Giustizia: nessuna riforma è possibile… altrimenti scorrerà il sangue di Piero Sansonetti Il Garantista, 15 luglio 2014 I giudici vogliono una vittoria piena. Come quella della Germania sull’Argentina, Questa settimana è la settimana decisiva per l’offensiva contro la politica. Qual è l’obiettivo? A occhio e croce rendere chiaro che nessuna riforma della giustizia è possibile, altrimenti scorrerà il sangue. Ieri i Pm hanno inaugurato la settimana con l’avviso di garanzia a Roberta Maroni. Lo accusano - se ho capito bene - di avere raccomandato a una società privata l’assunzione a termine - sei mesi - di due ragazze che conosceva. Poi giovedì sarà la giornata clou. La Camera dovrà votare per l’arresto di Galan, nei guai per il Mose di Venezia, e intanto il processo Ruby - l’appello - si avvicinerà alla conclusione, Sono ore decisive, Domenica il partito dei Pm aveva subito una brutto schiaffo, da Dubay, dove la Corte si è messa a ridere quando ha letto "concorso esterno in associazione mafiosa" e ha risposto di non poter concedere l’estradizione dì Matacena per un reato così strampalato. Eppure i codici arabi, talvolta, sono anche loro piuttosto strampalati e medievali, evidentemente non fino al punto da presupporre che uno possa far parte di una associazione senza farne parte. Il voto alla Camera su Galan sarà davvero molto importante. Perché lì toccherà alla politica accettare il diktat, e arrendersi ai Pm, o tentare di combattere, e dì affermare alcuni principi, tipo quello - ormai in disuso - della divisione dei poteri e dell’indipendenza del Parlamento da Palazzo di Giustizia. Se la politica subirà il comando dei Pm ("lasciateci arrestare un deputato, Galan, anche se non esistono ì presupposti e anche se l’arresto è chiaramente illegale") dopo avere negli anni scorsi accettato in diverse altre occasioni analoghe di genuflettersi alla magistratura, allora i magistrati potranno ben immaginare di aver vinto la partita, definitivamente, dì avere sotto scacco il sistema democratico e di potere tranquillamente imporre la non riforma della giustizia. Il passo successivo sarà la condanna di Berlusconi, colpevole di aver fatto sesso senza far sesso con la ragazza Ruby (si potrebbe immaginare eventualmente il reato dì concorso esterno in associazione orgiastica). La condanna di Berlusconi, che già è ai servizi sociali e - ammonito dal giudice di sorveglianza dì Milano - rischia di finire in cella, sarà l’atto con il quale si mette in stato oggettivo di intimidazione l’unico partito politico che spinge per la riforma, cioè Forza Italia. Era tanto tempo che nella lotta politica non entrava, come strumento di pressione, la minaccia dì arresto. Ora è così. Il rischio è che la sinistra, come ha fatto tante volte negli anni passati, non capisca che la posta in gioco è l’equilibrio democratico; e immagini che questa offensiva della magistratura possa essere utile per asfaltare definitivamente il centrodestra, e che valga la pena di assecondarla, Matteo Renzi negli ultimi mesi ha dato qualche segno di risveglio, sul piano del garantismo. Si è spinto fino a pronunciare questa parola senza mostrare sdegno. Però mi sembra ancora molto incerto. Io dubito, francamente che abbia il coraggio di sfidare la magistratura e dì difendere i diritti della politica, cioè della democrazia (cioè nostri) in un momento nel quale difendere la politica vuol dire perdere consenso. Non mi aspetto che il Pd voti contro l’arresto di Galan. Mi accontenterei se qualche deputato di sinistra, coraggioso, intrepido, dichiarasse apertamente il suo dissenso dal partito. Sarebbe come un segnale, un lampo nella notte buia delle manette. Giustizia: un Manifesto "No prison" per ripensare e superare il carcere così come pensato Ansa, 15 luglio 2014 Un Manifesto "No prison" per ripensare e superare il carcere così come pensato, in quanto è solo "un dispensatore di sofferenza". È l’iniziativa lanciata ieri a Firenze e ideata da Livio Ferrari e Massimo Pavarini (rispettivamente direttore del centro francescano di ascolto di Rovigo e professore di diritto penitenziario all’Università di Bologna), che è stata presentata insieme al garante de detenuti della Toscana Franco Corleone. Le idee contenute nel manifesto, è stato annunciato, saranno alla base di un convegno internazionale che si terrà nel capoluogo toscano a fine novembre nei giorni della Festa della Toscana che ogni anno celebra l’abolizione, per la prima volta in Italia, della pena di morte e della tortura. Secondo Corleone, il manifesto "è il punto di partenza di una riflessione sul fatto che il carcere risponda effettivamente a ciò per cui è stato creato o se bisogna immaginare delle pene diverse e efficaci rispetto agli obiettivi della Costituzione, rispetto alla costrizione in carcere". "Da 25 anni - ha detto Ferrari - opero nel mondo del carcere e questo manifesto era per me un dovere. Non si può partire dall’idea di una pena e di un carcere che rieducano quando questo viene fatto attraverso un’azione di violenza. Non si arriva al bene attraverso il male. Solo le misure alternative mantengono alto il livello di non recidiva". Il manifesto, suddiviso in 20 punti, sottolinea come "il carcere ha clamorosamente fallito ogni finalità preventiva della pena" e "viola sistematicamente i diritti fondamentali delle persone" e la dignità umana dei condannati. Secondo il manifesto "per educare le persone alla legalità e al rispetto delle regole è necessario che anche le regole siano rispettose delle persone" per questo "è ormai evidente che le prigioni devono essere chiuse per fare spazio ad altro che sia effettivamente rispettoso dei diritti anche delle persone che si sono rese responsabili di gravissimi delitti". Giustizia: decreto legge sul risarcimento delle torture carcerarie, ennesima buffonata di Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 15 luglio 2014 Se il nostro Paese pensava - dopo aver sfangato l’ennesima condanna da parte della Cedu (Corte Europea per i diritti dell’uomo) soltanto rimandano il discorso al prossimo anno - di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri con il decreto legge 42/2014, presto si renderà conto di essersi sbagliato di grosso. Soltanto tre giorni fa è entrato in vigore la nuova direttiva e già piovono critiche su critiche. In primis il decreto prevede lo sconto (oltre al risarcimento di 8 euro al giorno) di pena di un giorno per ogni detenuto che, secondo i parametri dell’Ue, costituisce "tortura". E quali sono questi parametri? La carcerazione vissuta in uno spazio inferiore a 7 metri quadrati. Viene da sorridere però perché le celle delle nostra patrie galere, almeno la stragrande maggioranza, non sono più grandi, in media, di 3 metri quadrati. Di conseguenza, ad essere torturati ogni giorno (e dunque risarciti) sarebbero praticamente tutti i detenuti che affollano le carceri. In secondo luogo, l’approvazione di quanto previsto dal nuovo decreto legislativo, approvato ancora non si sa per quale motivo, è impossibile anche per altri motivi. Sia lo sconto di pena che il risarcimento non possono essere automatici. Perché? È impossibile quantificare quanti giorni reali un detenuto abbia subito di "tortura" se il "galeotto" in questione - come spesso capita- viene più volte trasferito da un carcere all’altro. Senza contare il fatto che, per analizzare i singoli casi di circa 50 mila reclusi, ci vorrebbero almeno centinaia di giudici. E solo pensarla questa cosa è inverosimile, vista anche la lentezza dei magistrati e dei processi che devono giudicare una persona colpevole o no. Quelle persone, per intenderci, che sono in carcere preventivamente in attesa di giudizio. Se il Governo italiano pensava di sfuggire alla condanna della Cedu e sottarsi alle salatissime multe cui saremo sicuramente destinati a pagare, questo decreto legge rappresenta un autentico autogol. L’ennesimo in materia di carceri. C’è un altro dato che certifica la strategia folle dell’Italia ed è quello relativo ai soldi stanziati per i "risarcimenti": 20 milioni di euro. Denaro che potrebbe essere investito tranquillamente per migliorare le condizioni fatiscenti delle nostre strutture carcerarie. Invece no, si preferisce dare soldi ai detenuti, piuttosto che farli vivere in una situazione quantomeno più dignitosa. Giustizia: per mafia e stalking niente sconti, carcere anche per le condanne fino a tre anni di Simona D’Alessio Italia Oggi, 15 luglio 2014 Condannati per crimini "ad alta pericolosità sociale" (mafia, rapina, stalking, ecc.) con pene fino a tre anni rimarranno dietro le sbarre. E spetterà al giudice stabilire se i minorenni, che hanno raggiunto in carcere la maggiore età, possano scontare diversamente quanto loro inflitto. Sono le novità presentate ieri in Commissione giustizia a Montecitorio da Davide Ermini del Pd, relatore del decreto 92/2014 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Cedu, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile) le cui proposte di modifica saranno votate da oggi, per consentirne l’arrivo in Aula la prossima settimana; cuore del provvedimento l’indennizzo di reclusi sottoposti a condotte inumane per un periodo pari, o superiore a 15 giorni, mediante riduzione della pena del 10% del lasso temporale durante il quale è stato esercitato il "pregiudizio" ma, in caso il periodo non sia tale da applicare la misura, il magistrato di sorveglianza liquiderà la somma forfettaria di "8 euro al giorno". "Affronteremo il tema della custodia cautelare in modo completo, non possiamo più permettere che in Italia ci sia un terzo di persone in cella in attesa di giudizio", sottolinea Ermini a Italia Oggi, sostenendo che "nel pacchetto giustizia", su cui il governo scioglierà la riserva fra fine agosto ed inizio settembre, "ci dovrebbero essere interventi in questa direzione". Fra le correzioni, una precisa che non possono essere disposti arresti domiciliari in mancanza di un luogo di esecuzione della pena certo, un’altra affida alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria la concessione di misure alternative alla permanenza in prigione ai giovani nella fascia 21-25 anni che hanno commesso reati da minorenni, "qualora non destino particolare allarme e valutando la loro personalità". E viene inserita una limitazione a quanto si legge nel decreto, ossia che il carcere preventivo non può essere applicato se il magistrato ritiene che la pena non sarà superiore ai 3 anni: l’emendamento chiarisce che di tale beneficio non usufruirà chi si è macchiato di reati gravi "dall’estorsione alla rapina aggravata, ai delitti di mafia e terrorismo, fino allo stalking"; inoltre, si anticipa lo stop delle funzioni del commissario per l ‘edilizia penitenziaria dal 31 dicembre al 31 luglio, perché la materia "può essere riportata nel le mani dell’amministrazione ordinaria". Preannuncia battaglia (e ostruzionismo in Assemblea) la Lega Nord, il cui capogruppo in II Commissione Nicola Molteni deposita 153 emendamenti chiedendo, fra l’altro, di "spostare i 20 milioni previsti dal decreto per risarcire i detenuti al fondo per le vittime dei reati, nonché per sostenere l’operato di forze dell’ordine e polizia penitenziaria". Giustizia: i reati ad "alto allarme sociale" non rientreranno in divieto di custodia cautelare Agi, 15 luglio 2014 I reati ad alto allarme sociale non rientreranno nel divieto di custodia cautelare in carcere in caso di pena non superiore ai 3 anni. Lo prevede un emendamento presentato dal democratico David Ermini al decreto legge sui rimedi risarcitori a favore dei detenuti. In base a quanto attualmente sancito dal decreto, il carcere preventivo non può essere applicato se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva non sarà superiore ai 3 anni. L’emendamento di Ermini, relatore del provvedimento in commissione Giustizia alla Camera, stempera l’automatismo stabilendo che tale norma non vale per i delitti ad elevata pericolosità sociale, come per esempio i reati di mafia e terrorismo, rapina ed estorsione, furto in abitazione, stalking e maltrattamenti aggravati in famiglia. E non solo: secondo l’emendamento di Ermini, si potrà ricorrere alla custodia cautelare in carcere anche nel caso in cui non siano possibili gli arresti domiciliari per mancanza di un luogo idoneo. "Sono alcune utili correzioni - spiega il deputato Pd - alla luce dei suggerimenti rivolti al legislatore nel corso delle audizioni. Il nostro obiettivo, come sempre, è quello di migliorare un testo in sintonia con quanto emerge nel confronto con gli operatori della giustizia. Credo che, una volta approvato l’emendamento, avremo una norma di buon equilibrio tra garanzie dell’imputato ed esigenze di sicurezza dei cittadini". Il decreto legge, già calendarizzato in aula per la prossima settimana, sarà esaminato dalla commissione Giustizia a partire da domani. