segreto, ma è finito dentro lo stesso. Assenze. Tradimenti. Coltellate alla schiena. Mancati ordini di scuderia. Che differenza fa. Padova: esame tossicologico sul detenuto suicida poche ore dopo l’interrogatorio del pm Il Mattino, 28 luglio 2014 Viene effettuato questa mattina l’esame esterno e un’indagine tossicologica sul corpo di Giovanni Pucci, il detenuto che si è tolto la vita nella sua cella poche ore dopo l’interrogatorio con il magistrato in merito ad una inchiesta sul carcere che lo vedeva indagato. L’indagine è stata affidata dal pubblico ministero Giorgio Falcone dalla dottoressa Rossella Snenghi. Il detenuto era accusato di corruzione e spaccio tra le celle del Due Palazzi. Era usato, almeno da quanto risulta dall’inchiesta, come pedina dalle guardie corrotte per portare la droga e non solo agli altri detenuti. Lui non dava nell’occhio visto che ogni giorno passava per le celle a portare il pranzo e la cena con il carrello. Ma oltre a pasta e carne arrivava dell’altro. Dai telefonini alla cocaina, bastava che i parenti pagassero le guardie carcerarie. Il pm Falcone ha aperto un’inchiesta in merito al suo suicidio, per trovare eventuali responsabilità. Va detto che Pucci, 44 anni, elettricista leccese, tossicodipendente si era macchiato di un omicidio orribile. Nel 1999 aveva ammazzato con un punteruolo una dottoressa in servizio al Servizio di guardia medica a Gagliano del Capo (Lecce). Era stato condannato all’ergastolo, ma poi la sua pena era stata ridimensionata a 30 anni. Sarebbe uscito dal Due Palazzi nel 2024. Ma queste nuove accuse in caso di condanna avrebbero prolungato la sua permanenza dietro le sbarre (attualmente era in una cella singola), ma da subito questi nuovi guai avrebbero portato alla sospensione dei permessi dei quali lui godeva, che mitigavano la sue permanenza nel penitenziario. Teramo: Sappe; agente positivo alla tubercolosi, l’ha contagiato un detenuto malato Il Centro, 28 luglio 2014 Un mese fa il sindacato aveva lanciato l’allarme, parlando della scarsa sicurezza, in ambito sanitario in cui erano costretti a lavorare gli agenti di Polizia penitenziaria del carcere di Castrogno, facendo proprio riferimento al caso di un detenuto malato di tubercolosi. E ora un sovrintendente della polizia penitenziaria positivo alla Tbc. Ne dà notizia Giuseppe Pallini, segretario provinciale del Sappe. Pallini constata che purtroppo il sindacato "aveva ragione a suo tempo nel denunciare che un detenuto era affetto da Tbc e che non erano state prese le dovute cautele a salvaguardia dell’incolumità degli operatori penitenziari e in particolar modo degli uomini della polizia penitenziaria, vicenda questa, rimasta ad oggi senza alcuna risposta da parte della direzione teramana. Oggi siamo venuti a conoscenza che un sovrintendente del corpo in servizio a Castrogno che aveva avuto contatti con il detenuto affetto da Tbc è risultato positivo al test cui sottoposto. Ci auguriamo che sia solo un caso isolato e che il restante personale, oltre cento unità tra poliziotti, operatori sanitari e del trattamento, che hanno avuto contatti nel tempo con il detenuto infetto, siano negativi al test, altrimenti ci troveremmo di fronte ad un’epidemia di portata catastrofica dai seguiti impensabili". Il Sappe ricorda poi che "da tempo denuncia una gestione poca trasparente e autoritaria in spregio di leggi e accordi da parte dei vertici dell’amministrazione penitenziaria regionale e locale, incuranti, delle precarie condizioni lavorative cui sono sottoposti le donne e gli uomini del corpo all’interno del penitenziario teramano da tutti riconosciuto come il più problematico e sovraffollato del centro Italia, tanto da spingerci a proclamare lo stato d’agitazione". Genova: Sappe; a Marassi detenuto si ferisce, la gestione della sicurezza va cambiata www.cittadigenova.com, 28 luglio 2014 "Un detenuto marocchino che si trova nel carcere di Marassi si