Giustizia: "processi civili più veloci e riforma del Csm", richieste dei cittadini al Ministro di Cristiana Mangani Il Messaggero, 20 luglio 2014 Quasi tremila le mail arrivate al governo da cittadini e operatori sulla riforma. Tempi, rispetto delle persone, privacy e responsabilità delle toghe i temi più sentiti. Quasi tremila mail arrivate in meno di venti giorni all’indirizzo che già la dice lunga su quanto la giustizia debba essere riformata: rivoluzione@governo.it. Il premier Matteo Renzi e il guardasigilli Andrea Orlando hanno chiesto ai cittadini di partecipare alla riforma del sistema giudiziario e di farlo inviando consigli, desideri e indicazioni. L’esperimento era già stato provato con i temi che riguardano la pubblica amministrazione, e anche in quel caso l’indirizzo di Palazzo Chigi era stato sommerso da messaggi di posta. Dal primo luglio a oggi i cittadini hanno voluto far sentire la propria voce. Impossibile immaginare dei dati statistici, quello che più preme agli italiani è il reale funzionamento delle macchina giudiziaria: impugnazioni, esecuzioni, pignoramenti, gradi di giudizio, prescrizioni. Tutto quanto intervenga a rallentare la soddisfazione di un diritto. Le indicazione arrivate via mail sono precedenti alla sentenza di Berlusconi e, infatti, il suo nome non viene mai citato. Tempi brevi La riforma civile è in testa ai desideri, il rispetto delle persone e della propria privacy seguono a ruota. E in questa urgenza si inseriscono la figura del magistrato e del giudice, per i quali viene chiesta la responsabilità civile in caso di errori, e la separazione delle carriere. All’indirizzo mail che invita a rivoluzionare norme e Codici hanno scritto moltissimi addetti ai lavori: avvocati, precari del settore, amministrativi. Ma anche persone comuni che con la lentezza dei processi devono fare i conti ogni giorno. "Egregio signor ministro - afferma A.M. - pur non avendo competenze specifiche, ma essendo uno dei tanti pizzicati da una giustizia civile lumacona, mi permetto di suggerire alcune, forse, ovvietà". Le richieste vanno dalle udienze ravvicinate, "compatibili solo con gli eventuali tempi delle perizie", alla stigmatizzazione dei giudici "che devono punire tutti coloro che presentino memorie palesemente ridondanti al solo scopo di creare polveroni". E un avvocato suggerisce di delegare i difensori ad assumere mezzi di prova, senza alcun compenso per l’attività svolta. "Servirebbe - sottolinea - a riprendere l’esperienza positiva che si è registrata nelle esecuzioni immobiliari con l’introduzione del professionista delegato". Il processo di esecuzione è un’altra nota dolente, perché denuncia una giovane avvocatessa, "il sistema dei pignoramenti tutela solo il debitore e non il creditore, quando si tratti di debiti di piccola entità e comunque non superiori a 10 mila euro". "Dopo sette anni - espone il suo caso - sono riuscita a ottenere la sentenza di condanna della controparte a pagare il dovuto, ma l’attesa è stata vana perché il creditore pur essendo il titolare di due auto, l’ufficiale giudiziario non è mai riuscito a pignorargliele. Ora mi chiedo, perché il fermo amministrativo può essere minacciato solo da Equitalia e non anche dai creditori per il tramite del loro avvocato?". C’è poi chi insiste "sulla riduzione dei termini di opposizione al decreto ingiuntivo", e chi spinge affinché si vada avanti "con l’istituto della mediazione". Chi parla di gradi di giudizio da ridurre, chi di prescrizione da abolire dopo il rinvio a giudizio, chi di indulto e amnistia come provvedimenti necessari per alleggerire la situazione nelle carceri. Csm e responsabilità civile Il lungo elenco di mail piovuto negli uffici di via Arenula punta poi a una riforma del Csm, che "così come è fatto oggi - sostiene C.M - non serve a niente. Per fare carriera devono contare i meriti, non le correnti interne alla magistratura". E ancora: "Se vale il detto "cane non mangia cane" - suggerisce un altro - bisogna trovare il giudizio di due animali differenti". Da qui il suggerimento a separare le carriere dei magistrati da quelle dei giudici, un tema che ricorre spesso. E altrettanta attenzione viene manifestata per la responsabilità civile. "Se un medico o un ingegnere sbagliano (anche in buona fede) e pagano di persona - viene evidenziato - come mai i magistrati no?". L’iniziativa ha trovato sostegno dal Consiglio nazionale forense che ha dato la sua disponibilità a collaborare con il Governo per i 12 punti della riforma. Un aspetto che è stato sottolineato anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nei giorni scorsi, quando nel messaggio di saluto al Cnf ha manifestato apprezzamento riguardo al clima di collaborazione con cui sono state accolte le riforme del guardasigilli, "destinate - ha detto - ad accelerare e semplificare l’attività giudiziaria". Gli uffici di via Arenula avranno, quindi, molto da lavorare intorno alle proposte e ai suggerimenti dei cittadini, e già lo stanno facendo. Sebbene tra le migliaia di messaggi di posta c’è chi per poco non chiede la revisione del regolamento di condominio. Il toscano G.M. suggerisce di effettuare le convocazioni in tribunale con un sms, ma anche di togliere tutti quei diritti ala Siae. E per svuotare le carceri, immagina una regolarizzazione della prostituzione "tramite la costruzione di alcuni "Eros center". "Questo - sostiene - oltre a portare soldi nelle casse dello Stato porterebbe all’abbattimento dello sfruttamento attaccando la criminalità organizzata". Giustizia: domani la Camera avvia l’esame del Decreto Legge sul risarcimento ai detenuti Asca, 20 luglio 2014 Approda in aula alla Camera dei Deputati lunedì l’atto n. 2469 recante "Conversione in legge del decreto legge 26 giugno 2014 n. 92, recante disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile": Si tratta di un provvedimento conseguente ad una condanna che l’Italia ha avuto dalla Corte Europea per i Diritti Umani. Il caso alla base di questo nuovo disegno di legge, e del decreto legge che vuole convertire è quella condanna che, più di un anno fa, ha originato diverse chiare prese di posizione soprattutto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha esercitato instancabilmente la propria moral suasion in questo ambito. Si dovrà vedere se, questa volta, contrariamente a quanto accaduto la scorsa settimana, l’iter di questa legge procederà rapido e senza incidenti. La conversione dei decreti legge è un iter, per sua natura, rapido: deve avvenire al massimo in 60 giorni, di tal che il procedimento legislativo concernente questo decreto dovrà terminare entro agosto. In settimana la commissione Giustizia ha concluso l’esame del testo, apportando alcune modifiche tra cui l’esclusione di alcuni reati dal divieto di custodia cautelare in carcere in caso di pena inferiore ai 3 anni. In base a un emendamento del relatore David Ermini (Pd) resta il carcere per i delitti ad elevata pericolosità sociale, come i reati di mafia e terrorismo, rapina ed estorsione, furto in abitazione, stalking e maltrattamenti aggravati in famiglia. Inoltre si potrà ricorrere alla custodia cautelare in carcere anche nel caso in cui non siano possibili gli arresti domiciliari per mancanza di un luogo idoneo. "Sono alcune utili correzioni - spiega il deputato Pd - alla luce dei suggerimenti rivolti al legislatore nel corso delle audizioni. Il nostro obiettivo, come sempre, è quello di migliorare un testo in sintonia con quanto emerge nel confronto con gli operatori della giustizia". Giustizia: 22.00 errori giudiziari; Fiori (Fi) e Diaconale lanciano "soccorso azzurro" Tm News, 20 luglio 2014 "La sentenza di assoluzione in secondo grado, che accogliamo con sollievo, certifica che Silvio Berlusconi è l`ultima vittima, in ordine cronologico, della mancata giustizia italiana". Lo scrivono Marcello Fiori, coordinatore nazionale dei Club Forza Italia, e Arturo Diaconale, presidente dell`associazione Tribunale Dreyfus, nell`ultimo editoriale pubblicato sul portale dei Club Forza Silvio. "Sono oltre 22mila - proseguono - gli errori giudiziari accertati ad oggi e sono circa 600 i milioni di euro di indennizzi complessivamente versati. Un cittadino su due è ingiustamente detenuto e uno su due sarà dichiarato innocente alla fine del suo calvario. Dati inquietanti. Soprattutto se si considera inoltre il cosiddetto `sommerso silenzioso`, ovvero tutti coloro che in un modo o nell`altro hanno subito le conseguenze della malagiustizia del nostro Paese, ma non sono in grado, per ristrettezze economiche o altro, di adire le vie legali - aggiungono - contro un apparato dello Stato che dovrebbe amministrare la giustizia ma spesso è l`emblema dell`ingiustizia". "Ecco perché - annunciano Fiori e Diaconale - abbiamo deciso di dare vita a "Soccorso azzurro", una struttura di orientamento legale gratuito, presente sul territorio, contro la giustizia negata. In ogni provincia ci sarà un pool di professionisti che `pro bono` offrirà un’attività di orientamento legale a tutti coloro che lo richiederanno. In tutti i settori: civile, amministrativo, fiscale, tributario, penale. Contro quella sensazioni di smarrimento e solitudine propria di chi è vittima di un sistema che non funziona, vogliamo creare attraverso "Soccorso azzurro" una rete di solidarietà, innanzitutto umana". "Un cittadino su due - osservano ancora i due esponenti Fi - è ingiustamente detenuto e uno su due sarà dichiarato innocente alla fine del suo calvario. Dati inquietanti. Soprattutto se si considera inoltre il cosiddetto "sommerso silenzioso", ovvero tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno subito le conseguenze della malagiustizia del nostro Paese, ma non sono in grado, per ristrettezze economiche o altro, di adire le vie legali, contro un apparato dello Stato che dovrebbe amministrare la giustizia ma spesso è l’emblema dell’ingiustizia". "La sentenza di ieri - dicono Fiori e Diaconale - sia di ulteriore monito e faccia riflettere davvero tutti i sinceri garantisti sulla ineludibile necessità di una radicale riforma della giustizia. Combatteremo per questo e lo faremo da subito dando voce, volto, storia e soprattutto dignità e diritti ai tanti Silvio Berlusconi ignoti del nostro Paese. Così le terribili e ingiuste sofferenze di un singolo assumeranno il valore di una battaglia generale per la civiltà e la libertà del nostro Paese". Giustizia: Provenzano, 41bis inutile… facciamo vincere lo Stato di Luigi Manconi L’Unità, 20 luglio 2014 Che ne facciamo di Bernardo Provenzano? L’uomo, gravato da molti ergastoli, attualmente si trova nel reparto protetto di un ospedale milanese, sottoposto al regime di 41bis. Questo circuito speciale rappresenta l’estremo del nostro sistema penitenziario. Una condizione di isolamento pressoché assoluto, prorogabile per tutta la durata della detenzione: dieci, venti, trent’anni. O per l’intera vita terrena. Quando si trattò di prevederne l’istituzione, il Parlamento - prudentemente - ne fece una norma provvisoria. Poi, con il tempo e con i limiti imposti dalla Corte costituzionale e dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il 41bis è diventato parte integrante e stabile del nostro ordinamento. Ciò detto, e dovremmo essere tutti d’accordo, non è un provvedimento da prendere a cuor leggero. Non è la giusta pena per i mafiosi, come molti pensano, ma una delicatissima misura di prevenzione, come l’ha qualificata nel corso di un’audizione presso la Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Insomma, una misura da assumere caso per caso, sulla base dell’effettiva e attuale (attenzione: attuale) pericolosità del detenuto. Questo punto è cruciale. Il regime di 41bis persegue il solo ed esclusivo fine di spezzare ogni legame tra detenuto e organizzazione criminale. Questo è il suo unico scopo. Di conseguenza, quella misura non deve mirare ad alcuna ulteriore afflizione nei confronti di chi vi è sottoposto. D’altra parte, è un provvedimento che tutti i magistrati impegnati nelle indagini sulle mafie reputano irrinunciabile: ma che - a sentire il consigliere Roberto Piscitello dell’Amministrazione penitenziaria - in più di una circostanza ha portato alcuni detenuti a dichiarare gravi disturbi mentali. Nel marzo scorso, le tre procure distrettuali antimafia interessate (Palermo, Caltanissetta e Firenze) hanno giudicato Provenzano - ormai ottantunenne, gravemente