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); questa non è una vera riforma... serve molto altro di Maurizio Tortorella Panorama, 15 luglio 2014 Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle camere penali italiane, boccia la proposta in 12 punti del governo Renzi: "Serve molto altro". "Mettiamola così: il progetto contiene alcune enunciazioni condivisibili. Ma nell’insieme è decisamente "pochino" per definirlo una vera riforma". A Valerio Spigarelli, avvocato romano e dal 2010 presidente dell’Unione delle camere penali, basta questa breve premessa per colorare di scetticismo i 12 punti del "progetto di riforma della giustizia" presentato il 30 giugno dal Guardasigilli Andrea Orlando e sbandierato dal premier Matteo Renzi come "svolta epocale". Insomma, avvocato Spigarelli: ancora una volta... non arriverà la svolta? Questa non è una riforma strutturale della giustizia. Da anni si parla di "grandi svolte", ma qui non c’è nulla che attenga alla struttura costituzionale, al titolo IV: per esempio, non si propone nulla di veramente incisivo sul Consiglio superiore della magistratura; nulla sulla terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa; nulla sulla favola dell’obbligatorietà dell’azione penale. Anzi, semmai noto che c’è una piccola marcia indietro: i "saggi", convocati nel 2013 da Giorgio Napolitano, avevano proposto un’Alta corte di disciplina separata per tutte le magistrature, mentre al punto numero 7 della "riforma" il ministro oggi pare volerla creare esclusivamente per la magistratura amministrativa e contabile. Però ai punti 4 e 5 si parla del Csm: si dice che la carriera dei magistrati dev’essere basata sul merito e non sulle correnti, e che nel Consiglio dev’essere separato il ruolo di chi fa le nomine delle toghe e di chi applica le sanzioni. Non basta. Il vero problema della giustizia italiana è che la terzietà del giudice non solo non è garantita, non c’è proprio. Il giudice resta contiguo al magistrato inquirente, ne condivide la istanze volte ad affermare la pretesa punitiva dello Sato e anzi se ne fa spesso carico in prima persona. A dimostrarlo è anche l’altissimo numero di provvedimenti di custodia cautelare: l’Italia è il solo paese europeo dove i detenuti in attesa di giudizio superano il 40% del totale. E la motivazione prevalente è quella del pericolo della reiterazione del reato: proprio perché il giudice condivide in pieno l’idea che il processo sia uno strumento di difesa sociale, non di risoluzione di una singola vicenda che contrappone lo Stato a un singolo imputato. Lei sa, vero, che gli avvocati milanesi sciopereranno giovedì 17 luglio proprio perché in udienza un giudice ha dichiarato che, se fossero continuate le convocazioni di testi della difesa a suo parere "inutili", in caso di condanna sarebbe stato "più duro" con gli imputati? E hanno ben ragione di protestare. Questo problema emerge con forza anche dal saggio "I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia" (Cedam, 224 pagine, 22 euro), curato dal grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico e sponsorizzato dall’Unione delle camere penali. Nel corso del 2013 sono stati intervistati 1.265 penalisti italiani e il libro è appena uscito. Sa che cosa racconta? Un disastro? Che nel 72,9% dei casi il giudice accoglie "sempre o quasi sempre" una richiesta d’intercettazione avanzata dal pm, e un altro 26% dice che questo accade "di frequente". Che il giudice è "più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del difensore": per gli avvocati è così nel 58 per cento dei processi "ordinari" e la quota sale al 71 nei procedimenti "rilevanti", quelli più importanti e più seguiti dai mass media. Ne esce che l’iscrizione ritardata nel registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli avvocati. Si scopre che molti di loro denunciano di essere non soltanto intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade "sempre" o "di frequente" nel 28,9 per cento dei casi, e "a volte" nel 42,2 per cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene perfino trascritta ed utilizzata negli atti. Si scopre che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in aula dei testimoni, il giudice pone "domande suggestive": una pratica espressamente vietata dal codice di procedura penale a tutela del diritto di difesa. E quali sono le soluzioni che proponete voi avvocati penalisti? Separare le carriere. E separare il Csm: due Consigli che decidono su carriere in modo separato per giudici e magistrati inquirenti. Poi un’Alta corte di disciplina, competente sulle violazioni disciplinari dei magistrati e anche degli avvocati in grado di appello. E perché non una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie, dopo la laurea? Alla fine, chi ne esce sceglie se fare il pm, il giudice o l’avvocato. Servirebbe anche per dare una qualche ventilazione alla magistratura e creare una comune cultura delle regole. Altri elementi di debolezza della proposta in 12 punti del governo? Al punto 9 leggo: "accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione". Ecco: chi non è d’accordo con lo slogan sui tempi? Ma il problema è proprio questo: in questi 12 punti io vedo soltanto slogan, se non battute. Il punto è che per tanti anni abbiamo avuto un premier che faceva battute e poi, purtroppo, non faceva le riforme che vagheggiava. Quello era l’originale: non vorrei che Renzi fosse l’imitazione. Slogan per intercettare la voglia di cambiamento e poi nessun atto concreto Ma torniamo al processo penale e alla prescrizione: lei sa dov’è che si prescrivono, soprattutto, i processi italiani? Dove: in primo grado? In Corte d’appello? Sorpresa. Nelle indagini preliminari: il 60% delle prescrizioni avviene lì, quando il fascicolo è ancora sul tavolo del pm! Il problema è che la stessa obbligatorietà dell’azione penale è una favola: a Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino, i procuratori hanno stabilito regole discrezionali per la gestione dell’arretrato, con canali preferenziali per questo o per quel tipo di reati. Ma perché ogni Procura deve andare per la sua strada? Non sarebbe meglio che la fosse la politica a indicare i reati da perseguire in modo prioritario, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, davanti agli elettori? Poi, a complicare ancora le cose e a garantire la prescrizione, c’è la lentezza della burocrazia tribunalizia… Già. Lei sa a Roma quanto ci mette in media un fascicolo a passare dal Tribunale alla Corte d’appello? No, quanto? Sono appena 50 metri a separare i due uffici: ma la durata media per la trasmissione degli atti è 8 mesi. La prescrizione avviene nell’8% dei casi per "colpa" dell’avvocato o dell’imputato, ma nel restante 92% dei casi arriva per défaillance dello Stato. Per questo servirebbe davvero una riforma, non banali enunciazioni di principio. Intanto la magistratura associata è comunque sul piede di guerra: ma la politica ce la farà mai a varare una riforma della giustizia veramente autonoma? Per troppi anni la politica ha affidato le chiavi di ogni riforma in materia all’ordine giudiziario: è ovvio che quell’ordine apre e chiude le porte a seconda delle proprie convenienze. Oggi che la sinistra è al governo, però, il problema emerge. Lo stesso Giovanni Fiandaca, il giurista siciliano che il Pd ha candidato alle ultime elezioni europee (e che ora potrebbe andare al Csm, ndr) dice che vorrebbe un paese dove chi fa le leggi fa le leggi, e chi fa il giudice si limita ad applicarle. Ecco, io spero che la politica riaffermi il suo primato, uscendo dalla tutela dell’ordine giudiziario. Ma deve fare meglio di così. Molto, molto meglio. Giustizia: "messa alla prova" a esame Cassazione, da valutare se può essere retroattiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2014 Alle Sezioni unite della Cassazione la decisione sull’applicazione della messa alla prova per i processi in corso. Ieri la Quarta sezione penale con ordinanza n. 30599 ha rinviato la questione mettendo in evidenza però un netto favore per quella che viene definita la "soluzione più garantista", quella dell’applicabilità immediata dell’istituto anche ai fatti pregressi e per i giudizi pendenti. La messa alla prova, come causa di estinzione del reato e come possibilità di definizione alternativa del procedimento penale, è stata introdotta (al di fuori del processo ai minori) con la legge n. 67 del 2014 ed è entrata in vigore a partire dal 17 maggio. Tra gli obiettivi principali, come avverte la pronuncia, da una parte l’offerta di un percorso di reinserimento ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale, come attestata dal fatto che prima della concessione serve una valutazione che esclude il rischio di recidiva. In questo senso il modello del processo per i minorenni resta valido, ma non esaustivo della portata dell’innovazione visto che si deve aggiungere almeno la funzione deflattiva dei procedimenti penali attraverso l’estinzione del reato dichiarata dal giudice in caso di esito positivo della prova. La Cassazione riconosce che la legge 67/14 presenta "evidenti difficoltà interpretative" in assenza di una disciplina transitoria che regoli i procedimenti instaurati per i reati ammessi alla misura che alla data del 17 maggio 2014 hanno superato le fasi processuali entro le quali l’imputato può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. La soluzione sul perimetro di applicazione della norma non può però passare dall’inquadramento sistematico dell’istituto, precisa l’ordinanza: sono infatti presenti sia profili di carattere sostanziale (si tratta di una nuova causa di estinzione del reato inserita nel Codice penale come conseguenza dell’adempimento di un programma che comporta limitazioni alla libertà dell’interessato), sia profili di natura processuale (previsione di specifici momenti processuali per la proposizione della richiesta di accesso all’istituto). La prevalenza o almeno la rilevanza dell’aspetto sostanziale potrebbero fare deporre per l’applicazione anche per i fatti precedenti e per i procedimenti in corso. In questo senso militano diversi elementi, come l’evoluzione della giurisprudenza, nazionale e internazionale (Corti di giustizia europea e dei diritti dell’uomo) sulla portata applicativa della legge più favorevole all’imputato. Tuttavia, la Corte costituzionale ha stabilito, con la sentenza n. 236 del 2011, che, in presenza di alcune situazioni, il principio di retroattività della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni; in questa prospettiva a venire valorizzati sarebbero gli aspetti processuali che, in osservanza del principio tempus regit actum, sono indirizzati a fornire un massimo grado di certezza del diritto. In ogni caso, sostiene l’ordinanza, il rinvio alle Sezioni unite si rivela opportuno per la necessità di scongiurare preventivamente interpretazioni contrastanti della normativa di maggio. Giustizia: raddoppiano i detenuti in attesa di giudizio per reati di corruzione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2014 Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, ricorda che nella lotta alla corruzione "non si può immaginare che la prevenzione abbia efficacia se non c’è anche un’efficacia dissuasiva penale" ma finché la repressione penale rimarrà affidata essenzialmente alla custodia cautelare e non "si metterà davvero mano a un’accelerazione del processo" (leggi: riforma della prescrizione), "il contrasto alla corruzione non sarà mai in grado di decollare". La conferma delle sue parole si trova nelle statistiche dell’Amministrazione penitenziaria che da sempre registrano poche decine di "colletti bianchi" in carcere, per lo più in custodia cautelare. Un dato che, però, nell’ultimo anno è "quasi raddoppiato" ( il 17 maggio scorso si contavano infatti più di 100 detenuti in attesa di giudizio, su un totale di 321). Ma ormai neppure il carcere preventivo sarà più un deterrente contro la corruzione: la norma del decreto carceri, in via di conversione, lo vieta infatti quando il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva non sarà superiore ai 3 anni. Norma contestata dai magistrati perché avrebbe tenuto fuori dalle patrie galere molti reati di grave allarme sociale e perciò "corretta" proprio ieri da un emendamento del deputato Pd David Erminii, ma non per i colletti bianchi, per i quali il presidente dell’Anni Rodolfo Sabelli aveva lanciato l’allarme su questo giornale il 3 maggio: "Parliamo di 3 anni irrogati in concreto, anche se la pena edittale è più alta; il che impedirà al giudice di ricorrere al carcere preventivo e agli arresti domiciliari anche per i reati contro la pubblica amministrazione poiché l’esperienza dimostra che raramente la corruzione è punita con più di 3 anni" aveva detto il presidente dell’Anni. Che ieri ha confermato le critiche "radicali" al Dl, pur apprezzandone "alcuni miglioramenti": per i reati di corruzione, però, ci si è limitati a ripristinare solo gli arresti domiciliari. Dei limiti che la repressione penale incontra nella lotta alla corruzione hanno discusso ieri magistrati, giuristi, deputati ed esponenti di governo nel seminario "Appalti pubblici e corruzione" organizzato dal gruppo della Camera del Pd. Doveva esserci anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ma la sua sedia è rimasta vuota. Ha mandato 7 cartelle per ribadire che nelle "linee guida" del programma di governo sulla giustizia "la predisposizione di norme contro la criminalità economica costituisce il punto 8" e che ci saranno modifiche al "codice penale e di procedura", sul falso in bilancio, l’auto-riciclaggio, la concussione (stesse sanzioni anche per l’incaricato di pubblico servizio). Neanche una parola sulla riforma della prescrizione. Ne hanno invece parlato in molti. Oltre a Rossi, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, ricordando che, dopo Tangentopoli, non solo non si è lavorato alla prevenzione della corruzione, "e anzi si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi", ma è stato depenalizzato il falso in bilancio e approvata "una norma pessima sulla prescrizione che ha riguardato soprattutto i reati di corruzione". Solo nel 2012 "si e provato a intervenire in modo organico" con la legge Severino, n. 190, che "per la prima volta ha posto il problema della prevenzione ma che nella parte penale è perfettibile", dice Cantone, aggiungendo: "Basti pensare alle ricadute che sta avendo sulla giurisdizione penale lo sdoppiamento tra concussione e induzione" (un punto su cui, però, il governo tace). Giuseppe Santalucia, vice capo dell’ufficio legislativo del ministero nonché capo della delegazione italiana del Greco, il Gruppo distati contro la corruzione del Consiglio d’Europa, conferma che "la legge Severino presenta luci e ombre: il lavoro fatto dall’Italia è stato considerato dal Greco "non globalmente insoddisfacente", musiamo stati rimandati a dicembre 2015". L’Europa critica le norme (troppo blande) sui reati di traffico di influenze illecite e di corruzione tra privati; le pene troppo lievi irrogate; ma soprattutto "non accetta un processo che consegna la corruzione alla prescrizione", e perciò chiede una riforma generale. Giustizia: perché il "concorso esterno in associazione mafiosa" è un’invenzione italiana di Daniel Bastici Il Garantista, 15 luglio 2014 Non si sente più un latitante ma bensì "un rifugiato", Amedeo Matacena nell’apprendere la decisione delle autorità giudiziarie degli Emirati Arabi, che hanno negato la richiesta di estradizione nei suoi confronti avanzata dalla Dda di Reggio Calabria, non ha nascosto la sua soddisfazione. "La bocciatura dell’estradizione è un passaggio importante, al di là delle motivazioni che i giudici depositeranno" ha spiegato l’ex parlamentare di Forza Italia. La pubblicazione della seconda parte della sentenza non sarà però meno importante delia prima e potrebbe scatenare un piccolo terremoto: a rischio il riconoscimento a livello internazionale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa per il quale Matacena è stato condannato in via definitiva. In molti, tra cui l’imprenditore calabrese stesso e il suo legale, ipotizzano infatti che i giudici di Dubai abbiano respinto la richiesta di estradizione perché quel reato non è contemplato dalla giurisdizione degli Emirati Arabi, "del resto quando provo a spiegare le ragioni della mia condanna qui tutti sono increduli" dice Matacena. Ma anche in Italia non mancano le perplessità e le voci critiche sull’applicabilità di questo reato su cui da anni è in corso un dibattito tra chi si occupa di giustizia. Tra i sostenitori della natura "fumosa ed evanescente" del concorso esterno c’è Carlo Panella che di questioni giudiziarie è stato costretto a masticare fin da quando, durante i suoi trascorsi in Lotta Continua subì ima condanna legata ad alcuni disordini di piazza. Panella oggi si trova sul fronte politico opposto rispetto a quello in cui militava in gioventù ma dall’esperienza extraparlamentare si è portato dietro come retaggio una certa diffidenza nei riguardi derive emergenziali e discrezionali del diritto. In un articolo apparso su Il Foglio a novembre del 2009 l’ex militante di estrema sinistra, nel condurre una genealogia del reato di concorso esterno, partiva addirittura dall’eccezionalità del reato associativo tout-court: "Il quarto capoverso dell’articolo 416 del Codice Penale introdusse in Italia - unico paese al mondo, o quasi - il reato associativo. Lo stile aulico ha una interessante ragion d’essere: il reato associativo venne infatti introdotto nel Codice Penale sabaudo per uno scopo essenziale: arrestare migliaia di contadini meridionali che si sospettava, ma non si poteva provare, fossero complici dei "briganti". Il reato associativo nacque dunque in Italia nel pieno di ima guerra civile e ebbe una funzione essenzialmente militare: servì infatti ad affiancare con vere e proprie razzie, un iniziativa armata contro i "briganti" che stentava ad imporsi". Il perseguimento per associazione esterna sì configurerebbe dunque come un’eccezione nell’eccezione tutta italiana dell’esistenza di reati per associazionismo caratterizzati, sempre secondo Panella, "dalla dinamica emergenziale, il fiancheggiamento di iniziative repressive di tipo più militare che poliziesco, la riduzione esplicita dei diritti del cittadino a vedersi contestata e provata la partecipazione o la complicità ad un reato specifico". Se alla base della decisione di non estradare Matacena ci fosse stato il mancato riconoscimento della fattispecie di reato per cui è stato condannato, per il giornalista del quotidiano di Giliano Ferrara "questa sarebbe dunque una buona notizia perché vorrebbe dire che anche a Dubai hanno capito l’assurdità del reato di associazione esterna". Sulle stesse posizioni anche il consigliere dei Radicali Italiani, l’avvocato Giuseppe Rossodivita che pur non volendo entrare nello specifico nel caso in cui è implicato l’ex parlamentare azzurro sottolinea che "il reato in concorso esterno in associazione mafiosa è di per sé un non senso dal punto di vista logico, il frutto di un’unione incestuosa di due articoli: il 410 e il 416-bis". Rossodivita ci tiene a precisare che ciò non significa negare l’esistenza delle famose zone grigie tra mafia, politica ed ma "semplicemente pretendere che persone non vengano condannate sulla base di Interpretazioni fumose". Secondo l’avvocato radicale dovrebbe essere compito del legislatore fare finalmente chiarezza sul reato di concorso esterno che si basa su una vasta ma a tratti ambigua mole di sentenze che hanno fatto giurisprudenza: "I giudici hanno vinto un concorso ma non sono stati eletti, il loro compito è quello di accertare i reati non quello di riempire il vuoto normativo lasciato da chi deve legiferare". Giustizia: no alla responsabilità diretta dei magistrati, più facile fargli causa di Liana Milella La Repubblica, 15 luglio 2014 Con la riforma Orlando cade il filtro della ammissibilità e aumentano i casi in cui un cittadino può fare ricorso. Ecco la legge Orlando sulla responsabilità civile dei giudici. Non c’è quella "diretta", che pure la Camera aveva votato dando il suo sì al ben noto emendamento Pini. E non c’è neppure alcuna limitazione per il giudice all’interpretazione della legge, senza alcun vincolo anche rispetto alle sentenze delle sezioni unite della Cassazione, come avrebbe voluto il Pd Buemi. Ma sarà più facile agire contro le toghe, anche onorarie, perché cade il filtro di ammissibilità finora esercitato dai tribunali e previsto dalla Vassalli dell’88. Se lo Stato perde la causa potrà rivalersi sul giudice nella misura della "metà", e non più di "un terzo" della somma. Sullo stipendio la cessione non sarà più del "quinto", ma di "un terzo". Si amplia il concetto di "danno" per il quale un cittadino può chiedere allo Stato di rivalersi "per aver subito un danno ingiusto per diniego di giustizia, ovvero per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario, posto in essere da un magistrato, anche onorario, con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni". Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli, che pure in linea di principio non è contrario al "tagliando" della Vassalli, sulla completa soppressione del filtro esprime le prime preoccupazioni: "Cancellarlo del tutto, senza prevedere una clausola di salvaguardia da azioni strumentali, rischia di provocare una proliferazione delle azioni civili, anche di quelle manifestamente infondate". Quando al danno si riserva di studiare a fondo le modifiche prima di esprimersi. Come prevedeva il cronoprogramma della giustizia, via Arenula lavora per mettere online (www.giustizia.it) i testi della responsabilità civile e dell’anti-corruzione (falso in bilancio, auto-riciclaggio), dopo l’uscita del pacchetto sul civile. Repubblica anticipa l’attesa riforma della responsabilità, richiesta dalla destra che avrebbe voluto quella diretta, tant’è che ha approfittato dell’emendamento Pini che la ributtava in campo dopo il successo della primavera 2011, ma sollecitata pure dal Pd, tant’è che alla Camera da tempo esiste il ddl Leva. La legge Orlando si articola in cinque articoli che riscrivono i punti chiave della Vassalli, e con cui il governo, forse già oggi, potrebbe chiedere alla commissione Giustizia del Senato, che sta andando avanti sul ddl Buemi, di fermarsi fino a settembre. Il concetto di danno. Il testo di Orlando parla di un cittadino che "può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento del danno". Cade il passaggio della Vassalli sui "danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Il travisamento del fatto. Stabilito che "non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove", tuttavia "costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge e del diritto della Ue, ovvero il travisamento del fatto e delle prove". Dopo le condanne d’oltralpe, il diritto europeo fa il suo ingresso nella legge sulla responsabilità. Per valutare la violazione si dovrà tener conto "del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza". I giudici popolari. Anche loro rischiano l’azione civile. Sicuramente si discuterà della frase che li riguarda: "I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo o colpa grave per travisamento del fatto e delle prove". Un concetto di colpa nuovo che non figurava in questi termini nella Vassalli. Non è retroattiva. La legge riguarderà solo gli illeciti "posti in essere dal magistrato successivamente all’entrata in