Giustizia: carceri-lager e irragionevole durata dei processi, ora ci condanna anche l’Onu di Valter Vecellio www.articolo21.org, 18 luglio 2014 La "notizia" è di quelle che dovrebbe farci arrossire per la vergogna. Ma ci si può vergognare se si conosce di cosa ci si dovrebbe vergognare. Ma se non si sa? Quello che non si sa - e anche questo non sapere dovrebbe costituire "materiale" di riflessione, amara - è che non sono solo le corti di giustizia europee a condannare il nostro paese per le ignobili condizioni delle nostre carceri, per l’irragionevole durata dei processi, e la non episodica denegata giustizia. Ora siamo nel mirino dell’Onu. Se ne sono accorti solo "Il Manifesto", "Il Garantista" e la segretaria radicale Rita Bernardini. E dire che le agenzie la "notizia" l’hanno diffusa. È accaduto che una delegazione dell’Onu guidata dal norvegese Mads Andenas, sia venuta in visita in Italia dal 7 al 9 luglio, e al termine delle loro ispezioni hanno stilato un memorandum in cinque punti: 1) Adottare "misure straordinarie, come per esempio soluzioni alternative alla detenzione, al fine di eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti". 2) "Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione". 3) "Che le autorità italiane rispettino le raccomandazioni Onu del 2008 e quanto statuito dalla sentenza Torreggiani. 4) Raccomandazioni come quelle formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, sono "quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale". 5) Sui migranti, oltre ad esprimere rammarico per i "rimpatri forzati", la delegazione Onu "resta preoccupata per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione". Giustizia al collasso, purtroppo storia di tutti i giorni. Andiamo, per esempio, a Reggio Calabria. È il 7 gennaio del 1984, trent’anni fa. Un’automobile improvvisamente taglia la strada a un autobus, che frena di colpo. Un passeggero cade, si ammacca due costole. Non sembra una cosa grave. Poi però le sue condizioni peggiorano. Sopraggiunge un infarto, l’uomo muore. La famiglia fa causa all’azienda di trasporto. Non si entra nel merito, i famigliari possono avere ragione oppure no, non interessa, qui. Quello che si vuole porre in evidenza è che il processo, anno dopo anno, si è trascinato per trent’anni. La moglie del passeggero nel frattempo è morta, è morta anche la figlia. Quando finalmente la terza sezione civile della Cassazione ha emesso la sentenza, a "salutarla" c’erano gli eredi degli eredi. Quel processo ha impiegato trent’anni per arrivare in Cassazione. Al tribunale di Reggio Calabria sono occorsi 17 anni per emettere il giudizio di primo grado, arrivato il 25 novembre 2003. La Corte di Appello sempre di Reggio Calabria ce ne ha messi altri nove, la sentenza di secondo grado è arrivata il 10 dicembre 2012. Trasferiamoci ora in Puglia. È il 2 settembre 2002, solo dodici anni fa. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (che poi diventerà sindaco di Bari) chiudono un filone investigativo nato cinque anni prima, con un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone, accusate di far parte di un’organizzazione criminale che spadroneggia tra Altamura e Gravina in Puglia; i reati ipotizzati non sono bazzecole: estorsioni, traffico di droga, ferimenti. E tuttavia solo dopo 17 anni il Pubblico Ministero Isabella Ginefra è in condizione di concludere la sua requisitoria. Chiede pene tra i 4 e i 10 anni per 58 imputati. E gli altri? Alcuni sono stati prosciolti, per qualcuno è sopraggiunta la prescrizione, c’è chi è morto per vecchiaia, o perché ucciso da qualcuno di qualche clan rivale. Sono storie che accadono un po’ tutti i giorni un po’ in tutti i tribunali. Non fanno neanche più "notizia", sono considerate ormai cose "fisiologiche", parte del "sistema". Accadono poi cose che definire paradossali è un eufemismo. Proprio nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciavano le linee guida della loro riforma della giustizia, il ministero veniva condannato a pagare la doppia penalità. Perché lo stato italiano non si accontenta di essere sanzionato per i danni provocati dall’irragionevole durata dei processi; si fa anche condannare perché i risarcimenti delle cause lumaca sono più lunghi delle cause stesse. "Italia, dolce paese,/ dove chi rompe non paga le spese, / dove chi urla più forte ha ragione,/ dove c’è il sole e il mare blu", cantava molti anni fa Sergio Endrigo. Patria del diritto; e del suo rovescio. Giustizia: Valerio Spigarelli (Ucpi); su amnistia e indulto manca il coraggio politico intervista a cura di Nello Scavo Avvenire, 18 luglio 2014 Si fa presto a parlare di riforma della giustizia, e della necessità di velocizzare i procedimenti, se poi a Roma i cinquanta metri che separano il tribunale di primo grado dalla corte d’appello vengono percorsi alla bruciante velocità di venti centimetri al giorno. "Ci vogliono otto mesi perché un fascicolo dalla corte d’assise raggiunga la corte di secondo grado", dice Valerio Spigarelli, l’avvocato che presiede l’Unione delle camere penali. Un modo come un altro per sostenere che il progetto di riforma della Giustizia non vi piace? Quella proposta non ci sembra una riforma. Nel senso che alcuni dei nodi di struttura della giustizia penale non vengono affrontati: riforma del Csm, terzietà del giudice, rivisitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Però l’obbligo di indagare davanti alle notizie di reato è una garanzia di equità. Lasciare alla discrezionalità degli inquirenti non sarebbe molto più rischioso? In realtà non è più così. Negli ultimi tempi si sono succedute direttive dei capi degli uffici inquirenti i quali stabiliscono quali reati devono avere priorità, perché evidentemente il sistema non sopporta il carico di lavoro e dunque le procure privilegiano alcuni reati rispetto ad altri, sulla base di scelte autonome. Con quali conseguenze? Che la prescrizione, ad esempio, non si matura nella maggioranza dei casi durante il dibattimento, ma negli armadi delle procure, perché lì i fascicoli rimangono bloccati. Credo perciò che dovremmo fare in modo che i criteri di priorità non siano stabiliti "motu proprio" dai singoli uffici. Però nel progetto di riforma questo tema non viene affrontato. Intanto che si discute e si polemizza, le carceri continuano a sovrabbondare di detenuti e non si vede nell’immediato una soluzione definitiva al sovraffollamento... In un paese che viene condannato perché riserviamo trattamenti disumani ai detenuti bisognerebbe trovare il coraggio di parlare prima di tutto di amnistia e indulto. Ma alla politica questo coraggio manca. Qual è l’anello debole del dibattito? La politica deve tornare ad assumere il suo primato, finché contratta le norme con i magistrati e ne subisce i diktat non andremo da nessuna parte. Ricordo che all’epoca della Commissione D’Alema arrivò un fax da settanta procuratori che intimava di fermare la riforma. E così avvenne. Tornare su questa strada non si può e non si deve. Le leggi