malato, con problemi neurologici che gli impediscono di parlare e di partecipare a un dibattimento - non più in grado di intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale. E, tuttavia, il ministro della Giustizia ha ritenuto di doverlo sottoporre al 41bis per altri due anni, in base al parere espresso dalla Direzione nazionale antimafia. Una settimana fa, a seguito del ricorso dei legali di Provenzano, il Tribunale di sorveglianza di Roma, ha deciso di non decidere. E ha rinviato la valutazione della legittimità a ottobre, quando un altro giudice (il tribunale di sorveglianza di Milano) acquisirà le perizie necessarie per decidere se le condizioni di salute di Provenzano siano ancora compatibili con la detenzione. O se, invece, non costituiscano un trattamento inumano e lesivo della dignità della persona. Dunque, il regime del 41bis potrebbe essere revocato a Provenzano nello stesso momento in cui potrebbe essergli sospesa la pena per gravi motivi di salute. Pertanto, è solo il pericolo di morte che può consentire la revoca del 41bis a un vecchio e ingombrante capomafia, che fu - indubitabilmente - un efferato e sanguinoso criminale? Sembrerebbe proprio così, se è vero com’è vero che della sua sorte, finora, si sono interessati solo il figlio Angelo e i radicali di Rita Bernardini e Marco Pannella. Il che mi sembra preoccupante: qui, infatti, non è in alcun modo in discussione il ruolo feroce del boss nell’organizzazione dei grandi delitti di mafia degli ultimi decenni. E nemmeno la sua terribile pericolosità fino a quando è rimasto capace di intendere e di volere. Qui si discute solo ed esclusivamente di ciò che, di quel crudele criminale, tuttora permane e, dunque, di ciò che quel crudele criminale meriti tuttora di scontare. La mia opinione è che più nulla egli meriti ancora di scontare perché, di ciò che è stato, più nulla gli sopravvive. Ma c’è un’altra domanda che lascia perplessi tanti: ne vale la pena? O meglio: perché agitarsi per qualcuno che, nella più probabile delle ipotesi, è un superstite di se stesso e che, dopo il tanto male fatto, non sembra proprio meritare alcun bene? La risposta può scontentare ma è semplicissima: per una questione di principio. Innanzitutto, un principio generale, che possiamo definire di filosofia morale: non dobbiamo assomigliare al nostro nemico. La superiorità giuridica dello Stato di diritto e del suo ordinamento consiste esattamente in questo: nel fatto di essere indipendente da chi lo combatte così nella lavorazione delle leggi come nella fissazione delle pene (e dunque del trattamento dei condannati). Perciò, non si fa influenzare da chi rappresenta la negazione assoluta dei principi che ispirano il sistema democratico, non ne adotta i metodi, non ne utilizza gli strumenti e non ne assume - mai - la ferocia. Se Provenzano venisse sottratto al 41bis e a una carcerazione incompatibile con il suo stato di salute, ciò costituirebbe una vittoria dello Stato di diritto e il vecchio boss sarebbe restituito alla sua attuale e più autentica dimensione: quella di un "simbolo del male" ormai completamente vuoto e ridotto a un consunto reperto del passato. Il prossimo 3 ottobre la decisione sulla revoca Il tribunale di sorveglianza di Roma ha rinviato al 3 ottobre prossimo la decisione sulla revoca del 41 bis al capomafia Bernardo Provenzano. In un’ordinanza i giudici fanno sapere che è necessario acquisire "informazioni più dettagliate e precise in ordine alla storia clinica e alle diagnosi relative alle patologie riscontrate a carico del Provenzano, con indicazione degli esami clinici e strumentali effettuati e relativi esiti, soprattutto in merito alle descritte patologie neurologiche". "È una decisione pilatesca", commenta il difensore del boss Rosalba Di Gregorio che, insieme all’avvocato Maria Brucale, ha chiesto la revoca del carcere duro ritenendolo ormai inutile visto che Provenzano non è più capace di intendere e volere e di comunicare. "Il 3 ottobre - spiega il legale - è la data in cui il tribunale di sorveglianza di Milano dovrà pronunciarsi sul differimento di esecuzione pena, disposto d’ufficio, sulla scorta della relazione del medico dell’ospedale San Paolo in cui il mio assistito è ricoverato. Una relazione in cui si parla chiaramente di incompatibilità delle sue condizioni col regime carcerario". "Se a Milano dove si discute della sospensione della pena - aggiunge - un rinvio è sensato, a Roma, dove c’è già tutta la documentazione necessaria, che senso ha?". Le condizioni di salute del boss mafioso, secondo i medici dell’ospedale San Paolo di Milano, sono in peggioramento. Da mesi il boss, che non si alimenta spontaneamente, assume il cibo tramite un sondino naso-gastrico. Rimedio, per i sanitari, non più utilizzabile: da qui l’indicazione della peg, una tecnica di nutrizione enterale che prevede un vero intervento chirurgico. "Angelo Provenzano non può esprimere un consenso senza avere fatto esaminare da un suo medico di fiducia il diario clinico del padre - spiega ancora Di Gregorio -. Abbiamo richiesto un mese fa la cartella ma il ministro non ha ancora autorizzato l’ospedale a darne copia all’amministratore". "Ora - aggiunge - per noi si pone il problema, che sconfina a questo punto nell’etico, di comprendere se dobbiamo considerare questo ulteriore intervento medico una forma di accanimento terapeutico". Giustizia: la sentenza Ruby è anche la sconfitta di "Se non ora quando..." di Angela Azzaro Il Garantista, 20 luglio 2014 Il caso Ruby, con tutti i cascami politici e giudiziari, coincide con il movimento di "Se non ora quando?" che il 13 febbraio 2011 porta in piazza quasi un milione di donne in tutta Italia al grido di "giù le mani dalla nostra dignità". La ragazza marocchina (non levantina come nella sua, ormai celebre, requisitoria disse Boccassini beccandosi da più parti della razzista) diventa il simbolo del male, colei che viene usata e si fa maldestramente usare dal potere maschile. "Tu Ruby, io lavoro", era una delle tante scritte che si potevano leggere nei cartelli esibiti da giovani e meno giovani, convinte che il vero degrado dei nostri tempi fosse l’accusa rivolta qualche giorno dopo dai giudici di Milano nei