vigore". Via il filtro. È cassato del tutto l’articolo 5 della Vassalli sull’ammissibilità della domanda che, con l’intervento del tribunale, stoppava i ricorsi "manifestamente infondati". Troppi quelli bloccati, al punto che adesso vengono stretti i cordoni della giustizia sui giudici. Giustizia: un’autorità che individui fatti penalmente rilevanti, per superare obbligatorietà di Luigi Mazzella (Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale) Italia Oggi, 15 luglio 2014 La prima riforma da fare per ricondurre entro limiti accettabili la nostra convivenza civile è, a mio parere, quella di rivedere le norme costituzionali che disciplinano un aspetto fondamentale per la collettività: quello dell’azione penale. Il mito dell’obbligatorietà dell’azione penale in una società come quella italiana, che conosce solo la litigiosità esasperata dei popoli con tendenze assolutistiche, ha mostrato falle gigantesche e irreparabili. Si avverte la necessità di una modifica dell’articolo 112 della Costituzione che prevede l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale. Quest’ultima dovrebbe divenire discrezionale, non nel senso, però (è bene rimarcarlo) di attribuire al singolo pubblico ministero poteri di scelta, che ne farebbero un vero monstrum giuridico e politico, ma di ricondurre, annualmente, a un’apposita Autorità indipendente, espressione diretta dell’organo legislativo, l’indicazione dei fatti penalmente rilevanti su cui prioritariamente intervenire. E ciò, con o senza il riconoscimento dell’azione di un’accusa privata di carattere sussidiario da affiancare a quella pubblica, come, peraltro, avviene in Paesi di lunga e consolidata democrazia (ad esempio: la Gran Bretagna). All’Autorità indipendente per l’azione dello Stato nell’attività giurisdizionale pubblica e arbitrale privata dovrebbe essere conferito il delicato compito di individuare, dettare e fare osservare le linee di azione che lo Stato intende perseguire nell’attività giurisdizionale pubblica (penale, civile e amministrativa) e nell’attività arbitrale privata. Alle dipendenze dell’Autorità, che si può immaginare composta, a mo’ d’esempio, da nove membri, tutti di nomina parlamentare a maggioranza qualificata, con una durata in carica temporanea (cinque anni?) potrebbero passare, da un lato, gli attuali magistrati incardinati negli uffici del pubblico ministero con la qualifica di avvocati dell’accusa pubblica e, dall’altro, gli avvocati e i procuratori dello Stato, con la qualifica di avvocati della difesa pubblica civile e amministrativa. L’ordinamento degli uffici dipendenti dell’Autorità potrebbe dipartirsi, a livello centrale e distrettuale, in due distinte branche: a) quella civile e amministrativa, diretta da un Avvocato Generale civile e amministrativo, preposto alla direzione esecutiva del settore degli avvocati della difesa; b) quella penale, diretta da un Avvocato Generale penale preposto alla direzione esecutiva del settore degli avvocati dell’accusa (ex pubblici ministeri). È così negli Stati Uniti d’America e il sistema funziona egregiamente. Le modalità di accesso alle due carriere professionali dovrebbero contemplare distinte materie di esame, in relazione all’attività da svolgere. Non dovrebbe essere ammesso il passaggio dall’una all’altra carriera professionale, dato il valore che ogni specializzazione assume in contesti di vita moderna. L’Autorità indipendente avrebbe sede in Roma, con un ordinamento omologo a quello delle altre Autorithies; a Roma dovrebbero aver sede anche le Autorità centrali dell’una e dell’altra branca; mentre le Autorità distrettuali avranno sedi periferiche diverse e sarebbero dirette, rispettivamente, dall’avvocato dell’accusa o della difesa più anziano nel ruolo. L’Autorità indipendente dovrebbe deliberare annualmente, sulla base dell’allarme sociale determinato dai dati scientificamente rilevati dagli organi competenti, le linee direttive d’azione, soprattutto relativamente al profilo penale, da impartire ai propri uffici e sottoporle, entro il 31 luglio di ogni anno solare, all’approvazione del Parlamento che vi potrebbe apportare eventuali modifiche entro il 31 dicembre successivo. Il silenzio dell’organo legislativo avrebbe valore di assenso. Lettere: il diritto del detenuto al trattamento più umano di Cristoforo Maggio (Avvocato) www.marsalaoggi.it, 15 luglio 2014 Con il D.L. 92/2014 il Governo pone un altro tassello alle precedenti misure normative cosiddette "svuota carceri", che hanno già prodotto sensibili effetti sulla patologia del sovraffollamento carcerario; determinando, con ciò, una significativa riduzione della popolazione detenuta e un ampliamento degli spazi detentivi a disposizione dei soggetti ristretti. L’intervento di urgenza previsto con la suddetta normativa completa, infatti, la sequenza dei provvedimenti normativi e organizzativi messi in campo per rispondere ai rilievi mossi dalla Corte Europea con la Sentenza Torreggiani (Cedu, sezione II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri/contro Italia). La novità senz’altro più significativa consiste nell’introduzione di un rimedio giurisdizionale di carattere risarcitorio in relazione al pregiudizio subito da detenuti e internati per effetto di condizioni detentive contrarie alla dignità e all’umanità (art. 3, Cedu). Tra le altre novità: obblighi informativi e arresti domiciliari al posto della custodia cautelare. È questa la parte più pregnante del provvedimento di urgenza (artt. 1 e 2, del D.L. 92/2014), il quale, peraltro, non esaurisce con tale pur importante previsione la sua portata innovatrice, che allinea una serie di ulteriori novità quali specifiche disposizioni in materia di obblighi informativi annessi alla procedura camerale di sorveglianza (art. 3, D.L. 92/2014); di impiego degli assistenti volontari (art. 1, comma 2, D.L. 92/2014); in tema di disciplina esecutiva degli arresti domiciliari disposti in sostituzione della custodia cautelare (riformulazione dell’art. 97-bis, delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale: art. 4, D.L. 92/2014), e di modalità esecutive dei provvedimenti limitativi della libertà personale riguardo a imputati e condannati minorenni che, nel corso della vicenda esecutiva, siano divenuti maggiorenni (art. 5, D.L. 92/2014). Il decreto di urgenza interviene, inoltre, con puntuali modifiche della legge di ordinamento del Corpo della polizia penitenziaria e di impiego del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (artt. 6 e 7, D.L. 92/2014). Da evidenziare, inoltre, il dettato dell’art. 8 del D.L. 92/2014; modificando il comma 2-bis, dell’art. 275 del codice di procedura penale, il predetto articolo 8 così recita: "Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni". Toscana: il Garante dei detenuti Franco Corleone "il quadro carcerario è ancora pesante" www.gonews.it, 15 luglio 2014 Continua ad essere "pesante" il quadro del sistema penitenziario della Toscana. Ci sono stati passi avanti, i detenuti sono diminuiti (3mila 620 a giugno 2014, erano oltre 4mila lo scorso anno) e la situazione edilizia è leggermente migliorata, ma non si registra ancora una "attività per una grande riforma dal punto di vista dei diritti e della vita in carcere". A dirlo il Garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone, nel corso di una conferenza in palazzo Panciatichi organizzata per presentare il Manifesto No-Prison, redatto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, (rispettivamente direttore del centro francescano di ascolto di Rovigo e professore di diritto penitenziario all’Università di Bologna), documento che afferma il fallimento della Riforma penitenziaria e vede il carcere come "contenitore per immagazzinare corpi". Secondo Corleone "molto ancora resta da fare, tanto dal punto di vista strutturale che della vita quotidiana". "A Sollicciano non è ancora stato ultimato il lavoro per la seconda cucina e non sono neppure iniziati i lavori per garantire i servizi igienici in cella nella sezione femminile". "Stiamo ancora aspettando l’attivazione dell’Icam" (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) proprio in un "momento in cui è esploso un caso straordinario come quello del bambino cresciuto in carcere". E proprio sulla conclusione della vicenda (il bambino è attualmente in struttura protetta, privo del legame con la madre), il Garante ha parlato di "fretta eccessiva dopo una lentezza durata anni". "È una contraddizione che fa impressione", ha rilevato Corleone. "Credo occorresse sicuramente interrompere la detenzione del bambino ma occorresse anche senso della misura e preparazione del minore e soprattutto della madre". "Per troppi anni - ha continuato - non si è avuta chiarezza della condizione della madre, della sua famiglia e del bambino stesso. Tra ordinanze del tribunale dei minori e ricorsi si è perso molto tempo e ancora non è certo per quanto tempo la madre sia impossibilitata ad accedere a misure alternative". Tornando alla fotografia del sistema carceri in Toscana, Corleone ha ricordato il progetto di far uscire 300 tossicodipendenti purtroppo "ancora al palo". Sollecitato dai giornalisti ha poi affrontato il nodo della chiusura dell’Opg di Montelupo sul quale ha detto: "Abbiamo le idee, le abbiamo esposte e a nostro parere la Toscana può essere la prima regione a chiudere una struttura che è carcere e manicomio insieme. In tal senso ho ricevuto assicurazioni dal presidente Enrico Rossi per un’attenzione risolutiva e, d’altra parte, l’amministrazione penitenziaria condivide le prospettive emerse nel recente convegno tenutosi a Firenze". "Dopo la decisione della Corte Europea di Strasburgo, che ha dato credito all’Italia, è necessario un piano per la riforma del carcere e per questo occorre un interlocutore nazionale. A tal proposito mi auguro che venga presto nominato il nuovo capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e, contestualmente, vengano avviate le procedure per la nomina del Garante Nazionale", ha continuato Corleone dando atto al Comune di Pisa di aver nominato il nuovo Garante (Alberto Di Martino). "Siamo invece ancora in attesa della decisione del Sindaco Nardella per la nomina del nuovo Garante di Firenze. Sollicciano, peraltro, necessita di una attenzione particolare" ha osservato. Nel quadro ancora pesante disegnato dal Garante, una buona notizia sul fronte dell’edilizia e del sovraffollamento: "A seguito di nostre pressioni il nuovo reparto di Livorno è stato consegnato e può essere aperto per ospitare 100 detenuti. Mi pare un fatto rilevante", ha concluso. Alla conferenza stampa erano presenti anche Livio Ferrari ed Emilio Santoro (Garante della Casa di Reclusione di San Gimignano). Lazio: mille detenuti in meno rispetto al 2013… ancora 1.100 in più rispetto alla capienza Il Tempo, 15 luglio 2014 Nel Lazio, quasi mille detenuti in meno rispetto al 2013. Oltre 6.200 i presenti, 1.100 in più rispetto alla capienza regolamentare. Oggi a Roma il Congresso regionale del Sappe. Con queste cifre si confronteranno, presso la sala riunione dell’Associazione di Polizia Penitenziaria Anppe in via Trionfale n.138/140, i poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. A presiedere l’assise Donato Capece, segretario generale del Sappe: i lavori si apriranno con la relazione tecnica del Segretario Nazionale del Sappe per il Lazio Maurizio Somma. "Il Lazio è, per la Polizia Penitenziaria, una regione complessa dal punto di vista operativo. Sono tante le criticità e le problematiche che caratterizzano le 14 strutture detentive regionali" sottolinea Somma. Donato Capece sottolinea che "il merito per i quasi mille detenuti in meno nel Lazio rispetto allo scorso anno e per essere riusciti a distribuire i quasi sessantamila detenuti d’Italia in modo da allocarli nelle camere detentive, con almeno tre metri quadrati di spazio vivibile per ciascuna persona detenuta, va attribuito solo alle donne a agli uomini della Polizia Penitenziaria". Negli ultimi mesi, sono stati chiamati dal Dap "a sopperire alle gravi lacune di capacità gestionali dei nostri Dirigenti dell’amministrazione