è tagliato la pancia perché voleva andare in una cella singola. L’uomo, nonostante il poliziotto di turno tentasse di farlo ragionare, non ci ha pensato su e si è ferito. L’agente lo ha immediatamente soccorso in attesa dell’arrivo dei medici": così ha raccontato il segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo. "Episodi del genere si verificano quando ci sono elementi di contrasto con altri occupanti e c’è solo un poliziotto in sezione. Nella casa circondariale di Marassi in pochi giorni si sono susseguiti una serie di eventi che sono stati però tutti arginati. Inoltre il provveditorato regionale chiuderà e la gestione finirà a quello di Torino". "Riteniamo che non debba esserci un trasferimento altrimenti - conclude - ci sarà davvero da preoccuparsi per quanto riguarda la sicurezza, u ntema sul quale ci stiamo battendo senza avere adeguate risposte". Biella: progetti per avviare al lavoro i detenuti nei Comuni di Magnano e di Ternengo www.lanuovaprovincia.it, 28 luglio 2014 Grazie ai fondi regionali per l’inserimento dei detenuti ai lavori socialmente utili nelle amministrazioni comunali, i vari consiglieri di Fratelli d’Italia, attraverso delle interrogazioni, hanno proposto alle giunte di loro competenza l’assunzione dei carcerati. Tra i Comuni che hanno aderito presentando il progetto alla Regione ci sono quelli di Magnano e Ternengo. In sintesi, la Regione Piemonte si accollerà della spesa relativa al pagamento degli stipendi, invece il Comune dovrà provvedere al versamento dei contributi previdenziali. Nel caso specifico di Magnano, un detenuto verrà avviato al lavoro per un periodo della durata di 130 giorni lavorativi. Questa operazione costerà oltre 4.200 euro alla Regione, mentre il Comune ne dovrà sborsare solamente 1.200. Le sue mansioni, saranno simili a quelle dei cantonieri: pulizia strade, fossi e altri lavori manuali. "Sono molto soddisfatto che la maggioranza abbia accettato subito questo progetto - spiega il consigliere d’opposizione del Comune di Magnano di Fratelli d’Italia Corrado Giardino -. Noi, in tutte le realtà dove siamo stati eletti, cerchiamo di fare una giusta e costruttiva opposizione. Questa proposta ne dà ampiamente una conferma. Secondo noi, per un carcerato il fatto di trascorrere obbligatoriamente tutti i giorni dell’anno senza fare nulla è sicuramente distruttivo, soprattutto sotto il profilo psicologico. Grazie a questo progetto regionale, proposto dal nostro partito ai Comuni, i detenuti hanno la possibilità di reinserirsi pian piano nel tessuto sociale, e dal punto di vista economico, guadagneranno qualcosa. Ora - conclude Giardino, non resta che attendere che i progetti in questione vengano analizzati e messi in pratica". Teatro: fra Shakespeare e Pinocchio, gli spettacoli a Regina Coeli con i detenuti attori di Pietro Lanzara Corriere della Sera, 28 luglio 2014 "Quello che rimane" dal racconto nero di Tommaso Landolfi apre mercoledì 30 luglio la rassegna "Teatro a Righe". Eugenio Montale definì "Le due zittelle" di Tommaso Landolfi "uno dei maggiori incubi psicologici e morali della moderna letteratura europea". Un racconto nero che, mutato il titolo in "Quello che rimane", aprirà mercoledì 30 luglio il festival Teatro a Righe che l’associazione Artestudio allestisce con i detenuti o per loro nel carcere di Regina Coeli. Una putrida castità Lilla e Nena abitano in una borghese casa-prigione, succubi di una madre paralizzata ma dispotica. Con loro vive la scimmia Tombo, unico maschio e "debitamente castrato", che inscena blasfemi cerimoniali in un attiguo monastero. Chiara Condrò, Manuel Cascone ed Elisa Turco Liveri, attori esterni, firmano l’adattamento teatrale: "Una gabbia è il simbolo di un mondo malato, cupo, ammorbato da una putrida castità. In un linguaggio sarcastico e dissacrante, si snoda fino all’estremo sacrificio uno studio sottile di corpi e anime, fatto di sensazioni improvvide e