Giustizia: decreto detenuti; dubbi Commissione Affari Costituzionali risarcimento 8 euro Public Policy, 19 luglio 2014 La commissione Affari costituzionali della Camera ha invitato la commissione Giustizia a valutare "se i criteri per la determinazione del quantum delle previsioni risarcitorie", disposte dal dl Detenuti, "siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti) ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale". È questa la condizione contenuta nel parere favorevole della I commissione al decreto Detenuti che - tra le altre cose - prevede per le persone incarcerate in condizioni che violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo un risarcimento in termini di riduzione della pena o di denaro (8 euro per ogni giorno di detenzione in condizione "disumane"). Dai resoconti di seduta si capisce come una prima formulazione del parere, proposto dal presidente della I commissione Francesco Paolo Sisto, aveva suscitato le proteste del Pd. La proposta iniziale di parere - che il deputato Pd Emanuele Fiano aveva chiesto di trasformare in semplice osservazione - si focalizzava non sui "criteri per la determinazione del quantum delle previsioni risarcitorie" (come nel parere poi approvato), ma direttamente sulle "previsioni risarcitorie". Fiano, commentando questa prima formulazione, aveva ribadito di ritenere "la misurazione effettuata nel provvedimento congrua rispetto ai dettati della Corte europea dei diritti dell’uomo". Subito prima Gianni Cuperlo, membro della commissione Affari costituzionali, aveva annunciato il suo voto in dissenso dal gruppo esprimendo parere favorevole alla proposta di Sisto. Giustizia: intervista a Rita Bernardini, in sciopero della fame per le carceri italiane di Fabrizio Grasso Tweet Press, 19 luglio 2014 Siamo la terra dei paradossi… e della pietas, lei è in sciopero della fame anche per Bernardo Provenzano… vuole spiegarci questa sua ultima battaglia? "Ci troviamo di fronte al caso di un ottantunenne, tenuto in regime di 41-bis (carcere duro), incapace di intendere, volere e agire, incapace di compiere gli atti quotidiani della vita, completamente allettato dal dicembre 2012, cateterizzato, nutrito con un sondino necessario anche per fargli assorbire i farmaci. Ci sono tre Procure antimafia che hanno chiesto di sospendergli il 41-bis. Provenzano non è più chiamato a deporre in giudizio perché incapace. Per disposizione della magistratura è stato nominato un amministratore di sostegno persino per notificargli atti. Il Primario ospedaliero del reparto del San Paolo di Milano ove è ricoverato ha certificato la sua incompatibilità con lo stato di detenzione in quel settore dell’ospedale per le cure di cui necessita. Di cosa stiamo parlando? Glielo dico: di uno Stato che, tenendo un uomo in quelle condizioni al 41-bis, si comporta peggio del peggiore criminale, violando e bestemmiando la Costituzione e i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Le dirò di più: noi radicali siamo i soli, fra le forze politiche, ad essere contrari al 41-bis e a lottare per cancellare questa "tortura democratica". Dalla nostra parte abbiamo però l’ONu con il suo "Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria" che, tornato in visita in Italia dal 7 al 9 luglio scorso, ha dovuto constatare che sul sistema di detenzione speciale che il nostro Paese riserva ai detenuti imputati o condannati per reati di mafia e terrorismo, non ci siamo ancora adeguati ai requisiti internazionali per i diritti umani". La condizione della carceri in Italia è spaventosa, soprattutto perché sono straripanti di esseri umani… non c’è spazio insomma… il carcere è una pena anche per i secondini, che a volte si tolgono la vita a causa della terribile realtà che vivono… Eppure l’Europa ha riconosciuto all'Italia, l’impegno a risolvere il problema del sovraffollamento… "No, guardi, si è trattato dell’ennesimo imbroglio all’italiana, il gioco delle tre carte lo hanno solo leggermente modificato facendo quello dei "tre metri" e il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa - ai cui 47 membri la burocrazia europea ha illegalmente omesso di consegnare il nostro ponderoso dossier di 56 pagine che confutava del tesi e i numeri del Governo italiano - se l’è bevuta. E, infatti, tornando in Italia, il Ministro Orlando si è lasciato sfuggire "sulle carceri, ci abbiamo messo una pezza". Insomma, niente a che vedere con quanto ci aveva richiesto la Corte Europea con la sentenza di condanna Torreggiani e con quanto aveva solennemente affermato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo ostracizzato messaggio alle Camere: obbligo di intervenire immediatamente per far cessare 1) i trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri 2) le conseguenze, per milioni di italiani, di una giustizia irragionevolmente lunga. Come noi, il Massimo Magistrato, chiedeva amnistia e indulto per interrompere la flagranza criminale del nostro Stato. Lo sa che pochi giorni fa le Nazioni Unite si sono chieste il motivo per cui l’Italia non ha ascoltato il Presidente Napolitano in materia di amnistia e di indulto "quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale"?". Qualcosa si smuove con il suo sciopero della fame? "Da una ventina di giorni insieme a Marco Pannella (che si priva anche dell’acqua) e ad oltre 200 cittadini sto facendo lo sciopero della fame per l’obiettivo di sempre: amnistia e indulto per far uscire il nostro Paese dalla sua condizione di "delinquente professionale" che viola diritti umani fondamentali sia nel settore delle carceri, sia in quello - ancora più importante - della Giustizia negata a tutti i cittadini italiani. L’accento, in questa fase del nostro Satyagraha, lo abbiamo messo, in particolare, sulla necessità di intervenire per far cessare le morti in carcere, per il diritto alla salute dei detenuti e per la vergognosa vicenda Provenzano. E per il diritto alla conoscenza dei cittadini che abitano il territorio italiano: come mai nessuna TV e nessun giornale hanno passato la notizia delle severe ammonizioni della delegazione Onu? Disturbano troppo il manovratore Renzi che se ne guarda bene dal garantire i diritti umani fondamentali? Per ora registriamo il sostegno del Sen. Luigi Manconi (Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato) - che sull’Unità di qualche giorno fa a proposito della nostra iniziativa ha voluto titolare "assistenza sanitaria per i detenuti... se l'Italia sembra la Guinea" - e del Dott. Francesco Ceraudo il più esperto fra i medici penitenziari che sul Garantista, riguardo alla sanità in carcere ha scritto: "manca l'applicazione dei criteri più elementari di medicina preventiva. Del resto i detenuti sono i nuovi ultimi e tali devono rimanere. Non hanno alcun valore sociale e tanto meno politico, solo i Radicali di Marco Pannella e Rita Bernardini hanno la sensibilità di prenderli in seria considerazione". È poco? Sì, è poco, pochissimo, ma queste prese di posizione sono un incoraggiamento a proseguire". Nel futuro le pene cambieranno e saranno alternative al carcere… Ha ancora senso il carcere? "Il nostro è un sistema carcero-centrico, mentre si sa per cognizione scientifica che le cosiddette pene alternative abbattono la recidiva e danno luogo ad una società più sicura. Oggi il carcere - anziché seguire quanto ci chiedono Costituzione e ragionevolezza, cioè "rieducazione" in vista di un futuro reinserimento sociale - pratica un "trattamento" di tale abbrutimento umano da divenire vera e propria scuola di devianza e di delinquenza". Per quanto ancora pensa di riuscire a tenere duro? "Vedremo. Lo sciopero della fame (o della sete) non vuole mai essere un ricatto: si propone di aprire brecce nel potere antidemocratico italiano affinché faccia ciò che è obbligato in base alla legge. Del resto, non mostriamo i muscoli, semmai ci indeboliamo. Confidiamo nella forza del dialogo che, per noi, non è fatto solo di parole: facciamo esprimere anche i nostri corpi che via via assomigliano sempre di più a quelli degli ultimi e dei dimenticati". Tornerà a mangiare non appena avrà ottenuto … "Ripeto: primo, non ricattiamo nessuno e, secondo, non vogliamo morire… sarebbe una sconfitta della nonviolenza. Quello che vogliamo che accada - e che ho sommariamente illustrato nelle risposte precedenti - ci impegna nella quotidianità, quelli sono gli obiettivi. Se ciò che è giusto lo si ottiene con la nonviolenza, sarà duraturo e non effimero". Giustizia: Ucpi; patrocinio a spese dello Stato... gli ostacoli non finiscono mai www.camerepenali.it, 19 luglio 2014 L’introduzione del sistema di fatturazione elettronica per i compensi derivanti dal patrocinio a spese dello Stato ha determinato, di fatto, il blocco delle liquidazioni. Lo specifico Osservatorio dell’Unione interviene con un proprio documento. A seguito della entrata in vigore della Legge 244/2007 e del DM 55/2013, dal 6 giugno 2014 è stato imposto l’obbligo della fatturazione elettronica, in generale per tutti i rapporti con le amministrazioni dello Stato, in particolare e per quanto qui rileva, anche per il patrocinio a spese dello Stato. Per quanto concerne tale istituto, l’operatività della normativa in questione non è stata preceduta da adeguata informazione e formazione, tanto che, da una verifica effettuata a campione dai componenti dell’Osservatorio sul patrocinio a spese dello Stato, è emerso come, nei diversi uffici giudiziari, si sia registrato un sostanziale blocco della ricezione delle fatture relative al patrocinio. Peraltro, in queste ultime settimane, si sono susseguite circolari (non solo del Ministero della Giustizia e dell’Agenzia delle Entrate ma anche del Consiglio Nazionale Forense), i cui contenuti, palesemente in contrasto tra loro, hanno accresciuto il disorientamento. In particolare, le procedure suggerite per la presentazione delle fatture da parte degli avvocati, oltre ad essere di fatto impraticabili, non sono neppure conformi al dettato normativo, dal momento che, per il patrocinio a spese dello Stato è previsto, obbligatoriamente e senza deroghe, l’utilizzo della piattaforma Siamm. Attualmente, però, la funzione specifica di tale sistema, non solo non è ancora stata abilitata, ma non ne è stata neppure verificata la compatibilità con il nuovo programma di gestione della contabilità dello Stato, né si sa quando ciò potrà avvenire Poiché presupposto indefettibile del giusto processo è garantire l’effettività della difesa anche e soprattutto attraverso la puntuale attuazione dei principi imposti dalla Costituzione e dalle norme sovrannazionali, primi tra tutti, gli artt. 3 e 110 Costt. e 6 Carta Edu, la situazione venutasi a creare si profila come un inadempimento, da parte dello Stato, di tali doveri, potenzialmente idoneo ad indurre, come già posto in evidenza in precedenti denunce dell’Unione delle Camere Penali Italiane, una progressiva indisponibilità dei professionisti, a discapito delle fasce più deboli. Per questa ragione l’Unione delle Camere Penali Italiane, continuerà, attraverso l’Osservatorio, a tenere monitorata la situazione e si attiverà presso i competenti organi, al precipuo fine di tutelare il diritto alla difesa degli ultimi. Giustizia: Pannella (Ri); abolire la pena di morte e cancellare anche la "morte per pena" Adnkronos, 19 luglio 2014 "Come sulle mutilazioni genitali femminili e la costituzione della Corte Penale Internazionale abbiamo raggiunto un certo obbiettivo che a noi radicali ci viene riconosciuto anche in questa Italia profondamente partitocratica e antidemocratica. È necessario quindi continuare, e continueremo, con tenacia questa battaglia per vedere anche in quei pochi stati ancora mantenitori della pena capitale la messa fuori legge del boia". Lo ha affermato all’Adnkronos Marco Pannella, leader radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino che anche se per poco ha presenziato alla presentazione del rapporto annuale dell’organizzazione sulla situazione nel mondo della pena di morte. "Ma il problema vero - ha sottolineato Pannella - è che gli Stati come l’Italia possano abolire la pena di morte e farci morire numerosi e, per ora, sempre più numerosi di pena per mezzo della giustizia e delle carceri. L’incontro di oggi ha visto l’adesione di più della meta dei paesi africani, a questa lotta di civiltà, di democrazia e di libertà. Occorre dire al presidente Renzi e agli altri che bisogna accorgersi che in Italia stiamo marciando per vedere questo Paese più condannato alla morte, alla fame e al caos: va abolita sì la pena di morte ma va abolita anche la morte per pena e noi lottiamo per questo". Giustizia: processo Ruby; cadono le due accuse. assoluzione piena per Berlusconi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 luglio 2014 Processo Ruby, Berlusconi assolto in Appello dalle accuse di prostituzione minorile ("perché il fatto non costituisce reato") e concussione ("perché il fatto non sussiste"). Cancellata la condanna di primo grado a 7 anni. La prima reazione: "Sono commosso". Berlusconi aggiunge: "La maggioranza dei giudici è ammirevole". Poi brinda con gli amici. Secondo i giudici l’ex premier non era consapevole che Karima "Ruby" el Mahroug fosse appunto minorenne. E la telefonata da Parigi del 27 maggio 2010 al capo di gabinetto della Questura milanese su quella ragazza indicata come parente dell’allora presidente egiziano Mubarak, non ebbe contenuto di minaccia nei confronti dei funzionari di polizia. Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima "Ruby" el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto "racconta", in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove. Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto "perché il fatto non costituisce reato", cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità "postuma": nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa. Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula "perché il fatto non sussiste", segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro "induzione indebita", fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore. Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona "costretta" dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, "scuola" Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di "minaccia". Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine "concussione" ("l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti"), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, "se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore. Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi". Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: "Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela" o da un generico "timore reverenziale verso il premier". Argomento rovesciato dalla difesa: "Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità". Giustizia: il boss Bernardo Provenzano peggiora, chiesta alimentazione forzata Ansa, 19 luglio 2014 Peggiorano le condizioni di salute del boss mafioso Bernardo Provenzano. I medici dell’ospedale San Paolo di Milano, in cui il capomafia, che è detenuto al 41 bis, è ricoverato hanno chiesto al figlio Angelo, nominato amministratore di sostegno del padre, incapace di intendere e di volere, dal giudice tutelare, di esprimere il consenso alla peg, una tecnica di alimentazione forzata. Da mesi il boss, che non si alimenta spontaneamente, assume il cibo tramite un sondino naso-gasrtrico. Rimedio, per i sanitari, non più utilizzabile: da qui l’indicazione della peg, una tecnica di nutrizione enterale che prevede un vero intervento chirurgico. "Angelo Provenzano non può esprimere un consenso senza avere fatto esaminare da un suo medico di fiducia il diario clinico del padre - spiega l’avvocato del boss Rosalba Di Gregorio -. Abbiamo richiesto un mese fa la cartella ma il ministro non ha ancora autorizzato l’ospedale a darne copia all’amministratore". "Ora - aggiunge - per noi si pone il problema, che sconfina a questo punto nell’etico, di comprendere se dobbiamo considerare questo ulteriore intervento medico una forma di accanimento terapeutico". Lettere: il mio "reportage" dal carcere di Rebibbia Giulia Rossi Corriere della Sera, 19 luglio 2014 Gentile dottor Severgnini, mi rivolgo a lei appellandomi alla sua sensibilità e alla sua capacità di divulgazione. Volevo portare alla sua attenzione il problema delle carceri. Mi sono dovuta imbattere, da qualche mese, in questa brutta realtà per via di mio padre che è nel carcere di Rebibbia con la condanna per bancarotta. Dicono che il carcere romano sia uno dei migliori d’Italia, ma la realtà e un’altra: è uno scempio, la sporcizia regna sovrana cosi come il degrado. Vorrei che i politici andassero in incognito una mattina qualunque a provare a fare la fila per il colloquio. La sala è in uno stato indegno, sono mesi che i bagni sono inagibili. I parlatori sono fatiscenti, i detenuti sono in celle sovraffollate, contro ogni norma di legge sia sanitaria che di sicurezza. E questo gli addetti ai lavori lo sanno ma fanno finta di nulla. Il problema delle carceri scotta troppo? Tutti gli esseri umani hanno diritto alla dignità. È giusto non avere uno spazio vitale adeguato? È giusto non avere acqua calda? È giusto cucinare accanto al gabinetto? È giusto avere solo 6 colloqui e una telefonata di 10 minuti a settimana? Nemmeno nel medioevo. Bisogna intervenire pesantemente contro il sovraffollamento. Anche io negli anni scorsi quando parlavano di indulto per principio ero contraria, ma perché ero ignorante riguardo al tema: bisogna informare la gente che non si liberano assassini e stupratori ma persone socialmente non pericolose. Credo che questo sia un problema che meriti grandissima attenzione. È difficile giudicare senza conoscere. Sardegna: sindacati di Polizia penitenziaria a Orlando, no a chiusura Iglesias e Macomer Agi, 19 luglio 2014 Per salvare gli istituti penitenziari di Iglesias e Macomer dalla chiusura prevista in un decreto firmato il 28 maggio dal ministro della Giustizia i sindacati della polizia penitenziaria propongono di risparmiare sui costi degli uffici del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) a Cagliari. "Un intero edificio preso in affitto dall’amministrazione che costerebbe, secondo le informazioni in nostro possesso, circa 700mila euro l’anno", scrivono Osapp, Sinappe, Ugl Pp, Cisl Fns e Fp Cgil Pp, al ministro Andrea Orlando e al vice capo vicario dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, ai quali propongono di trasferire gli uffici del Prap e quelli dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Cagliari nell’edificio che a Monastir (Cagliari) ospita la Scuola di formazione e aggiornamento della polizia penitenziaria. I sindacati sono contrari alla chiusura delle due carceri in Sardegna. "Non si può risparmiare sulla pelle del personale, dove è necessario potenziare e migliorare i servizi, in quei territori fra i più poveri della nazionale italiana, dov’è indispensabile la presenza continua dello Stato", sottolineano le cinque sigle sindacali, dopo una riunione con il provveditore regionale Gianfranco De Gesu, in cui hanno fatto presente i forti disagi per gli agenti di polizia penitenziaria ma anche la perdita di numerosi posti di lavoro per i dipendenti dell’indotto che la chiusura degli istituti di Iglesias e Macomer comporterà. "Ci dispiace che tutto ciò accada nel disinteresse più generale da parte della politica", lamentano i sindacati. "Dov’erano i parlamentari eletti in Sardegna in questi mesi?". Sulla chiusura del carcere di Iglesias hanno annunciato un’interpellanza urgente al presidente della Regione i consiglieri dell’Udc Gigi Rubiu e Giorgio Oppi, secondo i quali la decisione del ministero potrebbe tradursi in un danno erariale. "Iglesias ospita detenuti dal complicatissimo reinserimento sociale", ricordano i due esponenti dell’Udc, "in particolare con condanne per reati sessuali (sex offender) e per gestirli gli agenti di polizia penitenziaria hanno seguito corsi specifici. Inoltre, con la chiusura del carcere i 107 detenuti verrebbero trasferiti a centinaia di chilometri di distanza, con conseguente aggravio della già penosa trasferta che familiari e amici devono compiere ogni settimana". Cocco (Pd): Regione sia parte attiva contro chiusura Iglesias e Macomer La paventata ipotesi chiusura degli istituti penitenziari di Iglesias e Macomer, denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria, secondo il decreto del Ministero della Giustizia, ha creato apprensione e preoccupazione negli ambienti politici sardi. Il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Pietro Cocco, ha infatti chiesto al Presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, "quali iniziative intenda intraprendere presso gli organismi competenti per chiedere la sospensione dell’efficacia del provvedimento che il Ministro in maniera unilaterale, senza un confronto con le Istituzioni rappresentative della Sardegna, ha posto in essere per sopprimere gli istituti penitenziari di Iglesias e Macomer". Cocco chiede a Pigliaru di vigilare "affinché nel processo di riordino giudiziario non ci si limiti ad effettuare tagli lineari che non sempre sono garanzia di risparmio e di efficienza, ma che si tenga conto della specificità degli istituti penitenziari e più complessivamente, si valutino le ricadute nel tessuto sociale interessato". Stamani i consiglieri dell’Udc Giorgio Oppi e Gigi Rubiu hanno rivoltolo stesso appello al presidente Pigliaru. Socialismo Diritti Riforme: Iglesias e Macomer utili per recupero detenuti "Le strutture penitenziarie di Iglesias e Macomer sono strumenti utili al recupero dei detenuti. In particolare "Sa Stoia" risponde all’esigenza riabilitativa dei sex offender. La loro chiusura rappresenta un passo indietro nel sistema penitenziario e non garantisce alcun risparmio effettivo". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al provvedimento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha sancito la definitiva chiusura delle due strutture detentive suscitando la reazione di amministratori locali, sindacati degli Agenti di Polizia Penitenziaria e di consiglieri regionali del territorio. "Il Ministero - sottolinea Caligaris - sbaglia quando ritiene che la concentrazione dei detenuti in Villaggi Penitenziari, come Massama, Bancali e Uta, ubicati in località distanti dai centri urbani e difficilmente raggiungibili, possa migliorare il sistema e razionalizzare le spese. In realtà in questo modo si rischia solo di aumentare l’afflittività della pena per il recluso estendendola anche ai familiari. Una concezione che sembra dimenticare l’altro aspetto della sanzione penale quello del recupero sociale. Le megastrutture di recente apertura stanno evidenziando numerosi limiti e non sono garantiscono alcuna economicità, anzi. Le Case Circondariali di Sa Stoia e Bonu Trau proprio per le dimensioni, si prestano maggiormente a ospitare persone private della libertà da sottoporre a trattamenti specifici e favoriscono il lavoro degli Agenti di Polizia Penitenziaria e degli altri operatori socio-sanitari. Rispondono meglio a quel tratto umano che deve caratterizzare il periodo di separazione nell’ottica di un ritorno in società". "Le strutture a dimensione umana inoltre creano un rapporto positivo con la comunità e con le istituzioni locali maggiormente attente a promuovere iniziative per rafforzare la funzione rieducativa della pena. L’auspicio è che prevalga il buon senso e si inizi a considerare la sicurezza sociale quella derivante dall’abbattimento della recidiva. La razionalizzazione dei costi - conclude la presidente di Sdr - non può trasformarsi in un’occasione mancata". Calabria: Stasi (Regione); no soppressione Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Asca, 19 luglio 2014 La presidente f.f. della Regione Calabria, Antonella Stasi interviene in merito alla soppressione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e si dice "fermamente contraria al provvedimento per come previsto dallo schema di decreto del presidente del Consiglio dei ministri sulla riorganizzazione del Ministero della giustizia". "Il provvedimento in questione - ribadisce Stasi - sopprimerebbe il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Calabria con sede a Catanzaro e lo accorperebbe, insieme alla Basilicata, al Provveditorato della Puglia, con sede a Bari. Si tratterebbe di una decisione davvero grave e fortemente penalizzante per la nostra terra. Comprendo le esigenze di spending review a tutti i livelli, ma ribadisco che non si può pensare di risparmiare sui presidi di legalità e di sicurezza calabresi. Questa regione, dove purtroppo è fortemente presente e opera la ‘ndrangheta, che notoriamente è la più pericolosa organizzazione criminale, ha bisogno di sentire lo Stato al proprio fianco e chi opera in un mondo così delicato qual è quello del sistema penitenziario deve essere supportato. Risulta davvero difficile - afferma ancora la Stasi, ipotizzare che un macro-provveditorato per Puglia, Calabria e Basilicata sia in grado di gestire un comparto che deve già affrontare enormi difficoltà, a partire dalla carenza di organico che, secondo questo schema, verrebbe ulteriormente tagliato, e di mezzi. Non si può sacrificare sull’altare della spending review il diritto dei cittadini calabresi alla loro sicurezza. Chiederò anche al Presidente della Basilicata di attivarsi per scongiurare tale ipotesi insieme ai parlamentari della sua Regione e mi rivolgo alla deputazione calabrese affinché approfondisca la questione ed il testo venga revisionato nelle sedi competenti. La Regione - assicura infine la presidente Stasi - farà la propria parte per scongiurare questa scelta che, indubbiamente, darebbe alla Calabria e ai calabresi un segnale di scarsa attenzione da parte dello Stato rispetto a temi così delicati quali sono quelli legati alla necessità di rafforzare la legalità". Sardegna: le detenute insieme ai loro figli, a Senorbì apre il primo Istituto modello di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 19 luglio 2014 È la terza struttura carceraria di questo genere realizzata in Italia, un fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria nazionale e, in particolare, di quella sarda. Ieri mattina è stato inaugurato a Senorbì, 40 chilometri da Cagliari, l’Icam, acronimo di Istituto a custodia attenuata per detenute madri, sezione staccata della casa circondariale di Cagliari. Un istituto di pena a dimensioni umane, dove le mamme recluse e i loro bambini si sentiranno un po’ come a casa o, ad andar peggio, in collegio. Una conquista di grande civiltà, espressione di una legge nazionale del 2011 ancora del tutto inapplicata nel panorama penitenziario italiano - escluse Lombardia, Veneto e adesso Sardegna, che mette al centro la tutela del rapporto tra madre e figli nel periodo detentivo. Interni ricchi di vivaci colori che ispirano allegria, arredi a misura di bambino, l’istituto è dotato di quattro camere, due doppie e altrettante singole, per complessivi 6 posti letto, tutte con bagno e vasca-doccia, televisore led. Ci sono poi una ludoteca, la cucina con annessa mensa provvista di tutti i piccoli e grandi elettrodomestici dove le mamme potranno cucinare, la sala colloqui e un ampio giardino con i giochi. A vederla, se non fosse per le sbarre che separano l’ingresso e la sala colloqui dal resto della casa ("ma quel cancello rimarrà sempre aperto", riferisce un’ispettrice), non si potrebbe mai dire che è un carcere. Alla cerimonia, con taglio del nastro da parte del vice capo del Dap, Luigi Pagano, hanno preso parte il provveditore regionale Gianfranco De Gesu, il direttore della casa di reclusione di Cagliari, Gianfranco Pala, il sindaco di Senorbì Adalberto Sanna, comandanti provinciali delle forze dell’ordine. L’Icam sarà operativo solo a fine settembre o al massimo i primi di ottobre prossimi, quando tutti i detenuti di Buoncammino a Cagliari saranno trasferiti nel nuovo istituto di Uta. "Oggi come oggi non avrebbe nessuna ospite con figli - hanno precisato De Gesu e Pala -: a Buoncammino sono attualmente recluse 19 donne e nessuna madre con figli in tenera età. Fermo restando che questo istituto è a carattere regionale e all’occorrenza potrà ospitare detenute provenienti da altre case circondariali". "Siamo orgogliosi di questa nuova struttura - ha detto Luigi Pagano -, è un vanto per tutti noi. Significa portare fuori da luoghi di sofferenza come San Vittore e Rebibbia bambini che non hanno responsabilità degli errori commessi dalle loro madri. Non possono e non devono vedere e toccare con mano drammi quotidiani negli istituti tradizionali". A Senorbì le mamme detenute potranno tenere con sé i propri figli fino al compimento del decimo anno. I bambini andranno regolarmente all’asilo e a scuola e saranno inseriti nelle attività sociali del paese, come oratorio e associazioni sportive. Pavia: suicida in carcere il 26enne sinto che uccise un marocchino a Gambolò www.informatore.it, 19 luglio 2014 Johnny Bianchi, 26 anni, aveva sparato con un fucile colpendo Driss Sabiri, 30 anni, marocchino, morto qualche ora dopo l’episodio. Era stato arrestato alla fine di aprile insieme al fratello con l’accusa di omicidio volontario. Questa mattina il corpo senza vita di Johnny Bianchi, 26 anni, il nomade residente a Gambolò che lo scorso 16 aprile aveva sparato a Driss Sabiri, 30 anni, marocchino, uccidendolo, è stato trovato morto nella sua cella del carcere di Pavia. Il giovane si è impiccato. Due fratelli sinti erano stati arrestati qualche ora dopo il fatto dai carabinieri del capitano Papaleo. Avevano raccontato che quello con Sabiri avrebbe dovuto essere solo un chiarimento per una questione di infedeltà. Ma nella concitazione di quei minuti Johnny Bianchi aveva imbracciato un fucile da caccia calibro 10 e aveva fatto fuoco perché aveva sostenuto, il rivale era armato. Ma di quella presunta arma non era stata trovata traccia. Il giovane si era subito auto-accusato dell’omicidio, scagionando in fratello Mike, 30 anni la cui fidanzata avrebbe dovuto contrarre un matrimonio fasullo con la vittima per fargli ottenere la cittadinanza italiana. Tra i due però le cose si sarebbero spinte oltre e sarebbe nata una relazione. Proprio quella su cui Mike e Johnny Bianchi avevano preteso chiarezza convocando il marocchino per un chiarimento. Messina: un’interrogazione parlamentare del M5S sull’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2014 Interrogazione a risposta scritta presentata dai deputati Villarosa, Bonafede, Colletti, Agostinelli, Ferraresi, Turco e D’Uva. Al Ministro della giustizia. Per sapere - premesso che: l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto è una struttura che occupa complessivamente 58.000 mq. Sono presenti 8 padiglioni (ciascuno dei quali composto da due piani), cucine, lavanderie, palazzina direzione, magazzini, caserma, palazzina alloggi, capannone lavorazioni e orto; tale struttura, secondo quanto disposto dalla legge di conversione n. 81 del 2014, dovrebbe non "esistere" più dopo la data 31 marzo 2015 ed il relativo definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari; attualmente la struttura detentiva-contenitiva ospita circa 150 soggetti, ma in passato ha ospitato senza grossi problemi anche più di 400 persone grazie anche alle caratteristiche ed alle dimensioni della struttura stessa; in data 5 luglio 2014 il sindacato di polizia penitenziaria (Si.P.Pe.) ha organizzato un incontro, a Barcellona Pozzo di Gotto, avente come oggetto la possibile conversione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto in casa di reclusione, che ha visto la partecipazione, oltre che del sottoscritto, anche dell’ex Ministro, Gianpiero D’Alia, del direttore dell’Ospedale psichiatrico giudiziario Nunziante Rosania oltre che, naturalmente, del sindaco della città ospitante, Maria Teresa Collica; la commissione senatoriale per l’efficienza e l’efficacia del servizio sanitario nazionale già ne auspicava la trasformazione in istituto penitenziario ordinario dopo l’effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari ed anche il Dap, con una nota del 18 aprile 2013, ha manifestato chiaramente l’intenzione di procedere "alla trasformazione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto in casa di reclusione, con eventuale sezione di Circondariale, e che, a tale scopo, sono già stati predisposti alcuni progetti di ristrutturazione e manutenzione della struttura"; il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia e i direttori generali del Dap (detenuti e trattamento, beni e servizi) hanno svolto un’accurata ricognizione sulla situazione strutturale dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto traducendola in un progetto per una casa di reclusione per soggetti a medio-bassa pericolosità con annessa anche sezione femminile, sezione per minorati psichici, sezione per soggetti detenuti articolo 148 del codice penale e sezione osservandi; anche le segreterie generali di tutte le organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria e del comparto ministeriale si sono espresse, a più riprese, a favore della conversione in casa di reclusione e, in un recente passato, anche il consiglio comunale di Barcellona, a seguito di una riunione con i cittadini tenutasi nell’aula consiliare, si espresse chiedendo con forza la trasformazione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario in istituto penale ordinario; la situazione degli istituti carcerari Italiani presenta gravissime criticità e la Sicilia da questo punto di vista eccelle nell’inefficienza delle strutture detentive, presentando problemi sia di sovraffollamento che di strutture non adatte al rispetto della persona detenuta che, ricordiamolo, resta sempre una persona titolare di diritti. Anche in conseguenza dei problemi di sovraffollamento nel 2013 nella sola regione Sicilia abbiamo avuto 4 suicidi riusciti, 99 suicidi tentati e 473 episodi di autolesionismo verbalizzati; la struttura già esistente di Barcellona Pozzo di Gotto, una volta convertita in casa di reclusione con un investimento di denaro relativamente irrisorio, garantirebbe un numero complessivo di 486 posti che renderebbero tale istituto una struttura di assoluta avanguardia trattamentale oltre che contribuire in maniera significativa al decongestionamento degli istituti penitenziari siciliani ed al consequenziale miglioramento delle condizioni di vita degli stessi detenuti: se sia a conoscenza del progetto di conversione del provveditore penitenziario per la Sicilia e i direttori generali del Dap esposto nella premessa di questo atto di sindacato ispettivo; se intenda prendere immediati provvedimenti per predisporre un piano di conversione, da Ospedale psichiatrico giudiziario a casa di reclusione, della struttura barcellonese che ben si adatta a tale destinazione finale e che richiederebbe un investimento economico di gran lunga giustificato considerati i benefici per la collettività che ne deriverebbero. Trapani: guardie trattate peggio dei detenuti, denuncia del M5S su carcere di Favignana Adnkronos, 19 luglio 2014 "Poliziotti trattati peggio dei detenuti e con l’organico in procinto di essere decimato". Ad accendere i riflettori sul carcere di Favignana (Trapani), "tecnologicamente avanzato e con numerosissime attività da far invidia alle più avanzate strutture carcerarie" sono i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, secondo i quali nella casa circondariale a star male più che i detenuti, sono le guardie carcerarie, costrette