penitenziaria. In tutti questi anni il Dap non è stato in grado di mettere in piedi un sistema informativo che consentisse di avere l’esatto monitoraggio di ogni singola cella degli Istituti penitenziari della Repubblica". Liguria: Rosso (Fi); la Regione deve avviare percorso salute orale nelle carceri di Antonella Aldrighetti Agenparl, 15 luglio 2014 "La prevenzione della malattie del cavo orale è utilissima perché le conseguenze negative legate ad una scarsa attività di prevenzione possono avere delle ricadute sociali e sulla salute pesantissime. Per questo ho sposato appieno il progetto dell’Andi, Associazione Nazionale Dentisti Italiani, di promuovere un percorso informativo anche presso gli Istituti Carcerari. Nello specifico infatti trattando con e di persone che già hanno problemi di inserimento e grandi difficoltà, soprattutto una volta fuori, anche sotto il profilo economico è chiaro che attivare un percorso di prevenzione per quanto riguarda le malattie del cavo orale, può portare a degli enormi vantaggi non solo per la loro salute ma anche sotto il profilo dei costi a carico del pubblico". Lo fa sapere il consigliere regionale di Forza Italia Matteo Rosso, medico e vice presidente della commissione Sanità della Regione che continua: "la prevenzione delle malattie del cavo orale infatti ha costi bassissimi mentre di contro può avere effetti positivi elevatissimi. L’Andi sta portando avanti, un progetto di volontariato, partito nel 2008, "Salute orale negli Istituti Penitenziari", per educare i detenuti e il personale di custodia riguardo alle corrette pratiche di igiene orale e per sensibilizzare la popolazione carceraria sui rischi derivati dalle infezioni crociate. Questo non solo per rispondere alla situazione emergenziale del sistema carcerario italiano visto che il problema del sovraffollamento, sempre più spesso, determina condizioni di sofferenza umana e situazioni di degrado non consone a un paese civile e per le stesse ragioni il diritto alla salute, soprattutto a quella orale, viene spesso disatteso, ma anche per intervenire su questo ultimo aspetto e cioè contribuire a fare in modo che queste persone possano comunque contare su un minimo di prevenzione sanitaria, utile nel contenimento dei costi sanitaria a carico del pubblico". "Su tale questione, quindi, ho presentato un’interrogazione per sapere se Regione Liguria in questo senso ha avviato un percorso, se intende farlo e in che termini visto che stiamo parlando di un’attività importante dove con poco si possono traguardare importanti risultati", conclude Matteo Rosso. Parma: visita del Garante regionale; eccessivo numero detenuti affetti da gravi patologie Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2014 Accompagnata da personale della Polizia penitenziaria, la Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, e il Garante di Parma, Roberto Cavalieri, hanno visitato gli Istituti penitenziari della città. Questi i numeri: 539 detenuti presenti (la capienza regolamentare è di 385 posti, quella "tollerata" di 652), di cui 407 condannati in via definitiva (132 gli imputati), 80 gli ergastolani, 58 in regime di 41bis, 295 i detenuti comuni, 26 gli ammessi al lavoro all’esterno e in regime di semilibertà, 228 stranieri; 23 i ricoverati al Centro diagnostico e terapeutico, 7 nella sezione per tetraparaplegici. Del circuito dell’alta sicurezza, fanno parte 158 detenuti. È in sensibile aumento, su base semestrale, il numero dei detenuti del circuito differenziato dell’alta sicurezza, con la corrispondente diminuzione dei detenuti comuni, in linea con quanto previsto dal progetto dipartimentale di realizzazione dei circuiti regionali, che prevede che la struttura si caratterizzi per la presenza di questa tipologia di detenuti. È invece stabile il numero degli ergastolani, per i quali sarebbe opportuno pensare a spazi dedicati ed esclusivi, laddove possibile. In tal senso l’auspicio è che alcuni spazi del padiglione in corso di costruzione possano essere riservati proprio a questa particolare tipologia di detenuti. Nelle sezioni dove sono collocati detenuti "comuni", con un grado di pericolosità di lieve significatività, è in vigore il regime "a celle aperte" per alcune ore al giorno. Resta particolarmente critica la situazione sanitaria, con particolare riferimento al Centro diagnostico e terapeutico (Cdt) gestito dall’Ausl all’interno della struttura, dove vengono assegnati i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica (circa 20 posti). Continuano a essere inviati a Parma detenuti malati da altri istituti di pena, con intere sezioni ordinarie che sono occupate da detenuti malati, nell’attesa di essere ricoverati. Appare eccessivo il numero dei detenuti affetti da gravi patologie in relazione ai posti disponibili; la promiscuità fra persone sane e malate provoca un peggioramento complessivo delle condizioni di vita. Tale criticità è stata da tempo segnalata dalla Garante alle autorità competenti, in particolare al ministro della Giustizia, chiedendo che cessino le assegnazioni di persone malate al Cdt di Parma, nell’impossibilità di un’effettiva presa in carico. Nella sezione che ospita il Centro non è in vigore il regime "a celle aperte", in ragione della compresenza di detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza e detenuti comuni (in tutto 23). Si segnala la persistente mancanza di un medico specialista in urologia, con i detenuti che all’occorrenza vengono portati all’esterno, con il necessario accompagnamento della scorta, per effettuare questa tipologia di consulti e altre visite specialistiche. È nota la frequente difficoltà a garantire gli accompagnamenti, con il conseguente slittamento della visite specialistiche (diverse settimane e anche mesi) con grave disagio per i detenuti. Nel corso della visita, è stato effettuato un sopralluogo negli spazi detentivi della Sezione Iride, destinata ad ospitare i detenuti in isolamento disciplinare, sanitario e giudiziario. Ai detenuti in isolamento disciplinare viene applicato un regime detentivo caratterizzato da estremo rigore: per tutta la durata della sanzione permangono in celle senza suppellettili (né scrittoio, né tv, né sedia – una sedia gli viene fornita solo durante la consumazione dei pasti), senza la porta a separare la camera di pernottamento dal bagno con la turca. La Garante regionale e il Garante di Parma chiederanno all’Amministrazione Penitenziaria di modificare in maniera sostanziale le condizioni dell’isolamento, senza far venir meno profili di sicurezza, al fine di tutelare l’equilibrio psico-fisico delle persone. Nei colloqui con i detenuti, le principali segnalazioni riguardano la materia sanitaria e la territorialità della pena, con la richiesta di favorire il trasferimento in istituti penitenziari più vicini al luogo di residenza della famiglia. Firenze: bimbo in carcere; la madre ha reati troppo gravi… non doveva stare con lei intervista a Riccardo Arena, a cura di David Allegranti Corriere Fiorentino, 15 luglio 2014 Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere su Radio Radicale, il primo a occuparsi sui media nazionali di questa storia, è giusto sottrarre un bambino alla madre in questo modo? "Non è solo giusto, ma è ciò che doveva essere fatto tre anni e mezzo fa. La legge infatti, all’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, prevede che il bambino lasci il carcere al compimento del terzo anno di età. La permanenza in carcere di questo bambino per i tre anni e mezzo successivi è una palese violazione della legge e potrebbe integrare estremi di reato". Ma le madri, ancorché detenute colpevoli di reati, non hanno diritti? "La mamma ha la facoltà di tenere il bambino con sé in cella finché questo bambino non compie tre anni. È evidente però che il nostro ordinamento ha una lacuna, tra le tante. Ovvero la mancata verifica che una mamma che si è macchiata di così gravi reati possa tenere il bambino con sé. L’esempio è concreto, quello di una mamma condannata per sfruttamento della prostituzione minorile che ha massacrato dei bambini. Siamo certi che sia idonea a essere madre? Questa osservazione è spinosa ma va fatta". La madre è andata in escandescenze e ha minacciato di uccidersi e di uccidere il bambino qualora dovesse rivederlo. "La minaccia di suicidio di questa mamma credo sia la trappola in cui sono cadute le autorità competenti. In altre parole, questa mamma da sempre ha minacciato il suicidio se fosse stato allontanato il bambino ed è forse per questo che le è stato lasciato. Mai una scelta è stata più avventata oltre che illegale". Perché illegale? "Perché da un lato il bambino a 3 anni doveva lasciare il carcere, dall’altro lato la direzione del carcere, di fronte a una manifesta volontà di suicidio da parte della madre, avrebbe dovuto adoperarsi per controllare la madre 24 su 24. Morale, in questa vicenda la legge non è stata applicata e nulla ha funzionato. Con la conseguenza che questo bambino ha patito 5 anni e mezzo di carcerazione, che è la pena di un rapinatore". Il ministero era conoscenza del fatto? "Per quanto ne so, prima dell’articolo di Antonella Mollica, né il ministero della Giustizia né il ministro, né il capo del Dap erano a conoscenza della detenzione illegittima di questo bambino. Ho delle perplessità quindi non solo per ciò che hanno fatto l’ex direttore del carcere e quello attuale, ma anche per la mancanza di collegamento tra direzione e Provveditorato della Toscana, per l’inerzia della magistrature di sorveglianza e per la mancata conoscenza di una notizia così grave da parte del ministero della Giustizia. Ciò detto, la normativa per me è inaccettabile. Trovo inammissibile che un bambino debba stare in carcere anche un solo giorno. Figuriamoci per tre anni. Non parliamo di sei". Come si può risolvere il problema? "Come hanno fatto a Milano, e solo a Milano, senza scomodare il Parlamento tentando di migliorare, ma facendo peggio. Basta un accordo tra Provveditorati e Regioni, per creare in ogni Regione una sezione del carcere in un appartamento di comune abitazione, dove le mamme sono detenute e i bambini escono e vanno all’asilo. Non sentono così la puzza del carcere e le urla del carcere. Invece di fare leggi complicate che peggiorano la situazione, si seguisse l’esempio dell’Icam di Milano. Un semplice accordo amministrativo, e non una legge mal scritta come quella recente". Cagliari: Sdr; a rischio vita nepalese ristretto Cdt Buoncammino malato di talassemia Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2014 "Affetto da una rara forma di talassemia, che fa registrare attualmente il livello di emoglobina nel suo sangue a 3.3, mentre una condizione accettabile ne prevede non meno di 10, un cittadino nepalese, apolide, ristretto nel Centro Diagnostico Terapeutico della Casa Circondariale di Cagliari, è a rischio vita. È urgente il suo trasferimento in una struttura ospedaliera per detenuti in grado di monitorare costantemente la gravissima anemia e intervenire opportunamente". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "si tratta di un cittadino privato della libertà disabile in regime di alta sicurezza con diverse problematiche sanitarie non facilmente gestibili in un centro diagnostico come quello cagliaritano ormai peraltro in dismissione". "L’uomo, A.R., 40 anni, utilizza una carrozzina non potendo reggersi sulle proprie gambe. È inoltre celiaco e affetto dalla sindrome di Asperger, una malattia che ne condiziona i comportamenti sociali generando gravi problemi di piantonamento e monitoraggio. Un quadro sconfortante - evidenzia la presidente di Sdr - che richiede un sollecito intervento da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In Italia esistono strutture ospedaliere idonee ad affrontare con strumenti adeguati problematiche sanitarie complesse. Tra gli altri il Nosocomio "Sandro Pertini" di Roma, il "San Paolo" di Milano o l’ospedale "Belcolle" di Viterbo. Il trasferimento in una struttura attrezzata della Penisola consentirebbe anche di soddisfare l’esigenza di avvicinare il detenuto ai familiari che vivono in Liguria e alla madre con la quale mantiene costanti rapporti". "A.R. inoltre non ha concluso il suo iter giudiziario e per presenziare ai processi deve essere accompagnato, oltre che dalla scorta, da medici e infermieri con l’ambulanza. Un viaggio che dalla Sardegna comporta un consistente dispendio di persone e denaro. Il detenuto, peraltro, dopo un lungo periodo trascorso a Buoncammino, era stato trasferito nell’Istituto Penitenziario di Milano Opera ma per volontà del Dap, all’inizio dello scorso mese di giugno, ha fatto ritorno nella Casa Circondariale di Cagliari. Da subito forti perplessità erano state espresse dal coordinatore sanitario del Cdt Antonio Piras. Adesso però la situazione sta peggiorando - conclude Caligaris - ed è necessario intervenire con sollecitudine". Pisa: il docente di diritto penale Alberto Di Martino nominato garante dei detenuti Redattore Sociale, 15 luglio 2014 È stato nominato il nuovo garante dei detenuti di Pisa. Il sindaco Marco Filippeschi (Pd) ha nominato Alberto Di Martino, docente di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna. Di Martino è nato a La Spezia nel 1968. Ha effettuato vari soggiorni di studio in Istituzioni di ricerca e in Università della Germania (Friburgo, Francoforte, Berlino). È autore di oltre settanta pubblicazioni scientifiche, tra le quali i volumi La sequenza infranta. Profili della dissociazione tra reato e pena (1998); La frontiera e il diritto penale. Natura e contesto delle norme di "diritto penale transnazionale" (2006); è coautore del manuale Reati contro la pubblica amministrazione. Durante l’ultimo governo Prodi ha partecipato alla delegazione italiana al Working Group sulla corruzione nelle transazioni economiche transnazionali dell’Ocse. Ancora in attesa di nomina il garante dei detenuti a Firenze. E il garante della Toscana Franco Corleone, nonché coordinatore dei garanti a livello nazionale, lancia un nuovo appello al sindaco Dario Nardella: "Nomini al più presto un garante per tutelare i tanti detenuti delle carceri fiorentine, dove c’è la più alta concentrazione di reclusi della Toscana". Catania: reportage dall’Icatt di Giarre, carcere che insegna a volare sulle ali della legalità di Maria Ausilia Boemi La Sicilia, 15 luglio 2014 Giarre. Volare sulle ali del vento per riassaporare il gusto della libertà: una libertà, tuttavia, nelle regole, perché la vela, come ogni sport di squadra, è anzitutto disciplina, impegno, rispetto, fiducia, cooperazione. In una parola, "complicità": non quella del crimine che demolisce, ma quella dell’amicizia che costruisce. E una regata diventa così una tappa inebriante di un percorso che, tramite l’acquisizione di competenze nei mestieri legati alla nautica, tenta di fornire ali forti per lanciarsi nel volo più importante della vita. Infilare le mani nella terra per coltivare piante e, imparando la calma paziente e silenziosa dei cicli della natura, ritrovare le radici proprie che si erano perdute. Manipolare la creta per scoprire inaspettati talenti che la vita aveva tenuto nascosti e acquisire la consapevolezza che mani finora utilizzate per commettere reati possono invece creare bellezza. Salire sul palco di un teatro, interagendo con attori professionisti e condividendo con loro l’orgoglio degli applausi e del vedere il proprio nome sui giornali riportato in termini lusinghieri. Il sole estivo abbaglia le alte mura che chiudono lo sguardo alla natura rigogliosa che esplode attorno all’Icatt di Giarre, unico istituto carcerario a custodia attenuata della Sicilia (dove esiste anche una sezione di circuito detentivo ordinario e una del circuito aperto). Fuori dalle mura è vita, dentro le mura è vita "sospesa". O lo sarebbe, se la pena da scontare fosse solo il lento trascorrere di ore oziose, contando i giorni che separano dalla scarcerazione. Ma così non è: le attività fervono all’interno del carcere, che ospita in tutto una novantina di detenuti (tra regime ordinario, aperto e custodia attenuata: in quest’ultima tipologia, in particolare, sono ristrette mediamente 25-30 persone con problemi di tossicodipendenza). Nella custodia attenuata, che già è un "beneficio di legge" (basta visitare le celle per rendersene conto: a fronte di un drammatico sovraffollamento carcerario in tutta Italia, sono singole o, al massimo, con due occupanti, ma rigorosamente solo su richiesta dei detenuti. Luoghi dove reimparare a sentire il silenzio e ad ascoltare se stessi), in genere la mattina si lavora e il pomeriggio è dedicato alla scuola e alla formazione. "La filosofia della custodia attenuata - spiega il dott. Salvo Coco, psicologo del servizio Sert interno alla struttura - è ridare dignità ai detenuti con il lavoro". Per questo dovrebbero lavorare tutti - e tendenzialmente ciò avviene - pur in presenza "dei pesanti tagli che sono stati effettuati dall’amministrazione della Giustizia", sottolinea la dottoressa Flavia Cocuzza, capo area del trattamento dell’Icatt. Nel 2012 l’attività florovivaistica e il laboratorio di ceramica (che da solo fruttava un gruzzoletto di 12mila euro) sono stati sospesi per mancanza di fondi e mantenuti parzialmente solo grazie al volontariato. L’anno scorso le attività sono state nuovamente finanziate, ma rimetterle in piedi non è stato facile, come sottolinea il dott. Aldo Tiralongo, direttore del carcere da luglio 2008: "Ma quest’anno ci siamo riusciti: l’importanza di queste attività deriva anche solo già dall’evitare l’ozio, che di per sé è criminogeno. Se poi si riesce anche a dare ai detenuti una formazione, delle competenze da spendere nella società e avviare la propria vita secondo le regole della civile convivenza, si ottiene un risultato importante. Certo, occorrerebbe poi che la società libera fosse disposta ad aprirsi a chi proviene da esperienze di detenzione, offrendo loro occasioni di lavoro". Nel laboratorio di ceramica prima lavoravano 6 detenuti, adesso solo 3; nella serra prima erano impiegati in 10, adesso solo 4 "che coltivano piante officinali - spiega la capo d’arte Nunzia Lombardi - rigorosamente con metodi naturali e senza l’uso di pesticidi: ci sembrava educativo non avvelenare le piante con concimi chimici, visto che queste persone devono imparare a non intossicarsi". "Mentre prima erano tutti occupati - spiega Cocuzza - adesso si fa a rotazione: quindi esistono delle graduatorie, che comunque sono fortunatamente molto veloci. Tutti i detenuti iniziano col fare l’inserviente di sezione. Quando si libera un posto, si passa a inserviente della sezione colloqui e dei corridoi, poi addetti alla pulizia degli uffici, addetti alle cucine (attualmente 4), detenuti che lavorano allo spaccio, addetti alla serra. Non sono in genere in rotazione, invece, quelli che lavorano nel laboratorio di ceramica e gli addetti alla manutenzione ordinaria fabbricati (cosiddetti Mof) perché questi lavori necessitano di particolari competenze (bisogna avere attitudini artistiche nel primo caso, o intendersi di elettricità, pittura o idraulica nel secondo)". Sette di questi detenuti sono in art. 21, cioè possono lavorare anche all’esterno, sempre alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: "Non è una misura alternativa - specifica Cocuzza - ma una modalità di trattamento, che consente a questi detenuti di uscire all’esterno e di muoversi anche all’interno del perimetro carcerario senza un agente al seguito. Ad esempio, quando una volta al mese partecipano al mercato del contadino a Giarre dove vendono le loro piante. Ma ci sono anche due detenuti che due volte alla settimana aiutano nelle due case famiglia dell’associazione Papa Giovanni XXIII della zona: "Una camera di decompressione - sottolinea Coco - per detenuti che si presume nel tempo dovranno andare in misura alternativa: messi a contatto con realtà disagiate, ricordano il loro percorso, con un recupero forte del loro vissuto e una rivisitazione della loro genitorialità. Abbiamo realizzato un carcere che, soprattutto all’inizio, era solo nella fantasia: ci prendevano per pazzi". "Ognuno ha la sua mansione - spiegano Francesca Di Stefano e Mariella Barbagallo, capi d’arte del laboratorio di ceramica -. I ragazzi arrivano qua senza avere mai tenuto un pennello in mano ed escono con una competenza lavorativa che può essere spendibile all’esterno. Anche se bisogna dire che si tratta di un arricchimento reciproco". Le attività che si affiancano al lavoro, alla scuola e ai corsi professionali sono il laboratorio di drammatizzazione (grazie al quale i detenuti - che organizzano regolarmente la festa della Befana per i loro figli - quest’anno hanno potuto anche partecipare come comparse a uno degli spettacoli in cartellone al teatro Stabile di Catania), il corso di fotografia, di guida alla lettura, l’attività di cineforum e, più recentemente, il corso di apicoltura. In passato è stato pure realizzato un cortometraggio sulle tossicodipendenze con gli studenti del "Fermi" e si sono tenute lezioni di astronomia. Ultimo nato, il progetto "Educare navigando", realizzato grazie all’associazione di velisti di Riposto "Il vento di grecale": "Un progetto - spiega Coco - rivolto oggi a 7 detenuti e che prevede l’acquisizione della conoscenza del mondo della nautica per impararne i mestieri (come maestro d’ascia piuttosto che addetto al pontile e all’ormeggio)". Ma anche per "insegnare a questi ragazzi la nostalgia del mare", sottolinea Coco. Nell’ambito del progetto si è inserita fortuitamente la partecipazione di 5 detenuti alla regata di San Pietro (con uscite di allenamento nei due sabati precedenti) che si svolge ogni anno a Riposto: una iniziativa che, come tutte le altre, sottolineano Coco e Cocuzza, è stata resa possibile dalla grande disponibilità e apertura della magistratura di sorveglianza. Il progetto è ambizioso: negli ampi spazi dell’Icatt si vorrebbe realizzare un vero e proprio cantiere navale e una scuola vela stabile a bordo di una goletta antica. Per ora, i detenuti stanno ripristinando una deriva per l’uscita a mare con la barca: "Ci lavorano continuamente, anche sotto il sole cocente - sottolinea Coco -, nella consapevolezza che, anche se non dovessero arrivare loro a usarla, la lasceranno a chi verrà dopo". Una sorta di passaggio del testimone, quasi un patto generazionale che rompe la visione egoistica legata al delinquere. E che fa loro "sperimentare la capacità di contagiare gli altri con l’entusiasmo che li ha accompagnati per giorni". A cosa serve? "Non perdiamo di vista che il problema - sottolinea Coco - non è dentro il carcere, ma fuori: lo Stato non è competitivo rispetto a una criminalità che paga un ragazzino 100 euro per fare il "palo" per 3 ore. Noi usiamo risorse spendibili all’esterno, facciamo conoscere ai ragazzi realtà a loro sconosciute, utilizzando le risorse del territorio; terra (le serre), mare (la nautica), cultura". Eh sì: perché il problema si crea dopo l’uscita da un ambiente "protetto" come il carcere: "Queste persone vengono poi da noi - spiega la dottoressa Raffaella Giordani che, insieme con Rossana Gueli e Pia Mantarro, segue i detenuti dall’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) - e ci chiedono di aiutarli a trovare un lavoro. Si crea infatti un legame, diventiamo per loro punti di riferimento, ma il lavoro è una problematica troppo complicata cui dare risposte". Impariamo un mestiere utile quando usciremo… Giarre. Sono contenti di imparare un mestiere e, nel frattempo, di guadagnare qualcosa che sia di aiuto alla famiglia fuori. Sono contenti di avere come trascorrere il tempo, ma non ne manca comunque, di tempo, anche per riflettere. E ogni piccolo gesto viene amplificato: "Non hanno paura di me i bambini che vengono a visitare l’Icatt e mi danno la mano, fiduciosi", racconta stupito un detenuto. E nel mercato del contadino, dove si recano mensilmente, "gli altri ci cercano, ci trattano come persone normali anche se siamo detenuti, ci portano il caffè o verdure che non coltiviamo. È una bella esperienza - continua il giovane carcerato - perché da quando sono qua ho avuto la possibilità di imparare tanti mestieri: spero di potere usare queste conoscenze quando