Quando il miraggio della bella vita spinge i giovani immigrati verso il baratro Il Mattino di Padova, 21 luglio 2014 È facile immaginare che i giovani migranti che finiscono in carcere siano "nati delinquenti", ma non è così, spesso dietro alle loro storie ci stanno famiglie che mai avrebbero immaginato un destino simile per i loro figli, e soprattutto ci stanno la tentazione della droga, le trasgressioni, il sogno di poter fare "la bella vita" cercando scorciatoie. Tutti comportamenti a rischio che accomunano tanti ragazzi italiani a tanti ragazzi immigrati, e dovrebbero spingere gli adulti ad essere più attenti e più capaci di ascoltare i giovani, e a non illudersi che nelle loro famiglie "certe cose non succederanno mai". Non voglio che mio figlio abbia come riferimento un padre tossicodipendente Quando nel mio Paese, l’Albania, si è scatenata una guerra civile, con la forze conservatrici che intendevano far tornare il passato regime per non perdere i loro privilegi, la mia famiglia ha deciso di emigrare. Rimanere in Albania significava mettere a rischio la nostra vita con la prospettiva di un futuro incerto. Era il 1997 quando sono approdato in Italia e avevo 13 anni. Mi sono ritrovato cosi sradicato dal mio ambiente culturale e catapultato in una società completamente diversa, che mi ha provocato non pochi problemi di integrazione. Provenivo da un Paese dove il grado di civiltà era ben diverso da quello che ho trovato qui, un Paese dove i rapporti tra le persone avevano come metro di misura principale l’imposizione forzata. Anche quando ho cercato di adattarmi al nuovo sistema di rapporti sociali, nel momento che mi si ponevano i problemi tendevo a voler prevalere con la forza nel modo di affrontarli. Forte dei "valori" assorbiti da piccolo, dove per essere considerato era necessario imporsi sull’altro, ho continuato in questo modo di essere anche qui. Nell’ambiente della scuola all’età di 15-16 anni la trasgressione è l’obiettivo principale di un adolescente: tutto ciò che gli adulti classificano come negativo e da evitare, per noi diventava il meglio che bisognava provare. Approfittare della ricreazione per farsi una canna era facile, ma quando si rientrava in classe la volontà di studiare e la capacita di capire era andata a farsi benedire e s’innescava una dinamica in cui lo studio aveva lasciato il posto alla trasgressione. Siamo finiti su un piano inclinato che ci portava sempre più in basso, senza avere né la volontà né la capacità di risalire. Ci si sente invincibili quando si comincia ad ingurgitare qualche pastiglia di ecstasy e dopo aver provato ci si rende conto che non se ne può fare a meno, perché finito l’effetto una persona si sente vulnerabile. Allora arriva la cocaina. Ma questa costa ed è necessario cominciare a venderla se si vuole essere in grado di mantenere il vizio. Dalle prime trasgressioni, penalmente insignificanti, ci si ritrova impigliati nelle maglie della giustizia. Quando si arriva a questo livello si è già marcato un punto di non ritorno, perché vendendo droga si imprime un salto di qualità nella propria personalità e ci si trasforma in un essere "onnipotente" a cui tutto è consentito. Ti vogliono bene e ti cercano come un grande, ma lo fanno solo per le tue disponibilità economiche. Cosi senza rendersene conto la vita cambia; droga, alcol ambienti viziosi e si perde il contatto con la realtà fatta di persone normali e pacifiche. Ed è così che, dominati da alcol e droghe, una festa può trasformarsi in tragedia. Questo è successo a me. Una serata di divertimento, l’esaltazione prodotta dalla cocaina e dall’alcol, si scivola facilmente in una rissa e dai pugni si passa alle bottigliate. In questo frangente trovo un coltello sul bancone e colpisco la prima persona che mi trovo davanti. Questo ragazzo non lo avevo mai visto e se lo vedessi non lo riconoscerei neppure, a causa dello stato in cui mi trovavo al momento dell’episodio. Fortunatamente, nonostante la grave ferita, ora sta bene e ne sono contento. Durante questi anni ho avuto modo di riflettere sulla mia disgraziata vita e non intendo più provocare sofferenze a me, agli altri, alla mia famiglia e a mio figlio. Lui ha nove anni e non voglio abbia come riferimento un padre tossicodipendente che entra ed esce dal carcere. Voglio essere per lui un modello di positività. In carcere frequento la scuola, faccio parte della redazione del periodico interno e cerco così di dare un significato costruttivo alle mie giornate e di allontanare la cultura negativa che mi ha portato qui dentro. A questo si aggiunge il costante confronto con le scolaresche che entrano in carcere e dialogano con noi detenuti, un dialogo che favorisce l’abbandono di valori negativi e il rafforzamento di un sistema di vita basato sul rispetto delle regole. Nedian C. Non mi andava di ritornare in Albania da fallito e con un debito da saldare Tante storie di emigrazione hanno un denominatore comune: fuggire dalle miserie e dalle guerre del proprio Paese in cerca di una prospettiva migliore, al prezzo di tribolazioni che non sempre sono compensate dai risultati che si riesce a ottenere. Con la caduta del regime dittatoriale del Partito comunista e la liberalizzazione anche il mio Paese, l’Albania, ha iniziato ad uscire dall’isolamento e la vicinanza all’Italia ha fatto credere alla popolazione che il vostro fosse il luogo del bengodi. Figlio di una famiglia povera, mi piaceva giocare a calcio ed a detta degli allenatori avrei potuto fare carriera se ci fossero state le condizioni per continuare, ma vedevo che venivano privilegiati i ragazzi che avevano alle spalle genitori benestanti. Le ristrettezze economiche ed il carattere vivace mi hanno portato a trascurare la scuola e a trasgredire la legalità per appropriarmi con piccoli reati di quel poco che altri avevano in abbondanza. Quello che facevamo non era certo per arricchirsi, ma più semplicemente per soddisfare le esigenze naturali di un adolescente di non sentirsi escluso dalla vita sociale dei coetanei: qualche sigaretta, poter portare le ragazze a ballare, alle feste della scuola. Da considerare anche che molte famiglie, compresa la mia, alla fine degli anni 90 hanno perso tutti quei pochi risparmi che avevano racimolato in una vita di sacrifici, e cosi ci siamo trovati in uno stato ancor più indigente. Ho cominciato a lavorare, ma giovane e senza una qualifica potevo farlo solo saltuariamente e senza garanzie e quando andava bene riuscivo a guadagnare 100 euro al mese: con questa cifra neanche in un paese povero come il mio si poteva intravedere un futuro. A 19 anni, con il miraggio dell’Italia come il paese che mi avrebbe dato un futuro, ho deciso di emigrare per poter dare anche un aiuto alla mia famiglia. Con molti sacrifici e indebitandomi sono riuscito a racimolare il denaro per il viaggio. Una volta arrivato in Italia mi sono reso conto che la mia condizione non si è modificata molto, perché anche qui trovavo lavoro solo saltuariamente e sempre in nero, in quanto per la giovane età e la mancanza di una professionalità non potevo aspirare ad altro. Non bisogna dimenticare poi che oltre ai problemi di sopravvivenza dovevo anche pensare ad onorare il debito contratto per emigrare, se non volevo mettere a rischio l’incolumità della mia famiglia in Albania. Per risparmiare il denaro dell’affitto ho cominciato a stabilirmi in casa di conoscenti, conducendo una vita sempre più provvisoria, ma non mi andava di ritornare in Albania da fallito e con un debito da saldare, perché saremmo stati a rischio di conseguenze gravi sia io che la mia famiglia. Ed è con questo rebus che mi martellava costantemente che ho cominciato a frequentare coetanei che vivevano di illegalità e ho intravisto la soluzione dei miei problemi dedicandomi a tempo pieno a queste attività. Con questa scelta la mia esistenza ha cominciato a cambiare perché nelle mie tasche entrava denaro facile e potevo permettermi di frequentare locali notturni, acquistare auto di lusso, che prima potevo solo sognare, vivere il momento euforicamente, senza pensare neanche lontanamente che questa vita facile poteva avere delle conseguenze: avevo saldato un debito, ma per farlo ne avevo contratto un altro ben più oneroso. A questo però non pensavo, la mia convinzione era che la vita che avevo scelto era dovuta al fatto di essere diventato qualcuno e perciò niente mi poteva succedere. A distanza di anni mi sono reso conto che quelle frequentazioni hanno distrutto la mia vita. Ed ora, a 24 anni di età mi ritrovo con una condanna di 26 anni di carcere da scontare e quando avrò terminato la pena sarò una persona adulta che dovrà ricominciare da zero. Sono stato condannato per un omicidio di cui non sono il diretto responsabile, semplicemente perché mi sono trovato insieme al responsabile al momento del delitto. Non solo, ma sono anche stato gravemente ferito e devo ringraziare il destino se sono ancora vivo. Durante questi sei anni di carcere ho iniziato un percorso costruttivo basato sullo studio, che intendo portare a termine con il conseguimento del diploma. Ho anche scoperto che frequentare