a vivere in "spazi angusti e tenuti malissimo, e il cui organico potrebbe ridursi notevolmente da un momento all’altro". La situazione della struttura è stata "fotografata" da due interrogazioni targate Movimento 5 Stelle, presentate alla Camera ed indirizzate al ministero della Giustizia, per indagare a fondo sulla vicenda e per capire se è in dirittura d’arrivo qualche soluzione. "Il problema - afferma la deputata palermitana Giulia Di Vita - è che nel nuovo carcere non è stata prevista la caserma per il personale di sorveglianza, che è stato costretto ad una sistemazione di fortuna nel vecchio carcere, il castello San Giacomo, in spazi veramente angusti e senza il minimo comfort". Gli addetti alla sorveglianza, infatti, sono costretti a dividere stanze di pochi metri quadrati, senza tv e aria condizionata, con acqua calda a singhiozzo e con letti che, alcune volte, (quando il maltempo costringe il personale smontante a rimanere sull’isola) non sono nemmeno sufficienti. "La manutenzione del castello è praticamente inesistente, affidata alla buona volontà del personale, che riesce a sistemare quel che può nella speranza di un intervento dall’alto" spiegano i pentastellati. Dai palazzi romani sarebbe arrivata al sindaco di Favignana solo una proposta: al Comune sarebbe stato delegato il compito di reperire gli alloggi per il personale in cambio della cessione del castello (da utilizzare a fini turistici). "Entrando in possesso del castello - dice Giulia di Vita - il Comune dovrà farsi carico dell’abbattimento delle mura di cinta e della sua ristrutturazione, per renderlo fruibile ai turisti. Come può il ministero - commenta la deputata - fare scaricabarile con un problema di sua competenza?". Gli alloggi per i secondini, per la verità, sarebbero stati previsti nel progetto del nuovo carcere, ma sarebbero spariti in fase di realizzazione. "Per capire perché - dice ancora - io e il deputato all’Ars Giorgio Ciaccio abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti, ma finora senza alcun successo". Ma i problemi per le guardie carcerarie non si limitano agli alloggi. Sull’organico pende, infatti, la spada di Damocle di ben 24 trasferimenti: un recente provvedimento emesso dal Dap dispone il rientro nelle sedi di assegnazione di 24 poliziotti distaccati dal 2011 nell’isola. L’eventuale partenza di questi agenti rischierebbe di mettere in ginocchio il carcere, che si ritroverebbe a contare solo su 71 agenti, visto che 18 di quelli in organico fanno parte della base navale e, pertanto, non possono essere utilizzati per attività all’interno del carcere. Per cercare di fermare il provvedimento si sono mobilitati i sindacati degli agenti e il sindaco di Favignana, che ha prospettato gravi ripercussioni del provvedimento anche sull’economia dell’isola che, soprattutto d’ inverno, ruota attorno al carcere. Torino: sei detenuti si laureano studiando in carcere, tra loro due ergastolani Ansa, 19 luglio 2014 Ci sono anche due ergastolani tra i detenuti-studenti che si sono laureati nel carcere torinese delle Vallette. Per loro il "fine pena mai" si è trasformato in una opportunità grazie al progetto dell’amministrazione penitenziaria e dell’Università di Torino, con il finanziamento dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, che oggi ha portato sei detenuti a discutere con successo la tesi. La loro è una storia di riabilitazione, come quella di Josè e di Franco, 39 e 49 anni. In carcere per traffico internazionale di droga e per una serie di furti, il primo si è laureato in Scienze politiche con una tesi sulla costituzione della Colombia, suo Paese di origine; il secondo in Giurisprudenza con una tesi sull’eutanasia. "Ero stato arrestato a Napoli dopo essere finito nel giro della droga perché non trovavo lavoro - racconta José - e poi, dopo la sentenza, ero finito in carcere a Palermo. Quando ho saputo di questa opportunità, ho pensato che potevo fare qualcosa soprattutto per i due figli che ho in Colombia. Mi piacerebbe, una volta uscito di qui, insegnare loro qualcosa". Simile la storia di Franco: "Ho voluto cambiare la mia vita. Così, ho chiesto di essere trasferito dal carcere di Ancona, dove ero stato arrestato, e mi sono messo a studiare. Ora conosco le leggi, probabilmente se mi fossi messo a studiare i codici prima non sarei in questa situazione. Ora spero che anche i miei tre figli siano orgogliosi di me". A Torino i detenuti-studenti sono 27. Venti di questi si trovano nel reparto Arcobaleno, dove il regime restrittivo è attenuato, mentre sette studiano in regime di semilibertà. "Siamo l’unico polo in Italia - spiega Franco Prina, delegato del rettore dell’Università del capoluogo piemontese - che ha un’offerta formativa in Giurisprudenza e Scienze Politiche. Ogni anno inviamo un avviso in tutte le carceri italiani e accogliamo i detenuti che accedono al bando e decidono di intraprendere il percorso formativo. Naturalmente, è necessario che abbiano pene medio-lunghe, in modo da poter completare gli studi, e non ci siano condizioni ostative al regime di detenzione attenuata". I detenuti diventano spesso studenti modello. "Escono con risultati più alti degli studenti normali", osserva Prina. Tra i sostenitori dell’iniziativa anche il direttore del carcere torinese, Domenico Minervini: "Ho iniziato questo progetto nel 1998, quando ero vicedirettore. Ora sono tornato da poco come direttore e vedere che sta andando così bene è una grande soddisfazione: è bello che le idee crescono". Aversa: (Ce): gli internati dell’Opg al lavoro per sistemare la sede della Protezione Civile www.casertafocus.net, 19 luglio 2014 Stamani si è concluso, con grande successo l’iniziativa, che ha visto l’impiego di alcuni internati dell’Opg di Aversa, nel ripristino dell’edificio ex sede della protezione civile, all’interno della casa della cultura "Caianiello". Questa iniziativa nata dal protocollo d’intesa sottoscritto tra l’amministrazione comunale e la dirigenza dell’Istituto penitenziario normanno, diretto con umanità e competenza dalla dr.ssa Elisabetta Palmieri, sotto il vigile controllo del Comandante Luigi Mosca, in attuazione del progetto socio -pedagogico del dr. Angelo Russo. Gli internati hanno lavorato per due settimane accompagnati da personale della Polizia Penitenziaria in lavori di pubblica utilità, in questo caso hanno messo a nuovo la struttura sita all’interno del Caianiello. Una grande opportunità, una speranza che torna a riaccendersi per alcune di questi ospiti della struttura, che pur avendo commesso degli errori in passato, oggi hanno diritto di reinserirsi nella società e questa lodevole iniziativa, che è il primo passo, di una lunga serie di iniziative, mette in condizione gli internati di rientrare in contatto con la società civile e di riscattarsi agli occhi dei cittadini, e dall’altro dimostra come rendersi utile, fare il proprio dovere, servire la collettività sia gratificante. Una società civile sostiene il vice sindaco, nonché assessore alla cultura Nicla Virgilio, presente oggi per congratularsi di persona "per l’eccellente lavoro svolto dagli internati e per fare un plauso alla dirigenza dell’Opg normanno, che pone in essere da tempo iniziative importanti, sociali, ricreative e di avvicinamento tra una realtà carceraria e la cittadinanza che ora non guarda più con diffidenza e paura tale realtà ,ma vi è un modo nuovo e umano di intendere l’Opg e i suoi "ospiti". La Virgilio da tempo segue con "ammirazione quanto è stato fatto dalla dirigenza della struttura penitenziaria e i tanti progressi che tali iniziative hanno comportato". "Essere internati non significa che si perda lo status di essere umano, con i propri progetti, le proprie ambizioni e soprattutto con i propri sentimenti, la società se civile deve riaccogliere il proprio figliol prodigo che ha sbagliato, ma che ha pagato per gli errori commessi e si è ravveduto, questo spirito muove i dirigenti e l’amministrazione che in maniera lungimirante e attenta pone in essere tutto quanto è possibile affinché sempre più barriere e ostacoli vengano abbattuti, divenendo Aversa una cittadini modello, soprattutto sul piano sociale e culturale". Firenze: le mamme detenute avranno una casa dove vivere coi figli, ora via ai lavori Corriere Fiorentino, 19 luglio 2014 Adesso i lavori per l’Icam potranno partire. L’iter per dare a Firenze un istituto a custodia attenuata per le madri detenute dovrebbe essere arrivato in fondo. Ieri Palazzo Vecchio ha approvato una delibera che stabilisce l’interesse pubblico della struttura. In questo modo vengono esonerati i costruttori dagli oneri di urbanizzazione e concede una deroga al piano regolatore per eventuali modifiche della struttura. In questo modo, spiegano dal Comune, i lavori potrebbero partire anche oggi. Il cantiere per la ristrutturazione dell’immobile, ceduto dalla Madonnina del Grappa, dovrebbe durare almeno sei mesi, si spera quindi che entro la fine dell’anno, al massimo entro i primi mesi del 2015, anche Firenze possa avere la struttura che attende da più di quattro anni. La struttura sarà una piccola comunità con una decina di posti letto per le detenute madri - che non abbiano reati ostativi, quelli cioè particolarmente gravi - con i figli. L’Icam sarà un carcere a tutti gli effetti, dotato di sistemi di sicurezza come quelli degli altri istituti che non saranno però riconoscibili dai bambini. Il primo protocollo d’intesa sulla creazione dell’Icam porta la data del 21 gennaio 2010. Nel corso degli anni ci sono state altre firme, altre delibere e altri protocolli d’intesa tra Comune, Regione, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ministero di Giustizia. La Regione ha finanziato la struttura con stanziamenti, il primo di 420 mila euro, il secondo, lo scorso ottobre, di 221 mila euro. "I bambini non hanno nessuna colpa e non devono crescere in carcere", ha detto il presidente della Regione Enrico Rossi pochi giorni fa. Firenze sarà la terza città italiana ad ospitare un Icam. Le prime due sono state Milano e Venezia, poi toccherà a Torino. È stata una legge del 2011 a dare il via agli istituti per le madri detenute. L’obiettivo è quello di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età. La legge stabilisce che le donne condannate a pene detentive con figli minori non devono stare in carcere fino a quando il bambino non avrà compiuto il sesto anno di età, contro i tre della vecchia legge, se non in casi eccezionali. Sassari: liti e botte in cella, tre detenuti a processo assolti dall’accusa di lesioni La Nuova Sardegna, 19 luglio 2014 Tre detenuti assolti in due distinti processi per altrettante aggressioni avvenute dietro le sbarre. Il giudice Marina Capitta, accogliendo le richieste degli avvocati difensori Patrizia Marcori e Marco Palmieri, ha scagionato dall’accusa di lesioni personali Pietro Pistidda, 41 anni; e Giuseppe Usai, di 49 anni. I due erano imputati di avere bastonato un compagno di detenzione il 16 ottobre del 2006 a San Sebastiano. L’uomo, soccorso dagli agenti, aveva genericamente indicato come autori del pestaggi "gli occupanti della cella 14". Assolto, perché il fatto non sussiste, anche Sandrino Delrio (difeso da Patrizia Marcori) dall’accusa di avere picchiato un agente intervenuto per sedare una rissa. Nel dibattimento è emerso che il poliziotto penitenziario non vide chi gli sferrò un pugno, mentre l’accusa di rissa è caduta perché in realtà si trattò di una lite tra due compagni di cella. Latina: busta "sospetta" recapitata in carcere, attivata la procedura di emergenza Il Messaggero, 19 luglio 2014 Alla Casa circondariale arrivato un plico contenente un telefono cellulare, scattati i controlli dei carabinieri. In via Aspromonte anche Vigili del fuoco e Ares 118. Una busta contenente un telefono cellulare, recapitata al carcere del capoluogo. Un pacco sospetto, per il quale sono state