in nome del popolo italiano non vanno contrattate. Anche gli avvocati hanno i loro interessi. E tutto sommato neanche voi siete esenti da colpe. Lo dimostra il moltiplicarsi di casi giudiziari nei quali alcuni suoi colleghi sono coinvolti. Non dovrebbe essere riformata anche la vostra categoria? Non ho preclusioni a discuterne. Capisco che 250mila avvocati sono troppi. E per far calare questo numero aumentando la qualità occorre una seria riforma dell’Università, istituendo una scuola unitaria delle professioni forensi post laurea per magistrato e avvocato, raggiungendo l’obiettivo di vere specializzazioni. Giustizia: istruzione dietro le sbarre, laurearsi vale la pena di Fabrizo Assandri Avvenire, 18 luglio 2014 Non lascia trasparire l’emozione, si mostra sicuro di sé mentre espone la sua tesi, sul brigantaggio. "Per lui, non abituato a stare fuori, la tensione dovrebbe essere doppia" diceva un amico. Bruno C., da ieri dottore in Scienze politiche col voto di 105, s’è laureato al Campus Einaudi in mezzo agli studenti "liberi". Dopo la discussione è tornato in carcere. È potuto uscire con un permesso. "Avrò una borsa lavoro dalla Compagnia di San Paolo - dice - e pensare che mi hanno arrestato per una rapina in una filiale della loro banca". Cinque suoi compagni si laureano domani, ma nell’istituto di pena. C’è chi porta come tesi la recidiva, chi le frodi ai creditori, chi il diritto sportivo. Sono gli studenti del polo universitario del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, una realtà d’eccellenza nel settore e unica nel suo genere in Italia. Qui i professori universitari tengono veri e propri corsi dietro le sbarre, permettendo così ai detenuti di una sezione speciale di frequentare le lezioni. Ci sono i corsi di laurea in Scienze Politiche e Giurisprudenza. Sono 24 gli studenti iscritti, tra di loro anche ergastolani: ci sono detenuti che, per frequentare i corsi, chiedono il trasferimento a Torino. Studiano per battere la noia del troppo tempo libero, migliorarsi, pensare a un futuro. Daniele ha fatto la tesi sulla recidiva: "Tra chi studia in carcere è quasi zero. Studiare ci fa riabilitare, per questo mi sono iscritto all’università". Daniele, un passato da bandito, è dentro da 4 anni e ne deve scontare altri dieci: "Ho tempo per tre lauree", scherza. E c’è chi, in effetti, non s’accontenta del primo "pezzo di carta". È il caso d’un giovane nigeriano, arrestato a Genova per traffico di droga. Prima del carcere studiava Giurisprudenza. A Torino ha scritto la tesi e s’è laureato ad aprile sui diritti umani in Africa. Ora vuole iscriversi a Matematica. Il sogno del Polo universitario, coordinato dal professor Franco Prina, è di portare in carcere nuovi corsi di laurea. A dire il vero c’è già un carcerato che studia al Politecnico, ma grazie ai permessi segue le lezioni fuori. Bruno aveva scarpe eleganti e una semplice polo. Ad ascoltarlo c’erano volontari del servizio civile, educatori, un’amica conosciuta per corrispondenza mentre scontava un’altra condanna. In tutto ha fatto oltre vent’anni dentro: gli mancano solo otto mesi. C’è chi entra in carcere magari con la terza media e ne esce dottore. Come Marino Sacchetti. Ieri era ad ascoltare Bruno. Lui la laurea l’ha presa un anno fa, in Diritto penale internazionale, poco dopo il suo fine pena. È stato dentro per 14 anni: "Mi accusano di tentato triplice omicidio di agenti di polizia e trasporto di armi, nella vicenda dei Legionari di Brenno" dice, ma lui si proclama innocente. Anzi, "non colpevole". Dieci anni li ha passati in massima sicurezza, insieme ai brigatisti. Grazie all’università, ha svolto un tirocinio nell’avvocatura del Comune di Torino e ora lavora per una cooperativa. Alla laurea di Bruno c’era anche Shpend Qerimi, affidato ai servizi sociali, che proprio ieri ha sostenuto un esame: Sociologia della devianza. È uscito a novembre, dopo sette anni scontati per traffico internazionale di droga. "In carcere tutti siamo innocenti", sorride. Spiega che per lui, studiare, non è una riabilitazione: "Io ero inserito nella società, lavoravo come venditore d’auto. Ho studiato per tenermi occupato e rendermi migliore". Adesso è impegnatissimo. Oltre allo studio - gli mancano due esami - lavora al mattino come traduttore in Comune e al pomeriggio insegna rugby ai bambini: in carcere era il capitano della squadra. Anche a Padova e Parma si può fare. La realtà di Torino, che offre dietro le sbarre un’offerta formativa strutturata, con seminari e cicli di lezioni che impegnano 40 docenti, è nata nel 1998. Finora 30 detenuti sono arrivati alla laurea. In tutta Italia i carcerati iscritti all’università, quasi tutti uomini, sono circa 300. Si tratta di pochi eletti se si tiene conto dei numeri della popolazione carceraria: questo dipende da ragioni economiche e organizzative. Ci sono carceri, come quello di Padova e Parma, dove ci si può laureare per esempio in Ingegneria, Psicologia e Agraria. In alcune realtà ai carcerati è offerta la possibilità di studiare, dando gli esami da non frequentante, o seguendo registrazioni delle lezioni. L’accesso ai siti web universitari è una delle richieste più insistenti dei carcerati-studenti. Se studiare è già un percorso a ostacoli per gli studenti di fuori, per chi sta dentro tra sovraffollamento e risorse sempre al lumicino lo è ancor di più. Giustizia: Sottosegretario Ferri; custodia cautelare per maltrattamenti familiari e stalking Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2014 Arrivano due correttivi al Decreto carceri (92/2014) approvati dalla commissione Giustizia della Camera, con il parere favorevole del governo. La prima riguarda la norma che esclude la custodia cautelare in carcere quando si prevede una pena da eseguire non superiore a tre anni. "Non sarà applicabile - ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri all’Adnkronos - e quindi si potrà ricorrere alla custodia in carcere, in presenza di reati particolarmente gravi come mafia, stalking aggravato, maltrattamenti in famiglia aggravati, furto in abitazione, estorsione, ecc. Si potrà inoltre disporre la custodia in carcere, anche quando si prevede una pena inferiore ai tre anni, nei casi in cui l’imputato/indagato non dispone di un domicilio (cioè quando sia senza fissa dimora) dove poterlo mandare agli arresti domiciliari". La seconda modifica riguarda la norma che innalza da 21 a 25 anni l’età di coloro che possono essere ristretti negli Istituti penali per minorenni: lascerà "al magistrato di sorveglianza uno spazio di discrezionalità che gli permetterà di decidere dove collocare il giovane adulto (cioè la persona di età compresa tra i 21 e i 25 anni), se in carcere o in un Ipm, basando la propria decisione su finalità rieducative o di sicurezza". Giustizia: oggi la sentenza Ruby, Renzi teme l’ira di Berlusconi sulle riforme di Andrea Colombo Il Manifesto, 18 luglio 2014 Senato. Il governo fa auto-ostruzionismo per forzare le tappe ma è quasi certo il rinvio a settembre. E