Giustizia: il ruolo della magistratura, nuovo attore del sistema politico di Piero Ostellino Corriere della Sera, 22 luglio 2014 L’assoluzione in Appello di Silvio Berlusconi per il caso Ruby non è stata una sorpresa, come i media l’hanno presentata, né un atto di giustizia, come si illude la destra. È stata un atto di Realpolitik da parte di una magistratura che pare sapere sempre quanto le convenga fare, e dire, per mantenere e consolidare il proprio potere. Non è stata un successo della Giustizia, ma un compromesso parapolitico maturato nelle particolari circostanze di una lotta di potere non regolata. Se Berlusconi fosse stato condannato anche in Appello, probabilmente ci sarebbe stata una reazione da parte dell’area cosiddetta moderata; reazione che, delegittimandola, avrebbe ridotto non solo l’autorità istituzionale, ma anche il potere politico di cui la magistratura dispone; avrebbe provocato un rivolgimento parlamentare, del quale anche il presidente della Repubblica avrebbe dovuto prendere atto, sciogliendo le Camere, indicendo nuove elezioni. Che nessuno vuole perché potrebbero vincerle "gli altri", più propensi a fare le riforme, compresa quella della Giustizia. Berlusconi potrebbe essere stato assolto non solo perché le ragioni della condanna precedente non stavano in piedi in punta di diritto, ma anche perché la sua assoluzione era "conveniente" al mantenimento delle cose come stavano. Sarebbe, però, fuorviante dedurne che l’accaduto sarebbe il frutto di un tacito accordo fra il Cavaliere e Renzi. Per cercare di ipotizzare come sono andate effettivamente le cose occorre provare a chiedersi come funziona il nostro sistema politico dopo che potere legislativo e potere esecutivo hanno di fatto delegato il potere giudiziario a esercitare un ruolo che costituzionalmente spetta loro; occorre partire dalla constatazione che la magistratura o, almeno, la parte più dinamica di essa, non è più - come era stata con la fine della Prima Repubblica, dopo la scomparsa dei partiti ad eccezione del Pci, e la discesa in campo di Berlusconi - un organismo al servizio, più o meno diretto, di una sinistra che non ce l’aveva fatta e non ce l’avrebbe mai fatta, da sola, a vincere le elezioni e a governare il Paese. Con il governo Renzi - nato a sinistra, ma sostenuto in Parlamento da una destra sempre più restia a farlo - la magistratura è in una botte di ferro. Si è liberata dell’ipoteca di essere il braccio giudiziario della sinistra, può influenzare il sistema politico in modo del tutto autonomo attraverso le sole sentenze anche se non è dato sapere se calcolate, come si insinua da destra, o casuali, come si sostiene a sinistra; non subirà la riforma di un sistema giudiziario che le riconosce una spropositata e invasiva discrezionalità. La magistratura è in gran parte, soprattutto se di sinistra, una corporazione come tante che - con buona pace della distinzione e separazione dei poteri - fa i propri interessi operando nel e sul sistema politico senza mandato popolare e non pagandone i costi. La sinistra - una forza conservatrice, erede del corporativismo organicista fascista - non ha più bisogno dell’aiuto della magistratura per vincere elezioni; è in grado di vincerle, anche a prescindere dalla carenze della destra, con i soli propri mezzi e di governare con l’appoggio di qualche opportunista. Le elezioni la sinistra le ha vinte con Renzi - che si è alleato con Berlusconi e che, da Berlusconi, si è persino truccato. Il governo Berlusconi, di destra, quanto a non attuare le riforme pur fingendo di volerle, non era stato da meno del governo Renzi, di sinistra. Renzi è funzionale al corporativismo come lo erano stati i governi del Cavaliere. Le maggiori corporazioni garantiscono lunga vita al furbo ragazzotto fiorentino a condizione che non tocchi nulla; perciò Renzi ne parla molto, fa poco e conta su quegli italiani che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, coltivano la speranza in un "avvenire luminoso". Che la sinistra promette, a parole, quando è all’opposizione; non realizza quando va al potere. Le vicende giudiziarie di Berlusconi di questi giorni sono emblematiche del conservatorismo che grava sul funzionamento del sistema politico-istituzionale. Prima, c’è stata la condanna "esemplare" ad uso dei giustizialisti di destra e di sinistra; poi, l’assoluzione parimenti "esemplare" ad uso di pochi garantisti di ogni partito. In modo da accontentare tutti e fare in modo che tutto restasse come prima. Giustizia: l’allarme del governo sulla riforma "più difficile dopo la sentenza Ruby" di Liana Milella La Repubblica, 22 luglio 2014 Per natura vorrebbe essere ottimista, il Guardasigilli Andrea Orlando, quando gli si chiede che fine farà la riforma della giustizia, i famosi 12 punti, dopo la vittoria di Berlusconi al processo Ruby. Puntiglioso come sempre risponde che lui "dall’inizio di settembre è pronto a presentare i singoli articolati in consiglio dei ministri". Ma poi, a insistere, chi l’ha sentito da venerdì 18, il giorno dell’assoluzione, a oggi, non può che raccogliere la preoccupazione di chi, con una lunga esperienza politica alle spalle, non può che vedere le ovvie difficoltà connesse alle "nuove pretese" dei berlusconiani. Segnali non equivoci, come quelli lanciati dal capogruppo alla Camera, nonché falco Brunetta, con la commissione d’inchiesta contro i giudici, fornisce l’antipasto di uno scontro inesorabile. Che potrebbe mettere in discussione anche la tenuta degli alfaniani nella maggioranza qualora si registrasse davvero un effettivo avvicinamento alla casa madre berlusconiana. Il vice ministro della Giustizia, l’Ncd Enrico Costa, smentisce, si dichiara "pienamente ottimista, perché sono convinto che questo governo riuscirà a fare quello che fino a oggi non è mai stato neppure tentato". Già, ma in che direzione? Verso una stretta nei confronti dei giudici oppure verso una marcia indietro rispetto alle antiche leggi berlusconiane ad personam, prime fra tutte il falso in bilancio? Non vuole turbare gli equilibri sulle riforme, il cui futuro ovviamente s’intreccia con quello della giustizia, ma Orlando è convinto che su questioni da sempre "divisive" - come la responsabilità civile, il falso in bilancio, le intercettazioni, ma anche la riforma del sistema elettorale del Csm, la sua composizione, i suoi poteri, il destino dalla famosa sezione disciplinare - "la ricerca del dialogo con i berlusconiani potrebbe presentare delle sorprese perché loro potrebbero alzare il tiro delle richieste". Orlando non si aspetta che torni addirittura sul tavolo la ben nota richiesta di separare le carriere dei giudici da quella dei pubblici ministeri, un cavallo di battaglia della propaganda anti-magistrati del governo Berlusconi, ma il leader di Forza Italia, soprattutto dopo l’assoluzione di Milano, non può restare a guardare mentre il ministro Guardasigilli va avanti su una riforma "soft" della responsabilità civile (vedasi il testo pubblicato da Repubblica martedì 15 luglio) in cui viene cancellata l’ipotesi di una colpa "diretta" in cui la toga può essere citata da una presunta vittima di una presunta ingiustizia senza lo scudo dello Stato. Non è certo un caso se, da subito, dentro Fi è partito lo slogan "adesso chi paga", prodromico a battersi per mantenere a tutti i costi il testo passato alla Camera grazie all’emendamento di Gianluca Pini nella legge Comunitaria che ipotizza proprio la responsabilità diretta. Sì, non si fa illusioni Orlando sul suo agosto di fuoco e sul suo autunno decisamente caldo. I 12 punti della riforma - ormai vecchi del consiglio dei ministri del 30 giugno - stanno pian piano diventando altrettante "fette" della torta della giustizia pubblicata nel sito www.giustizia.it. Civile e manovra antimafia, con tanto di falso in bilancio, ma nelle mail che arrivano a via Arenula già si chiede "quando separerete le carriere". E non siamo ancora arrivati alle proposte pubbliche sulla responsabilità civile e soprattutto sulle intercettazioni. Lì, con Forza Italia, saranno dolori. Per questo è in atto un attento studio della tabella dei tempi per evitare intralci evidenti con le riforme costituzionali. Non è certo un caso se, pur esistendo già un testo pronto, si ritarda la pubblicazione dei materiali sulla responsabilità civile. Un vero agguato, perché se si cominciasse a discutere di questo mentre si cerca di barcamenarsi tra gli 8mila emendamenti della riforma costituzionale, si rischierebbe davvero di perdere l’appoggio di Forza Italia. Orlando, che pure dice sempre di essere pronto su qualsiasi questione anche dal giorno dopo, sulla responsabilità frena. E in commissione Giustizia, col vice ministro Costa che segue il provvedimento, il governo è intenzionato a chiedere uno slittamento della discussione a settembre. Ufficialmente, perché prima bisogna discutere "col popolo della rete". In realtà perché lo scontro è dietro l’angolo. I berlusconiani vogliono che i magistrati paghino salato, in termini economici, l’errore giudiziario, frutto di una forzatura con le manette o con la contestazione di un fatto delittuoso, e che finisca la libera interpretazione della legge da parte del giudice. Dal loro punto di vista, "chi ha messo in piedi il processo Ruby per una ragione chiaramente politica, cioè far cadere Berlusconi da palazzo Chigi, adesso deve pagare per averlo fatto". Una tesi che non passerà, perché in questi termini non esiste in alcun Paese, ma che è lì, dietro l’angolo, pronta a deflagrare in Italia. Un ostacolo dietro l’altro, visto che sulla giustizia Fi e Pd sono lontani. Inconciliabile la posizione sulla intercettazioni, se Fi vuole il doppio bavaglio per pm e giornalisti, e il Pd non vuole, e non può, toccare il potere di intercettazione, ma è pronto a un compromesso sostanziale sullo stop alla pubblicazione libera dei testi. Scontro al fulmicotone anche per prescrizione e falso in bilancio, due medaglie che Berlusconi si appunta sul petto per le antiche modifiche. Prescrizione corta con la ex Cirielli. Falso in bilancio cortissimo (due anni di pena) con la legge del 2001. Adesso la prospettiva di una prescrizione