la scuola mi consente di dare un significato costruttivo alle mie giornate, oltre a distogliermi dalla frequentazione dei detenuti che oziano, con i quali, volente o nolente, si finisce sempre per dialogare di cose che riguardano il modo di vivere che mi ha portato in carcere e che sono seriamente determinato ad allontanare dalle mie prospettive future. Inoltre frequentando la scuola mi trovo sempre a contatto con i professori, che sono persone che vivono rispettando le regole del vivere civile, e a lungo andare questo modo di pensare influenza anche il mio aiutandomi a ricostruire la mia formazione culturale. Dopo il raggiungimento della maturità la mia volontà sarebbe quella di proseguire con gli studi universitari, e sono fortemente intenzionato a continuare su questa strada, di autentico cambiamento. Elton X. Giustizia: riforma mancata in attesa dei 12 punti di Orlando, sfida su responsabilità civile di Maria Paola Milanesio Il Mattino, 21 luglio 2014 Il libro dei sogni ha 12 capitoli. Dodici traguardi che, se realizzati, rappresenterebbero una rivoluzione. Perché se accadesse ciò che il governo prospetta, avremmo - tanto per fare qualche esempio - un Paese dove i processi civili si concludono in un anno (nel primo grado), dove i corrotti avrebbero vita dura, dove si imporrebbe solo il merito (per le carriere dei magistrati) e dove il cittadino verrebbe risarcito se ha subito un ingiusto danno in un procedimento giudiziario. Dei "sogni" del governo si conoscono solo i contorni. A fine giugno Palazzo Chigi ha presentato le linee-guida sulla riforma della giustizia, aprendo un confronto che si chiuderà il 31 agosto. Poi si procede, assicura il premier Matteo Renzi. Fatto è che la strada è quanto mai impervia: perché se tutti i partiti, proprio tutti, sono d’accordo nel ridurre la durata dei processi o il peso delle correnti all’interno del Csm; molti - leggasi centrodestra - non vedono di buon occhio una riforma della prescrizione o una reintroduzione del falso in bilancio. Questione a parte è il risarcimento del cittadino danneggiato da un magistrato. Responsabilità civile. Questione delicata e che rischia di dividere i partiti anche al loro interno. Pd, Sel e il M5s hanno già detto no, in aprile, a un testo sostenuto da Forza Italia, con il quale si introduceva la responsabilità diretta. Suscitando le ire dei forzisti e le proteste del Ncd. Ora, in commissione al Senato, c’è un testo - relatore il socialista Enrico Buemi - che prevede la responsabilità indiretta. Vale a dire, chi si ritiene danneggiato da un magistrato, nell’ambito di un procedimento giudiziario, si rivolge allo Stato, che poi dovrà rivalersi nei confronti del magistrato stesso, qualora venga riconosciuto "colpevole". "In oltre vent’anni ci sono state solo 4 condanne e mai lo Stato si è rivalso sul magistrato", dice Buemi. Contrarissimo anche lui alla responsabilità diretta, ma favorevolissimo a una maggiore severità. Ad esempio, se un giudice si discosta dall’interpretazione di una legge data dalle sezioni unite della Cassazione, è obbligato a motivare la sua scelta. L’Anm, naturalmente, frena, perché vede in questo una limitazione dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato. Giustizia civile. Otto anni la media-monstre della durata nei tre gradi di giudizio. Abbastanza perché la stragrande maggioranza delle condanne dell’Italia per l’irragionevole durata dei procedimenti riguarda il settore civile. Il governo punta sulla conciliazione (si media tra avvocati per evitare di arrivare davanti al giudice), su procedure semplificate che dovrebbero consentire di ridurre i tempi del processo di 6-9 mesi e su misure che evitino le impugnazioni strumentali. Il traguardo è chiudere in un anno il processo di primo grado e dimezzare l’arretrato. Saranno rafforzate anche le competenze del tribunale delle imprese, che potrà intervenire su casi di concorrenza sleale, pubblicità ingannevole, azioni di classe a tutela dei consumatori. Giustizia penale. Se i risultati sono stati incoraggianti nel contrasto alla criminalità organizzata, altrettanto non si può dire per la criminalità economica. Proprio in quest’ottica il governo vuole reintrodurre il falso in bilancio e introdurre il reato di auto-riciclaggio. Cambia anche la prescrizione e si accelerano i tempi del processo penale. Forza Italia su questi punti è pronta ad alzare le barricate. Secondo il ministro Orlando "bisogna interrompere i termini della prescrizione con il primo grado di giudizio ma, al contempo, introdurre dei correttivi perché non si può stare sotto processo per tutta la vita". Sulla durata dei processi, la situazione è meno grave che nel settore civile. Dalla iscrizione della notizia di reato fino alla sentenza definitiva, dice il presidente della Cassazione, passano circa cinque anni. Csm. Nuova sistema elettorale per il Csm, più carriera per merito e non grazie all’appartenenza alle correnti. Pochissimi i dettagli su questo capitolo. Orlando ha sottolineato che "è opportuna una riflessione sul tema del sistema elettorale del Csm per assicurare la sua piena neutralità e la impermeabilità rispetto a interessi di parte e logiche di carattere corporativo". Forza Italia vuole una "depoliticizzazione del Csm e di conseguenza fine delle correnti politiche che fanno il bello e il cattivo tempo nelle nomine". Due modi diversi per dire la stessa cosa, ma la differenza di toni già anticipa le distanze che si creeranno quando si passerà alla definizione di un testo. Intercettazioni. Con la separazione delle carriere, tema che non compare nel piano del governo, sono il cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi. Renzi non vuole limitarle per i magistrati, ma valutare se c’è un limite nella fase della pubblicazione. Si sa che l’ex Cavaliere vuole una stretta severissima sulla possibilità di intercettare, limitandola solo a reati di mafia e terrorismo. Giustizia: Nencini (Psi); i giustizialisti si pentano la vera svolta è sulla responsabilità civile di Pietro Perone Il Mattino, 21 luglio 2014 Il viceministro: il patto è più solido ma la legge elettorale va cambiata diritto di tribuna, preferenze o collegi. La guerra dei vent’anni con la sinistra divisa tra garantisti e giustizialisti si consuma nell’assoluzione di Berlusconi per il caso Ruby? Se lo augura il socialista Riccardo Nencini che oltre a essere segretario del Psi e anche uno dei vice ministri del governo Renzi: "Una buona notizia se la sinistra, come sostiene il presidente dell’assemblea del Pd, Orfìni, si riscopre garantista, noi lo siamo sempre stati". Non chiederete neanche un mea culpa? "Una buona parte dovrebbe farlo perché ha accettato che la seconda repubblica si fondasse su una linea di confine tra destra e sinistra diversa da ogni altra parte del mondo: il confine in questi vent’anni non è stato come ridistribuire la ricchezza in Italia, mala giustizia con due tifoserie schierate. Sul Csm, per esempio, proponiamo il sorteggio: vogliamo discuterne serenamente? Secondo noi è l’unico modo per risolvere il problema delle correnti in magistratura". Il verdetto rappresenta dunque una svolta? "Non darei una valutazione eccessiva alla vittoria in Appello ma sicuramente significa due cose: la prima è che i giudizi etici non si possono sovrapporre a valutazioni di ordine penale. Siamo di fronte a due campi distinti e c’è una linea precisa di demarcazione, Niccolò Macchiavelli che separa la politica dalla religione intesa come era nel Seicento. La seconda questione attiene il centrodestra italiano: si ricostruirà per l’ennesima volta intorno all’uomo che l’ha capeggiato negli ultimi vent’anni? Temo disi". Berlusconi non si farà da parte? "Non credo che possa mollare perché non ha sciolto il suo vero conflitto di interesse, la protezione delle sue aziende attraverso la politica e ciò non gli consente di svolgere il ruolo che la sua età e l’esperienza gli imporrebbero, nonostante l’Italia sia cambiata non solo per la sinistra ma anche per lui". Brunetta rilancia la grazia. "Non sono un giurista ma uno storico, so però che per ottenere un atto di clemenza bisogna chiederlo". Potrebbe però sgombrare il campo dal macigno-Berlusconi che finora ha impedito un confronto politico da paese normale e si potrebbe anche mettere mano alla riforma della giustizia. "Spero che la sentenza possa servire ad archiviare quella linea di confine su cui le seconda repubblica è nata. Basti pensare come l’altro giorno ha votato il collega Di Lello nella giunta delle autorizzazioni sulla richiesta di arresto per Galan. Una posizione difficile, ma sui principi i socialisti sono intransigenti". In Senato si discuterà a breve della responsabilità civile dei magistrati: chiederete al Pd di rendere visibile la svolta garantista? "Come prima cosa chiederemo che il dibattito non si svolga tra due opposte tifoserie perché non stiamo assistendo a Fiorentina-Napoli. Mia figlia, appena diventata medico, mi ha chiesto come regalo un’assicurazione professionale. Perché un magistrato non deve essere responsabile dei suoi gesti? Se le parole di Orfini non sono dichiarazioni generiche, la svolta