confronti dell’allora presidente del Consiglio. Ruby non era sola. Insieme a lei, nella lista nera, c’erano Noemi Letizia, la giovane campana che per prima fu usata contro il premier, poi tutta la serie di ragazze che la stampa nemica ma anche amica non tardò a definire in maniera dispregiativa "le olgettine". Davanti all’ennesima divisione tra donne perbene e donne per male, qualche voce si levò anche da sinistra per protestare, per avvertire del pericolo. In nome della dignità, e non più della libertà, si stava producendo la trita e ritrita contrapposizione tra donne. Le leonesse di Snoq cercarono di rilanciare dicendo che loro non ce l’avevano con le altre donne, che il problema era il degrado dell’immagine femminile che "olgettine" e "rubettine" diffondevano in mondo visione. Ma lo dicevano senza convinzione. Anche perché l’operazione, con il senno di poi, e con una sentenza come quella di ieri, appare finalmente molto chiara. Ruby è stata usata, sì usata ma da una parte del movimento delle donne, per portare avanti una controffensiva di carattere culturale. Negli anni Settanta ci si batteva per la libertà sessuale, per liberare il corpo dai pregiudizi? Negli Ottanta si manifestava con il movimento delle prostitute? Beh, per Snoq era arrivato il momento di voltare pagina, di tornare a essere, come scrisse Concita De Gregorio (in questo insuperabile) mamme, zie, sorelle, compagne. Tutto fuorché donne libere. Qualche sofisticata analista ha tentato in questi anni di ragionare sul rapporto tra sesso e potere, tra pubblico e privato, tra politica e relazioni sessuali o sentimentali, spostando l’asse della riflessione. Ma sono rimaste analisi perlopiù isolate. Ha invece vinto la controffensiva, il ritorno indietro: il corpo come peccato, la sessualità come colpa. L’immagine di Ruby, così come prima quella di Patrizia D’Addario, ha oscillato tra peccatrice e vittima. A seconda delle necessità ha servito scopi opposti. Un giorno sedeva sul banco degli imputati, "la furbizia levantina", l’altro ancora serviva per accreditare l’immagine di persone in balia del volere altrui, di donne oggetto incapaci di intendere e di volere. Così, tra una Ruby e l’altra, si è dato vita a una nuova cultura, oggi purtroppo maggioritaria. Soprattutto a sinistra. La abbiamo vista esprimersi nel suo massimo fulgore nel caso di Paola Bacchiddu, la responsabile comunicazione di Tsipras processata in pubblica piazza per aver osato chiedere, nella sua pagina Facebook, di votare la lista ma con un bel bikini. Apriti cielo. Le donne, soprattutto le femministe, le sono andate contro in difesa del corpo delle donne che Bacchiddu avrebbe offeso. Dopo l’assoluzione di Berlusconi, vengono meno alcuni appigli di "verità" che sostenevano i ragionamenti delle più infervorate e dei più convinti. Sarebbe bello pensare che anche dal punto di vista culturale e dei costumi possa iniziare una nuova fase. In cui corpo e sessualità, prostituzione e libertà, responsabilità individuale non siano più brutte parole da mettere all’indice, ma confini su cui vale, sempre e comunque, la possibilità del singolo o della singola di scegliere. Sì, perché dopo tutti questi anni, dopo tutte queste discussioni, forse è davvero arrivata la volta buona per cambiare passo: se non ora quando? Giustizia: Berlusconi assolto, ma le colpe politiche restano tutte di Domenico Gallo Il Manifesto, 20 luglio 2014 Per capire le ragioni che hanno portato la Corte d’appello di Milano a ribaltare la condanna inflitta a Berlusconi dal Tribunale di Milano occorrerà attendere la motivazione della sentenza. Però è importante mettere in chiaro subito che la decisione della Corte non si fonda su un ribaltamento dei fatti e non esonera Berlusconi dalla responsabilità politica e morale per le conseguenze dei suoi comportamenti spericolati. L’assoluzione di Berlusconi nasce da una diversa interpretazione della valenza criminale dei medesimi fatti accertati dal Tribunale di Milano attraverso una lunga e articolata istruttoria dibattimentale. La sentenza non smentisce che egli abbia telefonato ai funzionari della Questura di Milano, abusando della sua qualità di presidente del Consiglio, imbrogliandoli con la menzogna della nipote di Mubarak per ottenere il rilascio della minorenne, protagonista delle notti di Arcore, né che egli sia riuscito a fare affidare la ragazza ad una consigliera regionale, implicata nel sistema prostitutivo di Arcore, anziché ad una comunità di accoglienza come disposto dal giudice tutelare. I giudici d’appello hanno diversamente qualificato tale comportamento reputando - evidentemente - che non raggiungesse la soglia della costrizione. Secondo la Corte d’appello, Berlusconi si è limitato ad imbrogliare i funzionari della Questura, raccontando balle, senza integrare gli estremi di un fatto-reato punibile. Di qui la formula: perché il fatto (la concussione-costrizione) non sussiste. Quanto all’assoluzione dal reato di prostituzione minorile, la formula: perché il fatto non costituisce reato, dimostra che i giudici hanno escluso l’elemento soggettivo, ferma restando la prostituzione della minorenne. In altre parole, i giudici non hanno ritenuto provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Berlusconi fosse consapevole della minore età della ragazza. Spetterà alla Cassazione dire la parola finale sull’interpretazione di queste condotte alla luce del diritto penale. Tuttavia tali condotte sono state frutto di un accertamento giudiziario che non può essere revocato in dubbio. Se la Corte d’appello lo ha assolto dalla responsabilità penale, certamente non lo ha assolto dai suoi stessi comportamenti, che non possono essere archiviati e devono rimanere sottoposti al giudizio del pubblico. Trattandosi di un uomo politico con responsabilità di governo, vale sempre il canone che le pubbliche funzioni devono essere esercitate con disciplina e con onore, come prescrive l’art. 54 della Costituzione. La sentenza della Corte milanese - se confermata dalla Cassazione - cancella il reato, non il disonore per comportamenti vergognosi da parte di un pubblico ufficiale. Abruzzo: i Radicali ai Consiglieri regionali "aderite alla nostra lotta per