impudiche". Pinocchio Alba Bartoli, direttore artistico della rassegna, firma la regia del "Pinocchio" prodotto da Artestudio in collaborazione con il gruppo Jesse James dei reclusi di Regina Coeli: "Recitano dodici detenuti, italiani e stranieri. Un ragazzo romano interpreta il burattino di Collodi, eternamente incapace di farsi adulto. Si aggiungono sei attori da fuori. Il mio Pinocchio corre sempre senza arrivare mai da nessuna parte, si muove senza sosta per sfuggire alle cose ordinarie della vita, insegue la sua fantasia e le sue curiosità. Si ferma solo alla fine stremato dal mare, dall’acqua dove si nasce. Un detenuto suona Chopin al piano, si sente una musica di ocarine. I materiali scenici sono poveri e semplici. Cartapesta, oggetti da gioco o da lavoro, gomitoli di lana. Un frac, una stoffa variopinta ed ecco il Grillo, il Gatto e la Volpe. Ho lasciato intatto il testo con i toscanismi e la gergalità. Come fece Carmelo Bene per il suo Pinocchio, il mio principale modello di riferimento. Per lui il rifiuto della crescita è la "conditio sine qua non" all’educazione del proprio "femminile". Shakespeare A interpretare liberamente Shakespeare, in "Antonio e Cleopatra secondo Ottaviano", sono ancora i detenuti. "Una tragedia di amore e guerra, di passione ed eroismo", sottolinea la regista Caterina Galloni, "nel segno del doppio determinato dal dualismo fra Occidente e Oriente". Roma e l’Egitto, Marc’Antonio sole e Cleopatra luna. I personaggi sono fabbricati di una materia regale ma peccano di ambiguità, divisi fra lussuria e dovere, lealtà e tradimento. Mai in Shakespeare l’aggettivo "royal" è stato così ripetuto e pregnante: non l’esteriorità di trono, scettro e corona, ma la ricerca dello spirituale e del sovrumano. Cleopatra è solo una "ragazza impareggiata" ma, appena Antonio muore, la nobiltà di lui trasmigra nel suo cuore capriccioso e sonnolento e ne fa una regina. Dall’Irlanda alla Sicilia Erica Muraca è autrice e interprete di "In-Veento", storia di una trentenne che non ha ancora trovato il lavoro e l’uomo giusto e prova a reinventarsi per realizzare i propri desideri. Gaetano Campo, che ha conosciuto l’esperienza di Rebibbia, rievoca la sua tormentata infanzia e adolescenza ne "Il garzone del macellaio", trasportando il romanzo di Patrick Mac Cabe dall’Irlanda alla campagna siciliana: fra confessioni, canzoni e poesie il piccolo Paolino si immerge in un mondo allucinato e disperato, crudele e familiare sognando un amico del cuore e qualche tavoletta di cioccolata. Omaggio a Ingeborg Bachmann "Blumen" è un omaggio alla scrittrice e giornalista austriaca Ingeborg Bachmann, morta a 47 anni a Roma dopo un incendio nel suo appartamento: "Tratta dalle sue poesie, è una performance sul tema dell’utopia", spiega la regista Maria Sandrelli, "alla maniera di una improvvisazione jazz. La tensione dell’indicibile e dell’impossibile nasce dagli appunti incerti trascritti su pezzetti di carta volanti: "Se la Boemia sta ancora sul mare, crederò di nuovo ai mari./ E se al mare credo ancora, spererò nella terra...". La vera poesia è semplicemente questo: le parole migliori nel migliore ordine. Racconti: i gatti di San Sebastiano e l’amore avvelenato di Antonina e Salvatore di Anna Segreti Tilocca e Silvia De Franceschi La Nuova Sardegna, 28 luglio 2014 Sassari, marzo 1912. Come tutte le domeniche, i detenuti di San Sebastiano possono ricevere un buon pasto dai parenti; è un via vai di piatti, ceste e vassoi con ogni ben di Dio. Anche Antonina aspetta quel giorno perché può vedere il marito Salvatore e gustare un buon piatto di pasta ben condita: verso mezzogiorno arriva l’uomo con una zuppiera avvolta in una tovaglia quadrettata, annodata a dovere per non disperdere il calore. Emana il profumo di casa e di quella libertà che per qualche mese ancora la donna non potrà respirare: è stata condannata per un furto compiuto quando era a servizio presso