del Pd si vedrà sulla responsabilità civile dei giudici. Per quanto ci riguarda il relatore è il socialista Buemi e abbiamo a Palazzo Madama una piccola, ma agguerrita pattuglia di socialisti". Battaglia facile per chi viene dalla storia di Craxi, ma gran parte del Pd nel ‘93 era su posizioni opposte quando il Psi fu colpito dalla prima raffica di avvisi di garanzia. "Il garantismo non l’ha inventato Bettino, ma è scritto nei diari di Pietro Nenni: "Spesso la legge è debole con i forti e forte con i deboli". E non voglio citare i fondatori del socialismo perché sulla giustizia abbiamo alle spalle una storia molto lunga. Oggi se hai i mezzi investigativi attraverso un buon avvocato puoi difenderti, per non parlare del settore civile con dieci milioni di processi pendenti. Come può un cittadino smuovere le acque in tribunale e vedere riconosciute le proprie ragioni?" Il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi è più forte: si riduce di conseguenza il campo d’azione per chi come voi non è d’accordo su alcuni punti delle riforme? "I dubbi più grossi riguardano la legge elettorale: la soglia di accesso al premio di maggioranza è troppo bassa e va alzata. Inoltre i partiti di una coalizione devono godere del diritto di tribuna perché è singolare il principio secondo cui una forza contribuisce alla vittoria dell’alleato e resta fuori dal Parlamento. In questo modo non si garantisce la pluralità dell’alleanza". Anche sulle preferenze darete battaglia? "Esistono due modi per rappresentare al meglio le opinioni dei cittadini: scegliere il candidato o avere collegi molto piccoli in cui è implicita la scelta a favore dell’uno o dell’altro. Gli obiettivi di una legge elettorale sono essenzialmente quelli di garantire la governabilità e consentire la scelta dei rappresentanti, chiediamo semplicemente che questi due principi vengano garantiti". Vi sta bene il Senato non elettivo? "Sono stati depositati dai socialisti due disegni di legge sul Senato federale, il primo nel 1997 e l’altro nel 1999: meno eletti e rappresentanti delle Regioni e dei sindaci, tesi rilanciata nel nostro congresso. Anche su questo non cambiamo opinione". Ma c’è dell’altro: si modificano la platea per l’elezione del capo dello Stato, il titolo V, l’immunità. "Non è possibile avere due Camere con regole diverse: se lo scudo esiste a Montecitorio deve esserci anche a Palazzo Madama, poi discuteremo dei limiti. Sul federalismo alcune materie vanno affidate allo Stato e soprattutto dobbiamo essere consapevoli che siamo di fatto in una fase costituente. Scartata purtroppo la strada dell’assemblea, chiediamo che Palazzo Chigi si faccia promotore di una giornata di studio con le commissioni Affari costituzionali e i capigruppo per capire dove vogliamo andare, creare una cornice entro cui modificare la Costituzione ridisegnando i principi su cui si fonda lo Stato italiano". Giustizia: Rita Bernardini (Radicali); proseguo il Satyagraha con Pannella e 200 cittadini Adnkronos, 21 luglio 2014 Diciannovesimo giorno di Satyagraha per la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini, Marco Pannella e altri 200 cittadini per sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione delle carceri italiane. "È inconcepibile - afferma Bernardini - per uno Stato che si definisca democratico che il boss di "Cosa nostra" Bernardo Provenzano sia ancora detenuto in regime di 41-bis (carcere duro). Occorre intervenire immediatamente per garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere curati nelle strutture carcerarie". "Il decreto sulle carceri in fase di conversione alla Camera, nel prevedere le misure risarcitorie per i detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti - dice ancora Bernardini - non ha corrisposto minimamente a quanto previsto dalla Corte Edu e a principi elementari di costituzionalità. Occorre che televisioni pubbliche e private rimedino all’ignobile censura che hanno riservato agli esiti della visita effettuata in Italia (dal 7 al 9 luglio) da parte delle Nazioni unite tramite il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria". Capezzone (Fi): ascoltare ragioni Pannella e Bernardini "Ascoltare le ragioni di Marco Pannella e Rita Bernardini su giustizia e carceri. La politica, tutta la politica, farà bene a rispondere, non solo a esprimere vaga solidarietà". Lo afferma Daniele Capezzone, di Forza Italia, presidente della commissione Finanze della Camera. Giustizia: Marco Pannella sospende lo sciopero della sete… "sospendo ma non smetto" di Caterina Lupi L’Unità, 21 luglio 2014 Il leader radicale segue le prescrizioni dei medici che sospettano un tumore al polmone. A Radio Radicale: "Sospendo ma non smetto". Questa volta si è convinto, Marco Pannella a sospendere lo sciopero della fame e della sete cominciato martedì scorso per protestare contro la situazione delle carceri. Ha accettato la prescrizione dei medici che, come lui stesso ha detto, dopo aver effettuato una biopsia al polmone sospettano la presenza di un tumore. "Sospendo per fiducia nei loro confronti", ha spiegato lui stesso a Radio Radicale, "ma non smetto". "Già da ieri sera (sabato, ndr) per fiducia nel collegio dei collegi ho accettato di sospendere lo sciopero della fame e della sete per 24-36 ore. So per esperienza che basta un giorno di interruzione perché il corpo reagisca", ha annunciato Pannella alla radio del partito. Poi però il leader radicale spiega: "L’ipotesi è che si tratti di un fatto tumorale. Tutti sanno che c’è una gamma articolata e diversa di fenomeni, si tratta di capire quale". Per il risultato "si prevede dai nove ai dieci giorni per quello che ricercano". Sabato il dottor Claudio Santini e i medici curanti hanno lanciato l’allarme. Nel bollettino medico hanno detto che ritenevano "indispensabile l’immediata sospensione del digiuno di Marco Pannella", appena dimesso dalla clinica romana Pio XI "dove era stato sottoposto ad una serie di accertamenti, tra i quali un esame bioptico, per definire la natura di un processo espansivo polmonare" e poi stabilire gli "opportuni provvedimenti terapeutici". Pannella, che sabato sera ha smesso di non mangiare e non bere, ieri ha premesso che alle 17 avrebbe annunciato le sua decisione e così ha fatto, intervenendo alla radio nella conversazione con Massimo Bordin: "Relativamente alla lotta politica che purtroppo resta di monopolio radicale, voglio dire che annuncerò che cosa sto decidendo di fare degli ordini, delle prescrizioni che, attraverso il professor Santini, il collegio dei miei medici mi hanno inviato, cioè quello dell’immediata sospensione delle forme del mio Satyagraha", ha detto Pannella. Un "invito pubblico" che i medici sono "obbligati" a fare, ha precisato il leader radicale, che per ora ha deciso la sospensione solo per un giorno e mezzo. Nel bollettino comunque i medici avevano illustrato le condizioni del (testardo) paziente: "Nonostante un evidente stato di denutrizione testimoniato da un peso di 75 kg, durante la degenza ha continuato il digiuno totale per cibi solidi e liquidi. I sanitari - conclude il bollettino - ritengono assolutamente necessario sospendere immediatamente il digiuno, onde evitare che una ulteriore, inevitabile compromissione dello stato generale di salute renda inattuabili tali decisioni". Continua invece la protesta Rita Bernardini, giunta al 19esimo giorno di sciopero della fame, insieme a altri 200 cittadini, informa una nota del Partito radicale. La protesta dello storico leader e della segretaria Radicale è a sostegno della richiesta di "intervenire immediatamente per garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere "curati" nelle strutture carcerarie. Responsabili di questa situazione - accusano i Radicali - sono il ministero della Giustizia, quello della Sanità e i magistrati di sorveglianza. Giustizia: io, magistrato in cella nell’inferno del carcere preventivo di Martino Villosio Il Tempo, 21 luglio 2014 Per la prima volta parla Chiara Schettini, il magistrato del tribunale di Roma arrestato con l’accusa di aver pilotato i fallimenti. "L’obbrobrio di sbattere subito dentro la gente l’ho capito solo dopo aver provato la galera di Rebibbia Lo Stato toglie dignità alle persone, dentro si muore". Ecco il primo magistrato donna arrestato. La toga della "fallimentare" di Roma sbattuta in cella dai colleghi del penale per corruzione e peculato tristemente nota alla cronache per quella frase choc intercettata al telefono: "Io sono più mafiosa dei mafiosi". Parla per la prima volta il giudice Chiara Schettini sprofondato in quel "sistema atavico" di corruzioni e spartizioni tra giudici e curatori, sulle macerie delle imprese in crisi. Una donna distrutta, annichilita, spezzata da 45 giorni trascorsi negli abissi penitenziari intrisi di sofferenza e degrado, lei che abitava ai Parioli. Ammaccata da uno tsunami giudiziario violentissimo la Schettini si racconta senza freni a Il Tempo. Un’intervista agghiacciante. Un magistrato che sulla propria pelle vive l’obbrobrio della carcerazione preventiva. Dottoressa Schettini, lei viene arrestata il 12 giugno 2012 con accuse