Né hotel di lusso né supermarket dell’illegalità Il Mattino di Padova, 14 luglio 2014 Giorni amari, per la Casa di Reclusione di Padova, travolta da una inchiesta che vede indagati agenti e detenuti in un traffico di droga, telefoni cellulari e altro. La spettacolarizzazione dell’informazione ha portato a descrivere prima il carcere Due Palazzi come un hotel di lusso, oggi come una specie di bordello, ma siamo ben lontani dalla verità: le carceri oggi sono luoghi malati, il sovraffollamento si traduce soprattutto in paralisi di qualsiasi attività, assenza di speranza, degrado, e in un mondo così malato è impossibile che non si annidi l’illegalità. La risposta non è però trasformare il carcere in un fortino, ma tagliare alla base quello che alimenta l’illegalità: creare più occasioni di attività per le persone detenute, aiutarle a rinsaldare i rapporti con le famiglie, liberalizzare le telefonate così che non serva cercare modi illeciti per parlare con i propri cari, ridurre al massimo l’inattività e l’ozio forzato, che sono il terreno di coltura di tutti i comportamenti più irresponsabili. Ma davvero "il carcere era come un bazar"? "Il carcere era come un bazar" è un titolo che ho trovato nei quotidiani locali nei giorni scorsi per definire la triste storia, che vede coinvolti agenti e detenuti per cessione e uso di stupefacenti all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. Le semplificazioni molto spesso danno un quadro distorto della realtà di cui si sta parlando. La vita ci insegna che problemi di questo tipo affliggono ogni settore della nostra società, studenti, liberi professionisti, gente di culture e nazionalità diverse, ecco perché nessuno dovrebbe sentirsi immune da tutto ciò, e tanto meno le persone detenute o chi lavora all’interno del carcere. Ho varcato la soglia del carcere minorile per la prima volta all’età di quindici anni, da allora ne ho trascorsi altrettanti all’interno delle patrie galere, e posso assicurare che non trovi nessun "bazar" e tanto meno del lusso al loro interno, ma piuttosto degrado e una grande povertà arricchita da una subcultura carceraria che è ancora peggiore di quest’ultima. Questa situazione sempre più spesso porta le persone che non riescono ad occupare la loro giornata in modo attivo, partecipando ad attività lavorative o culturali, a cercare rifugio in psicofarmaci o qualsiasi altra sostanza riesca a colmargli quel vuoto che si crea dentro di loro, e a scollegare la loro mente dalle sofferenze che stanno vivendo in quel momento. Forse anche per questo gli addetti ai lavori continuano a spiegare che il carcere non serve come deterrente per persone che hanno avuto problemi con la droga, e che ci vorrebbero percorsi alternativi altrimenti la pena invece di diventare la cura rischia di diventare la vera e propria malattia. Avendo trascorso quasi tutta la mia giovane età in questi luoghi non posso non indignarmi davanti alla banalizzazione di un problema che mi riguarda da vicino, perché questo tipo di informazione serve solo a confondere le idee alla società sulla realtà carceraria, al massimo può far vendere qualche copia di giornale in più, ma di certo non spinge a porsi delle domande rispetto a una questione complessa come l’abuso di sostanze stupefacenti. Io quando sono arrivato nel carcere di Padova ero stato definito dagli operatori degli istituti che mi avevano ospitato in precedenza una persona irrecuperabile, nonostante avessi poco più di vent’anni e reati non gravissimi, questo a causa del mio continuo dire no alla richiesta di adattarmi alle regole che mi venivano imposte con strumenti afflittivi, da parte di una istituzione totalitaria come quella carceraria in cui ho vissuto. Questo comportamento nel corso degli anni mi ha portato a vivere la pena in modo sterile e fine a se stesso, senza mai mettere in discussione nulla del reato che avevo commesso, anzi ho accumulato moltissime denunce che con il tempo si sono trasformate in anni di carcere aggiuntivi. Alla fine stavo diventando di fatto una persona peggiore di come ero entrato. Purtroppo questo modo di vivere il carcere nel corso degli anni mi ha portato ad avere una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni, ma oggi posso dire con assoluta convinzione che il mio pensiero era distorto, perché cambiare si può anche in una realtà difficile come quella carceraria se ci vengono dati gli strumenti, ed io e altri miei compagni questi strumenti li abbiamo trovati all’interno di questo istituto che oggi viene definito un "supermarket" dell’illegalità, raggiungendo anche dei risultati importanti rispetto alla consapevolezza delle azioni che ci hanno portato in carcere. Sarebbe allora onesto da parte dei mezzi di informazione che quando si parla di una realtà lo si faccia evidenziandone i tanti aspetti, è sbagliato descrivere il carcere di Padova come un carcere modello, perché ci sono ancora troppi detenuti che non sono impegnati in nessuna attività, ma è altrettanto ingiusto descriverlo come un centro di illegalità, sia per i detenuti che nel corso degli anni hanno