viste tutte le scadenze puntualmente disattese, il premier ora ha paura che Forza Italia rovesci il tavolo. Anche per questo prova a tenere aperto il dialogo con i grillini. "Ragionevolmente chiudiamo le riforme in 15 giorni da quando si comincia a votare, e dal giorno dopo siamo pronti a discutere di legge elettorale": parola di Matteo Renzi, dopo l’incontro con i pentastellati, ed è evidente che il premier ha preso atto di quanto rallentata sia ormai la sua tabella di marcia. L’obiettivo, ora, è evitare il rischio peggiore, quello di arrivare alla pausa estiva fissata dall’8 agosto con le riforme ancora in ballo anche in una sola camera. Non è un compito facile, e l’esito è tutt’altro che certo. Ieri, nella conferenza dei capigruppo, il governo, spalleggiato da Pd, Ncd e Fi, ha forzato la mano stravolgendo il calendario che aveva imposto appena una settimana fa. Per farlo, la maggioranza si è addirittura inventata una sorta di assurdo ostruzionismo contro se stessa. Pochi giorni fa, infatti, il governo aveva chiesto alle opposizioni di ritirare gli emendamenti al decreto cultura, prossimo alla scadenza, per impedirne la decadenza. Le opposizioni lo hanno fatto, la maggioranza no. Ha mantenuto i propri emendamenti per impedire che il decreto fosse pronto per l’aula lunedì mattina. Così, pur mettendo il decreto a rischio, lunedì mattina verrà esaurita la discussione generale sulle riforme. Nella tabella di marcia renziana, il pomeriggio si inizierebbe a votare gli emendamenti, per concludere con l’approvazione entro mercoledì sera. È un miraggio. Gli emendamenti dovranno infatti essere illustrati, e non basteranno certo le poche ore a disposizione mercoledì pomeriggio. Tanto più che la proposta, per la verità assurda, del capogruppo Pd Zanda, che voleva procedere 24 ore su 24 è stata ovviamente respinta. Ma già giovedì arriverà nell’aula di palazzo Madama il decreto competitività e a quel punto il cambio di agenda sarà inevitabile. Poi sarà la volta del decreto sulla Pubblica amministrazione, e tenendo conto dell’altissimo numero di emendamenti la minaccia di dover arrivare a settembre si profila concretissima. La maggioranza, per ora, non ha osato chiedere un contingentamento dei tempi che, in materia costituzionale, sarebbe più che irrituale, inaudito. Il presidente Grasso è contrario, anche perché significherebbe arrivare a un durissimo scontro frontale con tutte le opposizioni, inclusa una Lega che ha ormai preso le distanze dalla riforma come più non si potrebbe. Renzi teme lo spettro del rinvio a settembre per due diversi motivi. Il primo è puramente d’immagine. Dopo aver sbandierato a più riprese la sua celerità e dopo aver fissato una sfilza di scadenze puntualmente disattese, l’effetto in termini di immagine sarebbe certo negativo, ma probabilmente non disastroso. Più seria la seconda paura, quella di un ripensamento di Berlusconi. I ribelli di Fi, per ora, non sembrano affatto domati. Quando ieri la capogruppo di Sel De Petris ha chiesto di mettere ai voti il nuovo calendario, proponendo di lasciare in testa all’agenda il decreto cultura, i dissidenti del Pd hanno votato a favore del governo, quelli di Fi hanno votato con Sel, Lega e M5S. Ma anche molti di quelli che, nel partito azzurro, si dichiarano pronti a ingoiare il diktat del capo, puntano invece ad allungare i tempi proprio perché convinti che di qui a settembre le cose ad Arcore potrebbero cambiare. Oggi stesso dovrebbe arrivare la sentenza Ruby. L’eventuale conferma della condanna modificherebbe di molto gli umori di Berlusconi, e smentirebbe le assicurazioni fatte balenare da Verdini. Renzi lo sa. Per questo cerca ancora di correre. Ma per questo, anche, civetta come ha fatto ieri con il M5S lasciando aperto uno spiraglio alle modifiche dell’Italicum chieste da Di Maio. Per Fi quelle modifiche sarebbero esiziali, e Renzi ci tiene a far sapere a Berlusconi che una retromarcia sul senato provocherebbe una rappresaglia modello Gaza sul fronte della legge elettorale. Ma in caso di condanna, tenere a freno i senatori azzurri sugli emendamenti, diventerà difficile. E se alcuni di quei voti saranno segreti, del tutto impossibile. Sardegna: aperto Istituto pena per detenute madri, terzo in Italia dopo Milano e Venezia Ansa, 18 luglio 2014 È il terzo realizzato in Italia, dopo quelli di Milano e Venezia. Questa mattina è stato inaugurato a Senorbì, 40 chilometri da Cagliari, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam), sezione staccata della Casa circondariale di Cagliari. La struttura, definita dai vertici dell’Amministrazione penitenziaria un istituto a dimensioni umane, è dotata di quattro camere, due doppie e altrettante singole, per complessivi sei posti letto, tutte con bagno e televisore, una ludoteca, una cucina con annessa mensa, la sala colloqui e un ampio cortile con giochi per bambini. A vederla, se non fosse per le chiusure a sbarre all’ingresso dell’androne principale, non si direbbe una casa di reclusione ma un collegio con tutti i confort. Alla cerimonia, con taglio del nastro da parte del vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, hanno preso parte il provveditore regionale, Gianfranco De Gesu, il direttore della casa di reclusione di Cagliari, Gianfranco Pala, autorità civili e militari. L’Icam di Senorbì sarà operativo fra settembre e ottobre. "Siamo orgogliosi di questa nuova struttura dell’Amministrazione penitenziaria - ha detto Pagano - è un vanto per tutti noi. Significa portare fuori da carceri come San Vittore e Rebibbia bambini che non hanno responsabilità alcuna di sbagli commessi dalle loro madri e che non possono vedere con i propri occhi e toccare con mano il dramma quotidiano all’interno degli istituti di pena tradizionali". Nell’istituto di Senorbì le mamme detenute potranno tenere con sé i propri figli sino al loro compimento del decimo anno di età. I bambini andranno regolarmente a scuola e saranno inseriti nelle attività sociali del paese come oratorio e associazioni sportive. Sardegna: Sdr; apertura Icam, non trasferire da altre Regioni madri detenute con bimbi Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2014 "L’idea, palesata dal vice responsabile del Dap, che possano giungere in Sardegna per trovare ospitalità nell’Istituto a Custodia Attenuata di Senorbì madri detenute con figli minori provenienti da San Vittore e Rebibbia, desta sorpresa e lascia interdetti. Appare infatti in contrasto con il principio della territorialità della pena e con il buon senso. La struttura della provincia di Cagliari, con 6 posti letto, deve restare a disposizione del territorio e di chi ne fa esplicita richiesta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso che in occasione dell’inaugurazione dell’Icam di Senorbì, Luigi Pagano ha evidenziato che la nuova struttura consentirà di "portare fuori da carceri come San Vittore e Rebibbia bambini che non hanno responsabilità alcuna di sbagli commessi dalle loro madri". "L’Icam di Senorbì - sottolinea