uscirò. Sarò infatti pronto a lavorare. Sto cercando di sfruttare al massimo il tempo che devo trascorrere qui. E non prendo più nessuna sostanza: neanche una bustina contro il mal di testa". "È utile lavorare - racconta un altro - sia per noi stessi sia per la famiglia. Oltre che della serra, mi occupo degli impianti di irrigazione e manutenzione degli attrezzi. Facevo il pescatore, ho partecipato alla regata, ma la vela e il peschereccio sono due cose diverse: nel primo sei solo col vento, nell’altro c’è il motore". I tre in cucina lavorano a suon di musica a tutto volume. "Io avevo già esperienza di cucina, ma comunque mi sto perfezionando". E un altro sottolinea come sia "piacevole cucinare per i nostri compagni". E un "veterano" - come si definisce un altro detenuto - che ha partecipato all’esperienza allo Stabile, alla regata e che lavora nel laboratorio di ceramica - sottolinea che "non ho tempo libero, sono sempre occupato e questo mi distrae dal pensiero della vita fuori". Cosa spera di trovare quando uscirà? "Anzitutto la famiglia. Non posso rispondere altro, perché tutti mi dicono che fuori è girato il mondo: certamente, comunque, vorrei un lavoro". "Qui c’è tempo per riflettere e pensare - sottolinea un altro detenuto, momentaneamente sospeso dal lavoro per motivi di salute, mostrando la propria stanza - ed è un carcere dove si vive dignitosamente. Non siamo numeri e ci viene data una possibilità: sta a noi coglierla. Non appena potrò, tornerò al lavoro. Quando uscirò, spero soprattutto nella fortuna e, con la buona volontà, di cambiare vita perché voglio darle una svolta. Ho 40 anni e non sono più un ragazzino, ho famiglia e non è più tempo di fare esperimenti. La famiglia oggi è la cosa più importante per me, un tempo non la valorizzavo abbastanza: in questa vita quello che conta è vivere bene e per vivere bene bisogna distogliersi da tutte le tentazioni negative". "Qui si sta bene, siamo agevolati, possiamo stare in movimento - sottolinea un altro, impegnato a scartavetrare la deriva nel tempo libero dal lavoro in serra: vogliamo vedere la barca in funzione anche per dare ad altri un giorno l’opportunità di uscire con questa imbarcazione fatta da noi. E in futuro quello che stiamo imparando sul mondo della nautica si potrebbe utilizzare sia come hobby sia come lavoro". Una "serenità" dei detenuti sulla quale vigila la polizia penitenziaria - guidata dal comandante di reparto, commissario capo Sergio Bruno e coadiuvato dal vicecomandante ispettore Vincenzo Nicastro - che, a contatto diretto continuo con i detenuti, svolge in ciò un ruolo importante. La custodia attenuata nasce con il dl 309/90 La custodia attenuata nasce con il dl 309/90 che stabilisce che i detenuti che fanno uso di sostanze stupefacenti devono scontare la pena in strutture specifiche adeguate dove possano essere seguiti e "curati". In Sicilia, l’unico Icatt, aperto nel 1992-93 ma a pieno regime come custodia attenuata dall’agosto 2000, è quello di Giarre. Per accedere alla custodia attenuata occorre avere una posizione giuridica di condannato almeno in primo grado e l’assegnazione dei detenuti avviene dopo un esame delle istanze da parte dell’équipe del trattamento. Il limite per l’accesso alla custodia attenuata è una pena, anche residua, di 6 anni al massimo, un basso indice di pericolosità sociale, un motivato interesse a intraprendere un programma di recupero psico-socio-riabilitativo, un impegno per iscritto del detenuto a non prendere farmaci (neanche il metadone) spesso sostitutivi di sostanze altre (all’Icatt, ad esempio, è bandito anche l’alcol), l’impegno a svolgere le attività lavorative loro assegnate, a mantenere comportamenti corretti e a concordare con l’équipe eventuali richieste di benefici di legge. Milano: lo shopping virtuoso? alla "Sartoria San Vittore" della stilista Rosita Onofri Famiglia Cristiana, 15 luglio 2014 A Milano, una boutique con laboratorio annesso dove lavorano le detenute. Due collezioni donna all’anno. A disegnarle, la stilista Rosita Onofri. La moda è quanto di più effimero, eppure si muove con professionalità, impegno, a sostegno della ricerca e dei più deboli. Una virtù delle grandi griffe italiane, ma anche di piccole realtà. È la storia della Sartoria San Vittore che con le sue collezioni di moda per signora dal mese di giugno si è spostata da via Terraggio in via Gaudenzio Ferrari 3, uno spazio più grande, guadagnando nel retro il laboratorio. Il marchio è nato nel 2010 grazie alla Cooperativa Alice che dal 1992 ha dato la possibilità a tante carcerate di imparare e specializzarsi in campo sartoriale, un percorso di recupero finalizzato a un reinserimento sociale e lavorativo. "Oggi, in sartoria, sono 11 le persone intente alle macchine da cucire, a rifinire a mano gli orli, o attorno ai banconi da taglio: vi sono donne che escono dal carcere per lavorare con il beneficio dell’articolo 21 e altre affidate ai servizi sociali", racconta Luisa Della Morte, presidente della Cooperativa e responsabile formazione. Senza contare le detenute che lavorano nei due laboratori interni di San Vittore e Bollate. Tutte impegnate a confezionare abiti da sposa in cady di seta, toghe per i magistrati, costumi teatrali e due collezioni all’anno di moda femminili (vedi il sito www.sartoriasanvittore.com) con la supervisione della stilista Rosita Onofri. Che ha disegnato per la stagione in corso capi dalla linea pulita e senza tempo, con rifiniture d’alta sartoria, realizzati con belle stoffe italiane: lini, rasatelli e jersey di cotone. In attesa della collezione autunno-inverno 2014/2015 in vendita dalla metà di settembre, ora in boutique si trovano in saldo tubini in uno stile sartoriale impeccabile a 50, 60, 70 euro, gonne intorno ai 40 euro, borse tessute coi telai dentro il carcere a partire da 50 euro. E se occorre una riparazione, si esegue al momento. Oggi sposi: la sartoria San Vittore Una boutique di Milano presenta abiti da sposa realizzati da detenute, che - grazie alla cooperativa Alice - fanno un lavoro utile per vivere con dignità una volta fuori. Candidi, in jersey di seta oppure in cotone con ricami ajour, o ancora in cady di seta doppiati in crêpe georgette con lavorazioni sul davanti in macramè, un merletto d’origine araba eseguito con una serie di nodi che formano dei collari etnici, come fossero gioielli: sono gli abiti da sposa presentati in questi giorni grazie all’iniziativa promossa dalla Cooperativa Alice che dal 1992 è impegnata nell’attività di produzione sartoriale, coinvolgendo le donne presenti in carcere di San Vittore e Bollate o in regime di semilibertà. La collezione si chiama "Una sposa sostenibile" e, insieme con quella della primavera-estate, è in vendita presso la Sartoria San Vittore aperta da ottobre scorso a Milano in via Terraggio 28, a due passi da Sant’Ambrogio. "Il nostro obiettivo", spiega Luisa Della Morte, responsabile del consiglio d’amministrazione, "è produrre abiti belli e di qualità. Il valore aggiunto di chi sceglie un vestito con il marchio Sartoria San Vittore è quello di avere un capo esclusivo, realizzato da una cooperativa sociale a prezzi competitivi. Lavoriamo con i laboratori di sartoria all’interno delle sezioni femminili del carcere di San Vittore e Bollate e uno all’esterno. In quest’ultimo sono impiegate alcune donne che escono a lavorare con il beneficio dell’articolo 21. Ma ve ne sono altre che, scontata la pena, sono state regolarmente assunte perché hanno acquisito una professionalità nel settore grazie al percorso compiuto dietro alle sbarre. La prima sfilata di abiti da sposa l’abbiamo organizzata nel 2008 tra le mura del carcere quando è stato lanciato il nostro marchio. Oggi, proponiamo una piccola collezione di 10 pezzi ideata dalla nostra stilista Rosita Onofri, entrata in cooperativa 9 anni fa come volontaria un giorno alla settimana, ora nel consiglio d’amministrazione e alla sua terza vera e propria collezione. Nello spazio di via Terraggio offriamo alle future spose un servizio completo: dall’abito al pranzo, alle bomboniere. A questo proposito, collaboriamo con altre cooperative sociali, come, per esempio, Uroburo, che opera nell’area del disagio psichico e produce fedi, gioielli in oro, ma anche in metallo povero". Ma non basta. La Sartoria San Vittore si preoccupa di offrire "un servizio che farà la gioia di tutte le future spose", affermano in cooperativa Alice. Infatti, l’abito del matrimonio potrà essere rimesso a modello, trasformandolo in un capo da indossare in qualsiasi occasione elegante. E i prezzi? "I capi da giorno e da sera, tutti con lavorazioni a mano, hanno costi che oscillano tra i 100 e i 140 euro", conferma Rosita Onofri. "I prezzi degli abiti da sposa sono più alti, soprattutto quelli in seta, comunque in linea con la filosofia "sostenibile" della cooperativa Alice". La boutique è chiusa solo il lunedì. Il suo interno è stilisticamente distante da molti altri negozi di vestiti, con divanetti e mobili antichi. "È un punto d’incontro dove i clienti possono trascorrere qualche ora in pieno relax, fare due chiacchiere, provare gli abiti, se ne hanno voglia, e richiedere modifiche in tutta tranquillità", conclude Luisa Della Morte. "Piace lo stile, l’atmosfera conviviale che si respira e tutto quanto sta dietro alla nostra produzione". Chieti: ecco "169", il nuovo settimanale dell’associazione di volontariato Voci di Dentro Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2014 È uscito il primo numero di "169", il nuovo settimanale dell’associazione di volontariato Voci di Dentro. Uno Sei Nove, ovvero la 169esima ora, quella che manca per approfondire quei fatti raccontanti in maniera frettolosa e superficiale. Un’ora in più alla settimana per riscrivere, ribaltare punti di vista e fornirne nuove chiavi di lettura sugli aspetti del sociale infarciti di luoghi comuni. Nel primo numero, in allegato, 169 propone un’intervista realizzata da Silvia Civitarese a Emilio Giurastante, l’80enne fermato due settimane fa a Chieti dopo una colluttazione con un carabiniere. Il settimanale al momento è consultabile sul blog di voci di dentro al seguente indirizzo vocididentrojournal.blogspot.it. Reggio Calabria: dal Csv dei Due Mari il progetto "da Esclusi a Cittadini". www.cmnews.it, 15 luglio 2014 Il Csv dei Due Mari in collaborazione con gli Istituti penitenziari di Reggio Calabria, Palmi, Laureana di Borrello, Locri, la casa reclusione di Arghillà, la Conferenza Volontariato Giustizia, la Caritas Diocesana e i cappellani delle carceri, dà avvio al progetto "da Esclusi a Cittadini". Un’azione che ha l’obiettivo di sensibilizzare, coinvolgere e formare tutti coloro che vogliono prestare il proprio servizio all’interno delle carceri, svolgendo un’attività di volontariato. I dettagli dell’iniziativa verranno resi noti durante la conferenza stampa che si terrà il 16 luglio p.v. alle ore 10.00 presso la Casa circondariale San Pietro a Reggio Calabria. Interverranno il Presidente del Csv, Mario Nasone, il Direttore della Casa Circondariale di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, il Direttore della Caritas Diocesana, don Antonino Pangallo, il Responsabile della Conferenza Volontariato Giustizia, Alberto Mammolenti, i cappellani delle carceri di Reggio e Arghillà, don Giacomo D’Anna e don Francesco Megale. L’iniziativa si pone in continuità con il percorso sperimentale di Giustizia Riparativa avviato dallo scorso gennaio dal Csv in collaborazione con l’Uepe di Reggio Calabria, e che ha già favorito l’inserimento di soggetti condannati, già ammessi alle misure alternative alla detenzione, all’interno di associazioni, cooperative ed enti in un percorso di reinserimento nel tessuto sociale. Milano: revocata la semilibertà, Vallanzasca torna in cella per il furto al supermercato Il Giornale, 15 luglio 2014 Glielo avevano promesso: qualora avesse sgarrato ancora le porte del carcere si sarebbero chiuse per sempre, con lui dentro naturalmente. E così è stato: i giudici della sorveglianza di Milano hanno revocato il regime di semilibertà concesso nel 2013 a Renato Vallanzasca, protagonista della mala