l’amnistia…" www.primadanoi.it, 20 luglio 2014 Ieri è stata indirizzata ai presidenti, consiglieri e assessori della Regione Abruzzo una lettera appello dai referenti Amnistia Giustizia Libertà - Abruzzo, Vincenzo di Nanna e Ariberto Grifoni che è in sciopero della fame da mercoledì e così ha aderito alla lotta nonviolenta, al Satyagraha di Marco Pannella, Rita Bernardini e di altri 200 cittadini. Il Comitato Nazionale di Radicali italiani, riunito a Roma l’11-12 e 13 luglio 2014 ha ribadito come si configuri sempre più obbligato "un provvedimento di amnistia e di indulto quale unica riforma strutturale in grado di fermare il mancato rispetto della Costituzione italiana e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, anche secondo quanto affermato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo ostracizzato messaggio alle Camere". In questi giorni viene intensificato il Satyagraha di Marco Pannella, Rita Bernardini e di altri 200 cittadini esplicitamente volto, in questa fase, a fermare le morti in carcere e a garantire le cure necessarie ai detenuti malati. Da Teramo mercoledì si è aggiunto alla lotta nonviolenta, con una sciopero della fame Ariberto Grifoni, il quale insieme a Vincenzo di Nanna ha ieri indirizzato una lettera ai lettera ai presidenti, consiglieri e assessori della Regione Abruzzo con una richiesta: "aderite a questa lotta, nelle forme e con le modalità che riterrete opportune, e, nel vostro ruolo, di portarne parola e azione nonviolenta nelle Istituzioni". Pavia: detenuto 27enne accusato di omicidio si impicca in cella di Denis Artioli La Provincia Pavese, 20 luglio 2014 Si è impiccato in cella, con un lenzuolo appeso a un gancio che sta al vertice del letto a castello. È morto così, ieri mattina, Johnny Bianchi, 27 anni, uno dei due fratelli "sinti" di Gambolò (l’altro è Mike Bianchi, 32 anni) finiti in carcere a Pavia, accusati di aver ucciso con una fucilata al torace, il 16 aprile, Driss Sabiri, 30 anni, marocchino, residente a Vigevano. Johnny Bianchi è stato trovato ieri, verso le 10.30, agonizzante in cella dal cosiddetto "lavorante di sezione", un detenuto che si occupa delle pulizie e della distribuzione di generi alimentari: l’uomo ha visto il corpo dallo spioncino della porta della cella e ha dato subito l’allarme. Il compagno di cella di Johnny Bianchi era in cortile, per le prime due ore d’aria consentite, dalle 9.30 alle 11.30, nella sezione a "regime chiuso" in cui era detenuto il 27enne gambolese (le altre due ore vanno dalle 13.30 alle 15.30). Johnny Bianchi non era uscito. È stato chiesto l’intervento del personale medico e infermieristico del carcere e del 118. Bianchi è stato sottoposto alle manovre di rianimazione, ma è deceduto attorno alle 11.30. Alla casa circondariale di Pavia è arrivato il magistrato per gli accertamenti sulla vicenda. Il fratello di Johnny, Mike Bianchi, è in una sezione aperta del carcere, dove i detenuti possono uscire di cella dalle 8 alle 18. Stando alle prime ricostruzioni di ieri, Johnny Bianchi pochi giorni fa avrebbe presentato la richiesta di essere messo in cella con il fratello Mike, una richiesta, a quanto pare, che era in fase di valutazione dall’ufficio preposto agli spostamenti dei detenuti. "È una vicenda tragica che non ha collegamenti con le problematiche di sovraffollamento delle carceri e delle carenze di organico, che pure esistono - commenta Fabio Catalano, sindacalista della Cgil-Funzione pubblica. È una tragedia personale". I due fratelli Bianchi erano finiti in carcere dopo l’uccisione di Driss Sabiri, a Gambolò, in via Roma, nell’abitazione della convivente di Mike Bianchi. Secondo le accuse, i Bianchi e Sabiri si erano accordati per un matrimonio fittizio (in cambio di denaro) del maghrebino con la convivente di Mike, incinta. Qualcosa, però, era andato storto, Driss avrebbe fatto avances esplicite alla donna. E i tre si erano trovati nella casa di via Roma per un chiarimento, finito nel sangue. Ai carabinieri che erano arrivati in via Roma, i due avevano detto che il colpo era stato sparato d’impeto per legittima difesa, perché Driss aveva estratto una pistola, non ancora ritrovata. Da appurare, però, chi dei due fratelli avesse sparato. Macomer (Nu): il carcere chiude, incontro in Comune per gli operatori penitenziari La Nuova Sardegna, 20 luglio 2014 Sfumano le speranze di fermare la chiusura del carcere di Macomer. Sabato inizia la dismissione ed entro settembre la struttura sarà chiusa. Lo ha disposto il provveditore regionale. Lunedì, alle ore 17 nell’aula consiliare del Comune si terrà un incontro convocato dal sindaco, Antonio Succu, con il personale della struttura e i sindacati della polizia penitenziaria per decidere le iniziative da intraprendere. La notizia è piovuta come una mazzata. "Avrei preferito che il Ministero avesse approfondito le proposte che abbiamo avanzato - ha detto Antonio Succu, la chiusura del carcere comporta un grave danno economico per Macomer, ma è antieconomica anche per l’amministrazione penitenziaria che nella struttura ha investito parecchio per renderla efficiente e attivare il nucleo cinofili. Dico soltanto che si tratta di una scelta vergognosa e penalizzante dal punto di vista sociale che colpisce anche le famiglie dei detenuti". Mentre in Sicilia il decreto del Governo che razionalizza le carceri è rimasto sulla carta, in Sardegna si è data subito attuazione. Dura la reazione della segreteria regionale del sindacato Fns Cisl dopo aver appreso la decisione di chiudere il carcere. "Il tutto - si legge in una nota - rientra nella logica, secondo l’Amministrazione, per la quale la chiusura era prevista da tempo come dalle disposizioni sulla riorganizzazione dei circuiti regionali. Di fatto nel circuito regionale riguardante il Distretto Sardegna gli istituti di Iglesias e Macomer non rientravano. L’Amministrazione sta predisponendo i moduli per la richiesta di scelta sede del personale. Chi non farà nessuna richiesta sarà trasferito d’ufficio. Il reparto cinofili di Macomer verrà trasferito presso l’istituto di Nuoro. Le strutture una volta dismesse saranno consegnate al demanio. Abbiamo riconfermato la contrarietà alla chiusura perché tale decisione ricadrà