gravissime... "Ho l’immagine ferma alla corsa dell’auto che mi trasportava, senza senso come la follia che mi privava della libertà; il vuoto assoluto; l’abbraccio di mio figlio più grande, la sua forza, la faccia imbronciata del piccolo che sapeva che la mamma non sarebbe tornata. L’unico pensiero che avevo era: dov’è la verità? L’articolo 275 del codice di procedura penale vieta la custodia cautelare in carcere nei casi di madri con bambini inferiori ai sei anni salvo "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", che non potevano essere le mie trattandosi di reati datati nel tempo e per i quali gli indagati arrestati erano stati già rimessi in libertà. Sono stata trattata come una feroce criminale, trasportata nel blindo da Rebibbia a Capanne". Da magistrato a detenuta. Una sorta di contrappasso giudiziario... "Prima dell’interrogatorio col Gip non ero mai stata interrogata né dalla Guardia di Finanza né dallo stesso pm, sebbene ne avessi fatto ufficialmente richiesta. Ma non sono riuscita a parlare e a fermare il pianto nemmeno davanti al Riesame. Ero sola, senza il mio difensore di sempre. Era difficile per me ricordare e non hanno mi hanno dato il tempo di leggere gli appunti che avevo scritto con tanta fatica". Cosa ha provato entrando nel carcere a Rebibbia? "Ho avuto paura di non farcela. Mi hanno scaricato in una realtà sconosciuta dove da giudice non ero ben vista inizialmente da alcune detenute. Ho avuto paura di non riabbracciare i miei figli, ho provato impotenza, un’ansia che a fatica riuscivo a governare. In carcere fallisce anche il più misero tentativo di ribellione. Rabbia e rassegnazione sono due concetti inscindibili". Com’è il quotidiano là dentro? "Ogni giorno è di ordinaria follia. Il ritmo della vita è paralizzato, schiacciato sotto il peso insostenibile della monotonia. La tolleranza e la pazienza solo raramente prevalgono perché sono sopraffatte dall’oscuro ma riconoscibile desiderio di vendetta. Eppure in tanta oscurità si avverte la purezza dell’anima. In carcere si prega moltissimo: l’unico punto di riferimento sicuro è la fede. Non c’è spazio per la gentilezza a meno che non si faccia capire che venga trasmessa dal cuore". Dai Parioli alla cella stretta. "Dentro le strutture non funzionano. Quella che chiamo "aria", e cioè la possibilità di sgranchirti le gambe, è troppo limitata, le porzioni di vitto sono ridotte, il cibo non è commestibile; le "domandine", necessarie per ogni cosa che si possa o voglia fare, spesso si perdono. E le visite mediche che tardano di mesi, se fa freddo ci si riscalda con le bottiglie di acqua bollente. Ovunque si sentono voci straziate immerse in una pozza di sangue che chiedono disperate l’intervento degli infermieri che non arrivano mai o giungono in ritardo; si litiga, ci si ammazza di botte, si vive in uno spazio irrisorio. Non ci sono percorsi rieducativi seri che diano la possibilità di lavorare o studiare". Cosa vorrebbe non avere mai visto o provato? "Ho negli occhi scene che non scorderò mai. A Rebibbia c’è Biura: drogata o pazza, parla in un linguaggio misterioso, si dispera, tenta di rompersi il collo, sputa. Con la pancia gonfia perché incinta si lancia contro il vetro della cella; vomita e si strappai capelli. La disperazione negli occhi e la voglia di morire ed allora toccandosi, senza pudore, per avere già perso la dignità mille volte, ha un orgasmo. Mi sono chiesta che significato può avere la vita per Biura? Ricordo di Valeria, consumata dalla droga e che sta cercando di disintossicarsi ma non ce la fa. I calzoncini sono abbassati sotto le mutande e lasciano vedere una pancia rigonfia, tatuata con una grande croce nera. L’aspetto è trasandato ma l’aria è dolce, da bambina, quando grida a Rita: "Amò fantine vedè l’arcobaleno, famme sognà!". In quel pezzetto di giardino, Rita, sciacquandosi la faccia sudata, proietta il tubo verso l’alto e l’acqua, con il sole che filtra dentro, lascia in-travedere ed immaginare l’arcobaleno. A Capanne invece c’era Hesna reclusa per furto. Quand’è nata la bambina più piccola, in carcere, le avevano diagnosticato un fibroma, che avrebbe dovuto operare. Ma non le hanno mai detto la verità. Urlava dal dolore, le avevano spiegato che si trattava di cirrosi epatica ma i suoi bambini erano troppo belli. Prima di morire chiedeva dei figli ma erano scomparsi. Non sappiamo dove e se sia stata sepolta. Caterina, omicida, deve scontare 35 anni: il fidanzato fatto a pezzi e trovato nel frigorifero. All’ennesima richiesta di permesso negata, Caterina, urlando e muovendosi scompostamente, ficcandosi le mani in gola, si lancia contro il blindo con tutta se stessa fracassandosi la testa. Il sangue le cola sul viso ma riescono a bloccarla soltanto tre assistenti". Torniamo a lei. Si difende dalle accuse di aver pilotato una serie di fallimenti traendone consistenti vantaggi economici, scaricando tutte le accuse sul suo ex compagno, unno-to commercialista, che anche in cella ha continuato a proteggere? "Contro la volontà del mio difensore, essendo certa che se lo avessi denunciato non sarei stata arrestata, ho deciso di non farlo perché ha prevalso il rispetto nei confronti di colui che è il padre di mio figlio. Quando però, sapendomi innocente, mi ha ingiustamente coinvolta, denunciandomi e sottraendomi il bambino, di tre anni, che ha vissuto continuativamente con me e che mi ha impedito di vedere e sentire per quasi quattro mesi, ho pensato che non avevo nessuna giustificazione nel tutelarlo e ho lasciato prevalere la verità, non nascondendo quello che sapevo e che mi ricordavo mi aveva detto lui stesso. Voglio, però, precisare che, dopo anni di indagini patrimoniali pesantissime ed invasive da parte della Guardia di Finanza sui miei conti e su quelli dei miei familiari - con il divieto di espatrio per controllare che non avessi denaro all’estero - è stato accertato che per le ruberie per 13 milioni di euro - alle quali, secondo le dichiarazioni accusatorie del mio ex compagno avrei preso parte come giudice delegato, non ho ricevuto un euro da nessuno. Sono indagata per peculato ed il vantaggio economico è elemento costitutivo del reato... compartecipare ad una truffa, di tale importo per affetto mi sembra un tantino eccessivo". Sì ma il suo compagno... "Ex compagno. È un collaboratore pentito, che per la sua "collaborazione" nell’affermazione della mia compartecipazione, ha tentato di ottenere un vantaggio: il patteggiamento. Essere collaboratore di giustizia significa avere fatto una scelta di carattere processuale, essere pentito significa avere intrapreso un percorso che si sviluppa su un piano interiore, che porta al distacco consapevole, dal reato. Ma può accadere che il collaboratore di giustizia, fingendosi pentito, tenti di ottenere in cambio di "qualche verità adatta al caso", un benefìcio, che non merita. Non dico una cosa nuova quando raccomando a tutti di stare attenti ai pentiti". Per l’opinione pubblica, lei è il magistrato che al telefono si definitiva "più mafiosa dei mafiosi". La gente si è chiesta: come può un giudice esprimersi in questo modo? Cosa risponde? "Capisco solo avendolo vissuto il dramma di quanti finiscono triturati, e rovinati, da una singola frase estrapolata dal contesto intercettato. Emi viene da ridere amaro. Si finisce sui giornali, indipendentemente da come termina la sto -ria, massacrati: tutto quello che hai cercato di fare di buono viene cancellato e dimenticato. Le parole, dette d’istinto, per proteggermi, per apparire cattiva e tentare di incutere timore, ma che non hanno alcun fondamento nella realtà, devono essere inserite in un colloquio privato tra me e il mio ex compagno, con il quale all’epoca mi sono scusata. Però mi lasci dire che persino le ragazze del carcere di Capanne (dove da Rebibbia sono stata trasferita) leggendo gli atti hanno immediatamente capito che si trattava di un’ enfatizzazione". La accusano di avere accumulato un patrimonio ingente. "Non ho mai avuto "bisogno" di dover utilizzare il mio ruolo negli acquisti. Non solo non ho mai comprato alcunché alla fallimentare, nemmeno da colleghi o tramite amici, considerando il fatto gravissimo e censurabile disciplinarmente, ma sono uscita dalle società immobiliari, di cui facevo parte per successione ereditaria. Come da rapporto della Finanza mia mamma ha venduto, dalla morte di mio padre, circa 250 immobili e tutti gli acquisti a cui lei si riferisce, che sono stati al vaglio del precedente pm di Perugia Sergio Sottani, sono stati fatti da mia madre, per me, con parte dei denari provenienti dalla liquidazione come socia. Specifico, visto che si insiste su queste benedette "tante case", che via del Colosseo, l’appartamento che non è sotto sequestro, è stato acquistato da mia madre nel 2002; quello di piazza Margana nel 2003; quello di Miami, trasferito dal mio ex alla sua società, le cui quote sono sotto sequestro - quando mia madre era già morta, è stato venduto dallo stesso senza alcuna autorizzazione da parte mia. Era stato acquistato sempre da mia madre per mio figlio quale rendita per l’Università a Londra, come quello di Campiglio, intestato