attivate le procedure di emergenza. Il timore, in casi del genere, è che il telefonino possa far attivare a distanza degli ordigni o contenere comunque dell’esplosivo. Per questo i carabinieri stanno svolgendo gli accertamenti del caso, mentre sono arrivati in via Aspromonte anche i mezzi dei vigili del fuoco e dell’Ares 118. Nella casa circondariale di Latina oltre ai detenuti comuni c’è una sezione dedicata a terroriste "irriducibili" oltre che a donne esponenti di clan della malavita organizzata. Asti: Osapp protesta; da nuovi fornelletti detenuti possono ricavare una lama in acciaio Ansa, 19 luglio 2014 Il nuovo fornelletto in dotazione ai detenuti nel carcere di Asti potrebbe contenere tutto il necessario per fabbricare una lama in acciaio. A sollevare il caso è l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che ha scritto al ministro della giustizia Andrea Orlando. "Pur ritenendo - scrive Leo Beneduci, segretario generale - che la stragrande maggioranza dei detenuti non abbia alcuna intenzione di utilizzare le bombolette di gas come arma incendiaria o da taglio, esiste un rischio reale e grave". Potenza: squadra cinofila all’opera in carcere, scoprono hashish per i detenuti www.ilquotidianoweb.it, 19 luglio 2014 Stavano andando a trovare un proprio congiunto detenuto nel carcere di Betlemme. Solo che, invece di portare le classiche "arance e sigarette", hanno provato a far entrare nelle mura del penitenziario hashish in grosse quantità. Ma il tentativo non è andato bene. La Polizia Penitenziaria di Potenza , con l’ausilio delle unità cinofile del distaccamento di Trani , hanno rinvenuto e sequestrato la droga che era destinata ai detenuti. A darne notizia, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei "baschi azzurri". E il segretario regionale della Basilicata, Saverio Brienza, ha espresso vivo apprezzamento sia agli operatori di Polizia Penitenziaria di Potenza che a quelli di Trani e soprattutto grande apprezzamento nei confronti dei cani antidroga che, con il loro "fiuto", sono riusciti ancora una volta ad evitare l’introduzione di sostanze stupefacenti nel carcere lucano. Permettendo così alla Polizia Penitenziaria di interrompere il traffico illegale e procedere al sequestro della quantità rinvenuta e deferire i responsabili all’Autorità Giudiziaria. Il distaccamento delle unità cinofile della Polizia Penitenziaria di Trani non solo hanno sempre raggiunto ottimi risultati durante le numerose operazioni svolte nel tempo negli istituti penitenziari sia della Puglia che della Basilicata - fa sapere il sindacato - ma anche in occasione di impiego durante pubbliche manifestazioni ed ancora presso luoghi maggiormente a rischio come le stazioni ferroviarie oppure altri luoghi "sensibili", da sempre utilizzate dalla criminalità organizzata per lo spaccio della droga. Il Sappe ha invitato l’amministrazione penitenziaria ad assumere un ruolo di grande responsabilità e potenziare le unità cinofile della Polizia Penitenziaria in tutto il territorio nazionale in quanto i dati statistici fanno ben comprendere che il fenomeno dell’introduzione di sostanze stupefacenti all’interno degli Istituti Penitenziari è sempre molto elevato e sembrerebbe addirittura in crescita. Ascoli: "Io e Caino" compie tre anni e vola sul web con la nuova pagina Facebook www.vivereascoli.it, 19 luglio 2014 Io e Caino, il periodico d’informazione del supercarcere di Ascoli Piceno realizzato dai detenuti della Casa Circondariale, compie tre anni e per festeggiare l’evento e condividere i propri contenuti con un pubblico di lettori sempre più vasto apre la sua pagina Facebook: www.facebook.com/ioecaino. La pagina, che nel primo giorno di attività ha registrato i primi cento contatti, non ha restrizioni, è aperta ai commenti di tutti i visitatori e si propone come ulteriore canale di comunicazione tra l’istituto di pena di Marino del Tronto e l’esterno. "Oltre a pubblicare in tempo reale le prossime uscite del nostro giornale e degli altri periodici prodotti nelle carceri italiane, ospiteremo i commenti dei visitatori che vorranno interagire con l’ambiente intramurario - spiega il direttore di "Io e Caino", Teresa Valiani. La pagina mette a disposizione dei lettori l’archivio storico del nostro giornale con i fluidbook dei numeri precedenti ed è costantemente aggiornata attraverso i link alle notizie della rassegna stampa dalla Federazione nazionale giornali dal carcere curata dalla redazione di "Ristretti Orizzonti", la testata del carcere di Padova. Oltre all’informazione, gli obiettivi che ci proponiamo con il nuovo canale web sono saldare ulteriormente i rapporti con l’esterno per sensibilizzare sui temi della detenzione e contribuire a creare quella rete di collaborazioni indispensabile per facilitare il reinserimento dei ragazzi vicini al fine pena". In evidenza nella pagina anche le immagini realizzate all’interno del carcere e all’esterno, durante le tante iniziative promosse dalla direttrice dell’istituto, Lucia Di Feliciantonio e le iniziative avviate nelle altre carceri marchigiane. Napoli: a Scampia partita Nazionale Detenuti e Polizia contro le vecchie glorie del calcio www.caserta24ore, 19 luglio 2014 A Scampia giocano la Nazionale Detenuti e Polizia Penitenziaria Vs Vecchie Glorie del Calcio Sabato 20 luglio, ore 18.00 - Villa Nestore (via L. Compagnone, angolo via E. Scaglione) Sport e legalità in un connubio indissolubile nel nome del contrasto alle mafie. I valori ed i principi dell’attività sportiva, della sana competizione scandita dal rispetto delle regole ed intrisa di dedizione, di sacrificio e di abnegazione vengono declinati in chiave di lotta alla criminalità, alla sopraffazione, alle angherie ed ai soprusi volti al riscatto generazionale e territoriale. È questo il senso ed il significato della manifestazione "Lo Sport contro il sistema delle mafie", manifestazione ideata, promossa e curata dal Centro Nazionale Sportivo Fiamma. Una sette giorni di agonismo di preminente valenza sociale che avrà inizio il 20 luglio 2014 con il match clou tra la Nazionale Italiana Detenuti e Polizia Penitenziaria contro Vecchie Glorie del Calcio. Fischio d’inizio alle ore 18:00 a Scampia, presso Villa Nestore, in via L. Compagnone n. 27 (angolo via E. Scaglione). La cornice strutturale dell’evento è essa stessa espressione della essenza della rassegna: un centro sportivo sottratto alla criminalità organizzata e riconsegnato alla collettività grazie all’energia dei volontari del Cnsfiamma in cui il "luogo fisico" diviene forma e sostanza del messaggio di socialità, di cambiamento, di rinnovamento. Uomini che la vita ha contrapposto si ritroveranno con la stessa casacca, nella stessa parte del campo, a fare squadra, uniti dalla stessa bandiera con i colori della legalità. Il gol più bello sarà proprio quello dell’immagine di superamento degli steccati, sul rettangolo di gioco come sugli spalti, in una sintonia di idee e di valori, di umanità e di senso di appartenenza dove il grido di dolore delle ferite del passato lasci il posto all’esultanza per la condivisione della stessa terra, nella stessa terra. La manifestazione terminerà dopo una serie di eventi in giro per la Campania con una 3 giorni a Giugliano. A corredo di questo evento, è stato prodotto un video ed un progetto di crowd-funding per cercare di raccogliere i fondi per completare la riqualificazione alla struttura di Scampia. Teatro: "Viaggio all’isola di Sakhalin", messa in scena con i detenuti di Rebibbia 9Colonne, 19 luglio 2014 La nuova stagione del Teatro Argentina di Roma propone, il 19 e 20 settembre, "Viaggio all’isola di Sakhalin", lo spettacolo, ideato Laura Andreini Salerno, per la regia Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito. Sul palco i detenuti-attori della Compagnia del carcere romano di Rebibbia che per due giorni lasciano il teatro del penitenziario per debuttare sul palcoscenico dell’Argentina con lo spettacolo liberamente ispirato all’esperienza che Anton Cechov - nell’esercizio della sua seconda professione, quella di medico - fece alla fine dell’800 visitando la colonia penale posta all’estremo oriente della nazione russa. Allo sconvolgente reportage cecoviano sulle condizioni di detenzione degli ergastolani relegati nell’isola di ghiaccio, si intreccia il racconto di una delle più sorprendenti esperienze dello scienziato cognitivo Oliver Sacks. Ed infatti, sarà nell’ "isola dei senza colore" che Sacks incontrerà uomini e donne che l’isolamento ha reso ciechi ai colori - "acromatopsia" è il nome scientifico della malattia diffusa da un gene misterioso trasmesso di padre in figlio. Lo spettacolo intreccia dramma e commedia, seguendo la traccia del medico che prova a sconfiggere, con la passione dello scienziato-missionario, quel male terribile che è la "cecità degli affetti" : il male che colpisce in ogni tempo, luogo e condizione, coloro che vivono reclusi e privati delle fondamentali relazioni umane e affettive. I detenuti-attori di Rebibbia varcano le soglie del Carcere per ritornare sul palcoscenico del Teatro Argentina e rivivere un’esperienza di straordinaria rilevanza etica, culturale, sociale, che si rinnova dopo la messinscena dell’anno precedente dello spettacolo La Festa di Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito, con giovani attori e detenuti attori riuniti in un’unica grande Compagnia di oltre 40 elementi. Libri: "Dalla parte sbagliata", di Rosalba Di Gregorio recensione di Nicola Imberti Il Tempo, 19 luglio 2014 Rosalba Di Gregorio è un avvocato "non perbene". O se preferite "un mostro". Così la descrive la società. O almeno la parte che ha deciso di giudicarla come colei che ha scelto di stare dalla "parte sbagliata". Che tradotto vuol dire dalla parte dei mafiosi che negli anni 90 ingaggiarono la loro guerra contro lo Stato. I loro nomi hanno riempito e continuano a riempire le pagine dei quotidiani (Bernardo Provenzano su tutti). Lei li ha difesi e oggi ha deciso di raccontare la sua storia in un libro scritto a quattro mani con la giornalista Dina Lauricella. Titolo quasi obbligato: "Dalla parte sbagliata". La storia inizia 22 anni fa esatti, il "caldo" 19 luglio del 1992 quando a Palermo vengono uccisi Paolo Borsellino e la sua scorta. Perché proprio quel giorno? Lo scrive Di Gregorio: "Il 19 luglio 1992, in via D’Amelio hanno ucciso Borsellino e i suoi Angeli custodi, ma penso proprio che si sia uccisa e seppellita accanto a loro un pezzo di Giustizia". Parole dure che trovano il loro senso nel racconto che si sviluppa nelle 190 pagine del libro. Un racconto che ruota attorno alla figura di Vincenzo Scarantino (testimone chiave, poi smentito, del processo cosiddetto Borsellino bis). Ma che si allarga anche ad una pagina buia di quegli anni. Di Gregorio lo definisce il "41 bis effettivo". Un buco nero che dopo via D’Amelio ha inghiottito tutto. A cominciare dalle più elementari regole del diritto. Non c’è presunzione d’innocenza per i mafiosi, veri o falsi che siano. "In tempo di guerra - scrive Di Gregorio - le garanzie costituzionali vengono sospese". Ed è quello che accade nel carcere di Pianosa dove Scarantino trascorre un anno, dal settembre 1993 al 1994. "Quando sono arrivato là, mi hanno portato nella barberia e subito mi hanno alzato le mani - racconta intervistato da Lauricella per Servizio Pubblico. Era una cella piccola, uno spazio angusto dove le guardie mi hanno riempito di cazzotti e calci, mi hanno massacrato, volevano intimorirmi. Poi mi hanno portato in cella, chiuso oltre la porta blindata e sorvegliato a vista. Pesavo 108 kg quando sono entrato, un anno dopo, quando mi hanno trasferito a Termini Imerese ne pesavo 58. Sapevo che Pianosa era un carcere, ma non che era Guantánamo". E ancora: "La notte non mi facevano dormire, mi buttavano l’acqua addosso per farmi svegliare di soprassalto". Ma tutto cambia quando