Caligaris - è nato nell’ottica di risolvere il disagio dei piccoli dell’area cagliaritana. Ha una dimensione locale e risponde alla legge del 2011 con la quale è fatto obbligo, a partire dall’1 gennaio 2014, dotare le regioni anche di case protette. È lecito quindi ritenere che debbano essere attivate nelle diverse realtà del Paese idonee strutture nel rispetto della normativa che peraltro riguarda perfino le donne incinte". "L’Icam di Senorbì è sicuramente una bella realtà ma ovviamente, essendo ubicato a 40 chilometri dal capoluogo e dipendendo dalla Casa Circondariale di Cagliari, lascia aperti diversi interrogativi. Non si può infatti trascurare la distanza dal capoluogo, la difficoltà dei collegamenti e la possibilità di accedere rapidamente a un reparto di pediatria, specialmente quando i piccoli sono neonati. Conoscendo la sensibilità del dott. Pagano e del provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Gianfranco De Gesu si può ritenere che al più presto - conclude Caligaris - verranno promosse e realizzate, con la collaborazione degli Enti Locali, le case protette e che nessun bimbo giungerà dalla Penisola a meno che non sia la madre a chiederlo. È questo l’auspicio di Sdr insieme a quello di non vedere più alcun neonato dietro le sbarre". Cagliari: soppresso il carcere di Iglesias, l’intervento di Gigi Rubiu e Giorgio Oppi (Udc) Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2014 "Decisione irrazionale che penalizza famiglie dei detenuti e territorio". I consiglieri regionali dell’Udc Gigi Rubiu e Giorgio Oppi denunciano il silenzio sotto il quale sta passando il decreto ministeriale di soppressione delle #carceri di Iglesias e Macomer. In un comunicato stampa, in particolare, i due consiglieri regionali di Iglesias sottolineano come "a fronte dell’annoso sovraffollamento delle carceri italiane (65 mila detenuti per una capienza inferiore alle 50 mila unità), invece di potenziare il sistema carcerario, lo si riduca". "Nel caso specifico di Iglesias poi, si tratterebbe di chiudere una struttura abbastanza recente e di causare un possibile danno erariale. Iglesias ospita inoltre detenuti dal complicatissimo reinserimento sociale, in particolare con condanne per reati sessuali (sex offender) e per gestirli, gli stessi agenti di Politica penitenziaria hanno seguito corsi specifici proprio per questa tipologia di reato. A questo va ad aggiungersi il danno socio-economico, valutando tutto l’indotto che sviluppa la presenza del carcere nella città. Non ultimo sorge il problema dei disagi familiari: con la chiusura del carcere iglesiente i centosette detenuti verrebbero trasferiti a centinaia di chilometri di distanza con conseguente aggravio della già penosa trasferta che familiari ed amici degli stessi detenuti, devono fare settimanalmente. Il nostro appello - concludono Rubiu ed Oppi - va al presidente Pigliaru, al quale presenteremo un’interpellanza urgente e ai deputati sardi affinché si adoperino presso il Governo Renzi per scongiurare questa scelta". Milano: i detenuti restaurano la Rotonda, poi San Vittore si aprirà al pubblico di Oriana Liso La Repubblica, 18 luglio 2014 La rotonda di San Vittore è un confine invisibile tra il fuori e il dentro: da lì partono i raggi con le celle, soltanto fin lì si può arrivare quando ci sono poche, selezionate iniziative. Ci vorrà l’aiuto economico di Milano e il lavoro qualificato degli stessi detenuti, in aggiunta agli accordi già firmati tra governo, Comune, direzione del carcere e Fai, per realizzare un grande progetto: restaurare la Rotonda e aprirla al pubblico, dandole la dignità di un vero monumento cittadino. I primi esperimenti di apertura al pubblico della Rotonda di San Vittore, negli ultimi anni, hanno avuto molto successo: da quello, più ristretto, della Prima della Scala trasmessa su un maxischermo nel dicembre scorso, alla giornata di primavera del Fai del 2012. Proprio partendo da lì, dall’interesse dei milanesi per il carcere più vecchio della città, è nato il progetto di un accordo appena firmato tra il ministero della Giustizia, quello dei Beni culturali, la direzione della casa circondariale, il Comune e il Fondo italiano per l’ambiente: tutti assieme, ognuno per la sua parte, si impegnano a trasformare quello spazio in un luogo aperto, in osmosi con la città. A lavorare al restauro, imparando dagli artigiani specializzati le tecniche, saranno gli stessi detenuti, frequentando corsi professionali e ricevendo per questo attestati di formazione utili per trovare lavoro, una volta fuori. Un progetto che, però, ha bisogno anche, e in modo sostanziale, dell’aiuto dei privati: a loro si rivolgerà il Fai per trovare i fondi per il restauro della Rotonda e, in un secondo momento, anche per risistemare quelle poche decine di metri di percorso che, da piazza Filangieri, portano al cuore del carcere. Già all’inizio del 2013 l’allora assessore alla Cultura Stefano Boeri aveva studiato l’idea di portare in quello spazio la Pietà Rondanini, immaginando con il Fai un programma di visite guidate: tramontato quel progetto, non si è abbandonata l’idea di valorizzare un luogo che è più di uno snodo, nella geografia del carcere. Di recente è stato già fatto un intervento di risanamento delle coperture, ma c’è ancora da restaurare gli elementi decorativi e pittorici: in mancanza di soldi pubblici (la precedenza, del resto, andrebbe ai reparti) tutti gli attori del progetto hanno deciso di tentare la strada della raccolta fondi attraverso "la sollecitazione della società civile (imprese e privati) al recupero del bene con erogazioni in denaro e donazioni in natura". Un compito che spetterà al Fai, quello di organizzare il restauro del complesso, mentre la direzione di San Vittore sarà poi stazione appaltante per l’affidamento dei lavori, dei servizi e delle forniture e dovrà definire in quale modo i detenuti dovranno essere coinvolti nel restauro della Rotonda (come aiuto per ditte specializzate) perché, si spiega nel protocollo, "è importante acquisire la consapevolezza che la popolazione ristretta è parte del tessuto sociale", quindi bisogna "promuoverne l’occupazione e favorire l’organizzazione di lavorazioni qualificate". Ai ministeri, ovviamente, spetteranno i compiti di supervisione e di coordinamento, considerando i tanti vincoli storici e architettonici di San Vittore, considerato uno degli esempi meglio conservati al mondo di panopticon, ovvero il "carcere ideale" ideato alla fine del Settecento dal filosofo inglese Jeremy Bentham. Un carcere sul quale, negli ultimi decenni, si sono concentrati progetti di ogni genere: dal suo spostamento - forse, tramontato definitivamente - in una ipotetica cittadella della giustizia al suo risanamento totale, seguendo l’idea diffusa che San Vittore sia non soltanto un carcere ma un quartiere in più di Milano. Bologna: sovraffollamento addio il carcere è meno duro, viaggio al Femminile della Dozza di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 18 luglio 2014 Nella