bloccata al primo grado terrorizza Forza Italia, che già si vede addosso processi che non finiranno mai. Allarme identico per un falso in bilancio intercettabile se punito fino a 5 anni (questo è il discrimine) che rischia di provocare inchieste e processi. Un compromesso, finora, non è alle viste. Come per il Csm, dove lo stesso Orlando ammette che "ci si sta ancora lavorando". Ma sorteggiare le toghe da eleggere, come vorrebbe Fi, verrebbe accettato solo da chi, nella magistratura, contesta le correnti organizzate, come quelli di Proposta B. Per ora tutto si ferma, con Forza Italia che affila i coltelli e Orlando che usa il web per evitare di giocare sempre in difesa. Giustizia: via al duello sulla riforma... ma il Pd adesso frena di Valerio Spigarelli Il Garantista, 22 luglio 2014 Esistono tutte le condizioni per avviare una riforma vera però serve coraggio. e invece sulla responsabilità civile già si vedono passi indietro L’assoluzione di Berlusconi, decisa dalla Corte d’Appello, sembra destinata a produrre conseguenze politiche a prescindere dalla conclusione definitiva dell’ iter giudiziario. Amici ed avversari dell’ex premier sembrano consapevoli del fatto che una decisione come quella della Corte milanese sgombera il tavolo della discussione sui rapporti tra politica e magistratura perché scongiura la fine politica e civile di un leader per via giudiziaria. Allora, evitata l’ennesima crisi nei suoi rapporti con la magistratura, la politica potrebbe "approfittare della temporanea pax giudiziaria per far confluire il tema giustizia in quella della riforma dello Stato che pure tra mille difficoltà sta affrontato. Il Pd potrebbe approfittare dell’effetto della sentenza milanese per aprire un dibattito costituente al suo interno, al fine di isolare coloro che in quel partito, ormai in minoranza, continuiamo a credere nella "soluzione giudiziaria". E comunque, pur senza arrivare a tanto basterebbe che la politica sapesse trarre insegnamento dalla vicenda per fare in modo che almeno la "controriforma" della giustizia venisse bloccata. Appena conclusa la lettura del dispositivo della sentenza che ha assolto Berlusconi, la prima domanda che si sono posti i commentatori è quella che riguarda gli effetti che può avere sulle cose della giustizia. Al di là della possibilità che questa decisione venga in seguito impugnata dalla Procura Generale avanti alla Corte di Cassazione, l’esito favorevole del processo Ruby, infatti, sembra destinato a produrre conseguenze politiche a prescindere dalla conclusione definitiva dell’iter giudiziario. Insomma, amici ed avversari dell’ex premier sembrano consapevoli del fatto che una decisione come quella della Corte milanese sgombera il tavolo della discussione sui rapporti tra politica e magistratura perché scongiura la fine politica e civile di un leader per via giudiziaria. Il che sarebbe avvenuto con certezza, posto che una eventuale conferma della severissima, e discutibile, decisione di primo grado, avrebbe potuto aprire, sul serio, le porte del carcere all’ex premier. Ed allora, evitata l’ennesima crisi nei suoi rapporti con la magistratura, la politica potrebbe approfittare della temporanea pax giudiziaria per far confluire il tema giustizia in quella della riforma dello Stato che pure tra mille difficoltà sta affrontato. Magari approfittando anche della riproposizione, nell’agenda politica, di alcune proposte di modifica del modello costituzionale della giustizia, come quelle che il Ncd (nuovo centro destra) si appresta ad avanzare attraverso una legge di iniziativa popolare. Proposte che riprendono il disegno di legge Alfano, presentato nel corso della vita dell’ultimo governo Berlusconi, rispetto alle quali ben difficilmente Forza Italia si potrebbe sottrarre ad un confronto. Sull’altro versante anche il Pd potrebbe approfittare dell’effetto della sentenza milanese per aprire un dibattito costituente al suo interno, al fine di isolare coloro che in quel partito, ormai in minoranza, continuiamo a credere nella "soluzione giudiziaria" e non si rendono conto si deve tornare ad un paese nel quale è la politica che fa leggi, senza farsele dettare dalla magistratura. Ma non solo. Pur senza arrivare a tanto basterebbe che la politica sapesse trarre insegnamento dalla vicenda per fare in modo che almeno la "controriforma" della giustizia venisse bloccata. A tutti quelli, e sono tanti in questi ultimi mesi tra i politici e i magistrati, che hanno invocato a gran voce l’abolizione dell’ appello, oppure il blocco della prescrizione con la sentenza di condanna di primo grado, si dovrebbe infatti chiedere cosa sarebbe successo se queste proposte fossero già passate. Un imputato, ingiustamente condannato in primo grado, come tanti altri come lui, sarebbe stato privato della possibile revisione nel merito della condanna. Ovvero, e quantomeno, un imputato condannato in primo grado sarebbe stato destinato a veder rivalutata la decisione in tempi irragionevolmente lunghi, posto che il blocco della prescrizione produce un inevitabile slittamento dei tempi di fissazione del processo. Ecco, anche solo traendo dalla vicenda questi esempi, il dibattito se ne avvantaggerebbe, speriamo che abbiano il coraggio di aprirlo. Giustizia: alla Camera via alla discussione generale sul decreto detenuti Adnkronos, 22 luglio 2014 Ha preso il via in aula alla Camera la discussione generale sul decreto detenuti, che contiene anche disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Sono circa 120 gli emendamenti depositati ieri mattina nell’Aula della Camera al Decreto Detenuti, 89 sono stati presentati dalla Lega Nord. Molteni (Lega): governo introduce reddito minimo di delinquenza "Il governo si appresta a varare l’ennesimo svuota carceri, il quinto indulto mascherato per garantire impunità nei confronti dei criminali. Con questo decreto l’esecutivo intende garantire una paghetta per chi è in carcere introducendo il reddito minimo di delinquenza per i criminali". Lo afferma il capogruppo della Lega Nord in commissione Giustizia della Camera, Nicola Molteni, relatore di minoranza al dl detenuti. "Governo e maggioranza - aggiunge - trovano otto euro al giorno per i detenuti ma non li trovano per gli esodati, per i cassaintegrati e per i pensionati. Trovano 240 euro al mese per i delinquenti ma non trovano le risorse per le forze dell’ordine, a cui hanno tagliato un miliardo e mezzo di fondi. Questo governo tratta come eroi delinquenti e clandestini e come farabutti e mascalzoni i poliziotti. Noi, al contrario, stiamo dalla parte dei cittadini onesti e delle forze dell’ordine, e lo facciamo chiedendo più sicurezza e più ordine pubblico. Uno Stato che si preoccupa esclusivamente di chi sta in carcere, anziché tutelare i cittadini onesti, è uno stato complice dei criminali", conclude Molteni. Giustizia: Ucpi; intollerabile 8 euro risarcimento, pronti a protesta ferma se via appello Ansa, 22 luglio 2014 Il decreto legge che prevede risarcimenti per i reclusi ristretti nelle carceri in condizioni inumane "produrrà effetti opposti, addirittura ingiuriosi, nei confronti della collettività detenuta, se non sarà modificato in fase di conversione". L’allarme viene dall’Unione delle Camere penali. "Se già è avvilente pensare di fissare nell’irrisoria cifra di 8 euro al giorno o di un giorno di sconto per ogni dieci di detenzione il risarcimento per essere stati ammassati come rifiuti umani in quelle discariche sociali che sono le carceri italiane, diventa intollerabile l’idea che questo possa essere il prezzo anche di atti classificabili come tortura", affermano i penalisti, sottolineando la loro opposizione. Su questo gli avvocati sono pronti alla protesta "più ferma", ed è quello che faranno anche "se, come già sta avvenendo per quanto riguarda la marcia indietro sulla custodia cautelare con la modifica della norma che voleva finalmente marcare una inversione di tendenza inibendo il carcere, e solo il carcere, di fronte a pene suscettibili di futura sospensione in sede esecutiva, si tradurranno in iniziative concrete i propositi di riforma dell’appello e della prescrizione". "La politica - ammonisce l’Ucpi - dovrebbe imparare almeno dalla cronaca: se le proposte di abrogare, o comunque ridimensionare, l’appello e di bloccare la prescrizione al primo grado di giudizio fossero già state attuate, tutte le affermazioni di questi giorni sulla bontà del nostro sistema giudiziario sarebbero rimaste nell’armadio della demagogia, perchè il processo in appello a Berlusconi non sarebbe stato celebrato. Riformare il sistema - concludono i penalisti - significa farlo progredire non riportarlo all’Ottocento". Giustizia: Fava (Antimafia); il "Protocollo farfalla" è ripreso da convenzione Dap-Servizi di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com, 22 luglio 2014 "Il protocollo farfalla esiste abbiamo la prova documentale". A dirlo è stato il vice presidente della Commissione antimafia, Claudio Fava, intervenuto al convegno conclusivo della tre giorni di commemorazioni per le stragi di via d’Amelio. Dichiarazioni importantissime se si considera che si tratta di uno degli oggetti più oscuri che avrebbe regolato i rapporti tra i servizi segreti e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Un accordo segreto, all’insaputa dell’autorità giudiziaria, creato apposta per regolare il flusso delle informazioni provenienti dai boss mafiosi reclusi in regime di 41 bis e che permetteva ai rappresentanti dei servizi di entrare ed uscire dalle carceri senza lasciare traccia. Affermazioni, quelle del vice presidente ex Sel (oggi al gruppo Misto, ndr) che ribaltano quanto dichiarato in passato dal Presidente, Rosy Bindi. Era lo scorso marzo, quando la Commissione Parlamentare antimafia si trovava a Palermo per audire i magistrati della Procura di Palermo in seguito alle minacce subite dagli stessi (tra cui anche quegli ordini di morte di Riina proclamati dal carcere di Milano, ndr), il Presidente Bindi aveva escluso l’esistenza del protocollo farfalla rispondendo così ad una domanda del nostro direttore Giorgio Bongiovanni: "Per quel che ci riguarda abbiamo fatto un