Scarantino accetta di collaborare: "Torino, Busto Arsizio, Jesolo, Imperia, Vercelli. All’improvviso ero diventato una star. Avevo una casa, vivevo con moglie e figli e percepivo due milioni di lire al mese. Me ne potevo stare bello tranquillo. È chiaro che ho ceduto, non ne vado fiero, anzi mi vergogno di quello che ho fatto, ma ero ridotto troppo male a Pianosa. Si è giocato sulla mia debolezza, sulla mia instabilità fisica e psicologica". La sete di Giustizia trasformata in palese ingiustizia. E Scarantino non è solo. Praticamente tutti i boss che transitano da Pianosa vengono trattati allo stesso modo. Di Gregorio riporta il racconto di Gaetano "Tanino" Murana, la cui principale colpa è quella di essere nato in un quartiere "ad alta densità mafiosa" come quello della Guadagna. "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla "discoteca" - dice. La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché lì si balla per le percosse e per la paura. Eppure so che dal 1992 al 1994, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, che all’inizio il trattamento era peggiore". E poi la storia di Giuseppe Marchese, che nei racconti viene trasportato con la testa spaccata all’ospedale di Pisa, ma che a domanda risponde: "Avevo l’influenza". In molti faranno le spese di questo "regime di terrore". Come le due guardie carcerarie processate a Livorno. Nella sentenza il denunciante racconta di "manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi". Violenza. Che diventa disprezzo per coloro che cercavano di arrivare alla verità. Ma anche forme di umiliazione nei confronti dei parenti che a Pianosa e negli altri carceri arrivavano per incontrare i loro cari. Di Gregorio le racconta senza paura di trovarsi dalla "parte sbagliata". Senza paura di quel sentimento che spingeva, e forse spinge ancora, una parte dello Stato a considerare i difensori dei mafiosi come "fiancheggiatori dell’Antistato". Mondo: Rapporto di "Nessuno tocchi Caino", crescono le esecuzioni capitali nel mondo di Cristiana Missori Ansa, 19 luglio 2014 Crescono le esecuzioni capitali nel mondo - almeno 4.106 nel 2013 - mentre sul "podio" dei "Paesi boia", salgono nuovamente Cina (3.000), Iran (687), Iraq (172), seguiti da Arabia Saudita (78). A compiere però un passo indietro sono anche i cosiddetti Paesi democratici, dove sono aumentate le esecuzioni - oltre a Usa (39)e Taiwan (6) si sono aggiunti nel 2013 anche Botswana (1), Giappone (8), India (1) e Indonesia (5) - e dove il sistema capitale si è rivelato essere per molti aspetti coperto da un velo di segretezza. Appare quindi anche quest’anno in chiaro scuro il Rapporto 2014 di Nessuno Tocchi Caino sulla pena di morte nel mondo, aggiornato rispetto al mese scorso, e presentato stamani a Roma alla presenza, fra gli altri, del sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova e del ministro degli Esteri del Benin Nassirou Bako Arifari. Malgrado il lieve aumento delle esecuzioni rispetto al 2012 (3.967), prosegue l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre 15 anni", ha spiegato Elisabetta Zamparutti, Tesoriera dell’Ong. "Sono in tutto 161 i Paesi che hanno deciso di abolire la pena capitale per legge o per pratica. Di questi, 7 sono abolizionisti per crimini ordinari, 6 in moratoria, 48 abolizionisti di fatto, 37 mantenitori: 3 in meno rispetto al 2012". Per due Paesi in cui non si sono registrate esecuzioni nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014 - Pakistan e Gambia - altri 8 hanno ripreso le esecuzioni: Indonesia (5), Kuwait (5), Malesia 3), Nigeria (4) Vietnam (almeno 8 nel 2013); Bielorussia (2) Emirati Arabi Uniti (1), Egitto (almeno 8 nel 2014). Un dato da non sottovalutare, ha ricordato dal canto suo Sergio D’Elia, segretario dell’Ong, "è l’aumento di esecuzioni nell’Iran del presidente Hassan Rohani, da molti osservatori visto con ottimismo". Il nuovo governo, punta il dito, "non ha cambiato il suo approccio, anzi, il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato in coincidenza con la sua elezione. Sono almeno 870 le persone giustiziate tra il 1 luglio 2013 e il 30 giugno 2014. Nel vicino Iraq le cose non vanno meglio. "Era dai tempi di Saddam - prosegue D’Elia - "che non si registrava un così alto numero di esecuzioni. Esecuzioni rese necessarie, sostengono le autorità irachene, per contrastare la violenza politica e il terrorismo". Eppure, nel nome della lotta al terrorismo, evidenzia il Rapporto, si nasconde spesso la volontà di eliminare oppositori politici e dissidenti. È il caso dell’Egitto dove nel 2014 sono stati condannati a morte centinaia di sostenitori del deposto presidente Morsi, per cui l’Ong esprime viva preoccupazione. Un capitolo a parte meritano Europa e Stati Uniti. Il Vecchio Continente sarebbe totalmente libero dalla pena di morte se non fosse per la Bielorussia del presidente Lukashenko, dove le esecuzioni sono riprese nel 2014 (2). Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nel maggio del 2013, il Maryland è diventato il sesto Stato ad abolire la pena di morte, ma crescono in vari Stati, "le leggi sul segreto di Stato che impediscono al pubblico o ai detenuti di conoscere la fonte dei farmaci di esecuzione", rimarca D’Elia. Il Premio "L’Abolizionista dell’Anno 2014" è stato conferito al presidente del Benin, Boni Yayi, per essere riuscito a portare il proprio Paese ad abolire la pena capitale e per la campagna che porta avanti per sensibilizzare altri Stati africani. Mondo: Rapporto 2014 di "Nessuno tocchi Caino" Il messaggio del presidente Napolitano Notizie Radicali, 19 luglio 2014 In un messaggio che il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica Donato Marra ha trasmesso a Marco Pannella, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto "un caloroso saluto agli organizzatori e ai partecipanti alla ormai tradizionale giornata di presentazione del Rapporto di Nessuno tocchi Caino sulla pena di morte nel mondo". "Nel solco di un’eredità storica e morale che risale al pensiero di Cesare Beccaria, l’Italia persegue con determinazione l’abolizione della pena capitale in tutto il mondo, nella certezza di condurre una battaglia di civiltà giuridica e di grande valore etico", è scritto nel messaggio. "La tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali costituisce uno dei cardini della politica estera italiana, che ha sempre trovato valido sostegno e costante stimolo anche nell’impegno della società civile e di associazioni quali Nessuno tocchi Caino". Il Presidente della Repubblica ha salutato con favore "la scelta di conferire il Premio l’Abolizionista dell’Anno al Presidente del Benin", quale "meritato riconoscimento del contributo dato da Thomas Boni Yayi alla causa dell’abolizione della pena di morte nel suo Paese e nel continente africano, un contributo che pone in evidenza i progressi compiuti in quest’ambito da numerosi Paesi dell’area". Mondo: abolire il segreto sulla pena di morte… di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 luglio 2014 Nessuno Tocchi Caino. Presentato il Rapporto 2014. Premio "Abolizionista" al Benin. Piccoli passi avanti nel mondo, ma nel 2013 ancora almeno 4.106 esecuzioni. Pressing sull’Onu per vietare agli Usa di occultare i farmaci usati nelle iniezioni letali. Il cadavere è quello di un uomo bianco durante l’autopsia, ma la pelle sembra carbonizzata e si stacca a pezzi, come fosse una scocca di plastica. È l’immagine scioccante scelta quest’anno dall’associazione Nessuno Tocchi Caino per illustrare il Rapporto sulla pena di morte nel mondo 2014 presentato ieri a Roma nella sede del Partito radicale transnazionale. Il corpo senza vita è di Angel Diaz, ucciso nel 2006 nel braccio della morte di un carcere della Florida da un’iniezione letale i cui componenti sono considerati, proprio nella patria del liberismo, segreto di Stato. E la foto, che è stata pubblicata per la prima volta un paio di mesi fa sul quotidiano The New Republic, ha riaperto negli Stati uniti il dibattito sulla pena capitale "top secret" e sui cocktail letali che almeno nel 7% dei casi infliggono sofferenze terrificanti al condannato, trasformando l’esecuzione in tortura, punizione (paradossalmente) incostituzionale negli Usa. A raccontarlo, ieri, nella sede di Via di Torre Argentina, c’era l’autore dello scoop, il giornalista Ben Crair, ospite, tra gli altri, insieme al sottosegretario agli Affari esteri Benedetto della Vedova, all’ex ministra Emma Bonino, e al ministro degli Esteri del Benin, Nassirou Bako Arifari, che ha ritirato il premio "Abolizionista dell’anno" per conto del Presidente del suo Paese, Boni Yayi. Messaggi di incoraggiamento e ringraziamento per il prezioso lavoro svolto dall’associazione radicale che negli anni ha saputo spingere l’Italia a creare un consenso diffuso nel mondo attorno alla moratoria della pena di morte ratificata nel 2007 dall’Assemblea generale dell’Onu, sono arrivati da tutte le alte cariche dello Stato: da Napolitano a Pietro Grasso e Laura Boldrini, fino alla ministra degli Esteri Federica Mogherini. Un passo verso la civiltà I dati snocciolati da Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, raccontano di un’"evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, e confermata nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014". "I Paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 161 - riferisce Zamparutti - di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 100; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 48". Gli Stati mantenitori della pena invece sono scesi a 37 dai 40 del 2012 e dai 54 del 2005. Sono comunque 22 le nazioni che l’hanno applicata nel 2013, esattamente come l’anno precedente. Una piccola guerra: almeno 4.106 morti di Stato, in lieve aumento rispetto alle 3.967 del 2012 (ma erano 5.735 nel 2008) a causa delle esecuzioni in Iran e in Iraq, Paesi che salgono sul triste podio dei boia insieme alla Cina. Secondo il Rapporto, nell’ultimo anno e mezzo non si registrano esecuzioni in due Paesi - Gambia e Pakistan - che le avevano effettuate nel 2012. E viceversa sono riprese, dopo un anno di moratoria, in otto Stati: Indonesia, Kuwait, Malesia, Nigeria e Vietnam nel 2013; Bielorussia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto nel 2014. È comunque l’Asia il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Mentre in Africa stanno la maggior parte dei 23 Stati che hanno compiuto ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione. Streghe, adultere, blasfemi Proprio ieri le agenzie hanno battuto la notizia di una donna accusata di adulterio lapidata nel nord della Siria da jihadisti dello "Stato islamico", secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, Ong con sede in Gran Bretagna legata agli attivisti delle opposizioni. Si tratta di una di quelle "esecuzioni extragiudiziarie" che secondo il Rapporto avvengono regolarmente anche in Somalia, Afghanistan, Pakistan e in Yemen. La Siria, invece, è annoverata tra i Paesi dove "non è possibile indicare il numero esatto delle esecuzioni a causa della guerra civile in corso e della mancanza di informazioni ufficiali fornite dalle autorità siriane". Comunque dei "47 Paesi e territori a maggioranza musulmana nel mondo, 25 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 22, dei quali 18 hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia". Impiccagione, fucilazione e decapitazione i metodi usati legalmente; mentre la lapidazione, che è adottata in 16 stati islamici, nell’ultimo anno e mezzo non è stata mai eseguita legalmente. L’Iran però l’ha reinserita nel codice penale per adulterio. L’apostasia e la blasfemia sono punite con la morte in 12 dei più integralisti Paesi musulmani. E nel periodo di riferimento sono state comminate ma non eseguite condanne a morte in tre Paesi anche per stregoneria. Nessuna pietà nemmeno per i minorenni: 24 