dall’ex compagno sempre alla sua società". Insomma non ha davvero nulla da rimproverarsi? "Sono innocente. Lo grido disperatamente ma nessuno mi ascolta. Dal al punto di vista professionale, non devo rimproverarmi alcuna leggerezza. Credo questo sia piuttosto chiaro per chi conosce il diritto fallimentare. D’altra parte la mia seconda lettera di encomio da parte del Presidente del Tribunale di Roma è datata 2006 e mi ringrazia per la mia professionalità, per la mia correttezza e per lamia moralità. Credo che, purtroppo, sia nella natura dello stesso pm farsi un’idea, prima ancora di leggere approfonditamente tutte le carte, e tentare di avvalorare l’opinione precostituita, trascurando spesso argomenti importanti e dettagli giuridici, di logica e di obiettività". Ora che c’è passata lei, come pensa dovrebbe comportarsi un pubblico ministero? "L’indagine dovrebbe essere fondata su una valutazione che deve essere rigorosamente dettata dall’equilibrio e dalla serenità di giudizio, lontana da opinioni e da condizionamenti personali e fondata sull’imparzialità. Ci vogliono le prove". Interrogata dai pm romani lei descrive la fallimentare di Roma come un "sistema atavico" in cui si sarebbero verificati gravi episodi di corruzione. Le accuse da lei fatte ai suoi colleghi non hanno però avuto seguito. Lei è mai stata ascoltata dai pm perugini, che indagano per competenza, su quelle frasi? "Sono andata a rendere interrogatorio a Roma, invitata dal mio difensore, per reati collegati. Sono stata sentita a Perugia ma non ho confermato quando detto ai pm romani, denunciando invece degli ignoti per una lettera, indirizzata a me con timbro napoletano, dove si diceva che "se avessi ancora voluto decidere di mio figlio avrei dovuto fare il mio dovere". Non riesco a capire da chi possa provenire...". Ritiene che la situazione, alla fallimentare, oggi sia diversa rispetto al periodo in cui vi lavorava lei? "Non mi interessa quello che avviene alla sezione fallimentare". Suo padre Italo, avvocato di fama e consigliere provinciale della Dc, fu ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979. "Mio padre è stato un uomo eccezionale. Ho immediatamente percepito, anche se allora non avevo la capacità di condividere le sue scelte, la sua grandezza nella determinazione di morire per rimanere fedele ai suoi valori, ai suoi principi. Ed io, per rispettare il mio giuramento, credendo nell’apoliticizzazione della magistratura, non mi sono mai iscritta ad alcuna corrente. Ma è una trappola mortale, si finisce senza tutela, soli e derisi. Il destino, che con me si diverte, a volte gioca in modo pesante e così, giovanissima, appena entrata in magistratura, mi sono trovata a dover interrogare Seghetti, l’esecutore materiale dell’omicidio di mio padre, recluso nel carcere di massima sicurezza di Fossombrone. Non ce l’ho fatta, mi sono rifiutata e sono stata messa sotto procedimento disciplinare ma prosciolta e richiamata a Roma. Oggi, dopo molta riflessione, dopo lunghi anni di sofferenza, ho imparato a non odiare". In attesa della conclusione delle indagini, che cosa fa? "Spero in una giustizia giusta, cerco di fare la mamma al meglio. Ho scritto un libro sulla mia devastante esperienza, mi è servito. Mi accingo a scriverne un altro" Il carcere l’ha cambiata? "In carcere l’anima è più libera e costringe alla riflessione. Non si può mentire, né fingere. Ho imparato ad ascoltare, ad essere umile e disponibile e a pensare che tutti possiamo commettere errori e che la differenza sta nel voler ricominciare in modo diverso. L’ho scritto così nel libro: "In un’umanità disarmata di fronte ad un sorriso, disarmante nella richiesta sfrenata di amore, ho capito che stavo vivendo una vita non mia, che la mia realtà non era quella effettiva, nella quale mi muovevo, ma frutto di immaturità ed illusione, che avevo giocato con il destino e che avevo perso". Mi auguro che ci sia una qualche sensibilità nell’interpretazione di questa mia frase: in carcere, in un’umanità brutalizzata, devastata dalla rabbia, dal rimpianto, dall’impotenza, mi sono fermata, mi sono recuperata. Ho capito tante cose che molti miei colleghi, malati di manette, non possono capire". Lettere:: nelle carceri l’incubo infinito per un esercito di innocenti di Ambrogio Crespi Il Tempo, 21 luglio 2014 "In carcere, in un’umanità brutalizzata, devastata dalla rabbia, dal rimpianto, dall’impotenza, mi sono fermata, mi sono recuperata". Difficile leggere le parole di una donna. "In carcere, in un’umanità brutalizzata, devastata dalla rabbia, dal rimpianto, dall’impotenza, mi sono fermata, mi sono recuperata". Difficile leggere le parole di una donna chiusa nell’incubo di cemento di un penitenziario femminile. Avrei voluto leggere altro, nel racconto di Chiara Schettini, prima donna giudice arrestata: non di una detenuta incinta che vomita sangue o di un’altra che ha una croce nera sulla pancia, ma di donne che si riaffacciano alla vita. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, dove sconti la tua pena: ma quale pena devono scontare le migliaia di vittime della carcerazione preventiva che da innocenti hanno vissuto questo incubo? Ti prendono, ti chiudono in una cella - colpevole o innocente, non fa differenza - e ti trattano come un numero. Senza diritti, senza cure mediche, senza l’amore dei tuoi familiari. Ti fanno scontare pene aggiuntive che non troverete mai sul codice penale. In Italia è così. E dopo decenni di solitarie lotte radicali, le condanne europee non scalfiscono la coscienza della politica e non suscitano lo sdegno unanime che dovrebbero. Ho vissuto anch’io il "vuoto assoluto" che ha provato Chiara, per una vicenda che solo oggi appare finalmente surreale. Come lei, ho incrociato gli occhi di mio figlio che sapevo non avrei rivisto più per parecchio tempo. Anche per me quei 200 giorni sono trascorsi lenti e pieni di dolore, ma non mi sono fatto inghiottire dalla rabbia, dal rancore. In quei giorni bui ho conosciuto Enzo Tortora: la sua storia è stata l’antidoto. Si è trasformato in un docufilm quando sono tornato alla mia vita e al mio lavoro. È iniziato così il mio percorso. Il docufilm, "Una ferita italiana" resta l’opera più importante della mia vita. Trae la sua forza proprio dalla storia di Tortora: per 200 giorni l’ho portato in giro per l’Italia e l’Europa. È stata l’arma del mio riscatto, del mio perdono, un dono capace non solo di denunciare e commuovere, ma di smuovere le coscienze. Ora sono curioso di vedere come la nostra politica, che si sta confrontando in modo concreto con i vincoli e le opportunità che vengono dall’Europa, ha intenzione di affrontare questo problema drammatico. Bisogna fare in fretta. Se, come scriveva Voltaire, "la civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri", allora di civile (e di umano) in Italia è rimasto ben poco. Veneto: Fondazione "La Casa" per rispondere alle emergenze abitative degli ex detenuti L’Arena di Verona, 21 luglio 2014 La gestisce 91 alloggi e opera in rete con gli enti di cooperazione sociale. C’è una terza via anche per dare risposte a chi ha problemi per una casa Si pensi ai padri separati, alle madri single, agli ex detenuti, a chi deve stare ai domiciliari, ed agli stranieri. C’è una terza via che non può essere il privato che, giustamente, pretende una rendita, o il pubblico, che per certe categorie non può proprio intervenire. Questa risposta è veneta, a Verona, come a Padova, Venezia e Rovigo, ed ha varie sfaccettature. Ma, soprattutto, ha ampie prospettive di crescere nella diversificazione degli interventi. Ne ha parlato uno dei protagonisti, il direttore di Fondazione La Casa Onlus, Maurizio Trabuio, all’incontro con il Rotary Club Verona International, il nuovo sodalizio scaligero ora presieduto da Marco Fiorio e prima da Maria Cristina Motta, la quale ha colto l’occasione per proporre una rete rotariana in appoggio ad una iniziativa sociale e umanitaria che punta a dare risposte ad una emergenza che non è più quella degli anni ‘80 (con gli immigrati), ma che richiede soluzioni diversificate per tipologia di utenti ed anche di strutture da utilizzare, partendo dai fabbricati pubblici dismessi, con azioni di rigenerazione urbana, fino ai nuovi. La platea dei protagonisti, possibili soci della Onlus, è ampia. Si va, come nel caso della Fondazione La Casa Onlus, dalle Camere di commercio alle Acli, agli enti locali, alle istituzioni (comprese anche alcune diocesi) alle imprese. Importante è fare del bene, con risposte diversificate per esigenze di breve, medio (si pensi ai padri che così possono chiedere l’affidamento congiunto) e lungo periodo, anche 3-6 mesi o più. Ora si sta creando il patrimonio della Onlus La Casa partendo dall’attuale valore, che è intorno ai sei milioni, con 91 alloggi, di cui 15 a Verona, con un rapporto forte con la cooperazione sociale che accompagna il cammino dei beneficiari. C’è pure un’agenzia di lavoro che cerca di favorire l’occupazione. Per le soluzioni a breve c’è anche "La Casa a colori", che interviene nelle urgenze, impure nel turismo sociale (similmente agli ostelli ) offrendo