pezzo di strada, questo protocollo non esisteva - aveva magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare". Onorevole Fava, lo scorso marzo la Presidente della Commissione antimafia Bindi ha negato l’esistenza del protocollo fantasma. Lei questa sera ha parlato di nuovi elementi che dimostrano tutt’altro. Ha parlato di prove. "In Commissione per il momento abbiamo fatto delle audizioni. Abbiamo chiesto conferma dell’esistenza di questo protocollo al ministro della Giustizia e al ministro dell’Interno in quanto l’amministrazione penitenziaria e il servizio di sicurezza fanno riferimento a questi due rami e alla Presidenza del Consiglio. E le risposte avute da loro è stata la smentita dell’esistenza. Noi non ci siamo fermati, abbiamo continuato. Un lavoro di Commissione che è presieduta dalla stessa onorevole Bindi, non certo un lavoro fatto solo da alcuni di noi. È durante queste iniziative che alla fine il direttore dell’Aisi, non so con quanta felicità, si è trovato costretto ad esibire la prova fisica, cioè il testo scritto di questa convenzione, che recupera un protocollo già costruite in passato e che non esisteva nel senso fisico. Il protocollo farfalla è stato poi ripreso in una convenzione scritta dal Dap e dei Servizi ed è oggetto tutt’ora della preoccupata attenzione di questa Commissione". Preoccupazione in che termini? Da parte mia perché credo che un uso non attento di quel che prevede questa convenzione rischia di aprire delle falle preoccupanti nel sistema di gestione e di impermeabilità che si è costruito in questi anni attorno ai detenuto al 41 bis. La preoccupazione che dentro le carceri italiane qualcuno dei servizi possa essere mandato non per prevenire gli attentati ma per avere notizie dall’interno delle carceri per sapere cosa stava per accadere. Preoccupazione che certi soggetti potessero in qualche maniera intervenire se qualche detenuto avesse avuto qualcosa da raccontare avviando una collaborazione con la giustizia. Una preoccupazione legittima che è stata anche confermata da alcuni magistrati. Ha detto che prossimamente a Roma ascolterete la testimonianza del direttore del carcere di Opera. Approfondirete il tema delle dichiarazioni di Riina con il detenuto Lorusso? Certamente non lo ascolteremo per parlare del carcere di Opera. Ma ci concentreremo in particolare sulla gestione del detenuto Salvatore Riina. Giustizia: il Cav? critico condanna e assoluzione di Antonio Di Pietro (già magistrato ed ora contadino) Il Garantista, 22 luglio 2014 Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per "concussione per costrizione" ed in Appello averlo assolto anche per il reato di "prostituzione minorile". Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli - nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica - abusato di tale sua qualità per "costringere" il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione "perché il fatto non sussiste" e dall’accusa di prostituzione minorile "perché il fatto non costituisce reato". Assoluzione che ho così tradotto "in dipietrese" a mia sorella Concetta che - qui a Montenero dove mi trovo - me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un "povero Cristo" che - siccome gli telefona il presidente del Consiglio - si impaurisce a tal punto da non potergli "resistere" e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di "concussione per induzione", reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente - si ho scritto "spintaneamente" e non spontaneamente - un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il "caso Penati", in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano - mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la "costrizione") - il fatto-reato "non sussiste", vale a dire che è come se non si fosse mai verificato Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché "il fatto non sussiste" bensì perché "il fatto non costituisce reato", vale a dire che - sempre secondo i giudici di Appello - il "fatto" c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me - pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze - nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per "concussione per costrizione" ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato "indotto" dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso - come abbiamo sopra precisato - tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!). Comunque per me - per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato - avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale "con le palle" (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di "concussione per induzione". Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà! Giustizia: caso Uva, rinvio a giudizio per sei poliziotti e un carabiniere Corriere della Sera, 22 luglio 2014 Accusati di omicidio preterintenzionale per la morte nel 2008 avvenuta in ospedale, 3 ore dopo essere stato portato in caserma per un fermo. La sorella: "Ce l’abbiamo fatta". Il gup di Varese Stefano Sala ha rinviato a giudizio sei poliziotti e un carabiniere imputati per omicidio preterintenzionale e altri reati in relazione alla morte di Giuseppe Uva avvenuta il 14 giugno 2008. Il giudice ha respinto quindi la richiesta di non luogo a procedere avanzata dal procuratore di Varese facente funzioni Felice Isnardi. In primo grado medici assolti L’uomo, 43 anni, morì in ospedale il 14 giugno del 2008. Durante la notte fu fermato nel centro storico di Varese mentre stava bloccando una strada con delle transenne e portato nel comando provinciale. Vi rimase circa 3 ore, poi fu trasportato in ospedale dove morì alle 11 e 10 di mattina. Una prima inchiesta si era chiusa con diversi medici indagati, ma i processi di primi grado, seppure appellati, si sono conclusi tutti con assoluzioni. Ma il giudice di uno di questi processi aveva sollecitato nuove indagini su quanto avvenne in caserma. A dicembre vennero interrogati per la prima volta dopo anni i poliziotti e i carabinieri coinvolti e anche un testimone che era in caserma con Uva, il suo amico Alberto Bigioggero. Il legale: "Uno scandalo che si arrivi a processo solo ora" "Uno scandalo che si arrivi oggi a un rinvio a giudizio, perché si rischia la prescrizione per gran parte delle accuse contestate a carabiniere e poliziotti": lo ha spiegato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della sorella di Giuseppe Uva, Lucia, parte civile nel procedimento, dopo il rinvio a giudizio di sei poliziotti e un carabiniere. Un altro militare, che aveva scelto la strada del giudizio immediato, potrebbe essere processato in Corte d’Assise insieme agli altri imputati. Dopo la lettura del decreto del gup che ha disposto il rinvio a giudizio l’avvocato Anselmo, gli altri legali delle parti civili e i familiari di Uva hanno festeggiato aprendo una bottiglia di spumante in piazza Cacciatori delle Alpi a Varese, dove si trova il Palazzo di Giustizia. La sorella: "Ce l’abbiamo fatta" "Dopo quattro anni ce l’abbiamo fatta: i giudici hanno stabilito che ci vuole un processo". Lo ha detto Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva, che è scoppiata in lacrime dopo la decisione del gup. "Dedico questo processo al pm di Varese Agostino Abate che non ha mai voluto cercare la verità - ha proseguito - mio fratello non ha mai fatto atti di autolesionismo ma è stato picchiato in caserma". Manconi: "Il pm ha ostacolato la verità" "Dopo 6 anni dalla morte di Giuseppe Uva finalmente ci sarà un processo in cui verranno valutati i fatti accaduti all’interno della caserma di via Saffi a Varese, dove Uva fu trattenuto per ore prima di morire. Il carabiniere e i sei poliziotti coinvolti sono stati rinviati a giudizio per i reati di omicidio preterintenzionale, arresto illegale, violenze e abbandono di incapace". Lo dice il senatore del Pd Luigi Manconi. "Questo risultato - prosegue Manconi - è dovuto alla tenacia intelligente di Lucia e dei familiari di Giuseppe Uva, al lavoro professionalmente così qualificato dei legali Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Fabio Ambrosetti e a quanti, per anni, hanno voluto credere che anche a Varese "c’è un giudice". Il pubblico ministero Agostino Abate che per anni ha ostacolato l’accertamento della verità dovrà rispondere dei suoi atti in ben due procedimenti disciplinari". Giustizia: liberate Provenzano, subito di Alessandro Gerardi (Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei) Il Garantista, 22 luglio 2014 Un paio di anni fa mi recai in visita ispettiva presso il carcere di Parma insieme alla delegazione radicale composta da Rita Bernardini, Irene Testa e Valentina Stella. Dopo aver visitato l’intero istituto penitenziario e parlato con i detenuti, ci recammo anche nella zona dove all’epoca era recluso Bernardo Provenzano. Non appena l’uomo si alzò dal letto per venirci incontro, ci rendemmo subito conto di trovarci al cospetto di una persona il cui stato psicofisico era ormai irrimediabilmente compromesso: Provenzano, curvo sullo schiena, si muoveva lentamente e con grande fatica e nel corso di quei pochi istanti in cui si è svolto il "colloquio" non ha fatto altro che biascicare parole prive di senso, frasi sconclusionate e del tutto incomprensibili. Dopo quella visita ispettiva, lo stato di salute di Provenzano, se possibile, si è ulteriormente aggravato. Le certificazioni mediche, infatti, attestano che il detenuto, allettato da dicembre 2012, presenta un quadro clinico profondamente deteriorato e in progressivo peggioramento, uno stato cognitivo irrimediabilmente compromesso, più tutta una serie di gravissime patologie, tra cui il morbo di Parkinson, che gli rendono impossibile persino l’alimentazione spontanea, al punto che qualche tempo fa i medici sono stati costretti a inserirgli il sondino naso-gastrico direttamente nell’intestino, visto che nemmeno lo stomaco gli funziona più. Quando cominceremo a prendere atto dell’evidenza, ossia del fatto che il potente boss di Cosa Nostra di un tempo oggi non esiste più? Lo ha scritto chiaramente Luigi Manco-ni sull’Unità di domenica scorsa e non si può certo dargli torto: oggi