uccisi, di cui 11 in Iran nel solo 2014. Naturalmente, come sottolinea Nessuno Tocchi Caino, "il problema non è il Corano ma la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni". Verso l’abolizione totale "L’Italia continua la sua battaglia per l’abolizione della pena di morte nel mondo, anche in vista della discussione che ci sarà in settembre prossimo all’Assemblea Generale dell’Onu", ha affermato ieri la ministra Mogherini. L’obiettivo dei Radicali, come hanno spiegato il segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, Emma Bonino e Marco Pannella (in sciopero della fame e della sete per abolire "anche la morte per pena" nelle carceri) è aumentare il numero di Stati aderenti alla moratoria (nel 2012 furono 411) nella prossima assemblea dell’Onu. Ma anche ottenere l’aggiunta di un paragrafo che contempli l’istituzione, nell’ambito della segretaria generale, di una figura di monitoraggio soprattutto di quegli Stati dove "si sta facendo di tutto per occultare i modi con cui la pena di morte è praticata", come ha spiegato D’Elia. Un velo creato in particolare negli Usa "per coprire il tipo di sostanze utilizzate nelle esecuzioni e i fornitori, e impedire così qualsiasi azione di sensibilizzazione che blocchi, come è già successo, i rifornimenti dei cocktail utilizzati dai boia". Guinea Equatoriale: caso Berardi; intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty di Andrea Spinelli Barrile Vita, 19 luglio 2014 Parla Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, tra le poche associazioni ad essersi espresse chiaramente sulla vicenda. "Abbiamo chiesto invano alle autorità guineane dei chiarimenti sulla sua situazione. Non ci è mai stato risposto". Mentre sabato scorso pubblicavamo l’articolo sulla drammatica vicenda africana di Roberto Berardi il fratello ci informava dell’ennesima evoluzione, proprio in quei minuti, degli eventi: l’imprenditore è stato infatti ritradotto in carcere, a Bata, nonostante il referto medico della clinica La Paz ne raccomandasse 20 giorni di convalescenza. Le vicissitudini dell’imprenditore italiano sono infinte: numerose volte l’alternanza tra buone e cattive notizie, che dall’Africa arrivano a frammenti, lacera la catena dei fatti mostrando la crudeltà anche psichiatrica dei carcerieri di Roberto Berardi, che saggiamente concedono e puniscono, accordano e negano. Ci siamo chiesti come mai del drammatico caso di Roberto Berardi, imprenditore pontino detenuto da 20 mesi nel carcere di Bata, in Guinea Equatoriale, si parli così poco. E soprattutto ci siamo chiesti come mai un caso come quello di Berardi non sia "notiziabile" come, ad esempio, il caso indiano dei Marò, come la diplomazia si muova in questi casi e quali siano le difficoltà nel gestire trattative diplomatiche simili. Per trovare una risposta ci siamo rivolti a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, tra le poche associazioni ad essersi espresse chiaramente sul caso Berardi e da sempre attiva nel denunciare le violazioni sistematiche dei diritti umani da parte del regime equatoguineano. Quale è la posizione di Amnesty International sul regime in Guinea Equatoriale? La situazione della Guinea Equatoriale è sempre presente nei rapporti annuali che Amnesty International redige; si potrebbe dire che la situazione in quel paese è alla nostra attenzione dal 1979, anno in cui avvenne il colpo di Stato di Teodoro Obiang Nguema. Da quell’anno non manca mai una parte dedicata alle torture, ai diritti umani negati, ai trattamenti inumani nelle carceri, all’impossibilità di esprimere qualunque tipo di dissenso o critica nei confronti del regime della Guinea. Come Amnesty avete espresso una posizione sul caso Berardi? Abbiamo chiesto invano alle autorità della Guinea Equatoriale dei chiarimenti sulla sua situazione: quali fossero le accuse e quali prove ci fossero a sostegno delle accuse, quale fosse il suo destino. Non ci è mai stato risposto. Abbiamo poi appreso della condanna e della successiva multa come sanzione aggiuntiva. Della vicenda di Roberto Berardi, contrariamente ad altri casi internazionali come quello dei Marò, se ne parla poco sui media. Come mai si fa così fatica a parlarne? Quella di Berardi è una vicenda abbastanza simile a quella di altri 3000 connazionali detenuti all’estero, di cui si sa poco e per i quali c’è in essere un lavoro diplomatico prudenziale e confidenziale, che voglio immaginare vada avanti. Sulla base dell’esperienza del nostro blog sul sito del Corriere della Sera, nelle due occasioni in cui abbiamo raccontato del caso Berardi, l’attenzione del pubblico non si è manifestata se non in pochi commenti nei quali, molto semplicisticamente, si leggeva che "se l’è cercata, vedi che succede a trattare con quella gente?". Mentre nel caso dei Marò il fedele servitore dello Stato che è ingiustamente detenuto in India mobilita il pubblico, nel caso dell’imprenditore italiano che ha cercato di fare buoni affari in un paese nel quale non li ha fatti vede su di se lo stigma di quello che è stato imprudente. Quale è un altro punto di vista invece? Dal nostro punto di vista "pari sono". Né i Marò né Berardi sono prigionieri di coscienza, per i quali Amnesty può chiedere la liberazione perché hanno criticato pacificamente le autorità del luogo; sono casi di detenzione, per motivi diversi, prolungata e proprio per questo ingiusta. Sarebbe meglio evitare, in questi casi, di fare impresa con certi regimi? Non è il campo nostro. Ci sono dei rischi e delle imponderabilità, come anche l’umoralità degli interlocutori. Spesso si fanno affari con attori che sono nient’altro che il prolungamento della persona che detiene il potere; nessuno credo sia così irresponsabile a non valutare il rischio. Io non posso però addebitare ad un singolo imprenditore la colpa di fare affari con chi viola i diritti umani. Quella è una valutazione che fanno i singoli. Quanto può influire nelle trattative diplomatiche l’assenza di un’ambasciata italiana in Guinea? Può influire, penso che possa fare la differenza. Anche perché Bata non è esattamente raggiungibilissima. Ma è anche vero che ci sono tutte le condizioni: nel novembre scorso se ne è occupata la trasmissione "Chi l’ha visto?", il caso è all’attenzione dell’associazione "Prigionieri del Silenzio", la famiglia Berardi è attiva. Che si possa fare di più e meglio è certo: si potrebbe fare meglio avendo una rappresentanza diplomatica lì, il che vuol dire riconoscere anche la Guinea come partner importante. Se non è così significa che sono state fatte valutazioni differenti. Tuttavia non penso che non ci sia interesse a far tornare Berardi a casa. Nella strategia diplomatica esistono degli ausili, come l’Eni, ai quali l’Italia potrebbe aggrapparsi nelle trattative, o che sono già stati utilizzati in casi simili? Non ho memoria di una situazione in cui una politica estera fatta prevalentemente da aziende italiane o congiuntamente tra aziende italiane e Farnesina abbia portato a risultati soddisfacenti in termini di diritti umani. A volte anzi può essere un’ostacolo. Penso a quanto le autorità italiane si sono comportate nella vicenda Shalabayeva. Non so quanto possa aiutare in questi casi avere rapporti commerciali, soprattutto quando di mezzo ci sono gli idrocarburi. Quale è la vostra posizione nel caso di Roberto Berardi? Quale la vostra richiesta? Che gli siano riconosciute tutte le salvaguardie del diritto internazionale sul trattamento detentivo: visite regolari, cure mediche adeguate, dignità della detenzione, che poi è quello che chiediamo per chi viene arrestato per reati di opinione. Fare l’imprenditore e non l’oppositore politico non può essere un motivo per trattamenti inumani e degradanti in carcere, per vedersi negati i diritti. Speriamo che poi ci sia una soluzione diplomatica che porti ad una soluzione ed una fine anticipata di questa vicenda. Giamaica: l’incubo delle carceri dove gli uomini vivono "in scatola" di Flavio Bacchetta Il Manifesto, 19 luglio 2014 L’istituto penitenziario più recente, è stato inaugurato in Giamaica nel 2002; l’Horizon Adult Remand Centre, che ospita detenuti in attesa di giudizio. Quando invece parliamo di carceri di massima sicurezza, per i condannati in via definitiva, le strutture risalgono addirittura ai secoli dello schiavismo, come Fort Augusta, il carcere femminile, che fu costruito dagli inglesi nel 1740, originariamente come fortezza di difesa. Di poco più "giovani", i penitenziari maschili di St Catherine a Spanish Town, e Tower Street a Kingston. Aldilà di alcuni interventi di cosmetica esterna, e l’apertura di tre sale computer nel 2005, le strutture rimangono le stesse dei tempi che furono; un po’ per la cronica penuria di fondi, ma soprattutto per la funzione punitiva ad aeternum che devono rappresentare. Con conseguenze nefaste. Dopo un’attesa durata oltre sei mesi, dalla presentazione della domanda, siamo riusciti a entrarci. Il 9 ottobre del 2012, una dichiarazione congiunta di vari gruppi umanitari in Giamaica (quali Jamaicans for Justice (Jfj), All-Sexuals and Gays (J-Flag) eStand Up for Jamaica) ha evidenziato il malumore generale, suscitato dalla decisione del governo, di unificare il carcere di South Camp Road, come centro di detenzione sia per donne adulte, che ragazze adolescenti. L’annuncio governativo è in netto contrasto con la Convenzione sui diritti dei bambini (Crc), che sancisce la separazione assoluta negli istituti carcerari tra detenuti adulti e minorenni, aggravato dal fatto che tante giovanissime continuano a rimanere ammassate nei lock-up (minuscole celle, situate nelle stazioni di polizia e sedi giudiziarie), in attesa di trasferimento nei carceri maggiori. Questi pertugi, che risalgono anch’essi a tre secoli fa, accolgono 10/15 detenuti per volta, lungo periodi che vanno da qualche giorno, fino a diversi mesi. In alcuni casi ricordano la gabbia dello sceriffo dei vecchi film far-west, ma in altri, come all’interno dellafamigerata police station di Falmouth, sono delle murature quasi totali, tranne un foro di apertura serrato da una grata, dalla quale si protendono, in cerca di spazio vitale, le braccia dei prigionieri. Più stile Conte di Montecristo, in questa circostanza. Promiscuità e sovraffollamento, diretta conseguenza della mancanza di soldi, così come di un certo atteggiamento pressapochista, da parte delle autorità che decidono sulle condizioni di vita della popolazione carceraria. Prima dell’approvazione della richiesta, il Dcs (Department of Correctional Services) ha voluto una nostra lettera, con l’impegno di fornire benefici tangibili, agli Istituti oggetto della visita. Il Dcs, causa i magri fondi elargiti dal governo, sufficienti appena per l’acquisto di cibo e stipendi alle guardie (entrambi in sofferenza), conta sulle donazioni dei privati, e il supporto di Ong come Stand Up, per cercare di migliorare la vita dei reclusi; quest’ultima, a sua volta, riceve finanziamenti dall’Unione Europea e dalla Cvc (Caribbean Vulnerable Communities), oltre che dai suoi iscritti. Una volta varcato il cancello del primo penitenziario St. Catherine Adult Correctional Centre, noto come Spanish Town Prison, si avverte un tanfo, misto tra umidità di vecchie mura e il sudore della Paura, materia prima del sistema carcerario in genere; l’olezzo, accentuato dalla canicola imperante in Giamaica, è il primo segnale che siamo entrati in un altro mondo. Prima del nostro tour, un colloquio con il Sovrintendente, Mr. Reuben Kelly, il dinamico direttore del penitenziario, abile a destreggiarsi, tra le quotidiane problematiche che il suo ostico mandato prevede. I dati che snocciola, con inaspettata trasparenza, sono inquietanti. L’istituto ospita 1.120 detenuti, rinchiusi in celle, che vanno da una a tre persone, 720 in totale. Oltre un migliaio di reclusi, costretti a spartirsi cinque latrine, e due docce, situate lontano dalle