soluzioni di bed and breakfast con prezzo di 25 euro per notte. Le soluzioni sono a misura di necessità. Come quella di una casa con appartamenti per anziani disabili, ma che ospita pure delle badanti in appartamenti separati, con i loro familiari, e possono così lavorare part time per più anziani e sono a disposizione in caso di necessità. Una social housing a varie sfaccettature, con quella terziarizzazione del rapporto che permette di occupare i lavoratori senza un coinvolgimento diretto delle imprese. Fatto questo che aveva fatto fallire i pur lodevoli tentativi di vari imprenditori. Trabuio ha raccontato episodi di difficile convivenza, come dell’esigenza di avere un’ agenzia per il recupero dei crediti, visto che l’investimento deve essere ripagato. Devono entrare almeno cinque euro al mese a metro quadrato di appartamento dato in affitto. Ma pare proprio che il sistema funzioni. Tanto che sono previste nuove iniziative anche a Verona Sud, realizzabili d’intesa con alcune imprese edili scaligere. Caserta: Radicali; detenuti senz’acqua al carcere di Santa Maria Capua Vetere www.radicali.it, 21 luglio 2014 Ieri mattina, alle 10.30, in attesa del Congresso Nazionale dei Radicali, presso l’Hotel Jolly, si è tenuto il quarto convegno dell’associazione radicale "Legalità e Trasparenza" di Caserta i cui temi sono stati proprio "trasparenza e legalità". Ha moderato Domenico Letizia, insieme a Luca Bove, Elio De Rosa ed altri associati di "Legalità e trasparenza". Erano presenti all’incontro il sindaco e il consigliere comunale di Cervino, rispettivamente, Giovanni De Lucia e Giuseppe Vinciguerra, il senatore Vincenzo D’Anna e membri di associazioni per la tutela dei diritti dei cittadini. Dalle parole di Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani, è parso che Marco Pannella, Presidente del Senato del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, non sia potuto intervenire per seri problemi di salute. Il dibattito si è articolato in vari interventi inerenti le condizioni delle carceri italiane e dei carcerati e le difficoltà di adeguamento dello Stato alle norme della Convenzione Europea riguardo la giustizia. Emblematiche le parole della Bernardini "Ci definiscono strani, ci definiscono pazzi, ma la verità è che, semplicemente, ci siamo battuti e ci battiamo, con scioperi della fame e politica non violenta, perché sia rispettata la giustizia. Giustizia nei confronti di tutti, nessuno escluso, compreso chi, alimentato da oltre un anno, contrariamente a ciò che stabiliscono i protocolli medici, con sondino naso-gastrico e cateterizzato, si trova ancora in regime di 41 bis. È una vergogna!". chiaro il riferimento al malavitoso Bernardo Provenzano le cui condizioni fisiche sono, ad oggi, veramente critiche. E ancora, la Bernardini, "Il nostro stato che si definisce democratico, che ha partecipato nella giornata di ieri al convegno ‘Nessuno tocchi Cainò, contro la pena di morte, poi, nei fatti, alimenta la tortura!". Il Segretario dei Radicali Italiani ribadisce inoltre l’inadeguatezza delle strutture delle carceri italiane che non sono in grado di offrire ai loro ospiti condizioni di vita dignitose. Di carattere tecnico l’intervento di Vincenzo Guida, penalista e responsabile del Pd di Caserta, che sottolinea l’importanza della sentenza Torreggiani anche dal punto di vista sociale "È importante - dichiara - che l’opinione pubblica stia cambiando idea riguardo alle carceri. E questo avviene anche grazie a sentenze come la Torreggiani, che prevede un risarcimento in denaro per coloro che, da carcerati, hanno trascorso parte della propria pena in luoghi e condizioni penose." E ancora "è impensabile che manchi l’acqua nel carcere di Santa Maria Capua Vetere in piena estate o che in una cella del carcere di Poggioreale ci possano essere ben 12 persone". Conclude poi ricordando il senso dell’articolo 27 della Costituzione secondo il quale lo scopo della pena sarebbe rieducativo e non mortificatorio. In piena sintonia con le parole della Bernardini e di Guida quelle di Arturo Diaconale, direttore dell’Opinione che ha "sponsorizzato" il "Tribunale Dreyfus", Tribunale Internazionale costituito dalla "Comunità de l’Opinione" che si pone i fini di intervenire a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo e di informare l’opinione pubblica mondiale sulle drammatiche violazioni della giustizia penale e civile in Italia. Suddetto tribunale, dichiara, sarebbe al servizio di coloro che sono stati e tuttora sono vittime della "mala giustizia". Sono succeduti altri interventi sui diritti civili sia sulla questione locale e regionale, sia su quella nazionale ai quali i radicali hanno risposto ribadendo fermamente il proprio impegno e la propria profonda dedizione sul campo, volta a cercare soluzioni valide al servizio del diritto ad una "giustizia giusta", diritto sacrosanto di ogni cittadino. Salerno: "ecco l’inferno della nostra detenzione…", intervista a un detenuto di Fuorni di Claudia Sparavigna Roma, 21 luglio 2014 "Viviamo in celle da sei e otto posti, con un piccolo bagno dai rubinetti rotti. Gli sgabelli e i tavoli hanno almeno 20 anni, le docce hanno appena un fili d’acqua e i materassi sono sembrano sottilette, scaduti da anni. Anche dal punto di vista sanitario le cose non vanno meglio. Le medicine dobbiamo comprarle noi, qui non ce ne sono e c’è anche chi non può permettersele perché le famiglie non hanno soldi e qui non ci assegnano lavori. L’educatore ci chiama ogni tre mesi e i tempi per le scarcerazioni anticipate vanno dai cinque ai sei mesi. Le celle sono infestate dalle zanzare, qui non si fa una disinfestazione da troppo tempo. La situazione è tale che, Poggioreale, in confronto, è un albergo a cinque stelle". E questa la situazione in cui, oggi, versa il carcere di Fuorni e a denunciarla è Vincenzo Manco, che in una accorata lettera indirizzata a Pietro Ioia, presidente dell’Associazione ex Don, spiega i disagi quotidiani che i detenuti di Fuorni sono costretti a vivere. Vincenzo non ha scritto solo a Ioia, ma anche ad Adriana Tocco, Garante per i diritti dei detenuti, affinché ci sia un’ispezione quanto prima nel carcere salernitano. "La situazione di Poggioreale è migliorata - spiega Pietro Ioia - ma non bisogna dimenticare le altre strutture. Invito i detenuti delle carceri campane che vivono in situazioni difficili la loro detenzione a scrivere. Solo se loro segnalano i problemi possiamo spingere affinché ci siano le visite ispettive e migliori la vita in cella. Approfitto di questa lettera per chiedere a Rita Bernardini di venire a visitare il carcere di Fuorni". Ioia spiega che, nell’ultimo periodo, le telefonate che arrivano in associazione rivelano una situazione di vita migliore a Poggio-reale, segno evidente che le denunce fatte sono servite a qualcosa, le cose all’interno del carcere partenopeo sono davvero migliorate. "Chiedo - prosegue loia - a chi arriverà a dirigere il carcere di Poggioreale di proseguire la via dell’abbandono della violenza, per perseguire quella dei rapporti disciplinari, per avviare una vera politica di recupero e dialogo tra detenuti e polizia penitenziaria, per non alimentare odio tra carcerieri e carcerati. Spero che l’esempio di Poggioreale possa essere seguito da altri penitenziari sia per garantire ai detenuti delle condizioni di vita migliori, così da non uscire incattiviti dal carcere, sia per gli agenti di polizia penitenziaria, così che possano svolgere il loro lavoro più serenamente, con meno pressione". Parma: sommossa nel carcere di via Burla nel 2000, 14 anni dopo parte il processo Gazzetta di Parma, 21 luglio 2014 Sequestro di persona a scopo d’estorsione e rapina: in sei davanti alla Corte d’assise. Il 15 gennaio 2000 un agente fu rinchiuso in una cella per ore, poi la resa dopo la trattativa. Sono le 11 del 15 gennaio 2000, quando scoppia la rivolta in via Burla. Una sommossa che fa accendere i riflettori di tv e giornali nazionali. È da poco terminata l’ora d’aria, quando un agente viene aggredito e chiuso in una cella. Poi comincia l’assedio: sei ore ad altissima tensione, fino a quando l’allora procuratore Giovanni Panebianco annuncia: "Abbiamo accolto le loro richieste di trasferimento". E ora, a quattordici anni di distanza, la rivolta di via Burla entra in un’aula di giustizia. Un tempo infinito, dovuto soprattutto a problemi legati alla competenza del caso: la vicenda, infatti, rimasta a Parma per alcuni anni, è poi stato trasferito alla Dda di Bologna, visto che il reato principale è sequestro di persona a scopo d’estorsione aggravato. Appuntamento, dunque, in Corte d’assise il 30 settembre. Il rinvio a giudizio del Gup Bruno Giangiacomo del tribunale di Bologna risale al giugno 2013, e la prima udienza era stata fissata per lo scorso gennaio, ma problemi di notifiche agli imputati hanno fatto slittare ulteriormente il "vero" inizio del processo al prossimo autunno. Il magistrato della Dda, Marco Mescolini, ha delegato il pm della procura di Parma, Emanuela Podda. Sei gli imputati che dovranno comparire davanti alla Corte. A partire da Roberto Caruso, catanese, ritenuto