una ricca famiglia osilese. Si racconta che si era cucita nella sottogonna un bel po’ di banconote, ma, forse tradita dalla complice, il trucco era stato scoperto e la ladra denunciata. Antonina porta il piatto nel refettorio e annusa la pasta; ha un bel colore rosso e profuma di pecorino. Assaggia una forchettata, ma il sapore non è all’altezza delle aspettative: la pasta ha un retrogusto amaro, forse il formaggio è andato a male oppure il sugo si è irrancidito, "Custu mandhigu promeest unu velenu" (questo cibo per me è un veleno), pensa. Un sospetto si fa strada nella sua mente: il pensiero va a suo marito. Qualche anno prima l’uomo aveva avuto una relazione con una compaesana, relazione tanto scandalosa e sfacciata che Antonina lo aveva denunciato per adulterio; anche di fronte al paese voleva difendere la sua onorabilità; la tresca, forse favorita dalla lontananza forzata della moglie, continuava ancora, ora ne è sicura. Così Antonina avverte la guardia, che consegna la pasta al sanitario delle carceri, perché la analizzi e, nel caso noti qualcosa di strano, porti avanti i relativi esami per scoprire se quel saporaccio derivi da qualche veleno. Il medico, dopo aver messo in bocca un pezzettino di pasta, effettivamente sente un sapore amarissimo e decide di darne un pochino al gatto di turno: all’epoca infatti, i periti utilizzavano per i loro esperimenti preferibilmente gatti o conigli. L’animale mangia tutto di gusto e si lecca pure i baffi; poi viene rinchiuso in una gabbia e tenuto sotto osservazione. Dopo una bella dormita, si mette in piedi e miagola, perché vorrebbe uscire. Nessun veleno, sicuramente è proprio il pecorino andato a male. Passano poche domeniche e Antonina riceve "da fuori" una nuova prelibatezza: una testina d’agnello profumata e insaporita con mirto e alloro. Appena l’assaggia è costretta a sputare il boccone; questa volta il sapore amaro è troppo forte e la pietanza è immangiabile. Viene chiamato di nuovo il sanitario che, per non rischiare sulla propria pelle, gira il piatto al solito gatto che "divora" quella razione inaspettata. Questa volta, però, succede l’irreparabile e il medico non può fare altro che assistere, impotente, all’evolversi della situazione. Pochi istanti dopo la povera bestia comincia a lamentarsi miagolando forte, poi corre lungo le pareti della stanza, sbattendo da tutte le parti, come se non vedesse più. Si contorce e infine si irrigidisce con la testa reclinata all’indietro, nel disperato tentativo di respirare. L’agonia dura pochi minuti. È chiaro così, in Maniera inconfutabile, che quel cibo è stato effettivamente avvelenato; preleva dallo stomaco del gatto una parte delle viscere, dove in genere si concentrano le eventuali tracce di sostanze tossiche. Sospettando che la testina d’agnello sia stata abbondantemente condita con della stricnina, poiché i sintomi mostrati dal povero gatto sono gli stessi che provoca quel veleno, procede ad un esame più accurato. Dai suoi studi gli è noto che la stricnina intacca il sistema nervoso e il corpo viene scosso da crisi che assomigliano a quelle epilettiche; gli arti si irrigidiscono e qualche volta la vittima perde anche la vista, come sembra sia successo al gatto. L’analisi chimica successiva non lascia dubbi: si tratta proprio di stricnina. Questa volta il povero animale è stato sacrificato alla scienza e alla verità giudiziaria. A quel punto Antonina, conosciuti i risultati della perizia, è in grado di denunciare il fatto all’autorità giudiziaria, che apre un fascicolo per tentato omicidio; l’accusa è gravissima. Le indagini successive, e soprattutto i sospetti che la vittima designata non manca di riferire al giudice istruttore, portano ben presto a individuare il presunto colpevole o meglio i presunti colpevoli. Si viene infatti a sapere che il marito della detenuta e la sua amante vivevano nell’incubo della ormai prossima scarcerazione di Antonina