immancabilmente sui lavoratori e su dei territori martoriati e abbiamo sottolineato la mancata presa di posizione forte da parte dei politici che hanno assistito impotenti e incapaci di sostenere la rivendicazione". Genova: ingegnere condannato a 21 anni per uxoricidio… ma la moglie si era suicidata di Valentina Carosini La Repubblica, 20 luglio 2014 Non un omicidio ma un suicidio. Lo afferma l’ultima perizia sul caso di Paola Carosio, la farmacista trovata morta l’11 dicembre 2010 in un appartamento di via Buriano a Nervi, nel levante di Genova. La svolta nel processo all’ex compagno, Germano Graziadei, ingegnere di 49 anni, è stata quella impressa da una perizia, l’ultima in ordine di tempo, del patologo forense nominato dal tribunale secondo la quale la donna, da tempo vittima di una crisi depressiva, si tolse la vita. Graziadei, che in primo grado era stato condannato a 21 anni di carcere, è stato scarcerato e resta sottoposto ad obbligo di dimora in attesa della sentenza della corte d’Assise di Appello, che dovrebbe arrivare il prossimo 3 ottobre. "Vivere dopo si può. Ma dimenticare mai". Sono queste le sue prime parole appena tornato in libertà, nella stessa Nervi dove viveva con la compagna. La casa non è più la stessa, ora risiede con i genitori. In via Buriano non è più tornato, i sigilli giudiziari sono ancora apposti sulla vecchia abitazione. Visibilmente dimagrito, camicia a quadri, una caviglia ferita sugli scogli nel primo giorno in libera uscita: ha i capelli più grigi, Germano. Ma il dolore nel raccontarsi, raccontare, ricordare - spiega - è sempre lo stesso. Una svolta (l’ultima perizia) che potrebbe essere decisiva in vista della sentenza di secondo grado, attesa per il prossimo 3 di ottobre. "Credo nella giustizia in senso generale. Questa è una perizia giusta". Le prime sensazioni quali sono state? "Per me non c’era bisogno di alcuna perizia perché io c’ero, e so com’è andata. Io e Paola ci conoscevamo da vent’anni, così come da 20 anni si conoscevano anche le nostre famiglie. Mi è stato vietato da subito qualunque contatto con loro, per questo ho sofferto molto. Dopo quello che era successo la madre si è sempre dichiarata incredula. Avrei voluto parlarle ma io non li posso cercare, le restrizioni cui sono sottoposto me lo vietano". Qual è stato il più grande rimpianto, in tutta questa vicenda? "Quello di non essere stato abbastanza attento, vicino alla mia compagna, che aveva un problema. E non aver mai potuto riabbracciare sua madre. Per un periodo abbiamo anche vissuto in casa sua. Pensi a che cosa hanno fatto vivere alla sua famiglia. Qui c’è una persona che io amavo e che è morta". Qualcuno è partito da un presupposto sbagliato? "Qualcuno ha detto che io ho ucciso la mia compagna, invece ho cercato di salvarla. E ora pensi cosa può voler dire non poter neppure andare da sua madre: io l’avrei voluto fare da subito. Le hanno riferito che con certezza ero io il responsabile della morte di sua figlia. Poi questa certezza non c’era". Un caso di mala-giustizia? "Bisogna stare molto attenti perché il mio non è l’unico in Italia, alla fine la verità verrà fuori, non ho dubbi. Ma qui si parla della vita delle persone. Qui qualcuno ha fatto un errore e io sono stato giudicato per quello che non ero. Il dopo è una brutta verità". Parla della prima perizia? "Se parti da un assioma e ricostruisci tutto in base a quello puoi arrivare a risultati sbagliati. Ma quell’assioma, un tecnico competente lo deve saper leggere". Forse si può dire che non sono state prese in considerazione tutte le variabili nelle ore immediatamente successive all’accaduto? "Subito dopo l’autopsia si sono fatti un’idea, cioè che le cose dovevano essere andate in un certo modo. Se però non si sa come si sono svolte davvero non si può parlare". Come sono state queste prime ore di libertà? "Ho mangiato un gelato. Sono andato a vedere il mare. Nel primo momento che ho avuto a disposizione sono andato a trovare la famiglia di un ragazzo, un ex detenuto che avevo conosciuto in carcere, nel periodo in cui sono stato detenuto a Marassi. Sono andato a salutarle i suoi figli e sua moglie. Perché esiste: questo esiste". Che cosa, l’esperienza di solidarietà? "Sicuramente sì. E anche l’amicizia. Il carcere non è solo quello che raccontano". Cosa farà da domani, dopodomani, da qui ad ottobre? "Vivrò l’attesa studiando, forse il francese. Io non lo so, lei lo sa? Se si vuole si può investire il tempo per imparare. Poi spero di ritornare al mio lavoro, quello di ingegnere. E a fare una vita quanto più normale possibile". Alba Adriatica (Te): inaugurato il nuovo Ufficio Iat ristrutturato dai detenuti www.cityrumors.it, 20 luglio 2014 Alba Adriatica. È stato inaugurato il nuovo ufficio turistico di Alba Adriatica, nel locale storico dello Iat all’interno della Bambinopoli. Nel caso specifico, si tratta di un progetto pilota, percorso con la Provincia e il carcere di Marino del Tronto, visto che sono stati gli stessi detenuti, impegnati in una serie di attività sul litorale, a ristrutturare gli spazi. Trento: abuso di disciplina, pena diminuita per sovrintendente Polizia penitenziaria Il Trentino, 20 luglio 2014 Da venti giorni a 16 giorni. È calata in appello la pena contro un sovrintendente della polizia penitenziaria imputato per un episodio avvenuto nel carcere di Spini il 20 ottobre del 2011. L’accusa inizialmente contro l’uomo era quella di abuso di potere ma per il giudice di primo grado l’accusa doveva essere quella di abuso di mezzi di correzione e disciplina. E aveva deciso per una pena a 20 giorni che ieri in appello è stata ridotta a 16. Ma non è finita. Quando arriveranno le motivazioni l’intenzione dell’agente è comunque quella di andare avanti per veder riconosciuta la sua innocenza. Ma veniamo ai fatti. Quel giorno, alle 9 di mattina, il sovrintendente era capoturno e aveva deciso di effettuare una perquisizione nella cella di un detenuto che aveva già 14 sanzioni disciplinari. Si trattava di un detenuto che aveva dato problemi in passato. Piazza gli ha chiesto di aprire l’armadietto, ma questi si è rifiutato e si sarebbe scaldato. A questo punto, il sovrintendente, con l’aiuto di due colleghi, avrebbe