sezione femminile del carcere la popolazione è scesa a quota 52. Si vive meglio, ma resta la fame di lavoro. Antonella, Ana, Valentina, Maria, Eugenia e le altre. Sono 52 le donne - e le storie - rinchiuse nella sezione femminile del carcere della Dozza, sceso sotto la soglia delle 680 presenze complessive. Anche al braccio A e al braccio B, al primo piano del padiglione riservato alle detenute, si sente l’effetto dei decreti varati negli ultimi mesi per ridurre il sovraffollamento. Le condannate "definitive", più di una con reati pesantissimi sulle spalle, sono 39. Le "imputabili, appellanti e ricorrenti" in attesa di giudizio, in calo più marcato, 13. Ci si allarga, pur rimanendo con il sistema della camere doppie. Si riorganizzano energie e risorse. Si progetta il futuro prossimo. E si tira avanti con quella dignità che si vede nella cura delle persone e nelle celle, tenute in ordine, colorate con tende e lenzuola allegre, umanizzate da disegni dei figli, cartoline, lettere, santini. Elizabete, 25 anni e il fine pena lontano un’eternità, dal carcere cerca di "prendere il meglio". Ha seguito i corsi di scrittura. È iscritta all’università. Canta nel coro misto Papageno. Gestisce la biblioteca, da volontaria, assieme a Eugenia. Confeziona bambole, le pigotte, per l’Unicef. Divora libri. "La vita fuori continua. Qui rallenta, si ferma. Tu non puoi fermarti. Non devi lasciar passare le occasioni". Anche Brigitte, 51 anni e altri 13 da scontare, ha fame di vita. Ma per lei è più dura che per altre. È ipovedente, dipende totalmente dalla compagna di cella. "Gli educatori e le agenti sono gentili, disponibili - racconta. Ma reggere è davvero difficile. I miei parenti stanno in Belgio. A Bologna non ho nessuno. Non faccio colloqui, non sono in grado di occuparmi di niente, non posso leggere, non riesco nemmeno a lavarmi i vestiti da sola. In che cosa spero? Che mi estradino, come ho chiesto. O che mi dichiarino incompatibile con la detenzione". Vanessa, 25 anni, conta le settimane che la separano dalla libertà. Uscirà l’anno prossimo, intanto spera di poter ricominciare a lavorare dopo una lunga sosta e di riempire il tempo vuoto e sprecato guadagnando qualcosa per sé e per la famiglia. Le occupazioni pagate dall’amministrazione per consentire al sistema di funzionare - pulizie, distribuzione del cibo e del sopravvitto, cucina - sono assegnate a rotazione a nove donne per volta, con turni mensili. La paga arriva al massimo a 400 euro. Una parte, 52 euro, è trattenuta per il mantenimento. Poi è il nulla o quasi. In "lavoro esterno" esce una sola donna, in realtà confinata nel perimetro dell’istituto, stipendiata per tirare a lucido gli uffici e la direzione. La semilibertà è una misura alternativa che non trova applicazione, diversamente che al maschile, perché per ragazze e adulte non arrivano richieste e proposte. Alla sartoria "Gomito a gomito" di "Siamo qua", la cooperativa che ad Annamaria Franzoni ha dato un’occupazione fuori e un robusto appoggio, le assunte sono due. "Se avessimo ordini e commesse, se trovassimo dei committenti, diventeremmo di più e magari si potrebbe aprire un atelier in città, come a Milano". Hanno un contratto di lavoro a domicilio, il carcere. Vengono pagate a pezzo, sebbene il cottimo sia vietato. Selezionano tessuti, progettano e cuciono borse e accessori, stanno quattro ore al giorno nella bottega a piano terra. Valentina, la meno timida, si è appena sposata. Per le nozze, traguardo raggiunto a 34 anni, le hanno concesso un giorno appena di licenza. La luna di miele l’ha dovuta rimandare. E così tanti progetti. Ma sembra avere le idee chiare. Oltre a cucire, disegna e dipinge. Vorrebbe proseguire fuori. Il lavoro, concorda con le altre, è un’ancora di salvezza, uno strumento per tornare e rimanere in carreggiata. Per questo non ci si rassegna, nonostante i posti disponibili, i fondi e le risorse scarseggino. Le idee e la volontà non mancano. Lo spazio c’è, per inventarsi cose nuove. La direzione ha in programma di riaprire il secondo piano e di utilizzare per attività e botteghe gli spazi occupati in passato dagli alloggi delle agenti. Si sta ragionando sulla possibilità di ristrutturare la serra dismessa adiacente al padiglione, o di demolirla e costruirne una nuova, per metterci la sede di un corso di laurea in verde ornamentale o un orto urbano. Al maschile sono in corso i sopralluoghi per la realizzazione del Polo universitario distaccato dell’Alma Mater, una sezione intera, dalla quale le donne resteranno fuori. Ancora non si sa, invece, se verrà aperta un classe femminile dell’istituto di ragioneria Keynes. In caso negativo, dovranno studiare da privatiste, in cella o in biblioteca, rigorosamente separate dagli uomini. Di mandarle al maschile, dove le classi ci sono, non se ne parla. La promiscuità, coro Papageno a parte, alla Dozza rimane tabù. Per problemi logistici e organizzativi, dicono le agenti. E per le resistenze, sostengono altre voci, di quella parte della polizia penitenziaria che fatica a tenere il ritmo del carcere che cambia. Milano: i penalisti scioperano per il "diritto alla difesa", ieri rinviati tanti processi Ansa, 18 luglio 2014 Ieri in Tribunale a Milano numerose udienze sono saltate, con processi aggiornati ad altre date, per l’astensione degli avvocati penalisti milanesi contro il "fenomeno diffuso della violazione del diritto di difesa", indetta dalla Camera Penale milanese, anche sulla base di un grave "caso processuale" che si è verificato lo scorso 20 giugno. Quel giorno un giudice milanese in aula ha detto, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato che se si insiste troppo per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. "Oggi c’è stata un’astensione dalle udienze quasi totale - ha spiegato il presidente della Camera Penale di Milano, Salvatore Scuto - eccetto che, come prevedono i regolamenti, per le udienze con imputati detenuti, per quelle di processi prossimi alla prescrizione e per quelle con misure cautelari in scadenza". Gli avvocati penalisti si sono riuniti anche in un’assemblea a Palazzo di Giustizia per discutere del tema della violazione del diritto di difesa, "perché questa - ha chiarito Scuto - non è un’astensione legata a un caso singolo, noi non vogliamo personalizzare la questione, ma intendiamo denunciare un fenomeno diffuso". All’assemblea sono intervenuti anche alcuni magistrati e il presidente del Tribunale milanese, Livia Pomodoro. "Sono arrivati - ha spiegato ancora Scuto - segnali di apertura da parte dei magistrati di questo Tribunale e c’è stato il riconoscimento dell’esistenza del problema". La Camera Penale aveva indetto l’astensione con una delibera, di cui aveva dato anche conto alla stampa, lo scorso 4 luglio. Biella: FdI; detenuti al lavoro nei Comuni… aderire all’iniziativa finanziata dalla Regione www.laprovinciadibiella.it, 18 luglio 2014 I comuni biellesi si attivino per intercettare i contributi del progetto "Risorsa detenuto". Lo chiedono i