che, una volta scoperto che la tresca durava ancora, non gliela avrebbe fatta passare liscia. llora i due avevano escogitato un piano, in apparenza ben congegnato, ingenuo per qualcuno ma affidabile secondo la loro ottica, per "risolvere" definitivamente il problema; in realtà quel disegno delittuoso faceva acqua da tutte le parti, dato che tutti sapevano della loro relazione. Se Antonina avesse mangiato quella testina d’agnello, non avrebbe avuto scampo; ma una morte del genere non sarebbe passata inosservata. E poi, come in realtà accadde, si poteva benissimo risalire a chi, quella domenica, aveva consegnato il pasto; la guardia incaricata di ricevere le pietanze, opportunamente interrogata, ricordò che gli si era presentata una bella signora sulla quarantina, ben vestita, che non ebbe difficoltà a riconoscere in una foto che gli mostrarono gli inquirenti. Il cerchio era ormai chiuso e mentre Antonina terminava di scontare la sua pena, i due amanti al contrario varcavano le porte del carcere. Tutti i giorni di festa l’uomo cominciò a ricevere una succulenta pietanza che qualcuno di buon cuore gli faceva recapitare e che lui naturalmente non assaggiava. Anche per lui - come dottamente sottolineò in udienza l’avvocato difensore nel processo per tentato omicidio - valeva il saggio avvertimento dato da Laocoonte ai Troiani, quando li aveva sconsigliati dall’accettare il famoso cavallo di legno che secondo lui nascondeva delle insidie: "Timeo danaos et dona ferentes" (temo i greci specialmente quando portano doni). Si racconta che per alcuni anni, quanti ne passò in carcere il detenuto, i gatti di San Sebastiano continuarono a ricevere una doppia razione proprio la domenica. Nessuno di loro ci lasciò mai la pelle, fortunatamente: i sospetti erano infondati. Immigrazione: Cie Roma; per due magrebini terzo giorno di protesta con bocche cucite Ansa, 28 luglio 2014 Terzo giorno consecutivo con le labbra cucite per i due giovani immigrati - un algerino e un tunisino - che protestano contro i tempi di permanenza nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria a Roma. A riferirlo è la direttrice della struttura, Floriana Lo Bianco. Il detenuto algerino, che ha 28 anni, dovrebbe presentarsi oggi davanti al giudice per il rinnovo della detenzione nel Cie dopo i primi 30 giorni e non è chiaro al momento se andrà con le labbra cucite. Entrambi gli immigrati protagonisti della protesta hanno precedenti penali e hanno ricevuto un decreto di espulsione dall’Italia. Droghe: Viale (Radicali): lo Stato dovrebbe produrre cannabis, sono più dannosi i divieti di Elvira Serra Corriere della Sera, 28 luglio 2014 Silvio Viale, medico ginecologo al Sant’Anna di Torino, dal 2010 al 2013 presidente dei Radicali italiani, sulla cannabis ha un approccio liberista. Perché? "Credo che i benefici di una legalizzazione siano superiori ai "malefici", mi viene da dire". Vantaggi da quale punto di vista? "Sociale, sanitario e, non ultimo, come ha evidenziato il New York Times, economico". Possibile? "Sì. Partiamo dall’ultimo: le risorse che si utilizzano per reprimere l’uso della canapa e dei suoi derivati sono enormi e hanno dato finora risultati minimi, senza peraltro fermare il fenomeno". In quale modo la legalizzazione può avere benefici sul piano sanitario? "Intanto undici regioni d’Italia si sono pronunciate a favore dell’uso terapeutico della cannabis. Tuttavia per questo scopo bisogna importarla dall’estero, mentre il nostro Paese sarebbe perfettamente in grado di produrne di ottima qualità: già succede in un laboratorio del Veneto, dove viene impiegata per fare sperimentazioni e poi distrutta. Sarebbe molto meglio se l’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze potesse produrla, garantendone l’origine e la giusta quantità dei principi attivi". Lei ha parlato anche di conseguenze sociali positive. "Legalizzare il mondo della marijuana significa rendere più