condotto il detenuto in un’altra cella, mettendolo di fatto in isolamento. Qui ci sarebbe stato un abuso, secondo quello che sosteneva l’accusa con forse un confronto fisico. Tanto che il poliziotto era finito in ospedale con una falange rotta (prognosi di 30 giorni) e il detenuto con un ematoma. Teramo: droga in carcere, agente di Polizia penitenziaria patteggia 2 anni ed 8 mesi Il Tempo, 20 luglio 2014 Nell’inchiesta sull’agente di Polizia penitenziaria del carcere di Castrogno accusato di corruzione, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rivelazione dei segreti d’ufficio, falso in atto pubblico e truffa, il Gup del Tribunale di Teramo mette un primo punto fermo e lo fa accettando la richiesta di patteggiamento a due anni ed otto mesi presentata da Giancarlo Arnoni, tramite il suo legale, e rinviando a giudizio gli altri due imputati. Imputati per i quali il processo si aprirà il prossimo 7 maggio. A finire davanti al collegio il medico di base Alessandra Pilotti, accusata di falso e truffa in concorso in quanto secondo la Procura non avrebbe mai visitato Arnoni, limitandosi semplicemente a firmargli quei certificati medici con i quali l’agente si sarebbe più volte assentato dal lavoro percependo così indebitamente stipendio ed indennità di malattia, e l’allora detenuto (oggi tornato libero) Vincenzo Varriale. Lo stesso detenuto che secondo la Procura avrebbe corrotto Arnoni con salumi, formaggi e vino per far entrare la droga in carcere. Le indagini, coordinate dal pm Luca Sciarretta, erano partite alcuni mesi fa quando sul suo tavolo era arrivato uno stralcio di un’indagine della Dda di Napoli. Dda di Napoli che indagando su alcune persone legate al clan dei Casalesi avevano scoperto strani rapporti tra l’agente e detenuti ed ex detenuti del carcere di Castrogno legati alla camorra. Verona: Ass. "La Fraternità"; giornata dedicata ai detenuti con messa pranzo e banchetti L’Arena, 20 luglio 2014 Una giornata per vincere la paura verso le persone detenute, per evitare il loro isolamento e sottolineare l’importanza di una pena che tenda al recupero più che alla "punizione". Queste le finalità della "Giornata della fraternità", organizzata domani al santuario del Frassino di Peschiera dall’associazione "La Fraternità". Il programma prevede la celebrazione della messa alle 11.30, animata dal Gruppo Cappellania del carcere di Montorio con una riflessione dedicata ai detenuti e alle loro famiglie, che oltre ad affrontare la dura esperienza del carcere devono spesso convivere con i pregiudizi della società. Alle 13 seguirà il pranzo al ristorante del santuario, a cui è possibile partecipare dando conferma ai numeri 347.4115048 (frate Beppe) e 329.3659294 (Franca). È richiesto il contributo di 17 euro a persona, o 10 euro per le famiglie in difficoltà. Nel pomeriggio, dalle 15, sarà possibile visitare insieme il centro di Peschiera. "Questa giornata è una tradizione per la nostra associazione", commenta fra Beppe Prioli, che ha alle spalle cinquant’anni d’impegno per offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato e vuole riprendere in mano la propria vita. "La Fraternità è nata nel 1968 per offrire sostegno morale alle persone in carcere e alle loro famiglie: è stato grazie a loro che ho imparato il significato dell’ascolto, dell’accoglienza e del confronto", spiega. "La giornata della fraternità è una festa itinerante, viene fatta una volta al mese in diversi paesi della provincia. La organizziamo da quarant’anni e da dieci viene ospitata anche al santuario del Frassino". Saranno presenti anche dieci dei 700 detenuti della Casa circondariale di Montorio. Verranno inoltre esposti alcuni dei loro lavori di artigianato e pittura, e distribuito il pane fatto dal panificio interno del carcere, il cui ricavato sarà devoluto per portare avanti questa attività. Ferrara: volley, al torneo dell’Uisp impegnati 25 detenuti La Nuova Ferrara, 20 luglio 2014 Nei giorni scorsi si è svolto un torneo di pallavolo organizzato da Uisp Ferrara presso la casa circondariale di via Arginone. Venticinque i detenuti partecipanti che hanno messo in pratica le nozioni acquisite nell’arco dell’anno sotto la guida dell’allenatore Michele Testoni. La giornata rappresenta infatti il coronamento dell’attività continuativa 2013-14 di pallavolo che ogni settimana si svolge in carcere grazie al progetto "Le porte aperte", coordinato da Davide Guietti (Uisp Fe). L’attività motoria in carcere è resa possibile da un protocollo d’intesa a livello nazionale fra Uisp e il Ministero della Giustizia e a livello locale grazie ad una convenzione avviata nel 2003 e rinnovata in questi anni. E, soprattutto, grazie all’impegno costante della Commissione sportiva, composta dal referente Uisp Davide Guietti, dalle educatrici e dai rappresentanti dei detenuti. Oltre all’attività sopra citata, le altre proposte sono: un progetto di yoga, terminato nel 2013, che ha coinvolto oltre 40 detenuti, un corso per arbitri, tornei di calcio e le manifestazioni Vivicittà e Bicincittà. Libri: "Prigioniero della mia libertà" di R. Errico, S. Pomilia e M. Turchetta recensione di Andrea Piersanti Il Giornale, 20 luglio 2014 "Ogni tanto me lo domando ancora: ma non poteva uccidermi e basta". Si conclude così una delle sette testimonianze delle vittime degli errori giudiziari che sono raccolte nel libro "Prigioniero della mia libertà" di Rosario Errico, Stefano Pomilia e Michela Turchetta (Editori Internazionali Riuniti, pp. 204, 15 euro). Il volume è curato da Gabriele Magno (avvocato, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari) e da Luisa Badolato. Nella prima parte è stata pubblicata la sceneggiatura integrale del film omonimo diretto da Errico e interpretato, fra gli altri, da Giancarlo Giannini. La storia di fantasia raccontata nel film (uscita prevista il prossimo autunno) prende spunto dalla realtà. Sono infatti quasi 50mila gli italiani innocenti che, dal 1989 ad oggi, sono finiti in carcere per errori giudiziari. Il caso di Enzo Tortora è solo la punta di un iceberg immenso. "Ogni anno vengono riconosciute dai tribunali, con l’assoluzione, circa 2.500 ingiuste detenzioni frutto in parte di errori giudiziari - ha