Bernardo Provenzano è una persona anziana e gravemente malata che dipende dagli altri per ogni minimo aspetto della vita quotidiana, che non riconosce più i familiari che lo vanno a trovare in carcere e che non è nemmeno in grado di ricevere gli atti giudiziari che gli vengono notificati, tanto è vero che il Tribunale di Milano, non più tardi dì qualche settimana fa, gli ha nominato un amministratore di sostegno. Lo stato di salute mentale dell’uomo è talmente precario che ben tre autorità giudiziarie hanno disposto la sospensione dei processi in cui Provenzano compariva nella veste di imputato, in quanto lo stesso è stato dichiarato incapace di partecipare alle udienze (ossia incapace persino di rendersi conto dì trovarsi in un’aula giudiziaria). Lo stesso medico che attualmente ha in cura Provenzano ha inviato una relazione al Tribunale di Sorveglianza di Milano nella quale sostiene che le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario. E però a dispetto di tutte le perizie, le relazioni e le certificazioni mediche, Bernardo Provenzano continua non solo a rimanere in carcere, ma persino ad essere sottoposto al 41-bis, il che peraltro sta avvenendo anche contro il parere di tre procure distrettuali antimafia (Firenze, Caltanissetta e Palermo) che da tempo sì sono espresse a favore della revoca del cosiddetto "carcere duro". Il ministro della Giustizia Orlando, infatti, basandosi sul parere del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e della Procura nazionale antimafia, ritiene che Bernardo Provenzano possa ancora essere un soggetto "pericoloso", e ciò sulla base di alcune relazioni Gruppo operativo mobile (reparto specializzato della Polizia Penitenziaria) dalle quali emergerebbe che "a tratti", ovvero "sporadicamente", il detenuto sembra essere ancora in grado di "rispondere" alle domande che gli vengono rivolte. L’evidente contraddizione fra il riconoscimento dei grave stato dì salute dell’imputato, che non gli consente di partecipare validamente al processo, e il suo mantenimento in stato di detenzione, per di più in un regime inumano come il 41-bis, non è stata fin qui meritevole di alcuna attenzione, neppure tra coloro che, d’abitudine, si indignano per le violazioni dei diritti fondamentali; ciò evidentemente perché vi è la consapevolezza che una pubblica presa di posizione che riguardi Provenzano rischia di condannare chi la esprime alla più assoluta impopolarità. Ma i diritti umani sono per definizione universali e inviolabili e pertanto non possono essere negati ad alcuno, sia esso pure un boss di Cosa Nostra. Lo sanno bene i radicali che in queste ore sono impegnati nell’ennesimo sciopero della fame insieme a circa 200 cittadini proprio per richiamare l’attenzione di Governo e Parlamento non solo sulle morti in carcere e sul diritto alle cure negato ai detenuti, ma anche sulla illegittimità del 41-bis, nato come regime detentivo "provvisorio" e oggi stabilizzato e applicato persino a soggetti ridotti in stato pressoché vegetativo come Provenzano, con buona pace non solo delle Convenzioni internazionali e della Costituzione, ma anche di quel minima senso dì umanità di cui tanto spesso ci si fa vanto. Se davvero il ministro della Giustizia Orlando vuole dimostrare di avere a cuore questi temi, se veramente intende dar prova all’Europa di aver voltato pagina rispetto ai diritti dei detenuti, specialmente quelli che si trovano in condizioni di salute estreme, può farlo partendo proprio dalla revoca del carcere duro a Bernardo Provenzano. Sarebbe infatti una sconfitta per tutti quanti noi se un uomo così gravemente malato dovesse morire in carcere, per giunta dopo essere stato sottoposto a un trattamento punitivo così inutilmente severo e senza aver ricevuto il sostegno e il conforto dei propri cari. Lettere: spunti per la riforma della giustizia di Salvatore Scuto (Presidente Camera penale di Milano) Corriere della Sera, 22 luglio 2014 Una ventata di aria fresca in una stanza da troppo tempo chiusa. Questo è l’effetto che scaturisce dalla sentenza della Corte di appello milanese del 18 luglio nel dibattito sulla giustizia, da vent’anni ostaggio delle vicende giudiziarie dell’ex premier. Un ventennio in cui, quasi al riparo di quelle vicende, si sono scontrate due fazioni che avevano, pur con finalità diverse, lo stesso obiettivo: la conservazione dello "status quo". Ne hanno fatto le spese - e che spese! - la cultura delle garanzie troppo spesso impugnata nel tentativo di salvaguardare gli interessi di un singolo e l’esigenza di una vera riforma del sistema Giustizia per troppo tempo rimasta negletta. Oggi questo nodo gordiano su cui si è avviluppata la società italiana sembra proprio potersi sciogliere. Attenzione: non perché vi sia stata l’assoluzione in Appello dell’ex premier ma perché la fisiologica conclusione del giudizio di secondo grado - con buona pace dei suoi numerosi detrattori - consente da un lato di poter affermare un valore costituzionale di fondamentale importanza quale è la libertà della giurisdizione; dall’altro riconsegna alla politica riformatrice spazi e territori dai quali si era tenuta lontana vuoi per opportunità vuoi per debolezza. Ecco, allora, che le condivisibili e opportune riflessioni di Enrico Maria Berruti ("La riforma per una giustizia più credibile", Corriere del 20 luglio) offrono seri spunti per costruire un vero tavolo per una riforma strutturale della giustizia, che ne ridisegni i caratteri costituzionali nel rispetto della tradizione liberale e democratica, ma accogliendo le inevitabili istanze che provengono dalla modernità. Al Parlamento e all’Esecutivo spetta finalmente il compito di intraprendere questa strada abbandonando ogni tatticismo, come sembra essere il "gioco dei dodici pallini" dell’unica slide proiettata a fine giugno dal governo, così riassumendo il ruolo e la funzione che le competono. Alla magistratura spetta il compito di riposizionarsi entro gli spazi che l’attuale assetto costituzionale già delinea se interpretato correttamente; spazi da tempo abbandonati in ragione di una funzione di supplenza che ha trasformato la giurisdizione in uno strumento di lotta al fenomeno emergenziale di turno. All’Avvocatura spetta il compito, non facile, di saper interpretare e farsi portatrice degli interessi generali che necessitano di adeguata tutela e che al contempo sono espressione della società tutta e della sua esigenza di una Giustizia, appunto, più credibile. Lettere: caso Uva, sei anni di mala giustizia di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 22 luglio 2014 Rinvio a giudizio. Se finalmente si è tornati ad uno stato di diritto lo si deve alle tenacia e alla intelligenza di Lucia e della famiglia Uva. Sono passati oltre sei anni da quel 14 giugno 2008 in cui, sorpreso a spostare delle transenne in mezzo a una strada, Giuseppe Uva veniva condotto in una caserma dei carabinieri di Varese. Poche ore dopo sarebbe morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale cittadino. Quanto successo in questi lunghi anni è l’esempio più lampante di come la giustizia, in uno stato di diritto, non dovrebbe funzionare: spregio per le insopprimibili garanzie di chi si trovi privato della libertà, stigmatizzazione della vittima e del suo stile di vita, sottovalutazione delle circostanze di fatto a esclusivo vantaggio di un pregiudizio di intangibilità per uomini e apparati dello Stato. Per sei anni, non uno solo dei carabinieri e poliziotti che quella notte chiusero Uva in una stanza, è stato indagato; e solo nell’autunno scorso, il testimone oculare, Alberto Biggiogero, è stato ascoltato dalla Procura. In questi anni e in ben sei tra sentenze e ordinanze, altrettanti giudici censurarono il comportamento processuale del pubblico ministero Agostino Abate: "È un diritto della famiglia e della collettività intera" sapere cosa successe all’interno di quella caserma. Perché Giuseppe Uva è stato trattenuto senza un verbale di fermo? Perché il suo corpo era pieno di ferite e di lesioni? Perché, se carabinieri e poliziotti sostengono che Uva si sia fatto male da solo, non è stata chiamata immediatamente l’ambulanza? Troppe domande cui per un tempo infinito è stata negata una risposta. Il fascicolo in mano al Pm Abate è stato trattato come una proprietà personale: insulti alla famiglia nel corso delle udienze, interrogatori ai testimoni con modalità a dir poco discutibili, assoluto pregiudizio d’innocenza nei confronti dei poliziotti e carabinieri coinvolti. Ma quei comportamenti, sia pure tardivamente, sono stati oggetto di indagine da parte del ministero della Giustizia e della Procura generale presso la Cassazione e hanno portato a due procedimenti disciplinari presso il Csm per, tra l’altro, "condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria" e "violazione dei diritti umani". Dopodiché, anche il tribunale di Varese ha dovuto prendere provvedimenti e il fascicolo è stato finalmente riassegnato. I capi di accusa sono stati riformulati dal pm Felice Isnardi, ma poi quest’ultimo - nell’udienza del 9 giugno scorso - ha chiesto sorprendentemente il non luogo a procedere per tutti gli indagati. Che all’interno del Tribunale di Varese succedano fatti singolari è ormai cosa nota, ma ciò che conta adesso è che finalmente un giudice - quello dell’udienza preliminare, Stefano Sala - abbia deciso. E la sua decisione di rinviare a giudizio il carabiniere (il secondo militare ha fatto richiesta di rito immediato) e i sei poliziotti era l’unica possibile, considerati gli elementi di fatto che ha potuto valutare. Il 20 ottobre in Corte d’Assise inizia il vero processo per la morte di Giuseppe Uva. E se si è arrivati a questo lo si deve in primo luogo alla volontà tenace e intelligente di Lucia e dei familiari di Giuseppe Uva, in una città che a lungo è rimasta, se non ostile, largamente sorda. Sardegna: Sdr; la chiusura delle carceri di Macomer e Iglesias è atto irrazionale del Dap Ristretti Orizzonti, 22 luglio 2014 "A gennaio 2013, nell’ambito del riordino dei circuiti regionali, l’ufficio del capo del Dipartimento aveva indicato in una circolare la soppressione delle carceri di Macomer e Iglesias. Un mese dopo però il Dap aveva diffuso una precisazione con cui negava una decisione in tal senso e perfino l’esistenza di una proposta di dismissione per entrambi gli Istituti. Nello stesso documento indicava giugno 2013 per l’apertura di Cagliari-Uta. L’ultima decisione di chiudere le due strutture appare come un atto irrazionale. Assurdo anche perché unilaterale e improntato a una visione ragionieristica". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme". "Ministero e Dipartimento - sottolinea - dovrebbero preoccuparsi piuttosto della gestione delle strutture penitenziarie che invece soffrono per la mancanza di un Provveditore regionale con un ruolo esclusivo e per l’insufficiente numero di Direttori d’Istituto, appena 7 per 12 carceri. Con i relativi responsabili costretti a percorrere centinaia di chilometri quando un collega è in ferie. Ciò per garantire l’ordinaria amministrazione". "In realtà il Dipartimento sembra considerare la Sardegna solo quando deve tradurvi detenuti provenienti dai luoghi più disparati in mega Istituti talvolta neppure del tutto agibili. La chiusura delle carceri di Macomer e Iglesias dunque non è giustificata neppure dai risparmi. È invece l’ulteriore segnale di un atteggiamento arrogante che vuole solo scaricare i problemi sui territori e le amministrazioni locali. La Sardegna - conclude la presidente di Sdr - merita un’attenzione maggiore, ascolto e considerazione non può sempre eseguire solo ordini". Pordenone: appalto per il nuovo carcere a San Vito, si decide tra dieci offerte Messaggero Veneto, 22 luglio 2014 Non ha subito rinvii, sinora, la convocazione della commissione giudicatrice delle dieci offerte giunte per la realizzazione del nuovo carcere di San Vito: domani si riunirà ancora una volta e potrebbe giungere la notizia dell’aggiudicazione provvisoria dell’appalto. I fautori dell’opera incrociano le dita perché non vi sia un rinvio, come ve ne erano stati all’inizio della procedura d’esame delle offerte. Per ora sta filando tutto liscio, come da comunicazione ufficiale comparsa sul sito web del Piano carceri lo scorso 3 luglio. Si riferiva che la commissione giudicatrice si riunirà in seduta pubblica domani, alle 11, a Roma, alla scuola di formazione dell’amministrazione penitenziaria "Giovanni Falcone". Riunione pubblica "per comunicare i punteggi attribuiti alle offerte tecniche e procedere all’apertura delle buste con l’offerta economica e di tempo. Nella medesima seduta - continua la comunicazione sul sito web, che non è stata superata nelle ultime tre settimane, la commissione procederà a formare la graduatoria sulla base dei punteggi complessivi ottenuti da ciascun concorrente, dandone immediata lettura e, ove ne ricorrano i presupposti, provvederà, altresì, all’individuazione del soggetto provvisoriamente aggiudicatario". L’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva e la costruzione del nuovo penitenziario da 300 posti nell’ex caserma Dall’Armi, in via Oberdan, potrebbe arrivare, dunque, già domani, visto che per ora non sono previsti rinvii della riunione pubblica. Sono notizie attese dai fautori dell’opera. Qualche dubbio che ci potesse essere per lo meno qualche ritardo nell’aggiudicazione dell’appalto era sorta qualche settimana fa, quando si è diffusa la notizia delle indagini sul commissario al Piano carceri, prefetto Angelo Sinesio. Il sindaco, Antonio Di Bisceglie, subito aveva allontanato i timori: la commissione che esamina le dieci offerte giunte entro i termini stabiliti dal bando per il carcere di San Vito, nominata dallo stesso Sinesio, avrebbe continuato indisturbata la propria attività. E ora non sembrano esserci più dubbi a riguardo. Domani, se ci sarà l’appalto provvisorio, si aggiungerà un significativo tassello verso la costruzione del carcere. Ma l’iter di certo non sarà completato, anzi. La fase successiva potrebbe vedere anche dei ricorsi, come d’altronde riteneva probabile Sinesio, a fronte di opere di tal portata (l’importo previsto dell’appalto si aggira intorno ai 25,5 milioni di euro). Pistoia: Sap; braccialetti elettronici, sulle spalle dei poliziotti controlli e burocrazia Il Tirreno, 22 luglio 2014 In teoria avrebbe dovuto contribuire a combattere il cronico sovraffollamento delle carceri. Ma nella realtà, il braccialetto elettronico, è diventato solo un altro peso che è andato a gravare sulle spalle di poliziotti e carabinieri, già alle prese con il fardello dei tagli alle spese per la sicurezza. Sì perché il legislatore ha guardato bene di delegare alle forze dell’ordine - nella maggior parte dei casi gli stessi reparti investigativi che, con le loro indagini, consentono gli arresti - tutte le pratiche burocratiche e i controlli che comportano l’applicazione del rilevatore di posizione a coloro che vengono messi agli arresti domiciliari o che scontano la pena detentiva a casa. La denuncia per una situazione che anche a Pistoia è diventata insostenibile, a poco più di tre mesi dal primo braccialetto elettronico fissato alla caviglia di un arrestato, arriva dal Sap, il Sindacato autonomo di polizia. E il segretario provinciale Andrea Carobbi Corso sottolinea anche un altro problema: in tutta la Toscana esiste un solo tecnico autorizzato dalla Telecom - che gestisce il servizio - al montaggio dei braccialetti elettronici; e deve garantire le proprie prestazioni a tutta la regione e per tutte le forze della polizia. Difficilmente, perciò, a Pistoia può essere rispettato quel termine di 4 giorni dalla notifica del provvedimento restrittivo che fu concordato il 14 aprile scorso in un vertice a palazzo di giustizia tra presidente del Tribunale e rappresentanti di giudici, procura e forze dell’ordine. A maggior ragione in considerazione del fatto - denuncia il Sap - che spesso, dato il loro esiguo numero, i braccialetti non sono subito disponibili. "I tagli alla sicurezza - lamenta il segretario Carobbi Corso - hanno portato ad una diminuzione del personale della polizia di Stato ed il ricorso al braccialetto elettronico è andato a gravare pesantemente sull’operato degli uomini in divisa, che per questo motivo sono distolti dalle attività investigative e non possono più dedicarsi alle indagini come in passato". Come ricordato, infatti, l’accordo del 14 aprile prevede che le procedure per arrestati in flagranza, indiziati fermati e indagati sottoposti alla misura cautelare dei domiciliari debbano essere espletate dallo stesso ufficio che ha eseguito gli arresti: in sintesi, solo polizia e carabinieri, visto che nella nostra provincia le altre forze dell’ordine non se ne possono occupare per mancanza di strumenti tecnici e personale. E a polizia e carabinieri spetta poi tutta la gestione dei successivi controlli e allarmi. Così come quella dei permessi di allontanamento da casa, ad esempio, per un interrogatorio in tribunale: gli stessi investigatori si dovranno occupare di comunicare via email alla Telecom gli orari dell’allontanamento da casa, così come al termine della misura restrittiva dovranno contattare l’azienda per la rimozione del braccialetto, da eseguire poi alla loro presenza perché dovranno verbalizzare le operazioni. Campobasso: i detenuti urlano di notte per protesta e i residenti a chiamano il 113 di Cristina Niro Primo Piano Molise, 22 luglio 2014 Sono stati i residenti a chiamare il 113. Quelle urla nel cuore della notte da almeno una settimana fanno trascorrere ore insonni. Urla che arrivano dal carcere di Campobasso, precisamente dalla sezione ‘collaboratori’. Urla di protesta. I detenuti rivendicano la violazione di alcuni diritti e quindi protestano contro la direzione dell’istituto penitenziario. Non contro gli agenti, spesso vittime del malcontento dei detenuti che soprattutto nell’ultimo periodo non riuscirebbero a far fronte alle regole carcerarie. Si lamentano, per esempio, perché non hanno più diritto alle sigarette o richieste simili. Piccole cose che renderebbero la mancanza di libertà meno pesante e che invece verrebbero quotidianamente negate. Da qui la decisione di protestare in maniera pacifica ma rumorosa affinché si ascoltino anche le loro rimostranze e se possibile si ponga rimedio. Reggio Calabria: pm Cafiero; 'ndrangheta, scoperta rete di aiuto alle famiglie di detenuti Ansa, 22 luglio 2014 Una "rete" capillare ed efficiente per aiutare le famiglie degli affiliati di ‘ndrangheta detenuti è stata scoperta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria nel corso delle indagini che hanno portato all’operazione Cripto nell’ambito della quale sono state eseguite 18 ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di altrettanti affiliati alla cosca di ‘ndrangheta Caridi-Borghetto-Zindato, federata con quella "storica" dei Libri. "Dall’indagine - ha detto, incontrando i giornalisti, il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho - emerge, in particolare, il vincolo di solidarietà che lega gli appartenenti alle cosche e che si concretizza in una vero proprio dovere di assistenza familiare. Scopo della rete di solidarietà costituita dagli affiliati è la raccolta di denaro che viene distribuito alle famiglie degli affiliati detenuti. Una rete della quale fanno parte anche elementi della microcriminalità, costretti a versare una quota alla cosca che ha un ruolo dominante nel territorio in cui operano". "Nulla sfugge, in sostanza, alla ‘ndrangheta - ha concluso il Procuratore di Reggio Calabria - che, oltre a controllare le attività criminali ed economiche del territorio, condiziona pesantemente anche la microcriminalità, che per operare deve versare parte dei proventi all’organizzazione criminale madre". Reggio Calabria: il clan Caridi e il "sistema" dell’assistenza economica ai detenuti di Alessia Candito Corriere della Calabria, 22 luglio 2014 Operazione dei carabinieri contro la cosca operante nella zona sud della città: 19 arresti. Tra le persone coinvolte una donna che svolgeva un ruolo centrale nell’organizzazione criminale. Operazioni, arresti, processi e condanne anche a lunghe pene detentive per capi e sodali non hanno ancora arginato il predominio del clan Caridi-Borghetto-Zindato