consapevoli i consumatori. Lo dico senza aver mai fumato neppure tabacco. Penso però che un divieto sia più dannoso. Peraltro, non si capisce come mai l’alcol e le sigarette siano legali pur essendo altamente nocive per la salute: anche in questi casi, siamo passati dal proibizionismo al liberismo". Molti si preoccupano per l’eventuale rischio di un passaggio dalle droghe cosiddette leggere a quelle pesanti. "Ed è una bufala. Quando vado al Sert vedo eroinomani che hanno cominciato direttamente con l’eroina". Resta l’argomento della pericolosità per gli adolescenti. "Esistono studi molto recenti che tendono a non dare più certezze, ma ipotesi. La verità è che la controprova sull’uomo non esiste: a parità di intelligenza, non sappiamo quali eventi della tua vita determineranno la persona che sarai a sessant’anni". Stati Uniti: l’appello del New York Times "marijuana libera… basta proibizionismo" di Arturo Zampaglione La Repubblica, 28 luglio 2014 La campagna del quotidiano si rivolge al governo "Fa meno male dell’alcol, il divieto dell’erba ha costi sociali troppo alti, rivedete la legge". "Abroghiamo di nuovo il Proibizionismo": con questo appello rivolto ieri al governo federale e al mondo della politica, il New York Times si è schierato ufficialmente a favore della legalizzazione della marijuana a livello nazionale, aprendo così una grande campagna per cancellare le norme che, approvate ai tempi di Richard Nixon, hanno provocato negli ultimi quarant’anni - secondo il più celebre quotidiano americano - "gravi danni alla società nel vietare una sostanza molto meno pericolosa dell’alcol". La svolta del New York Times è riassunta in un lungo editoriale firmato dal board, cioè dal comitato che decide sulla linea del giornale e ne ispira le scelte politiche. Illustrato da una vignetta in cui si le stelle della bandiera americana si trasformano in foglie di cannabis , il documento paragona la situazione attuale al periodo buio del Proibizionismo dal 1920 al 1933: "Ci vollero 13 anni prima che gli Stati Uniti tornassero a essere lucidi e abolissero le norme anti-alcol. E durante quei tredici anni la gente continuò a bere, gli onesti cittadini divennero fuorilegge e le organizzazioni criminali fecero fortuna". Le attuali leggi anti-droga sono così vecchie che la dizione è quella di " marihuana". Furono votate all’unanimità nel 1970 in un clima di passioni ideologiche e irrazionali. Durante il dibattito parlamentare un senatore tirò fuori un pacchetto dicendo che conteneva tremila dollari di marijuana e che avrebbe provocato "terribili allucinazioni", le stesse che avevano spinto un sergente a puntare un mortaio contro i suoi stessi soldati in Vietnam. Ma quelle norme hanno oggi costi immensi: 658mila americani sono stati arrestati nel 2012 per possesso di spinelli, quasi il triplo rispetto ai 256mila arresti per cocaina, eroina o altre droghe pesanti. E a farne le spese sono soprattutto i giovani afroamericani, che finiscono in carcere con più frequenza creando una generazione di "criminali di carriera". "Il divieto va eliminato", sostiene dunque il New York Times , che suggerisce al ministro della Giustizia di togliere subito la cannabis dall’elenco ufficiale degli stupefacenti, dove è considerata persino più pericolosa della cocaina, e al Congresso di varare una legge ad hoc che responsabilizzi i vari Stati, regolamenti la produzione e distribuzione della marijuana, e la vieti ai minori di 21 anni. "Siamo arrivati a questa conclusione dopo una lunga discussione all’interno", osserva il board del quotidiano, che pubblicherà nei prossimi giorni vari servizi sull’argomento, in particolare sugli effetti per la salute e sulle implicazioni giudiziarie, mentre oggi alle 4 e 20 pomeridiane - numero simbolico perché in America identifica tradizionalmente i consumatori di droghe leggere - Andrew Rosenthal, responsabile della pagina editoriale, avvierà su Facebook