spiegato l’avvocato Magno. Ma solo un terzo, circa 800 vengono risarcite. Spesso, infatti, anche se riconosciuto innocente, l’ex detenuto viene considerato responsabile, per colpa grave o dolo, di aver indotto la pubblica accusa a ritenerlo colpevole". Un fenomeno impressionante che ha spinto il regista (e attore) Rosario Errico ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione del film. "Comincio dalla fine di Detenuto in attesa di giudizio, ha detto Errico. Il protagonista è un architetto che cade nella trappola di un sedicente amico. È la vittima di una truffa ma si ritrova ad essere accusato di estorsione. Un apologo dell’orrore che stravolge la serenità del protagonista. Immigrazione: nel carcere degli scafisti "reclutati dai trafficanti per 5mila euro a viaggio" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 luglio 2014 I tre senegalesi a cui era stato affidato il barcone arrivato due settimane fa con 45 cadaveri asfissiati nella stiva ancora non si sono resi conto che da questa cella usciranno tra non meno di 15 anni. Il loro destino era unito a quello dei loro compagni di viaggio prima che cedessero alle lusinghe dei trafficanti: poi è bastato poco per farli passare da vittime a carnefici. Scafisti per caso. A Ragusa c’è un carcere pieno di gente come loro, sono 68, solo quelli entrati dall’inizio dell’anno. Non c’è più posto in questa piccola casa circondariale di provincia che la nuova emergenza sbarchi ha trasformato in un carcere di disperati. Perché non sono loro, che ora rischiano pene pesantissime, i veri trafficanti di uomini, non sono loro ad incassare quelle cifre da capogiro (da 500.000 euro a un milione di euro) che frutta ogni viaggio. Loro, come Safih, il tunisino arrestato ieri dagli uomini della squadra mobile per aver condotto l’ultimo barcone arrivato a Pozzallo con un carico di 251 persone, spesso sperano di fare il colpo della loro vita, accecati da quel miraggio dei 5.000 dollari promessi dai trafficanti. E si "arruolano", come ha raccontato Safih. "Sono andato in Libia perché sapevo che li cercano persone per condurre le barche e mi sono proposto. Io sono figlio di pescatore e un po’ conosco il mare. Avrei guadagnato quanto guadagno di solito in due anni". Metà subito e metà, con i Money transfer, a missione compiuta. Quasi sempre sono queste le condizioni imposte dai libici, i veri organizzatori del viaggio che cedono il comando della barca al "capitano" e al suo equipaggio solo dopo aver fatto salire tutti a bordo e aver distribuito i migranti al loro posto sulla barca a seconda della tariffa pagata: meno per chi sta giù in stiva, a rischio di asfissia, più per gli altri. Proprio la paura di non ricevere il saldo a destinazione, tre settimane fa, indusse i tre senegalesi del barcone della morte a rifiutare l’aiuto di un motopesca tunisino che li aveva agganciati quando erano ancora a poche miglia dalla costa libica. Se fossero stati soccorsi subito i 45 poi morti asfissiati nella stiva si sarebbero salvati, ma Karim e i due suoi amici hanno confessato: "Girammo il timone e andammo via, dovevano soccorrerci gli italiani in acque internazionali, se no non ci avrebbero pagato il resto dei soldi". Gli scafisti rinchiusi nel carcere di Ragusa si incontrano ogni giorno in cortile nell’ora d’aria. Sono per lo più tunisini ed egiziani anche se da un po’ di settimane anche i poverissimi del centro Africa accettano il lavoro. "Ci avevano detto che era facile - racconta Ahmed, 30 anni, eritreo - che dopo 30 miglia, quindi cinque o sei ore di navigazione, saremmo stati in acque internazionali. Dovevamo avvertire i libici, fingere un guasto e farci soccorrere. Qui mi dicono che io sono uno scafista, ma non è cosi. Io ero in un bar in Libia e cercavo anch’io un passaggio per l’Italia, ho incontrato un procacciatore, mi ha chiesto se conoscevo il mare, io ho detto di sì e mi ha dato 1.500 dollari, l’altra metà me li avrebbero mandati all’arrivo". Sono quasi tutti scafisti "per caso" quelli che nel carcere di Ragusa aspettano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma spesso anche per sequestro di persona e omicidio. Quasi tutti giovanissimi e figli di pescatori. Proprio come quei dodici baby scafisti, di età compresa tra i 13 e i 15 anni, che sono rinchiusi nel carcere dei minorenni di Catania. Gli organizzatori dei viaggi li vanno a cercare nei villaggi più poveri delle coste egiziane, dove le famiglie non hanno i soldi per pagare il biglietto della traversata ai loro figli. "Dateceli - dicono ai genitori - devono solo guidare un gommone per poche miglia e distribuire acqua e cibo e ve li facciamo arrivare in Italia gratis". Abd el Karim, 15 anni, egiziano, in carcere piange tutti i giorni: "Sono l’unico maschio della famiglia, a casa ho otto sorelle. I miei genitori mi hanno detto: "Vai, quando arrivi in Italia, ti porteranno in un comunità, ti insegneranno la lingua, ti manderanno a scuola. Poi impara un lavoro e manda i soldi a casa. Quando siamo partiti dalla spiaggia in Libia mi hanno dato 100 euro e mi hanno messo alla guida di un gommone. Io pensavo di dovere portare le persone per poche miglia ad una barca grande ma non c’era nessuna barca, il gommone si è fermato, alcuni sono morti... Ora che ci faccio qui. Voglio tornare a casa". Stato islamico dell’Iraq e del Levante: lapidate due donne accusate di adulterio Corriere della Sera, 20 luglio 2014 Una donna accusata di adulterio è stata messa a morte tramite lapidazione in pubblico nel Nord della Siria dai Jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). La violenza, denunciata dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani, sarebbe avvenuta a Raqqa, capoluogo dell’omonima provincia, in una piazza nelle vicinanze dello stadio municipale. Si tratterebbe del secondo caso nel giro di ventiquattro ore. Il primo era stato segnalato venerdì a Al Tabaqa, nella stessa provincia. Vittima, una donna di 26 anni lapidata nel suq della città dopo che un tribunale religioso l’aveva riconosciuta colpevole di infedeltà. Nei territori sotto il suo controllo, dove all’inizio di luglio ha proclamato la creazione del Califfato islamico, l’Isis ha introdotto la Sharia, la legge islamica.