dimostrato di essere dell’altro e non solo il loro reato, ma soprattutto nei confronti di quegli operatori che lavorano con passione e dedizione. Io invece voglio andare in controtendenza e ringraziare i tanti operatori del carcere di Padova che in questi anni hanno fatto bene il loro lavoro, accompagnandomi in questo difficile viaggio che è il percorso risocializzante di un detenuto rispetto al suo passato: educatori, psicologi del servizio tossicodipendenze e volontari della redazione di cui faccio parte da oltre quattro anni, perché è anche grazie a loro se oggi sono in possesso di strumenti e consapevolezze diverse rispetto al mio passato, gli stessi che mi stanno portando con permessi graduali a cercare una giusta collocazione all’interno della società per quando finirò di scontare la mia pena. Tutto ciò è stato possibile anche grazie ad un direttore che ha sempre dimostrato di credere nella funzione rieducativa della pena, e con me non si è fermato davanti a delle relazioni delle carceri precedenti che mi definivano una persona irrecuperabile, dimostrando con gli anni di avere ragione perché forse non sarò un angelo e potrò fare ancora tanti errori, ma mi sento una persona migliore di come sono entrato, soprattutto con dei progetti e delle prospettive infinitamente diversi da quelli che avevo ieri. Ecco sarebbe bello che i mezzi di informazione ricordassero sempre questo aspetto del carcere di Padova, dei detenuti reclusi e di molti degli operatori che ci lavorano, un aspetto che si realizza quando le persone credono in una funzione della pena rieducativa e non afflittiva. Luigi Guida Una telefonata a settimana di soli dieci minuti rischia di alimentare l’illegalità Roverto Cobertera è un uomo di colore con doppia cittadinanza domenicana e statunitense condannato all’ergastolo, che tempo fa aveva iniziato uno sciopero della fame per gridare la sua innocenza. Adesso che sono stato declassificato dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza ci incontriamo più spesso. E l’altro giorno ci siamo messi a passeggiare in un angolo e a discutere della petizione "AmoreTraLeSbarre" che abbiamo lanciato tramite la piattaforma www.change.org per chiedere il diritto all’affettività in carcere, ma anche delle ultime vicende accadute al Due Palazzi, della droga e dei telefoni cellulari che dicono venissero introdotti in carcere. È stata un’occasione per riflettere su quella misera telefonata di dieci minuti a settimana che si può fare dal carcere alla propria famiglia. Roverto mi ha confidato quanto vorrebbe poter parlare più a lungo e spesso con le sue due bambine: "Negli Stati Uniti non c’è nessuna limitazione di numero e di tempo nelle telefonate che puoi fare ai tuoi figli. L’altro giorno ho telefonato a casa. Mia figlia Vittoria di cinque anni mi ha rimproverato che le telefono solo una volta la settimana. E che parlo con lei pochi minuti. Per difendermi le ho mentito, le ho detto che non avevo abbastanza soldi per fare telefonate più lunghe e numerose. Lei con voce autoritaria mi ha risposto che avrebbe detto alla mamma di mandarmi più soldi. Mi sono cadute le braccia. E alla fine mi sono giustificato che la mamma aveva tanti problemi e che non poteva mandarmi più soldi. Poi per paura di altre sue domande le ho detto di passarmi sua sorella (di nove anni). Lei per ripicca mi ha gridato che mi odiava perché parlavo poco con lei. Questa volta invece delle braccia mi è caduto il cuore. E le ho risposto che però io le volevo tanto bene. Alla fine pure lei mi ha risposto "anch’io papà". Poi ho parlato con l’altra mia figlia Sophie che s’è sfogata con me per i suoi problemi scolastici con la matematica. Nell’ultimo dei dieci minuti che mi era rimasto, ho potuto solo scambiare due parole con mia moglie. E le ho potuto dire solo che la amo perché subito è caduta la linea". La cosa più brutta del carcere è che vedi tanti compagni soffrire. E forse l’unica consolazione è che in questo modo ti dimentichi del tuo dolore. A un certo punto ho visto che gli occhi di Roverto si erano inumiditi e luccicavano d’amore per le sue due figlie e per la sua compagna. Ho provato a consolarlo. E gli ho detto che se anche è difficile che un giorno noi riusciremo ad uscire dal carcere in tutti i casi l’amore dei nostri figli e delle nostre compagne non ce li potrà mai portare via nessuno, perché il nostro cuore è dove sono loro. Carmelo Musumeci Giustizia: anche le toghe dovranno risarcire danni ed errori di Claudia Fusani L’Unità, 14 luglio 2014 La responsabilità civile delle toghe è il punto sei della riforma della giustizia. Orlando ha pronto il testo. No al risarcimento diretto. Le somme saranno prelevate dallo stipendio. È giusto che chi sbaglia paghi. Anche tra i magistrati. Il governo Renzi intende rompere anche questo tabù. Gli uffici del ministero della Giustizia hanno già preparato un testo, un disegno di legge di circa una decina di articoli che difficilmente piaceranno del tutto alle toghe visto che è previsto il risarcimento da parte dello Stato che farà il prelievo dallo stipendio del magistrato che