il leader della rivolta. Oltre a lui, Matteo Clemente, milanese, Cosimo Faniello, salernitano, il tunisino Yassine Ben Mlik, il cileno Ruben Roberto Ruiz Tudela e il bosniaco Nedzib Zekovic. Stralciata, invece, la posizione di Angelo Piciullo. Tutti sono accusati di concorso in sequestro di persona a scopo d’estorsione. Caruso, Clemente, Faniello e Zekovic devono però anche rispondere di concorso in rapina. Quella mattina, infatti, l’agente Domenico Gallicchio sta accompagnando Clemente e Caruso dalla cella 9 alla 23, quella di Zekovic e Faniello. E proprio mentre sta per aprire, il poliziotto viene afferrato da dietro, bloccato e preso a calci e pugni. È Caruso, secondo l’accusa, che gli ruba le chiavi, grazie anche a Faniello e Zekovic che lo tengono fermo dall’interno della cella. L’agente viene poi chiuso dentro, mentre il gruppetto comincia ad aprire le altre celle della sezione 3 A. L’ingresso viene sbarrato con brande e letti a castello. Ma i rivoltosi vogliono certezze. Un gruppo di duri, alcuni dei quali spostati da altre carceri da cui avevano tentato la fuga. Sul piatto la richiesta di essere trasferiti in altre strutture, prima di tutto. Ma anche quella di poter telefonare. Secondo l’accusa, furono Caruso e Faniello a curare la trattativa con i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria. Ottengono subito di fare alcune chiamate. Ma hanno anche la garanzia di poter lasciare via Burla, "tanto che il Provveditore regionale - si legge nel capo d’imputazione - fece predisporre i provvedimenti, mostrati successivamente ai detenuti, a conferma dell’accoglimento delle loro condizioni". Da una parte i colloqui serrati, dall’altra il continuo andirivieni dalla cella in cui era rinchiuso l’agente per minacciarlo: uno stillicidio, per fargli capire che erano pronti a tutto, se le loro richieste non fossero state accolte. "Ti portiamo sul tetto e ti buttiamo giù": parole che sarebbero risuonate più volte in quelle sei ore di segregazione. Non solo. Secondo l’accusa, avrebbero anche costretto l’agente a mettere nero su bianco i nomi di chi non aveva partecipato alla rivolta e le carceri scelte per i trasferimenti. Una trattativa lunga. Tesissima. Con gli uomini della polizia penitenziaria e dell’amministrazione carceraria. Arrivano anche il procuratore, oltre al pm di turno, Antonella Ioffredi, e il vicequestore Massimo Bax. Fino alla resa. Sono le 5 del pomeriggio. Sei ore per il ritorno alla normalità. Quattordici anni per l’alba del processo. Ascoli Piceno: medico aggredito da un detenuto in 41-bis, la protesta del Sindacato Smi Comunicato Smi, 21 luglio 2014 Ancora un medico aggredito nelle Marche, stavolta nel supercarcere di Ascoli Piceno. Vittima il Responsabile Nazionale Smi della Medicina Penitenziaria. "Lo Smi dice basta, così non si può andare avanti - afferma Fabiola Fini segretario organizzativo Smi Marche e Responsabile Nazionale Emergenza Sanitaria Territoriale - la politica dei tagli operata in questi mesi dal Ministero di Giustizia, dalle Regioni (e nelle Marche) e dall’ASur, si sta traducendo in un pericoloso abbassamento dei livelli di sicurezza dei medici che operano nei nostri ospedali e sul territorio. Stavolta a farne le spese, riportando un trauma cranico è Giovanni Trobbiani, responsabile nazionale Smi Medicina Penitenziaria e medico presso il Supercarcere di Ascoli Piceno. Le conseguenze sarebbero potute essere molto più gravi se non ci fosse stato il pronto intervento di due guardie carcerarie che sentite le richieste di aiuto di Trobbiani, non avessero fermato l’aggressione da parte di un pericoloso camorrista che il medico stava visitando". "Nelle carceri non è stato un caso di violenza isolato - continua Fini - un mese fa un altro episodio analogo era avvenuto sempre ad opera di un recluso in regime di 41 bis. L’aggressione è stata possibile per una ragione evidente: mentre in passato di fronte allo stesso detenuto erano sempre presenti più di 4 agenti di Polizia Penitenziaria e un graduato a tutelare il lavoro degli operatori sanitari, adesso, a causa di una politica di tagli, risultano operanti un numero inferiore di addetti, solo assistenti di Polizia Penitenziaria". Lo Smi chiede che l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia intervenga per i seguenti motivi: 1) I detenuti che hanno aggredito i medici sono detenuti sottoposti a regime speciale di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ossia quelli del cosiddetto carcere duro, i boss mafiosi e camorristi; 2) c’è un pericoloso abbassamento dei livelli di sicurezza, a scapito del personale sanitario; 3) evitare il ripetersi di ulteriori aggressioni ai danni dei medici. Medici che hanno fatto una scelta di vita coraggiosa, nel venire a lavorare in carcere tra mille difficoltà e rischi di ogni genere. "Il Ministero di Giustizia, ma anche la Regione Marche e l’Asur, come tutte le regioni italiane, non possono continuare a lasciare i medici da soli in balia dei violenti", denuncia Fini. "Ma non solo - conclude - lo Smi chiede anche maggiore tutela e sicurezza per tutti i medici, ospedalieri e del territorio, e sta considerando l’ipotesi di costituirsi parte civile nei confronti del Ministero di Giustizia, della Regione Marche e dell’Asur per i danni subiti in conseguenza alle aggressioni. Lo Smi farà di tutto affinché il lavoro dei medici sia tutelato e sicuro, schierandosi al fianco dei sanitari più esposti, i medici di pronto soccorso, della medicina penitenziaria, della Continuità Assistenziale , del 118 che ogni giorno operano sul nostro territorio a difesa della salute di tutti, ma che non possono diventare carne da macello a causa di una politica di austerità scellerata, che si traduce in maggior rischio per l’incolumità dei professionisti". Roma: progetto di teledidattica nel carcere di Rebibbia, tre detenuti si sono laureati di Marzia Paolucci Italia Oggi, 21 luglio 2014 Hanno superato la cinquantina i primi tre detenuti laureati, due 110 e lode e un 107 del progetto "Università in carcere con Teledidattica" reclusi nel reparto di alta sicurezza del carcere romano di Rebibbia. La loro occasione di riscatto sociale è passata anche da una tesi discussa il 9 luglio scorso nel teatro del carcere alla presenza dei loro stretti familiari. "E lunedì scorso abbiamo avuto anche il quarto, albanese, che si è laureato in collegamento via Skype dal suo paese dove nel frattempo è stato estradato. Meno male che c’è questa possibilità altrimenti avrebbe rischiato di non laurearsi e dopo tanta fatica per arrivare al traguardo sarebbe stato un peccato", racconta a la professoressa Marina Formica, docente di Storia moderna all’Università di Roma Tor Vergata. Si tratta dei primi risultati del progetto parti- to nel 2006 da Tor Vergata e aperto anche alle altre università laziali di Roma tre, La Sapienza, Cassino e quella viterbese della Tuscia in partnership con le carceri della Regione Lazio. Lo studio in carcere abbatte in modo consistente le recidive e non è poco considerata l’emergenziale carenza di spazi degli istituti di pena sempre sotto la lente d’ingrandimento di Strasburgo. Sarà anche per questo che l’iniziativa oggi coinvolge 113 detenuti in tutta la Regione contro i 17 di otto anni fa: studiare in carcere garantisce a chi si iscrive all’università oltre all’ iscrizione e ai libri gratuiti, un’attività di tutoraggio periodico e costante nel tempo a supporto delle nuove matricole universitarie Ma nessuno sconto sui programmi e sul rigore didattico e di giudizio del corpo docente: "Ogni 15 giorni i nostri tutor sono in carcere per rispondere alle domande, fornire aiuto pratico e risolvere i problemi posti dagli studenti", spiega la professoressa. Ideato dall’Università di Tor Vergata e dal Garante dei detenuti della Regione Lazio, in collaborazione con Laziodisu e la direzione della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, il progetto, oggi indicato come best practice dal ministero della Giustizia - recente l’interessamento del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri per l’estensione del progetto anche ad altre realtà e istituti carcerari del paese - prevede che i reclusi di alta sicurezza, in tutta Italia, possano essere trasferiti a Rebibbia Nuovo Complesso nel caso in cui decidano di iscriversi all’Università. Una ragione in più, per tornare a contare sul partner Regione che in un primo momento ha sostenuto le spese relative alla registrazione delle lezioni che non possono essere riprese in diretta per motivi di sicurezza e che oggi, invece, non sono più supportate. "Già da diversi anni", ricorda in proposito la professoressa, "la Regione che inizialmente si accollava le spese per la registrazione delle lezioni, non ci finanzia più ma speriamo che la situazione possa al più presto rientrare". Si tratta di laureati in lettere, due con indirizzo in Scienze del turismo e l’altro in Beni culturali e operatori del turismo: "Sono tutti corsi triennali ma tutti loro vogliono andare avanti fi no a raggiungere la laurea magistrale", rileva la docente, "tra di loro c’è anche un ergastolano che proprio in ragione