rappresentanti di Fratelli d’Italia e La destra di Rosazza, Andorno, Campiglia Cervo, San Paolo Cervo, Ternengo, Magnano e Tavigliano. "Siamo venuti a conoscenza - si legge in una nota stampa dell’esistenza di un contributo regionale che, per il tramite del tavolo Gol della Provincia di Biella, intende attivare cantieri di lavoro nei singoli comuni del Biellese nei quali è prevista la prestazione di attività lavorativa da parte di soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale. I firmatari intendono sollecitare tutti gli enti locali affinché i medesimi si attivino per intercettare i suddetti contributi. "Il progetto - prosegue la nota - risulta di particolare interesse per i singoli comuni i quali dovrebbero versare soltanto il 100% della quota Inps, Inail e dell’assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi. Il versamento dell’indennità giornaliera al singolo lavoratore è a carico della Regione Piemonte così come il 100% dell’importo relativo alla sicurezza sui cantieri. La predetta opportunità per i singoli comuni risulta di particolare interesse in un momento di cronica difficoltà economica degli stessi che non riescono più a far fronte a tutte le spese correnti per il mantenimento delle strade e dell’arredo urbano". ; I firmatari del documento sottolineano anche "la valenza sociale del progetto che tende a strappare al mondo del crimine i soggetti che realmente intendono redimersi impegnando le proprie energie al servizio della collettività". La scadenza per la presentazione delle richieste è prevista per il 22 luglio. L’iniziativa è stata assunta dai consiglieri di minoranza di Rosazza (Francesca Delmastro delle Vedove, Marzio Olivero, Luisa Guala della lista "Fratelli d’Italia"); Andorno Micca (Debora Itilia Fontanella della lista "Centrodestra per Andorno"); Campiglia Cervo (Filippo Tresti, Ottavia Bona, Mario Allara della lista "Gioventù per Campiglia Cervo"); San Paolo Cervo (Marco Caser della lista "Per San Paolo Cervo"); Ternengo (Rita Daniela Veronese della lista "Libertà e Trasparenza"); Magnano (Corrado Giardino della lista "Fratelli d’Italia"); Tavigliano (Marcello Pietrantonio, Salvatore Di Micco della lista "La Destra"). Verranno presentate in questi giorni in tutti i comuni predetti le interrogazioni volte a sollecitare le maggioranze dei singoli Comuni ad una presa di posizione in merito all’adesione al programma mediante apposite richieste alla Provincia. Taranto: ennesimo tentativo di suicidio in carcere, sventato dalla Polizia penitenziaria www.basilicata24.it, 18 luglio 2014 Alle 20,30 circa di ieri sera 16 luglio il detenuto comune G. P. di 44 anni ricoverato già nel reparto infermeria del carcere di Taranto è stato sorpreso e soccorso dalla Polizia Penitenziaria di Vigilanza nei Reparti, mentre dopo aver legato una corda rudimentale alle sbarre della propria cella tentava di impiccarsi. "Il detenuto - si legge in una nota del segretario generale del Csp Mastrulli - con dimostrazione suicida pur non avendo riportato lesioni offre un quadro ancora evidente di una situazione penitenziaria in criticità alta, questo a dispetto delle pubbliche rassicurazioni che pervengono da Ministro Orlando e dal Capo Dipartimento ch2 domani 18 luglio ha convocato tutti i Dirigenti generali e Provveditori Regionali delle carceri italiane a Roma per fare il punto sulla situazione del sovraffollamento condizioni detentive, svolgere una riflessione comune su come meglio governare la popolazione reclusa italiana che si ricorda essere di 58.000 detenuti contro 44.400 posti letto in 230 carceri. Si continuano a salvare vite umane - aggiunge Mastrulli - grazie alla generosa sofferta professionalità della Polizia Penitenziaria che a fronte del D.M. 22.3.2013 di 45.500 agenti, oggi il Corpo viene rappresentato da solo 36.000 unità con una riduzione di 9.500 unità. Solo in Puglia sono 600 le unità mancanti sulle attuali 2.448 unità e di queste quasi 200 a fine anno lasceranno il servizio per quiescenze e riforme Cmo in atto. Bergamo: imprenditore uccise ladro e fu condannato a 6 anni, 10mila firme per la grazia Ansa, 18 luglio 2014 Diecimila firme di cittadini e trecento di rappresentanti istituzionali, politicamente trasversali, sono state raccolte ed inviate al Presidente della Repubblica per chiedere la grazia per un uomo che nel Bergamasco uccise con una fucilata dal balcone un ladro che gli stava rubando il Suv in cortile. Si tratta di Antonio Monella, un imprenditore edile di 52 anni condannato definitivamente a sei anni per l’omicidio avvenuto otto anni fa ad Arzago D’Adda (Bergamo). Il responso della Presidenza della Repubblica, secondo il comitato organizzatore, sarebbe atteso in poche settimane. A scendere in campo per redigere la richiesta di grazia sono stati diecimila concittadini del 52enne, che si sono riuniti in un comitato, coordinati dal Sindaco di Arzago D’Adda, Gabriele Riva, che è anche segretario provinciale di Bergamo del Pd, così come trecento rappresentanti delle istituzioni tra consiglieri comunali, sindaci e parlamentari di Forza Italia, Lega Nord e Scelta Civica. Insieme hanno redatto e presentato la richiesta di grazia, inviata al Presidente della Repubblica, passando per il Tribunale di Sorveglianza ed il Ministero di Giustizia. Il 6 settembre 2006 nella sua villa Antonio Monella sparò e colpì Ervis Hoxa, un albanese di 19 anni, uccidendolo. Condannato nel marzo scorso a sei anni e due mesi per omicidio volontario (sentenza confermata in Cassazione) e al risarcimento di 150mila euro ai familiari della vittima, Monella non è ora in carcere. "Abbiamo richiesto ed ottenuto sei mesi di sospensione del provvedimento di custodia in carcere in virtù della richiesta di grazia inviata al Magistrato di Sorveglianza - spiega il suo avvocato, Andrea Pezzotta - La richiesta dovrebbe essere stata già trasmessa al Ministero di Giustizia, e a breve dovrebbe arrivare al Presidente della Repubblica che prenderà una decisione". "Stiamo seguendo la vicenda ad ogni suo passo, e sono scese in campo figure politiche di colori differenti - commenta Daniele Belotti, segretario provinciale della Lega Nord di Bergamo - Riteniamo che chi si trova dei rapinatori in casa, abbia diritto di difendersi". La Lega Nord ha presentato un progetto di legge per il gratuito patrocinio di cittadini residenti in Lombardia processati per casi analoghi: "Chiediamo che la Regione Lombardia si faccia carico delle spese legali di coloro che si trovano coinvolti in situazioni del genere - spiega il consigliere regionale Massimiliano Romeo - Abbiamo presentato il progetto di legge a seguito di questa vicenda". Potenza: porta hascisc a fratello in carcere scoperto da Polizia penitenziaria e denunciato Ansa, 18 luglio 2014 Aveva nascosto qualche grammo di hashish nei calzini, per poter eludere i controlli e passare la droga al fratello, detenuto nel carcere di Potenza: ma è "incappato" nelle unità cinofile del distaccamento di Trani della Polizia penitenziaria, impegnate in verifiche