milanese condannato a 4 ergastoli e a 296 anni di carcere. Vallanzasca qualche settimana fa, il 13 giugno, infatti era stato arrestato - in un supermercato - l’Esselunga di viale Umbria - per aver rubato due paia di mutande e altri oggetti di poco valore. La semilibertà gli era già stata sospesa temporaneamente il giorno dopo la cattura per l’accusa di rapina impropria. Vallanzasca, attualmente detenuto nel carcere di Bollate, lavorava presso la comunità "Il Gabbiano" e trascorreva a casa i fine settimana. I giudici si erano riservati di decidere. Il suo legale, Debora Piazza, ha detto di non conoscere ancora le motivazioni ma ha spiegato che a suo avviso "questa decisione mal si coniuga con i principi rieducativi della pena e della presunzione di innocenza, che sono principi cardine del nostro ordinamento". Una volta in aula, il 10 luglio, all’udienza della Sorveglianza, Vallanzasca, presentatosi con l’avvocato Piazza, si è difeso sostenendo di essere stato "incastrato". "Sono molto stanco. Ridatemi il mio percorso". Così si era rivolto ai giudici della Sorveglianza di Milano che, dopo il suo arresto dovevano decidere se revocare o meno la semilibertà concessa nel 2013. In quell’occasione quel poco che è rimasto del Bel René dei tempi ruggenti aveva spiegato che da alcuni mesi sta mettendo da parte dei soldi in un fondo per risarcire i familiari delle vittime. I giudici, però, quel furto di mutande glielo hanno fatto pagare caro, molto caro. Stati Uniti: pena di morte; più di 3mila le persone recluse in attesa di essere giustiziate di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 15 luglio 2014 Negli Usa sono più di tremila le persone recluse in attesa di essere giustiziate. Nonostante il numero sia in calo, stati come California e Florida detengono ancora il primato delle esecuzioni. A renderlo noto il rapporto un report del Naacp. Il rapporto trimestrale curato dal Naacp (National Association for the Advancement of Colored People) registra che alla data del 1° gennaio 2014, i detenuti nei bracci della morte Usa erano 3.070, cinquantacinque in meno rispetto alla stesso periodo dell’anno precedente. Dal 2000, il numero complessivo dei detenuti dei bracci della morte statunitensi è diminuito del 16%. Il primato di California e Florida. Il braccio della morte più popoloso rimane, come ormai da moltissimi anni, quello della California dove sono recluse 742 persone, seguito da Florida (410), Texas (278), Alabama (198) e Pennsylvania (193). Al di sopra dei cento detenuti ci sono anche North Carolina, Ohio e Arizona. Mentre Georgia Louisiana, Nevada, Tennessee e il braccio della morte federale di Terre Haute in Indiana detengono più di cinquanta condannati a morte. Etnia e sesso. La maggioranza dei detenuti, il 43,09%, è di etnia caucasica, mentre il 41,82% è afro americano. Ispanici, asiatici e nativi americani costituiscono invece il 16% dei reclusi nei bracci della morte. Per quanto riguarda il genere la differenza è marcata. Sono sessanta le donne in attesa della pena capitale, l’1,95% dei condannati. I numeri della pena di morte. Dal 1976 all’inizio del 2014 sono state giustiziate 1359 persone. Divise per sesso, le persone giustiziate sono 1346 uomini (99,04) e 13 donne (0,96%). Le 1359 persone giustiziate erano state condannate per un totale di 2005 omicidi. Di questo omicidi, 1352 erano stati contro bianchi (76,41%), 300 contro neri (14,96%), 130 contro ispanici (6,48%), 38 contro asiatici (1,90%) e 5 contro nativi americani (0,25%). Gli analisti del Naacp notano che a livello nazionale, circa metà degli omicidi hanno come vittime persone di colore e che la percentuale di persone condannate a morte per aver ucciso un nero (circa 15%) denota una sproporzione generata da motivi razziali. Dei 2005 omicidi puniti con l’esecuzione, 1026 erano stati contro maschi (51,17%) e 979 contro femmine (48,83%). Il rapporto contiene anche altri dati, compresa una breve trattazione dei più recenti sviluppi legislativi circa la pena di morte. L’ultima esecuzione. Eddie Davis, 45 anni, è l’ultimo recluso giustiziato in ordine di tempo negli Stati Uniti. Era stato condannato a morte il 30 giugno 1995 dopo aver confessato di aver violentato e ucciso Kimberly Waters, la figlia di 11 anni della sua convivente. Il 26 giugno la Corte Suprema della Florida aveva accolto un ricorso di Davis , e aveva ordinato ad una corte di grado inferiore di esaminare il suo caso poiché il condannato sosteneva che, essendo affetto da porfiria, una malattia ematica genetica, su di lui il primo dei tre farmaci dell’iniezione letale avrebbe causato fortissimi dolori addominali, nausea e vomito. Il 1° luglio il giudice Donald Jacobsen della Polk County, dopo aver ascoltato un esperto che ha definito "altamente improbabile" l’eventualità prospettata da Davis, ha respinto il ricorso. Davis diventa il settimo giustiziato di quest’anno in Florida, l’ottantottesimo da quando la Florida ha ripreso le esecuzioni nel 1979 e il giustiziato n° 1383 da quando, il 17 gennaio 1977, gli Stati Uniti hanno ripreso le esecuzioni. Stati Uniti: nel carcere di Rikers Island in 11 mesi "picchiati selvaggiamente" 129 detenuti Reuters, 15 luglio 2014 Nel carcere di Rikers Island, una piccola isola nel territorio della città di New York, nel corso di 11 mesi nel 2013 129 detenuti sono stati picchiati selvaggiamente dalle guardie: lo afferma un’indagine del "New York Times". Secondo l’inchiesta, gli attacchi brutali contro i prigionieri, soprattutto quelli con problemi mentali, sono fenomeni comuni all’interno del penitenziario. Il Nyt racconta per esempio la storia di José Bautista, finito a Rikers Island dopo essere stato arrestato per una lite familiare e non essere riuscito a pagare la cauzione di 250 dollari. Pochi giorni dopo l’arrivo nel carcere, l’uomo ha cercato di impiccarsi nella cella usando le sue mutande: invece di avvertire il personale medico, le guardie hanno ammanettato Bautista, lo hanno costretto a sdraiarsi a faccia in giù sul pavimento e lo hanno picchiato a sangue, tanto da perforargli l’intestino e rendere necessaria un’operazione d’urgenza. Il Nyt ha scoperto i dettagli su decine di episodi di violenza attraverso interviste con detenuti o ex detenuti, guardie carcerarie e personale medico, e passando in rassegna centinaia di pagine di documenti. Secondo l’indagine, dei 129 detenuti che hanno subito "lesioni gravi" nel 2013 il 77% ha problemi mentali. Svizzera: per i detenuti niente acquisti allo "spaccio", la priorità va data alla sicurezza www.rsi.ch, 15 luglio 2014 La Commissione di sorveglianza sulle condizioni di detenzione del Gran Consiglio ticinese ha incontrato lunedì una delegazione di detenuti dopo le proteste di 4 giorni fa alla Stampa. L’obiettivo era quello di capire l’entità delle rivendicazioni. La presidente Maruska Ortelli afferma che la situazione carceraria è sotto controllo e che dovrà essere la direzione a valutare la legittimità delle richieste dei detenuti. La struttura, si è appurato, rispetta pienamente i diritti umani. I prigionieri lamentano un aumento, nel corso degli anni, delle restrizioni. Fra le richieste concrete vi sono la possibilità di potere disporre di frutta fresca e di fare acquisti allo spaccio. Queste vendite sono state bloccate dopo la scoperta che con gli alimentari si potevano ottenere "sostanze proibite". Per il direttore a interim della struttura, Marco Zambetti, la priorità va data alla sicurezza. Filippine: c’è grande necessità di riformare il sistema carcerario, sovraffollato del 400% www.lindro.it, 15 luglio 2014 Quando l’avvocatessa Gigi Reyes ha saputo di dover affrontare la drammatica condizione del carcere a causa del suo coinvolgimento nello scandalo del cosiddetto "barile di carne di maiale" è caduta in un mare di lacrime, le si prospettava nella sua mente l’apertura delle sbarre nel carcere di Quezon City. Allo stato attuale permane nella sede di Sandiganbayan, cioè lì dove è situato il corpo giuridico dell’antifrode a Quezon City mentre la Corte Anti-Frode attende i documenti emessi dal Bureau dell’Amministrazione Penitenziaria e di Diritto Penale sulla condizione e sulla sicurezza del dormitorio femminile. La cella di 23.5 metri quadri di Sandiganbayan è relativamente nuova. La sua costruzione è stata ordinata dalla Corte nel Dicembre 2013 come parte del programma di "sviluppo ed attenzione di genere" dove i prigionieri - uomini e donne - possono accedere ad una serie di agevolazioni distinte. La Reyes ha la fortuna - o il vantaggio politico - di essere la prima prigioniera ad usufruire della stanza che ha un letto singolo, un piccolo lavabo da cucina, un water ed un ventilatore da soffitto, sebbene sia rotto al punto di dover fare affidamento ad un ventilatore di rimedio, proveniente da chissà quale bancarella. Ha diritto anche ad una fornitura di cibo in valore pari a 30 Pesos filippini, cioè circa 0.70 $ per singolo pasto ma i visitatori hanno il permesso di portarle qualcosa da mangiare prodotto in proprio. Certo, si tratta di un alloggio parecchio spartano per le abitudini della Reyes, fino a poco tempo fa abituata a fastose feste mondane ed al lusso che derivava dal ruolo di amante (così si sussurra da tempo) del senatore Juan Ponce Enrile, un ex Presidente del Senato ed oggi accusato anch’egli nello scandalo del "barile di carne di maiale" insieme con altre 54 persone. Ma quello che sta vivendo oggi è da considerarsi un lusso rispetto a quello che l’aspetta nel carcere di Quezon City. Lì la Reyes si ritroverà stipata in una struttura edilizia pensata per sole 56 persone ma che oggi ne custodisce 504, un tasso di sovraffollamento di circa l’800 per cento. Il pasto quotidiano ha un valore lievemente superiore, 50 pesos, dovrà rinunciare al letto e dormire per terra. Dovrà indossare una uniforme con una maglietta gialla e dei pantaloni marroni, fare la fila per andare in bagno in bagni in comune (i detenuti in attesa di giudizio innanzi alla corte hanno la precedenza). La Legge naturalmente dovrà essere seguita alla lettera, soprattutto nel caso della Reyes che non è un esponente ufficiale eletto né una testimone: non vi è alcun trattamento speciale per i prigionieri, senza alcuna distinzione. Le prigioni filippine sono un buco infernale dove non vi è alcuna nozione di condizione umana e le condizioni di vita sono miserabili, brutali, disdicevoli. Secondo un report del 2011 emesso dal Dipartimento degli Interni e dal Governo Locale, le carceri locali sono congestionate mediamente del 400 per cento. Il carcere di Manila, ad esempio, fu costruito per avere 1.000 detenuti ed oggi ne ospita 5.300 nell’anno in corso. Muntilupa è circa il 500 per cento oltre la sua capacità operativa. Da tutto questo deriva. affermano i critici, la assoluta necessità di riformare profondamente l’intero sistema carcerario delle Filippine che oggi sono solo la tomba dei Diritti Umani fondamentali. Iran: pubblicano su Fb post contro il governo, 8 giovani condannati a 127 anni di carcere Aki, 15 luglio 2014 Un Tribunale della Rivoluzione in Iran ha condannato otto giovani per aver pubblicato post antigovernativi su Facebook. Lo riportano i media locali, precisando che gli otto condannati, le cui identità non sono state rese note, sono stati imprigionati per "aver agito contro la sicurezza nazionale, aver svolto propaganda antigovernativa e aver insultato i valori religiosi e i leader iraniani". Secondo i media, gli otto sono stati condannati a pene tra gli 11 anni e i 21 anni di carcere. Il Tribunale ha inflitto pene complessive per 127 anni di prigione. I detenuti, originari di Teheran, Yazd, Shiraz, Abadan e Kerman, possono ora ricorrere in appello contro la sentenza. Secondo il sito riformista Kaleme, a maggio altre otto persone erano state condannate in Iran a pene carcerarie per aver fatto propaganda contro la Repubblica islamica su Facebook. L’accesso ai social network come Twitter e Facebook è bloccato in Iran dal 2009, anno delle proteste contro l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, ma gli utenti aggirano i filtri imposti dalle autorità attraverso dei software speciali.