sui quartieri di Ciccarello, Modena e San Giorgio extra a Reggio Calabria. Al contrario, la necessità di mantenere la folta schiera di affiliati finiti negli anni dietro le sbarre ha reso ancor più feroce il clan nel controllo di un territorio, in cui anche la microcriminalità doveva versare la propria gabella. È quanto emerge dall’operazione Cripto, scaturita dall’indagine eseguita dagli uomini del comando provinciale dei Carabinieri, con cui la Dda ha inferto un nuovo duro colpo al clan che storicamente domina quei quartieri che dalla periferia sud di Reggio si arrampicano verso la montagna. "Con questa operazione - commenta il comandante provinciale Lorenzo Falferi - siamo riusciti finalmente a chiarire il meccanismo attraverso cui viene assicurato il mantenimento ai sodali e ai loro familiari quando sono detenuti". Ed è un vero e proprio sistema mutualistico, assicurato e gestito da chi come Melina Nava - madre dei fratelli Checco e Andrea Zindato, considerati tuttora figure apicali del clan nonostante le lunghe condanne anche di recente rimediate - ha il nome e il peso per tenere in mano le redini di un rissoso clan, quello messo in luce dalle indagini che la Dda ha fatto partire all’indomani dell’omicidio di Marco Puntorieri, soggetto vicino al clan, freddato in un agguato da Domenico Ventura, Natale Cuzzola e Domenico Condemi, di recente tutti condannati all’ergastolo. Se su quell’omicidio nulla di nuovo emerge rispetto a quanto già accertato, le attività tecniche disposte dalla procura hanno permesso di entrare nelle case e nelle celle degli uomini del clan già detenuti ed è stata la loro viva voce a rivelare "come il vincolo di solidarietà proprio della ‘ndrangheta - spiega il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho - implichi che la raccolta di denaro debba poi essere redistribuita fra le famiglie dei detenuti". È soprattutto dalle conversazioni di Domenico Antonio Laurendi - responsabile per il clan della gestione dei pagamenti mensili ai familiari degli affiliati prima di entrare in carcere, ma che grazie ai familiari ha mantenuto anche da dietro le sbarre questo ruolo - che investigatori ed inquirenti sono riusciti a ricostruire gli equilibri esistenti e ad individuare i "veri e propri accordi - si legge nell’ordinanza - con cui stabilire chi è l’incaricato di consegnare il denaro e chi, invece è deputato a riceverlo, rivelando come le somme di denaro utilizzate per il sostentamento dei detenuti vengano procurate attraverso la consumazione di altri delitti quali il traffico di stupefacenti o reati contro il patrimonio". Un sistema rodato che anche quando si inceppa è in grado di attivare procedure e interventi necessari per rimetterlo in marcia. È quanto succede ad esempio quando uno dei sodali, Biagio Parisi, decide di trattenere la quota destinata ai familiari di un uomo del clan, Domenico Ventura. Uno sgarro per cui Domenico Laurendi, tramite i familiari, chiederà l’intervento diretto di Melina Nava, madre del reggente Checco Zindato e del fratello Andrea, cui dopo l’arresto dei figli è toccato tenere strette le redini del clan. È lei infatti a venire informata di dissidi e controversie, puntualmente riferite al figlio Checco, come a riportare le direttive che da questi vengono impartite durante i colloqui. Un meccanismo emerso da centinaia di conversazioni intercettate e che spingono gli inquirenti a ipotizzare che proprio dai massimi vertici del clan sia arrivato il via libera all’escalation di intimidazioni - una testa d’agnello in macchina, l’auto data alle fiamme, minacce verbali e fisiche - cui Parisi è stato sottoposto per riportarlo "sulla retta via". "Possiamo immaginare il clan come una struttura a cerchi concentrici, con un nucleo forte in cui valori e principi sono radicati, da cui poi si diramano cerchi concentrici sempre più lontani in cui il rispetto di regole e principi viene imposto con la forza dell’intimidazione", spiega il comandante della compagnia di Reggio Calabria, Pantaleone Grimaldi, che ha fattivamente coordinato l’indagine. "La violazione delle regole in ambito ‘ndranghetistico implica sanzioni anche letali", aggiunge de Raho, per sottolineare il regime di aggressioni, intimidazioni e violenza con cui il clan Caridi-Borghetto-Zindato gestisce il proprio feudo e che la popolazione supinamente accetta. Nonostante gli innumerevoli episodi di violenza, con tanto di sparatorie in pubblica piazza e pestaggi, nessuna segnalazione da quella zona è mai arrivata alle forze dell’ordine. Un dato sconfortante emerso soprattutto relativamente all’omicidio di Franco Quirino, imputato al processo Alta tensione come uomo del clan, ma ucciso pochi giorni prima della sentenza. Per quel delitto, sempre oggi è stata eseguita una misura di custodia cautelare a carico di Natale Crisalli, un soggetto con cui la vittima aveva avuto una forte diatriba - degenerata in spari in pubblica piazza e rappresaglie contro l’abitazione dello stesso Crisalli - proprio il giorno precedente all’omicidio. "Non siamo ancora stati in grado di identificare il responsabile dell’omicidio di Quirino, ma a carico di Crisalli sono emersi indizi di colpevolezza per tentato omicidio e porto abusivo d’armi, talmente chiari da permettere di eseguire una misura cautelare nei suoi confronti", spiega il comandante Grimaldi. Indizi, dati ed evidenze raccolti faticosamente già a partire dalle ore successive all’omicidio, perché a Modena nessuno vede e nessuno sente. Anche quando si spara sotto le finestre di casa. Como: la crisi arriva in carcere, sciopero dei detenuti contro il "caro spesa" La Provincia Pavese, 22 luglio 2014 Sono arrabbiati i detenuti del carcere comasco del Bassone, che a quanto pare non è stato risparmiato dalla crisi economica. Secondo molti di loro i prezzi della "spesa" all’interno della struttura sarebbero esponenzialmente rincarati, con particolare riguardo ai prodotti alimentari che, come noto, i detenuti possono acquistare regolarmente dal cosiddetto "spesino". Lamentano rincari a loro dire eccessivi, spesso anche per generi diversi. È il caso, pr esempio, delle preziosissime bombolette del gas da campeggio, che tutti i detenuti, o quasi, utilizzano per potersi scaldare le vivande nelle celle. Lamentano il fatto che nei supermercati siano vendute a 0,60 centesimi, mentre in carcere il loro costo sia di due euro. In tutte le strutture carcerarie italiane - e il Bassone non fa eccezione - il sistema prevede un vitto passato dall’amministrazione, comprensivo di un primo, di un secondo con contro e frutta, e la possibilità, per chi abbi soldi, di integrarlo con il cosiddetto "sopravvitto". In altre parole un detenuto a turno, il cosiddetto "spesino", raccoglie le ordinazioni e consegna pacchi di alimenti diversi o generi analogamente necessari, quali le bombolette. Nei prossimi giorni i detenuti del Bassone insceneranno una sorta di sciopero della spesa. Bergamo: Francesco, Ionup e Marco, carcerati in via Gleno "sogniamo una nuova vita" di Mauro Paloschi www.bergamonews.it, 22 luglio 2014 Le storie di tre detenuti nel penitenziario bergamasco, un 58enne di Trescore, un 29enne romeno e un 33enne milanese: "Abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo. Ma poi dateci una possibilità per ripartire. Rincorrono il pallone con la stessa felicità di quando erano bambini. Del resto, le partite a calcetto sono uno dei pochi momenti che hanno per evadere, almeno mentalmente, dalla monotonia di una quotidianità vissuta dietro le sbarre di una cella. Sono alcuni dei detenuti del carcere di via Gleno a Bergamo, che hanno partecipato al torneo di calcio a 7 organizzato dalla Uisp, Unione italiana sport per tutti in collaborazione con Rete Terzo Tempo, inserito nel progetto "Oltre il muro, porte aperte allo sport". Per la cronaca il torneo, durato un mese, è stato vinto dalla squadra del Penale. Ma il risultato, mai come in questo caso, conta pochissimo. La vittoria più bella è il sorriso sulla bocca di tutti i partecipanti, che al termine della finale si ritrovano nella sala riunioni per la premiazione, con una maglietta ricordo ciascuno e un rinfresco a base di pizzette e pasticcini (con qualcuno che ne raccoglie un piattino da portare ai compagni di cella). Tra i giocatori c’è Francesco Ghilardi, 58 anni, di Cisano Bergamasco. Carnagione scura, viso segnato dalle rughe e pizzetto grigio lungo quanto la sua esperienza di vita. Tanto che, come forma di rispetto, gli altri detenuti lo chiamano "zio". Ha un passato da carpentiere e una condanna sulle spalle a 10 anni e 8 mesi per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Una sentenza arrivata solo nel 2012, per una denuncia risalente al 2001: "Al momento dell’arresto ero a Lanzarote per lavoro. Appena ho saputo del mandato mi sono subito costituito - racconta Francesco mentre fuma una sigaretta. L’ho fatto perché spero in uno sconto della pena. Per me, ma in particolare per la mia famiglia. Là fuori ho due figlie e quattro nipotini con la mia ex moglie, una compagna e soprattutto un bambino di nove anni. Non può crescere senza papà. Ho sbagliato, lo so, e sto giustamente pagando la mia pena, ma spero che comportandomi bene mi facciano uscire prima". Parlando dei suoi cari Francesco abbandona per un attimo lo sguardo da duro e si commuove: "Non posso stare chiuso qua dentro dieci anni e lasciare soli il mio piccolo e la mia compagna, che è anche rimasta senza lavoro. Voglio molto bene a loro due, sono tutto per me. La sera prima di addormentarmi, da solo nel mio letto, pensandoli a volte piango". L’ex carpentiere torna a sorridere quando parla della vita in carcere: "A parte questo, devo dire che qua mi trovo bene. Non mi posso lamentare. Il rapporto con i miei compagni è ottimo, e non abbiamo problemi di convivenza. Lavoro come ferraiolo e guadagno circa trecento euro al mese: 50 li verso come spese del carcere, 50 li tengo per le mie cose, e gli altri li faccio avere alla mia compagna". Ghilardi ha una sua idea sul caso Yara e sull’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti: "L’ho intravisto un paio di volte, in occasione dei colloqui. Mi è sembrato