di routine, che hanno scoperto l’involucro. La vicenda è stata resa nota dal segretario lucano del Sappe (sindacato autonomo Polizia penitenziaria), Saverio Brienza. L’uomo, denunciato all’autorità giudiziaria, doveva incontrare il fratello detenuto a Potenza, e aveva una piccola quantità di hashish anche nella sua automobile. "Il fenomeno della consegna di droga in carcere - ha spiegato Brienza - non è isolato, e in tutto il Paese si verificano casi simili, e il Sappe per questo invita l’amministrazione Penitenziaria ad assumere un ruolo di grande responsabilità e potenziare le unità cinofile". Francia: sì all’uso del telefono cellulare per i detenuti, ma uso limitato ad alcuni numeri Ansa, 18 luglio 2014 "Si al telefono cellulare per i detenuti": la neo-controllore generale francese per i luoghi di detenzione, Adeline Hazan, si è detta favorevole all’uso del telefono cellulare in prigione, "a condizione di limitarne l’uso a qualche numero di telefono soltanto". Intervistata da France Inter, Adeline Hazan ha anche detto che "bisogna fare in modo che i detenuti non taglino i ponti con il loro ambiente (famiglia, amicizie, mondo professionale, etc.) in modo da preparare nelle migliori condizioni la loro uscita e dunque limitare i rischi di recidiva". Quanto al sequestro massiccio di cellulari nel penitenziario di Baumettes (Marsiglia), questo "prova che il divieto non serve a granché". In Francia, i telefoni cellulari vengono vietati ai detenuti, che però hanno accesso ai telefoni fissi, spesso sotto controllo del personale penitenziario. Immigrazione: Cie Torino, a ottobre gestione passa da Croce Rossa a società di Agrigento Ansa, 18 luglio 2014 Monica Cerutti, Assessore regionale della Giunta Chiamparino con delega all’Immigrazione, continuerà a monitorare la situazione del Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino, come ha fatto in passato nella veste di consigliera regionale di Sel. Lo annuncia Cerutti stessa, dopo avere visitato il Centro insieme al nuovo garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano. "Ci è stato riferito - dice Cerutti - che la capienza del Cie è di 50 posti su un totale iniziale di 210. Le persone presenti oggi dentro il centro erano 40, tutti uomini perché l’area femminile è stata dismessa. Il tempo medio di permanenza è stimato in 33 giorni, mentre la percentuale di rimpatri sfiora il 60%, circa il 10% in più del dato nazionale". "I rappresentanti della Questura - aggiunge - ci hanno detto che è in atto un tentativo di identificazione in carcere di coloro che hanno una pena inferiore ai due anni, fatto reso possibile grazie alla cosiddetta svuota carceri, per cui questi verrebbero espulsi invece di subire la detenzione. Nei prossimi giorni chiederemo i dati su questo provvedimento". "Da ottobre - aggiunge - il Cie di Torino non sarà più gestito dalla Croce Rossa ma da una società di Agrigento. In questi anni abbiamo monitorato la situazione con attenzione, constatando una gestione dignitosa. Monitoreremo anche la nuova gestione perché convinti che fino al giorno in cui queste strutture non saranno chiuse le persone al loro interno debbano essere trattate nel rispetto dei loro diritti". India: caso marò; una lettera di protesta dai militari "governo incapace" di Maria Giovanna Maglie Libero, 18 luglio 2014 Può un ministro degli Esteri l’arsi dire da rappresentanti delle Forze Armate esasperati che 0 governo del quale fa parte è incapace di difendere i propri diritti, e ancora aspirare al ruolo di capo della politica estera europea? Nel giorno terribile in cui la guerra che è anche dell’Europa uccide 290 persone che avevano preso un volo di linea dall’Europa pensando di andare in vacanza, nel giorno di un’Ustica seconda purtroppo chiara a tutti, ci pensa un’audizione dei Cocer della Marina Militare Italiana a far piazza pulita delle grandi arie di presunzione, delle troppe chiacchiere a vuoto del governo di Matteo Renzi. L’esasperazione legittima, perfino tardiva, dei militari italiani colpisce con la stessa forza il presidente del Consiglio che chiede rispetto per il Paese e per i suoi voti di partito di successo, ma dimentica di nominare i marò nel discorso di inaugurazione del semestre italiano in Europa; il ministro degli Esteri, Mogherini, che il governo insiste a proporre come mister Pesc, nonostante al discredito europeo ora si accompagni quello nazionale; infine per un ministro della Difesa, Pinotti, che al pari di premier e collega degli Esteri, era partita lancia in resta con grandi dichiarazioni di impegno per risolvere rapidamente la vicenda di Massimiliano La-torre e di Salvatore Girone, e che poi niente ha fatto e sta facendo, mentre chissà perché imperversano le voci che la vorrebbero gradita al Quirinale per la successione, ruolo evidentemente divenuto dinastico. La brutta storia A chi dovesse obiettare che la brutta storia della detenzione illegale di due militari in India, rei di aver difeso una petroliera italiana in missione antipirateria, è stata ereditata dai due precedenti governi, i disastrosi Monti e Letta, si risponde agevolmente che questo governo assai più di quelli precedenti, che gestivano evidentemente e prevalentemente affari tanto da costringere un ministro onesto come Giulio Terzi a clamorose dimissioni, almeno non ci hanno e non hanno raccontato ai marò, alle famiglie, ai militari italiani, le clamorose balle esibite dal trio di cui sopra. Ricorderete telefonate a Delhi, dichiarazioni bellicose, annunci che si cambiava metodo, verso, preferiscono dire i renziani d’assalto. Bene, nessun cambiamento diverso, solo una serie di promozioni inopportune per il rappresentante del disastro politico diplomatico italiano, Staffan De Mistura; solo la pomposa nomina di un responsabile inglese a capo di un sedicente comitato internazionale, che non ha mai prodotto il ricorso sacrosanto in base al diritto internazionale che peraltro era pronto da tempo; solo infine, ed è la cosa più infame, un rapido e progressivo distacco e disinteresse dal problema, ritenuto risolto con la solita politica degli annunci, comunicazioni sibilline alle famiglie, informazioni false sulla colpevolezza dei due, lasciate circolare dagli ambienti ministeriali. Lo sdegno Ecco, ieri a questo comportamento i Cocer in audizione hanno risposto con il dovuto sdegno, e si potrà anche fingere che sia stata un’occasione formale, e nasconderla informandone malamente, ma resta un fatto gravissimo e preoccupante, come sempre quando si spezza il rapporto di fiducia tra Forze Armate, Governo e Parlamento di una nazione. Dovrebbe esserne consapevole il comandante supremo della Forze Armate, ovvero il presidente della Repubblica, inusitatamente taciturno da due anni e mezzo. È andata così. "Massimiliano Latorre e Salvatore Girone erano in servizio per conto dello Stato, in acque internazionali, e per questa doppia ragione la loro immunità funzionale deve essere riconosciuta e difesa", ha affermato il Cocer della Marina Militare ascoltato