un dialogo con i lettori. "Non ci sono risposte perfette alle preoccupazioni legittime sull’uso della marijuana ", nota l’editoriale. "Ma tali certezze non esistono neanche nel caso del tabacco e dell’alcol, e comunque, soppesando le varie argomentazioni sulla salute, l’impatto sulla società e i rischi sulla criminalità, l’ago della bilancia finisce sicuramente dalla parte della legalizzazione". La campagna anti-proibizionista del New York Times si inserisce in un quadro di rapido mutamento di leggi e atteggiamenti in tutti gli Stati Uniti. Più di venti Stati americani hanno già approvato l’uso terapeutico della marijuana : uno degli ultimi è stato proprio quello di New York. A seguito di referendum, nel Colorado e nello stato di Washington è permesso lo spinello ricreativo e sono stati aperti vari negozi specializzati, aprendo così un business promettente. Altre consultazioni in favore della liberalizzazione sono previsti in autunno nell’Oregon e in Alaska. Nel distretto federale di Washington il possesso di piccole quantità di droga è punito con una multa di appena 15 euro. E la maggioranza degli americani è ormai in favore della legalizzazione della cannabis : 54 per cento, secondo un sondaggio di Pew, che sale al 69 per cento nelle fasce giovanili. Ma a dispetto di questi trend, avverte l’appello del Times, è poco probabile, per ragioni di calendario dei lavori e di orientamento politico, che l’attuale Congresso cambi la legislazione: tutto sarà deciso dal prossimo parlamento, mentre la legalizzazione diventerà uno dei temi centrali delle elezioni di mid-term di novembre. Belgio: disintossicarsi dalla violenza… terapia di gruppo per uomini che odiano le donne di Cristiana Pulcinelli L’Unità, 28 luglio 2014 Invece del carcere o degli arresti domiciliari i condannati possono scegliere i centri di recupero. In Italia, invece l’unica strada è quella penale. Cancrini: è ora di cambiare. Riguarda un tema caldo e su cui, almeno qui da noi, si lavora ancora troppo poco: la violenza all’interno della famiglia. L’esperienza riguarda un’associazione senza fini di lucro, Praxis, che nella parte francofona del Paese ha messo in piedi numerosi gruppi di responsabilizzazione per aiutare gli autori di violenza coniugale e familiare. La cosa più interessante è che questa terapia di gruppo è considerata una misura giudiziaria alternativa. In sostanza, invece del carcere o degli arresti domiciliari, l’autore di atti di violenza contro il coniuge o i membri della sua famiglia può essere indirizzato a Praxis e lì seguire un percorso terapeutico che si svolge in gruppi. Tutto nasce nel 1994, quando in Belgio viene approvata una legge sull’organizzazione delle misure giudiziarie alternative. Praxis propone un progetto per gli autori di violenze associate al consumo di sostanze psicotrope. Il progetto di formazione socio-educativa di gruppo per un totale di 45 ore viene accettato. Dall’anno successivo si comincia a lavorare. Alla fine degli anni Novanta, però, gli operatori si accorgono che una buona percentuale (il 34%, per la precisione) dei partecipanti ai gruppi per gli autori di reati associati al consumo di prodotti psicotropi ha commesso atti di violenza coniugale o familiare. Così si decide di orientare l’offerta di servizi anche a queste persone, a prescindere dall’abuso di sostanze stupefacenti. Nel 2001 nasce il primo gruppo e oggi la terapia si rivolge a "gruppi di responsabilizzazione per autori di violenze coniugali e familiari". Un altro passaggio critico avviene nel 2004 quando, grazie a una sovvenzione del ministero federale per le pari opportunità, si dà il via a una sperimentazione che apre i servizi ai volontari. Il gruppo non è più formato solamente da coloro che vengono mandati dalle autorità giudiziarie, ma anche da persone che si rivolgono autonomamente al centro o per una presa di coscienza individuale, oppure in seguito a una crisi acuta (ad