tranquillo, un po’ come tutti noi. Io penso che se fosse davvero colpevole sarebbe da ammazzare. Ma non si può condannare una persona prima che sia stata processata". Poco più in là, tutto solo in un angolo, c’è il 29enne romeno Ionup Popa, ex elettricista di Trescore Balneario. Occhi azzurri e sguardo perso nel vuoto, a rimuginare su un passato che vorrebbe cancellare: "Sono dentro per rapina, condannato a due anni e otto mesi - racconta a voce bassa - . Ero dipendente dal gioco d’azzardo. Negli ultimi tempi spendevo tutto il mio stipendio alle macchinette. Fino a quando un giorno, esasperato, ho deciso di rapinare una ricevitoria. Anche un po’ per vendetta". Il volto di Ionup si incupisce ancora di più quando parla dei suoi famigliari: "I miei genitori sono in Romania. Qua in Italia ho una moglie e un figlio di sei anni, ma da quando sono rinchiuso in carcere nessuno è più venuto a trovarmi. Tutti si sono dimenticati di me. Cosa ne sarà della mia vita? Non vedo un futuro, ora come ora. Passo le mie giornate a pensare a un domani che non c’è. Le celle sono affollatissime. Viviamo in pochi metri quadrati, e abbiamo il water in parte alla cucina. Uno schifo, insomma". L’arbitro ha già fischiato la fine dell’ultima partita, ma Marco A., 33 anni di Bollate (in provincia di Milano), non vuole abbandonare il campo e lasciare quel pallone. Di tempo da trascorrere dietro le sbarre ne ha ancora molto, con la sua condanna in totale a 12 anni e 3 mesi per diversi episodi di rapina, furto e ricettazione: "Ho perso mio papà a 12 anni, per overdose. E ti assicuro che un episodio del genere a quell’età ti segna profondamente - spiega mentre si toglie la maglietta della squadra e mostra un fisico pieno di tatuaggi. Questo non per giustificarmi, sia chiaro. So di aver sbagliato. A 14 anni ho iniziato a fumare cocaina, e di lì a poco a rubare per procurarmi il denaro per comprarla". Con il suo accento milanese, Marco ci tiene a raccontare la sua storia: "Ho girato vari penitenziari prima di arrivare a Bergamo. L’ultima volta che sono stato arrestato mi trovavo in Spagna. Mi hanno estradato e rinchiuso a Rebibbia. Ma poi ho chiesto e ottenuto il trasferimento qua. L’ho fatto per mia madre. Lei è invalida, e a Roma non sarebbe mai potuta venire a trovarmi. Ora invece riesco a vederla spesso. È la cosa più importante che mi è rimasta. Ma sono ancora giovane, e una volta uscito da qua voglio farmi una famiglia tutta mia. E soprattutto basta cazzate, basta!". Teramo: quattro detenuti andranno a lavorare all’università di Fabio Marini Il Centro, 22 luglio 2014 Iniziativa dell’ateneo e dell’amministrazione penitenziaria nell’ambito dell’accordo sul polo universitario a Castrogno. Inizieranno a lavorare all’università da settembre i primi quattro detenuti del carcere di Castrogno coinvolti nel progetto dell’ateneo teramano per favorire l’impiego lavorativo dei reclusi nella casa circondariale. I quattro detenuti - scelti tra i cosiddetti "permessanti", cioè coloro che possono svolgere attività all’esterno del carcere durante il giorno - riceveranno un salario minimo mensile e saranno inseriti in "squadre di lavoro integrate" insieme al personale dell’ateneo e agli studenti con borse- lavoro. Tra i servizi affidati alle squadre inizialmente ci saranno quelli di pulizia delle aule. Il progetto, promosso con la direzione dell’istituto penitenziario, è stato presentato ieri all’università insieme al protocollo d’intesa per la nascita di un polo universitario all’interno del carcere, siglato con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo e il Molise. Grazie all’accordo - il primo del genere che viene stipulato in Abruzzo e tra i primissimi in Italia - i detenuti potranno avviare o completare un percorso di studi universitario: attualmente solo lo 0.5% dei detenuti italiani è iscritto all’università e nelle carceri di Abruzzo e Molise la situazione non si discosta dal dato nazionale. Previste anche agevolazioni economiche per gli studenti detenuti che e commissioni d’esame per le sessioni interne al carcere. L’istituzione del polo partirà già ad agosto. In una prima fase, le attività formative saranno a distanza tramite una piattaforma e-learning dove saranno riversati i materiali didattici dell’ateneo. Se le iscrizioni aumenteranno, si passerà alla "fase due" con seminari non più a distanza, ma che si svolgeranno all’interno del carcere e saranno aperti anche ai detenuti provenienti da altre strutture penitenziarie. L’accordo include infine la formazione dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria con corsi per la laurea in Servizi giuridici, oltre ad iniziative nell’ambito della ricerca come i tirocini formativi e la possibilità di accedere alle strutture di Castrogno da parte di laureandi, dottorandi e ricercatori. "Siamo riusciti a creare un ottimo rapporto tra gli obiettivi rieducativi previsti dalla nostra Costituzione e l’aspirazione formativa di un’università", ha commentato il rettore dell’ateneo teramano Luciano D’Amico che ieri mattina ha presentato il protocollo insieme al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Bruna Brunetti, alla dirigente dell’ufficio detenuti e trattamento del provveditorato regionale Fiammetta Trisi, e alla preside della facoltà di Giurisprudenza Floriana Cursi. Roma: apparecchio acustico rotto in perquisizione cella, da due anni chiede risarcimento Leggo, 22 luglio 2014 Sordo da quasi due anni, per "colpa" dello Stato. Doveva essere una normale perquisizione in cella, a Regina Coeli, quella a cui venne sottoposto un detenuto: ma, al suo rientro, il 63enne si accorse che qualcosa era andato storto e che il suo prezioso apparecchio acustico, unica difesa dal grave deficit auditivo che lo rende pressoché sordo, era ridotto in frantumi. Per questo, esasperato, ha deciso di sporgere denuncia chiedendo il risarcimento danni. L’uomo, all’epoca dei fatti gestore di una tabaccheria vicino al Colosseo, racconta che il 15 settembre del 2012 venne arrestato con l’accusa di spaccio di stupefacenti. Al processo di primo grado fu condannato a 4 anni di reclusione, poi ridotti a 3 anni in appello, da scontare a Regina Coeli. In questa struttura, il 9 novembre di due anni fa, a seguito di una perquisizione a sorpresa, avrebbe rinvenuto il suo apparecchio acustico danneggiato in modo irreparabile. Il detenuto fece subito presente l’accaduto al personale e si sarebbe successivamente rivolto all’avvocato Simone Pacifici, già legale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali). Quest’ultimo avrebbe richiesto e ottenuto un incontro con un dirigente della struttura carceraria che, si legge nella denuncia, "convocò gli agenti che confermarono i fatti". La richiesta di rimborso venne però rigettata. Inutile ogni tentativo, a spese del detenuto stesso, di riparazione dell’apparecchio "anche con l’invio a Milano presso tecnici specializzati". Così il 63enne, che nel frattempo aveva ottenuto gli arresti domiciliari, impossibilitato a sostenere le spese per il riacquisto dell’apparecchio (superiori ai 4mila euro), sarebbe stato costretto a vivere in condizioni di estremo disagio per evitare il ritorno in carcere: che sarebbe inesorabilmente scattato qualora non avesse sentito gli agenti bussare alla sua porta per effettuare i consueti controlli sullo stato di detenzione in casa. Anzi, a causa della sua sordità, sarebbe stato costretto a "passare tutte le notti sveglio e a dormire accanto la porta d’ingresso". L’avvocato Pacifici ha spiegato: "Ho speranza che la Procura di Roma possa aprire un fascicolo e disporre un’approfondita indagine, capace di fare giustizia in questo caso e in altri analoghi". Milano: a Bollate c’è un asilo nido in carcere di Cristina Lacava Io Donna, 22 luglio 2014 Apre a settembre lo spazio per i figli dei dipendenti. Aperto anche al territorio circostante. Si entra da un cancello colorato, ben separato dall’edificio principale. Si attraversa un giardino con sabbiere, piscinette, un orto e si arriva in un piccolo mondo ovattato, a colori pastello, con mobili in legno naturale e una cucina interna. Aprirà a settembre nel carcere di Bollate (Mi) l’asilo nido Blubaobab. Uno spazio per 20 bambini da tre a 36 mesi, i figli dei dipendenti ma anche - si spera - i piccoli abitanti dei paesi vicini: un esperimento quasi unico in Italia. "Il nostro nido è parte di un programma di welfare più ampio per chi lavora da noi; 470 persone tra polizia penitenziaria e amministrativi, fra cui 40 donne" dice Massimo Parisi, direttore del carcere, che conta 1.167 detenuti. La scommessa è di trasformarlo in un servizio al territorio: "In Italia qualcuno ha già provato ad aprire nidi in carcere. Ma non ha funzionato, perché i genitori non mandavano i figli in uno spazio contiguo a una prigione. Timori, diffidenza...". A Bollate, però, il rapporto con l’esterno è già quotidiano. Da tempo funzionano a pieno ritmo falegnameria, vivaio, catering, call center, teatro. "Per il nido, stiamo studiando convenzioni con aziende della zona. E pensiamo al prossimo passo: aprire al pubblico la palestra destinata al personale" continua Parisi. Senza dimenticare però chi resta dentro: "Abbiamo anche in progetto un asilo nido destinato esclusivamente alle 90 detenute". Livorno: anche la Germania elogia l’isola-carcere di Gorgona ed il suo vino www.nove.firenze.it, 22 luglio 2014 Dire che l’immagine della giustizia e delle carceri italiane sia catastrofica è un eufemismo. Solo qualche giorno fa a sparare a zero contro un sistema inefficiente ci ha pensato la Corte di Strasburgo che ha accusato il sistema carcerario italiano di essere disumano in occasione della vicenda dell’istituto di Sassari. A rincarare la dose l’ispezione Onu guidata dal norvegese Mads Andenas, al termine della quale è stato stilato un memorandum allarmistico che denuncia il disastro del nostro universo penitenziario sia dal punto di vista del trattamento che della certezza della pena. Ma qualche eccellenza esiste e l’autorevole stampa estera è disposta a segnalarlo. Parliamo di Gorgona, carcere dell’omonima isola toscana a cui il prestigioso quotidiano tedesco Die Welt ha dedicato