ieri mattina, dalla Commissione Difesa della Camera insieme ai colleghi del Cocer Interforze, in merito alla situazione dei fucilieri trattenuti in India. "L’Italia ha purtroppo dato al mondo intero l’immagine di un Paese che opera in campo internazionale in modo improvvisato, incapace di difendere i propri diritti anche perché vincolato da logiche che ci vedono soccombenti nei confronti di Paesi di elevato interesse economico-commerciale". Secondo i rappresentanti militari "occorre fare un cambio di passo nell’interesse dei Fucilieri e dell’Italia. La mancanza di un cenno su questa vicenda da parte del Presidente del Consiglio, in occasione dell’avvio del semestre europeo a guida italiana, è apparso agli occhi dei delegati un segnale di scarsa volontà da parte del Governo nell’affrontare con la determinazione che il caso richiede la difficile situazione". I rappresentanti dei militari affermano esplicitamente che "portare a casa con dignità e onore Massimiliano e Salvatore deve essere per tutti una priorità", e dunque chiedono "ai commissari di continuare nelle azioni annunciate dal Presidente della Commissione Difesa Elio Vito", ovvero la convocazione del "Presidente del Consiglio e dei Ministri degli Esteri e della Difesa, da parte delle Commissioni Difesa di Camera e Senato, alla presenza del Cocer di Marina e di Interforze, per essere informati sulle azioni che il Governo sta svolgendo e che intenderà svolgere". I lettori capiranno che non sarà, o non sarebbe perché lo voglio vedere Renzi a presentarsi, una passeggiata rispondere in modo convincente. Il Cocer, ricordando che la pirateria è una battaglia non certo e non solo italiana, e che a qualcosa dovrebbe pur servire la storiella dell’importanza storica di presiedere per sei mesi l’Unione Europea, chiedono anche di "coinvolgere le istituzioni europee, affinché supportino con maggiore energia e convinzione l’Italia nella risoluzione del caso, consci che la problematica sulla immunità funzionale del personale dello Stato che opera in scenari internazionali è un problema comune" ed effettuare, quanto prima, "una nuova visita a Massimiliano e Salvatore". Forse non cambierà niente nella palude in cui viviamo, ma era ora che i militari si facessero sentire. Stati Uniti: detenuti in isolamento per anni in carcere di massima sicurezza del Colorado di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 luglio 2014 Provate a immaginare di trascorrere 22 ore al giorno, se non tutta la giornata, in una cella di cemento, chiusa da un portone di metallo, senza poter parlare con nessuno, consumando il pasto su uno sgabello bloccato al pavimento (così come la branda e la scrivania). Provate a immaginare di trascorrere così otto anni e due mesi. È la durata media dell’isolamento nell’unica prigione federale di "supermassima" sicurezza di Florence, Colorado, Usa, conosciuta come Adx Florence, cui è dedicato un nuovo rapporto di Amnesty International. In quel supercarcere ci sono detenuti giudicati pericolosi o condannati per reati gravi, anche di terrorismo. Ma il trattamento cui sono sottoposti va ben oltre le legittime misure restrittive. È una procedura cinica, crudele e disumana, equivalente a tortura, vietata dal diritto internazionale. L’impatto sulla salute fisica e mentale dei detenuti è tremendo: ansia, depressione, insonnia, ipertensione, paranoia estrema, alterazione della percezione sensoriale e psicosi. Alcuni detenuti dell’Adx Florence si sono gravemente feriti o hanno commesso suicidio. Nel settembre 2013 un prigioniero con un passato di malattia mentale si è impiccato all’interno della sua cella d’isolamento, dove vi aveva trascorso oltre 10 anni ricevendo cure solo a intermittenza. Nei giorni precedenti la sua morte, aveva manifestato sintomi psicotici ampiamente ignorati dalla direzione del carcere. Nel 2011 Juan Mendez, relatore delle Nazioni Unite sulla tortura, ha chiesto a tutti gli stati di porre fine all’isolamento salvo circostanze assai eccezionali e per il più breve periodo di tempo possibile e di stabilire un divieto assoluto nei confronti dei minorenni e delle persone con disabilità mentale Gli Usa non intendono dare seguito a questa richiesta. Anzi. Amnesty International ha rilevato con preoccupazione come il governo intenda espandere l’uso dell’isolamento nel sistema delle prigioni federali, tra cui quella di Thompson, Illinois. Altre strutture federali già ricorrono all’isolamento prolungato, dopo la condanna e persino in detenzione preventiva, come nel caso del Metropolitan Correction Centre di New York, conosciuto come la "piccola Guantánamo", dove i prigionieri possono restare mesi o anche anni prima di essere processati, con scarso accesso alla luce naturale e nessuna possibilità di fare esercizio fisico all’aperto. Stati Uniti: eseguita pena di morte in Missouri, è la sesta esecuzione del 2014 La Presse, 18 luglio 2014 Le autorità del Missouri hanno eseguito la pena di morte nei confronti di un detenuto condannato per aver ucciso tre persone nel 1995. Il 54enne John Middleton ha ricevuto la notte scorsa un’iniezione letale di pentobarbital. Si è trattato della sesta esecuzione nel Missouri dall’inizio dell’anno; soltanto gli Stati del Texas e della Florida hanno eseguito un numero maggiore di esecuzioni quest’anno. Middleton, ex spacciatore di metanfetamina, era stato condannato per aver ucciso Randy Hamilton, Stacey Hodge e Alfred Pinegar per timore che i tre potessero denunciarlo alla polizia. Fino alla fine l’uomo ha sostenuto che un’altra persona fosse responsabile degli omicidi. "State uccidendo un uomo innocente", ha affermato nella sua dichiarazione finale. "Stanotte abbiamo visto la conclusione di un caso che dimostra come la metanfetamina possa avere un impatto mostruoso sulle vite di così tante persone", ha commentato il governatore del Missouri, Jay Nixon. Stati Uniti: il Pentagono pronto a trasferire 6 detenuti di Guantánamo in Uruguay La Presse, 18 luglio 2014 Il Pentagono ha informato il Congresso Usa la settimana scorsa di voler trasferire sei detenuti di Guantanamo in Uruguay. Lo hanno riferito alcuni ufficiali, rimasti anonimi, precisando che prima del trasferimento devono passare almeno 30 giorni dalla notifica al Congresso. Il presidente uruguaiano José Mujica aveva criticato nei mesi scorsi il trattamento riservato ai detenuti a Guantánamo, affermando di essere pronto ad accogliere alcuni di loro, ma sottolineando al tempo stesso che sarebbero liberi di lasciare il Paese sudamericano. Secondo il New York Times, tra i sei prigionieri che il Pentagono vuole trasferire ci sono quattro siriani, un palestinese e un tunisino. Attualmente nella base di Guantánamo sono detenute 149 persone. Sarebbe il primo trasferimento di detenuti del centro dal rilascio di cinque ex comandanti talebani a maggio in cambio della liberazione del soldato Usa Bowe Bergdahl. In quel caso l’amministrazione non aveva informato il Congresso con 30 giorni di anticipo, suscitando le ire dei parlamentari.