esempio l’intervento della polizia), o ancora sotto la minaccia di separazione da parte del partner che gli intima di occuparsi del problema. Nel 2011 Praxis ha preso in carico più di mille autori di violenza, 837 sotto mandato giudiziario, 272 volontari. Ogni settimana si riuniscono 13 gruppi aperti (ogni gruppo è formato da 9 partecipanti) e 10 gruppi chiusi, dove si svolge un lavoro più intensivo. L’équipe si compone di 19 animatori formatori, per lo più psicologi e criminologi. Secondo la filosofia dell’associazione, ogni persona viene accolta come persona degna di rispetto, a prescindere dalla sua storia. Il percorso si snoda poi a partire da una domanda chiave: qual è la mia parte di responsabilità per quello che mi accade? Il lavoro viene svolto in gruppo perché la violenza isola: isola le donne, i figli, ma anche l’uomo che la commette. Il lavoro di gruppo reintroduce la dimensione collettiva in una dinamica che porta all’esclusione, dicono gli operatori di Praxis. Per capire l’esperienza belga, cerchiamo di vedere cosa succede in Italia: "Una donna che subisce violenze domestiche - dice Luigi Cancrini - ma che ha un certo potere economico e sociale si può rivolgere ad avvocati, farsi aiutare. Ma nella maggior parte dei casi, la donna non ha questi strumenti e così abbozza per anni per paura che, denunciando il partner, possa perdere la sua fonte di sostentamento. O anche per paura che una sua ribellione, ad esempio rivolgersi alla polizia, possa portare a nuove violenze, una volta tornata a casa. Quando riesce a superare queste paure, va in un centro di aiuto per donne maltrattate e, nei confronti del marito, si apre un’azione penale. Purtroppo questa azione penale si sviluppa normalmente in 3-4 anni e, nel frattempo, nell’uomo cresce la rabbia e il risentimento". L’unica azione possibile da noi è quindi quella penale. Una misura alternativa costerebbe enormemente meno rispetto al carcere e sarebbe effettivamente rieducativa. Anche rispetto agli arresti domiciliari presenterebbe un vantaggio: quello di occuparsi delle persone e del loro malessere. "Senza contare - prosegue Cancrini - che permetterebbe altre evoluzioni importanti soprattutto per i bambini". Iran: 10 detenuti impiccati a Birjand, prigionieri condannati alla lapidazione a Qaemshahr da Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana www.ncr-iran.org, 28 luglio 2014 Il regime dei mullah ha impiccato 10 detenuti, tra i quali quattro donne, nella prigione centrale della città di Birjand il 20 e 21 Luglio. Otto di loro sono stati giustiziati con un’impiccagione collettiva domenica notte 20 Luglio. Nel frattempo, il procuratore capo della città di Qaemshahr sembra abbia condannato un uomo di 32 anni ad essere giustiziato due volte, una per impiccagione e un’altra per lapidazione, oltre a dover scontare 15 anni di prigione. In questi giorni, la pena disumana della fustigazione è stata applicata in almeno nove casi: nelle città di Kermanshah, Shiraz e Babolsar. Con un altro atto brutale il 14 luglio, a Majidieh Street a Teheran, ad un cristiano sono state bruciate le labbra con la sua sigaretta e poi è stato selvaggiamente picchiato dagli agenti del regime dei mullah. Il trend in crescita delle esecuzioni arbitrarie (800 esecuzioni registrate nel primo anno di presidenza del mullah Rouhani) e di altre pene medievali, tradisce l’illusione di "moderazione" del regime dei mullah. Questo è un regime che crollerebbe velocemente se mettesse fine alle esecuzioni, alla repressione e ai massacri. Marocco: re Mohammed VI grazia 227 detenuti per la fine del Ramadan Nova, 28 luglio 2014 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha graziato 227 detenuti marocchini in occasione della festa della fine del Ramadan, che a Rabat si festeggia domani. A godere di questa grazia sono soprattutto detenuti la cui pena volgeva verso la conclusione, i quali saranno immediatamente scarcerati.