un lungo reportage. Un elogio, questo del Die Welt, che non sorprende Enrico Rossi, Presidente della Regione Toscana: "Il modello Gorgona è un esempio di come l’esperienza del carcere possa finalmente rispettare i principi di Beccaria, ovvero che il primo obiettivo deve essere il recupero. Dopo tante critiche internazionali, la Toscana dimostra che c’è un’altra via e che in questo Stato e imprenditoria possono collaborare con successo" Nel suo ampio speciale, l’inviato Georges Desrues definisce "pregevole" l’iniziativa che ha reso unica questa realtà e che racconta con dovizia di particolari: "Gorgona è un’isola che si trova a più di 30 km dalla terra ferma, in provincia di Livorno, nell’arcipelago toscano cui appartengono anche le isola d’Elba e di Montecristo. L’isola è famosa per ospitare anche un carcere molto particolare, in cui detenuti, grazie alle pregevoli iniziative del direttore Carlo Mazerbo, si dedicano principalmente ad attività sociali e utili per il loro sostentamento ma, allo stesso tempo, per il benessere dell’isola. Oltre agli allevamenti di animali da cortile e alla coltivazione di diverse specie di piante, frutti e verdure, dall’anno scorso è partito un nuovo progetto, quella della produzione di vino proprio. Il direttore ha così contattato alcuni maestri vignaioli toscani, tra cui anche la famiglia dei Marchesi de Frescobaldi. Lamberto Frescobaldi, la cui famiglia produce vino da almeno 30 generazioni, ha partecipato con grande entusiasmo a questo nuovo progetto. Sono tuttora una settantina i detenuti - prosegue Desrues - che curano il vigneto e si occupano della produzione del vino "Frescobaldi per Gorgona". La famiglia ha messo a disposizione anche tutte le apparecchiature e le strutture necessarie per la vinificazione. L’anno scorso è stato imbottigliato il primo esemplare di questo vino, per un totale di ben 2.700 bottiglie che contenevano questo cuvée derivato da uve di Vermentino e Ansonica, tipiche della regione e adatte al clima e alla natura del terreno dell’isola. Il risultato è un tipico bianco mediterraneo, dal bel color paglierino e molto ben strutturato, fresco e sufficientemente acido, con note molto forti di frutti esotici, camomilla e nocciola e con retrogusto persistente. Presto il vigneto verrà esteso, verranno aggiunte nuovi viti e, in programma, ci sono anche varietà di uve rosse. Il vino - conclude il Die Welt - va così ad aggiungersi ai tanti prodotti confezionati dai detenuti del carcere di Gorgona: olio d’oliva, miele, formaggio bovino, caprino e pecorino, latte, frutta e verdura. Tutto biologico e fatto a mano". Cagliari: un taxi solidale per disabili, detenuti e homeless, con l’aiuto di sponsor privati Ansa, 22 luglio 2014 Cinque posti più un elevatore per carrozzina: una vettura, Doblò Fiat, ora è a disposizione per aiutare chi, anziani o disabili, ha difficoltà a spostarsi in città per una visita medica o per qualsiasi necessità. Una sorta di taxi solidale pronto a macinare chilometri da una parte all’altra di Cagliari. È il risultato del progetto, a cui la Caritas diocesana ha aderito lo scorso ottobre con il patrocinio del Comune, portato avanti dalla Società Pmg Italia: il mezzo viene dato in concessione, in comodato gratuito per quattro anni, adattato per le esigenze di mobilità dei cittadini più disagiati, come disabili, anziani, minori. La Pmg Italia garantisce alle aziende inserzioniste presenza pubblicitaria e ritorno di immagine con l’apposizione del logo sulle fiancate del veicolo. "Sarà utilizzato - ha assicurato il responsabile regionale della Caritas, don Marco Lai - come unità di strada per le 400-500 persone che a Cagliari vivono fuori da una casa per il disagio soprattutto economico. Ma la vettura può essere messa a disposizione per accompagnare i detenuti e continuare così l’azione degli operatori della Caritas anche in carcere". Fondamentale è stato anche l’intervento degli sponsor. La Pmg Italia garantisce agli inserzionisti la pubblicità: "Il metodo è interessante - ha detto l’arcivescovo di Cagliari, Arrigo Miglio - fondamentale questa sinergia tra Caritas, Diocesi, volontari, Comune e imprese: non dobbiamo mai perdere di vista le povertà". Coinvolto anche il Comune: "Stiamo assistendo a un forte incremento di povertà - ha sottolineato l’assessore delle Politiche sociali, Luigi Minerba - e questa collaborazione è importante per trovare delle soluzioni". Saluzzo (Cn): da Arenzano al Piemonte per insegnare poesia ai detenuti di Valentina Bocchino Il Secolo XIX, 22 luglio 2014 Una cella con vista luna, i rimpianti degli anni passati, la nostalgia di una vacanza, il pianto di una madre a cui manca il figlio, un orologio rotto che ferma il tempo, le sbarre diventano "quadri di ferro", e così anche il carcere si trasforma in poesia. Lo sa bene Fabia Binci, ex professoressa di letteratura italiana, presidente dell’Unitre di Arenzano e Cogoleto e anima del concorso di poesia Città di Arenzano, che ha accettato di insegnare l’arte del componimento all’interno dei penitenziari nell’ambito del progetto internazionale "Parol". L’iniziativa, nata a fine 2013, è finanziata con il sostegno della Commissione Europea e organizzata in Italia da Cascina Macondo - che propone percorsi laboratoriali per detenuti, dalla poesia al teatro, dalla danza alla ceramica, per una durata di tre anni. E così, con un pass appuntato sul petto e il cuore che batte forte, Fabia è entrata in carcere. Ad ascoltarla, gli ospiti delle case circondariali "Lorusso-Cutugno" di Torino e "Rodolfo Morandi" di Saluzzo, le uniche due in Italia che hanno aderito al progetto. "Mi ha parlato di questa iniziativa Pietro Tartamella, con me nella giuria del Concorso Internazionale di Haiku. Credo che la scrittura, oltre ad essere un balsamo per le ferite dell’anima, possa essere un incentivo a ricostruire la propria vita: d’altronde l’articolo 27 della Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e per rieducare bisogna riempire quel vuoto che si crea quando si passano giornate intere senza prospettive". Fabia avvicina i detenuti agli haiku, componimenti di origine giapponese formati da tre versi di cinque, sette e cinque sillabe: "All’inizio ho portato dei cartoncini colorati con alcune parole scritte sopra, un grimaldello per aprire la serratura dei ricordi". Le lezioni si sono intrecciate con "Good Morning Poesia", uno spazio all’interno dell’ora d’aria che consente la lettura collettiva di poesie. Le emozioni più forti sono le reazioni dei detenuti: "Uno di loro mi ha ringraziata, dicendomi che forse, se fosse entrato prima a contatto con il mondo della poesia, oggi non si troverebbe qui. Un altro mi ha detto che i versi gli hanno permesso di riscoprire i suoi ricordi, che qui si chiamano semplicemente "precedenti". Chi sta scontando una pena, tramite la rieducazione, spesso può diventare un’altra persona rispetto a quella che è stata condannata, ha diritto di ritrovarsi, di rinascere, altrimenti la detenzione diventa una barbarie diseducativa, semplicemente punitiva". Per portare a termine il percorso triennale di "Parol", Cascina Macondo ha lanciato l’iniziativa "Adotta una bolla di sapone": con un euro a testa, si potrà donare un piccolo contributo per coprire le spese. Svizzera: incendio in una cella del carcere di Zurigo, feriti un detenuto e un agente www.tio.ch, 22 luglio 2014 Un detenuto e un secondino sono rimasti feriti questa sera dopo lo scoppio di un incendio in una cella del carcere distrettuale zurighese di Horgen. Le cause del sinistro non sono state ancora chiarite, ha indicato in serata la polizia cantonale, allarmata poco dopo le 18. L’incendio è scoppiato in una cella situata al secondo piano del carcere. Il detenuto e il secondino che lo ha tratto in salvo hanno riportato ferite ancora imprecisate, scrive la polizia in un comunicato. I pompieri di Horgen hanno presto domato le fiamme. Per ragioni di sicurezza altri cinque detenuti dello stesso piano sono stati fatti uscire dalle loro celle e sistemati altrove nell’area della prigione. Sul posto sono intervenute la polizia cantonale, sostenuta da diversi agenti comunali, e alcune ambulanze, riferisce ancora la nota. Medio Oriente: fazioni palestinesi sperano in scambio di prigionieri con Israele Nova, 22 luglio 2014 Dopo i festeggiamenti a Ramallah, in seguito alla notizia data da Hamas e non confermata da Israele, del rapimento di un militare israeliano a Gaza, ora i politici palestinesi si dicono ottimisti per un possibile scambio di prigionieri. Il segretario generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, Ahmed Saadat, ex detenuto nelle carceri israeliane, sembra essere il più contento di tutti. Sono, infatti, i suoi compagni che potrebbero essere liberati in un eventuale nuovo scambio, secondo quanto spiega lui stesso all'emittente "al Jazeera". Per questo motivo Saadat era insieme alle migliaia di persone che ieri sera hanno festeggiato in Cisgiordania. Francia: addio prigione dei famosi, a Parigi chiude per restauri la Santé La Stampa, 22 luglio 2014 Più, ovviamente, molti criminali di professione, compreso il più celebre: Arsenio Lupin finisce dentro nel romanzo "813". Fino al 2000, i detenuti venivano sistemati per provenienza geografica: nel blocco A quelli francesi e dell’Europa occidentale, nel B quelli dell’Africa nera, nel C quelli del Maghreb, nel D il resto del mondo. Poi questa selezione para-calcistica fu abolita. I più sfortunati finivano alla ghigliottina. L’ultima esecuzione alla Santé risale al 1972: il "rasoio nazionale" accorciò due evasi che avevano ammazzato i loro ostaggi. A proposito di evasioni: in 147 anni, ne sono riuscite solo tre. L’ultima, nel 1986, fu anche la più spettacolare: il rapinatore Michel Vaujour scappò a bordo di un elicottero pilotato dalla moglie Nadine. Poi ci fecero anche un film. Adesso la Quinta Repubblica, che sulle patrie galere è molto meno attenta del Secondo Impero, chiude la galera che cade a pezzi. I restauri dovrebbero finire nel 1919, ma la tempistica non è chiara. In ogni caso, è un altro colpo al vieux Paris. Come cantava Georges Brassens: "Onm’a jeté / à la porte de la Santé".