stesse. Non esiste distinzione tra condannati all’ergastolo e reati lievi, tranne una security section, un reparto di sicurezza, avvolto da filo spinato, dove sono isolati i detenuti più pericolosi. Quasi tutti allegramente insieme, tranne i detenuti omosessuali, che, a causa della sempiterna omofobia che affligge la Giamaica, vivono in un settore separato, per la loro stessa sicurezza. Così come sono mescolati detenuti sani a circa 50 siero positivi, una quarantina di malati mentali, 200 diabetici, oltre a numerosi casi di scabbia. Tranne le cure generiche, nessuno di questi prigionieri è affidato a un regime sanitario particolare, e, specie nel settore gay, i casi di sieropositività sono a rischio di aumento. La precarietà delle misure igieniche, è il tasto su cui preme maggiormente il direttore, che ci invita ad aiutarlo nella costruzione di una ventina di bagni nuovi. Racconta degli allagamenti del sistema fognario interno, dovuti al malfunzionamento delle pompe di drenaggio, e il conseguente riversamento dei liquami, soprattutto nelle aree di lavoro, dove i forzati operano senza alcun refrigerio, a causa dell’assenza di pale al soffitto, con l’unico ventilatore rotto. La permanenza in cella è obbligatoria dalle 18 alle 6 del mattino. Per il resto della giornata sono previste sei ore di lavoro, e le rimanenti si dividono tra pasti, e tempo "libero". Quando usciamo sul cortile, non sono ancora le dieci, ma il sole è già perpendicolare al terreno; 38° all’ombra. Magari ce ne fosse. Reticolati ovunque; in mezzo a due di questi, un corridoio in terra battuta, dove alcuni reclusi giocano a calcio. Notiamo anche una pseudo palestra, con un bilanciere, e due macchine per la trazione, di cui una è fuori uso. Gli impianti sportivi sono questi. La gente ciondola in giro, si respira un’aria di rassegnazione, cementata da una routine, che non sgarra di un millimetro. Il tam-tam silente che intuiamo è: white men in visita, fate i bravi, che magari qualcosa esce anche per voi. Però c’è sempre qualcuno, che stona nel coro. Mark Levy, della gang "One Order", condannato per estorsione, ci mostra un rigonfiamento mostruoso, che lo tortura da nove mesi dietro la nuca, sembra un linfoma. Nessuno si è preso la briga di visitarlo, nonostante l’evidenza del male. Le guardie che ci scortano nervose, lo allontanano. L’emergenza sanitaria che affligge il penitenziario, è la più grave. Oltre alla promiscuità tra reclusi sani e quelli affetti da patologie, si alternano solo due medici, presenti saltuariamente. Oggi non è reperibile nessuno, per chiedere ragguagli. La beffa è che, proprio dirimpetto al carcere, sarebbe disponibile l’ospedale pubblico di Spanish Town, ma, per misure di sicurezza, è vietato il ricovero dei detenuti fuori dal carcere; per cui bisogna aspettare, che uno specialista sia disponibile a visitare i malati sul posto. È il turno delle cucine; 4 steam units (unità a vapore) di cui solo due funzionanti. Pavimento in condizioni pietose, l’unto è talmente spesso, che rischiamo di scivolare più volte; la dieta carceraria: breakfast mattutino, a base di riso, callaloo (gli spinaci locali), cabbage (cavolo) dumpling (focacce di farina impastata) e yam (tubero caraibico). Si passa poi al dinner (che accomuna pranzo e cena), siconsuma verso le 15.30. Nella media, consiste in: chicken back (dorso di pollo) riso e corn beef (carne in scatola). È l’ultimo pasto della giornata. Le pietanze più costose, come petti e cosce di pollo, o pesce, servite randomly (casualmente), qualche volta la domenica, o durante le feste nazionali. Va un po’ meglio, nel reparto bakery, il forno; ben tenuto e spazioso, offre una discreta varietà di doughnuts, ciambelle decorate con zucchero e marmellata. Il profumo che emana, annulla il lezzo precedente della cucina. Credo sia un privilegio, lavorarci dentro. Dal 2005, alcuni penitenziari giamaicani, quali Spanish Town, Tower Street, e RioCobre Juvenile, sono collegati in rete. Spanish Town ha 11 computer, però manca ancora la stampante. I reclusi possono svolgere ricerche e tenersi aggiornati, anche se vige il divieto di scambiare email con l’esterno, e di utilizzare i social networks. Sul retro della sala informatica, dal 2009, trasmette la stazione radio, Free FM 88.9, dai tre istituti menzionati. È completa di mixer e trasmettitore, relativamente nuovi. La scuola è divisa in due sezioni, con turni differenti. Sez. 1: dalle 10 alle 11.30 - Sez. 2: dalle 12 alle 14.00. Dalle 14 fino alle 17, si tengono consulti con il personale di custodia e lo psicologo. Il problema rimane quello dello spazio: solo 140 detenuti hanno la possibilità di accedere agli studi, anche a causa della penuria di libri testo, soprattutto matematica, biologia, inglese, educazione civica; carissimi. Di conseguenza, il lusso di un approfondimento culturale, è ristretto al 10% dei reclusi. D’altra parte, anche nella Giamaica libera, l’istruzione non è certo una priorità della Ruling Class, nei confronti dei suoi subordinati, così la media nazionale di coloro i quali possono permettersi una educazione completa, si riflette inevitabilmente nel mondo sommerso delle carceri. Meno male che c’è la radio, almeno quella. Le famiglie possono ascoltare la voce dei reclusi in streaming. Scuola, computer, stazione radio, così come il laboratorio musicale di Tower Street, sono a carico totale di Stand Up, e delle Ong a essa collegate. La Presidente, Maria Carla Gullotta, è anche Console Onorario, ultima rappresentante, non ufficiale, di uno Stato italiano, che, con la chiusura dell’Ambasciata di Santo Domingo, lascia con il sedere per terra circa 50.000 connazionali nei Caraibi, e tanti giamaicani, che ora dovranno richiedere i visti a quella statunitense, poco propensa al rilascio. L’uomo in scatola La giornata di vita pseudo normale, nei penitenziari dell’isola, termina alle 18. Nelle 12 ore successive, l’uomo smette di esser tale; subentra la notte, e con essa, lo stato bestiale che lo accompagnerà fino al mattino successivo. Le celle sono divise in quattro sezioni, allineate. Iniziamo con la sezione A-1; c’è uno stretto corridoio, sul quale si affacciano le inferriate delle celle; entriamo in una a caso, dopo aver chiesto il permesso al suo occupante. Dobbiamo abbassarci, per varcare l’entrata, la cui altezza non arriva a 1.50. Quello che appare alla vista, è un ambiente di 4x2, privo di mensole; gli oggetti personali del condannato sono sparsi alla rinfusa sul pavimento. Le pareti sono talmente in cattive condizioni, che in diversi punti sono rabberciate con pezzi di compensato. Non esiste areazione, né prese per eventuali ventilatori, l’unica apertura è quella delle sbarre. Cerchiamo un water, o almeno una turca per i bisogni. Nulla. Sia per le dimensioni, che per la conformazione, ricorda una scatola. Ci sono scatole da uno, e scatoloni più grandi, nei quali si "accomodano" tre detenuti. Chiediamo al suo inquilino, come fa per le esigenze fisiologiche; dalle 6 di sera, alle sei del mattino successivo, non è consentito servirsi delle rade latrine esterne. L’uomo ci mostra un giornale, e una busta nera di plastica, quella che in Giamaica chiamano scandal bag. Il recluso deve defecare nella carta, con la quale le feci sono avvolte, e depositarle poi nella busta, fino al giorno dopo. Per urinare, una bottiglia. Per le abluzioni, un secchio d’acqua; date le ristrette dimensioni dell’ambiente, i secchi sono allineati fuori; una fila interminabile di recipienti, di plastica variopinta. Sono l’unica nota di colore, che ravviva il grigiore circostante. Secondo i detenuti, grazie alla moltitudine di gatti randagi presenti nel comprensorio, i topi sono rari. In compenso, quando la luce del giorno muore, spuntano i cock-roaches, gli scarafaggi caraibici. Sono dei mostri alati, con antenne e zampe pelose, e dimensioni che possono arrivare ai 10 cm. La notte nell’oscurità, invadono le pareti, al punto tale che queste sembrano muoversi di vita propria. Le loro feci causano svariate infezioni. I loro fruscii, la colonna sonora del condannato. La sezione B-1 è anche peggio; il fetore ammorba l’aria, e lo stato esterno delle celle, causa gli intonaci marciti dalla muffa, inenarrabile. Ascoltiamo vari racconti dai reclusi; colpisce uno in particolare: Clifton Wright è un gigante nero, alto oltre due metri. Ricorda un giocatore della Nba. Condannato a morte nel ‘82, la sua sentenza è stata commutata in ergastolo; sono 32 anni che è rinchiuso qua dentro. In Giamaica, l’ultima condanna a morte è stata eseguita nel 1988, ma ci sono ancora detenuti in lista d’attesa. In seguito alle pressioni della Convenzione Americana sui Diritti Umani, che lo Stato ha ratificato, queste condanne sono state sospese, ma non annullate, perché la nazione caraibica si rifiuta di aderire al protocollo sull’abolizione della pena di morte, e alla giurisdizione di Iachr (Inter-American Court of Human Rights). Mr. Wright ha sempre sostenuto la sua innocenza, per cui, secondo la legge giamaicana, non ha diritto a Parole (libertà vigilata, dopo aver scontato un certo periodo) per avere negato la colpevolezza. Allo stato attuale, l’uomo è senza difesa; il suo legale, Mickey Lorne, famoso per essere anche l’avvocato di Vybz Kartel (la Superstar della Dancehall, condannata all’ergastolo il 3 aprile) lo ha mollato, perché aveva finito i soldi. In Giamaica non esistono tre gradi di giudizio, come in Italia. Uno solo, e se un detenuto vuole appellarsi, deve avere molto denaro, per sostenere la costosa procedura legale. Che l’uomo sia una Mdw (Mass Destruction Weapon) o, al contrario, un novello Hurricane Carter (il campione nero dei pesi medi, condannato ingiustamente, e riconosciuto innocente dopo 20 anni di detenzione) probabilmente non lo sapremo mai. Sta di fatto che, l’orrore e il marcio di schiavismo e colonialismo, sono resilienti nel tempo, come quando si calpesta una cicca di gomma, sputata da qualcuno. Per quanto ci si affanni, per grattarla via, rimane sempre qualche filamento impigliato nelle tacche della suola, grazie alla sua resilienza. L’upper-class, anglofona, che possiede la Giamaica, ha tanta ricchezza tra le mani, ma non investe sul rimodernamento delle proprie obsolete strutture coloniali, e poco comunque sulle infrastrutture. Però soprattutto non investe a livello dignità umana. Il marchio d’infamia più grave, è quello di permettere che un uomo, innocente o colpevole che sia, debba essere bestialmente degradato a defecare in un giornale, magari per il resto della sua vita, ai fini di soddisfare l’ansia di vendetta di una società perbenista/post-schiavista, che perpetra le nefandezze del passato. Etiopia: 10 tra blogger e giornalisti in carcere dallo scorso aprile, accusati di terrorismo Tm News, 19 luglio 2014 Un gruppo di blogger e giornalisti detenuti da circa tre mesi sono stati formalmente accusati di terrorismo per i loro legami con un gruppo illegale e per avere pianificato degli attacchi. Sette appartenenti al gruppo di blogger che cura il sito Zone Nine e tre giornalisti sono stati arrestati ad aprile, tra le proteste dei gruppi per i diritti umani, che hanno denunciato un attacco alla libertà di stampa. Il gruppo è accusato di avere pianificato degli attacchi in Etiopia e di avere collaborato con il gruppo di opposizione che fa base negli usa Ginbot 7, ritenuta un’organizzazione terroristica. Il processo è stato aggiornato al 4 agosto. Human Rights Watch ha accusato l’Etiopia di usare le sue leggi anti-terrorismo per mettere a tacere dissidenti e critici. Sono numerosi i giornalisti finiti in carcere con la nuova normativa, tra cui due giornalisti svedesi condannati a 11 anni di prigione nel 2012. I due sono stati graziati dopo avere scontato 15 mesi di carcere. Il blogger dissidente Eskinder Nega sta ancora scontando invece una condanna a 18 anni di prigione per avere avuto dei contatti con Ginbot 7.