della sua situazione, ci ha ribadito l’importanza di andare comunque avanti. Sono comunque tutti molto motivati e in più di un’occasione in molti mi hanno detto che se avessero avuto la possibilità di studiare da ragazzi, difficilmente avrebbero imboccato la strada dell’eversione". Chieti: Associazione "Voci di dentro" Onlus, 27 nuovi soci si diplomano in volontariato Il Centro, 21 luglio 2014 Sono stati consegnati diplomi e tessere ai nuovi soci dell’associazione colturale "Le voci di dentro". Si è concluso il corso di sei lezioni di volontariato nel carcere rivolto a 27 allievi e tenuti al Csv. Le lezioni sono state aperte della direttrice del carcere di Chieti Giuseppina Ruggero e tenute da due educatrici della casa circondariale Anna Maria Raciti e Stefania Basilisco. Gli allievi hanno incontrato anche il sociologo e David Ferrante, l’avvocatessa Matilde Giammarco e la psicologa Maria Silvia Carlone. L’associazione ricorda che esiste anche un pool di avvocati pronti a consigliare detenuti e persone in difficoltà. Slovenia: carcere a cinque stelle l’ex premier Janez Janša, detenuto dal 20 giugno scorso di Mauro Manzin Il Piccolo, 21 luglio 2014 L’ex premier, dopo un mese di reclusione, ammesso alla detenzione aperta. Ha un pc, un cellulare e può vedere la tv Come vive in carcere un ex primo ministro? Una domanda che si sono posta in molti di questi tempi in Slovenia visto che l’ex premier Janez Janša dal 20 giugno scorso è ospite della casa circondariale di Dob, una ventina di chilometri a Nordest di Lubiana, per scontare la sua pena di due anni per la condanna definitiva per corruzione nel cosiddetto Affare Patria. Per chi si immagina scenari tipo Regina Coeli, con superaffollamento delle celle, condizioni igienico-sanitarie precarie, e alte mura che simboleggiano lo status di reclusione si sbagliano. E di grosso. Dopo i primi 30 giorni cosiddetti dell’accoglimento, Janez Janša è stato trasferito da poche ore nell’area del carcere denominata "Pušava" (solitudine), una palazzina a due piani dove le "celle" sono costituite da stanze con uno, tre o quattro letti e che dista tre chilometri dall’edificio principale dell’istituto di pena dove sono ospitati i detenuti più "pericolosi". In tutto può ospitare 21 detenuti e al momento dell’arrivo di Janša erano in 17. L’ex premier è stato accolto in una stanza a tre letti, quindi con altri due "compagni". Neanche i primi 30 giorni di reclusione sono stati eccessivamente pesanti per Janša (se così si può dire per una persona che comunque è in carcere) che ha potuto ricevere la visita dei più stretti familiari. Però non è riuscito a votare per le elezioni politiche anticipate né per posta, né con un permesso speciale per recarsi al suo seggio di appartenenza. E via twitter il presidente della Sds ha laconicamente commentato: "Elezioni libere?". Come rilevato dall’amministrazione carceraria della Slovenia e riportato dal sito on line di Rtv Slovenija ora Janša dovrà preparare un "progetto" per la sua vita da detenuto, con precisi obiettivi (rieducativi) e di lavoro all’interno della struttura. Il "progetto" per l’ex premier potrà anche essere modificato col contributo di una speciale commissione. La vita nella palazzina "Pušava" permette inoltre di poter guardare la televisione senza limiti, di avere un telefono cellulare con cui si può comunicare con tutto il pianeta e un personal computer. Unico divieto è quello di fotografare e di far uscire le istantanee. Dopo aver scontato un quinto della pena, per Janša sarà il mese di novembre, il detenuto a "Pušava" può usufruire di permessi di uscita dal carcere che durano al massimo 53 ore, non possono essere più di cinque in un mese e che vengono discussi e definiti con le autorità della casa di pena. Di solito è permesso di recarsi a casa per il tempo concesso. La sveglia suona alle 6 del mattino nei giorni feriali e alle 7 in quelli festivi. Si può liberamente passeggiare nell’area del carcere fino alle 21.45 d’estate e fino alle 20 d’inverno. Il silenzio per la notte scatta alle 22. I movimenti nell’area sono liberi ma devono essere comunicati agli agenti di guardia. Una volta alla settimana poi i carcerati di "Pušava" possono anche recarsi nel vicino negozio di paese per acquistare i beni di consumo necessari. Possono detenere al massimo 500 euro. Indossano i loro vestiti, possono avere la tuta e altri abbigliamenti sportivi. Nella struttura, infatti, ci sono campi di bocce, un campo da tennis e uno di pallavolo a disposizione dei detenuti. E c’è anche una palestra. A "Pušava", al contrario del settore "chiuso" del penitenziario non ci sono garçonnière da utilizzare con i parenti più stretti (leggi moglie) ma, dicono a Dob, i detenuti possono comunque, previo permesso, utilizzare le strutture esterne al carcere. Insomma, se paragonata alle strutture carcerarie in Italia, quella di Dob appare proprio come una prigione a cinque stelle. Ma non dimentichiamo che sempre prigione rimane. Stati Uniti: quando una foto (segnaletica) cambia la vita al criminale di Paolo Mastrolilli La Stampa, 21 luglio 2014 A giugno Jeremy Meeks fu arrestato: ora ha un’agente e vuole fare il modello. La notte del 18 giugno scorso, quando la polizia di Stockton lo aveva arrestato per violazione del porto d’armi, Jeremy Meeks probabilmente stava pensando che aveva combinato un guaio, da cui sarebbe discesa l’ennesima "cazziata" della moglie. Proprio in quell’istante, però, gli agenti gli avevano scattato la foto segnaletica che avrebbe cambiato la sua vita. L’immagine era finita su Internet, diventando in breve un fenomeno. I suoi occhi azzurri, la mascella squadrata, la lacrima tatuata appena sopra lo zigomo avevano fatto innamorare l’America: oltre 101 mila "like" su Facebook, 13 mila condivisioni, 27 mila commenti. Robe tipo: "Mamma, mi sono innamorata di un criminale". In breve si erano moltiplicati anche gli hashtag dedicati a Jeremy, intitolati #hotfelon o #FelonCrushFriday, ossia la cotta del venerdì per il carcerato. Tra il serio e il faceto, quell’immagine si era trasformata nel paradigma di un’antica passione degli americani per le foto segnaletiche dei cattivi ragazzi, e ragazze. Una perversione, che secondo il New York Times risale ai tempi di banditi come Butch Cassidy e John Dillinger, ma adesso diventa virale grazie ai social media. La storia di Jeremy ha continuato a vivere di vita propria, anche quando lui ha spiegato nelle interviste che era un padre di famiglia, lontano ormai dalla vita della gang californiane. Quando è uscito di prigione un sito ha persino pubblicato la notizia (falsa) che la moglie, gelosa della sua popolarità, lo aveva ucciso in mezzo alla strada un’ora dopo la liberazione, mentre è vero che lui ha assunto l’agente Gina Rodriguez, nella speranza di trasformare tanta fama in un contratto da modello. Non è la prima volta che capita. Nel 2010 era toccato a Meagan Simmons, madre di quattro figli a Zephyrhills, in Florida. Era stata arrestata per guida in stato di ubriachezza, e fra le lacrime aveva subito l’infamante scatto della foto segnaletica. "Guilty of taking my breath away", aveva commentato la Rete, colpevole di avermi tolto il fiato, e così via. Anche per lei, porte aperte verso una carriera di modella, al punto che aveva fatto causa a un sito che aveva usato la sua foto senza permesso: "Ne ho di migliori", aveva commentato. In effetti i mugshot, cioè le foto segnaletiche, sono una specie d’arte in America. La polizia le scatta per umiliare i cattivi soggetti, e rendere pubblici i loro lineamenti, in modo che la gente possa aiutare a catturarli, semai tornassero in circolazione. Un’antologia, ormai digitale, dello Spoon River degradato. Ci sono cascate centinaia di celebrità, da Frank Sinatra a Mike Tyson, passando per Mick Jagger, Mel Gibson, Paris Hilton e Justin Bieber, che durante l’ultimo arresto in Florida si è messo saggiamente in posa sorridente. Alcuni ci costruiscono sopra una carriera, altri la distruggono, come Nick Nolte, che fu ripreso come un homeless mentre guidava ubriaco. La passione per i criminali però è ancora più complessa: una maniera per penetrarne l’animo, e cercare di capire la profondità del loro abisso. Il brivido di guardare negli occhi un assassino, giudicarlo, condannarlo, o magari lasciarsi conquistare dal suo fascino oscuro. È noto, ad esempio, che Humphrey Bogart si ispirava alle foto segnaletiche di John Dillinger, per costruire propri gangster di celluloide. L’immagine di Butch Cassidy, seduto nella WyomingTerritorial Prison, ci fissa ancora con un’aria di sfida dal 1894, e a Telluride, pittoresco villaggio minerario del Colorado dove fece la sua prima rapina, lo usano tuttora come principale attrazione turistica. Del resto, chi non sarebbe curioso di sedersi nello stesso saloon dove un bandito del Far West spendeva i soldi "onestamente" guadagnati col crimine? Mitologia, appunto, su cui però si sono costruite parecchie civiltà antiche. E scelta di inventare la propria leggenda, o travisare la realtà. Jeremy Meeks, ad esempio, insiste che lui è solo un bravo padre di famiglia, ma chi ha voglia di credergli?