ha sbagliato "per dolo o colpa grave". È il punto 6 delle linee guida della riforma della giustizia che, annunciata il 30 giugno scorso, da qualche giorno campeggia sotto forma di fiore sulla home page del ministero. Ogni petalo, un punto della riforma. Il Guardasigilli ha dato due mesi di tempo per i contributi esterni, via mail, all’indirizzo rivoluzione@governo.it. Poi i testi, il più possibile condivisi, cominceranno il loro iter parlamentare. Inutile dire che la questione sia incandescente. Era il 1988 quando, sull’onda di un referendum richiesto dai Radicali, l’80 per cento degli italiani votò a larga maggioranza a favore della responsabilità civile dei magistrati. Il caso Tortora aveva sconvolto l’opinione pubblica. E quella sembrò la giusta e necessaria risposta. Solo che la legge Vassalli, nata da quel referendum, da allora è riuscita a condannare quattro magistrati. Decisamente pochi rispetto al numero di errori giudiziari che sono stati commessi. Da allora il tema è sempre stato un problema in cerca di soluzione ma mai veramente affrontato perchè una delle tante questioni legate alla giurisdizione vittime del clima da derby ideologico che ha congelato ogni problema legato alla giustizia nel ventennio berlusconiano. L’inerzia, alla fine, ha provocato un comune sentire per cui ancora oggi per l’80 per cento dei cittadini chiede che anche i magistrati siano sottoposti a una forma di risarcimento per i danni provocati. E alcune mostruosità legislative. Ad esempio la norma del leghista Pini che introduce la responsabilità civile diretta ed è già stata approvata da un ramo del Parlamento (la Camera) nell’ambito della più vasta norma comunitaria che riguarda succhi di frutta e richiami ornitologici per i cacciatori. È l’Europa infatti che chiede di provvedere all’ennesimo vuoto normativo italiano. "Soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale" si legge nella Raccomandazione n° 12/2010 del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Ora la legge comunitaria, quella con la norma Pini, potrebbe arrivare al Senato per essere approvata. La Commissione Giustizia del Senato, a firma del senatore socialista Enrico Buemi, ha pronto un testo relativo alla responsabilità civile che potrebbe sostituire in corsa la norma Pini e viaggiare con la legge comunitaria. Ma tutto è stato bloccato. In attesa del testo del ministro Orlando. Che condivide alcuni passaggi fondamentali del testo Buemi. Certamente la responsabilità civile non sarà diretta: il cittadino che ritiene di aver subito un torto dal suo giudice che ha agito "con dolo o colpa grave", non potrà mai rivalersi, come succede per altri professionisti, direttamente davanti a un giudice civile e pretendere il risarcimento. La rivalsa, cioè, sarà sempre filtrata dallo Stato che "avrà poi la possibilità di prelevare direttamente ogni mese fino alla metà dello stipendio del magistrato giudicato colpevole". Il governo condivide, anche, "l’eliminazione di tutti quei filtri di ammissibilità che finora hanno reso nei fatti inapplicabile la legge Vassalli". Via i filtri, dunque. Resta da chiarire "chi definisce il dolo e la colpa grave". Quali sono i confini della responsabilità del magistrato, quando veramente sbaglia e perchè. E il fatto che "la rivalsa del singolo cittadino debba essere sottoposta a un giudizio di ammissibilità". "Faremo di tutto - si spiega dal ministero - per evitare che nelle pieghe del disegno di legge ci siano rischi di scivolamento in forme di responsabilità diretta ". Così come "faremo di tutto per tutelare l’indipendenza della magistratura e i diritti dei cittadini ed evitare che da queste norma possano derivare condizionamenti di sorta". La magistratura è pronta alla battaglia e mette in guardia, come dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, "dagli effetti paralizzanti e distorsivi" che una norma scritta male può avere su tutta la giurisdizione. E però stavolta i tempi sono maturi e non più rinviabili. I magistrati che sbagliano dovranno risarcire il danno. Giustizia: sovraffollamento, quattro regioni al top: Puglia, Lombardia, Campania e Lazio di Marzia Paolucci Italia Oggi, 14 luglio 2014 Sono solo quattro le regioni dove le nostre carceri scoppiano ma da sole bastano a infliggerci le condanne di Strasburgo e la piaga dei tanti suicidi dietro le sbarre. Negli oltre 200 istituti di pena ci sono circa 9 mila detenuti in più che a conti fatti ci stanno stretti perché la capienza regolamentare degli spazi ci dice che non dovrebbero esserci. È questo scollamento tra quanti sono e quanti in meno dovrebbero essere che rende il nostro sistema carcerario fragile, lo stesso che poi si porta dietro le condanne di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti. Non è un giorno che l’associazionismo sensibile al tema da Antigone a Ristretti orizzonti e l’asset politico e istituzionale del paese denunciano una situazione ormai allo stremo, dal presidente della repubblica agli esponenti del Partito radicale italiano che si incatenano, fanno scioperi della fame e chiedono il ritorno del reato di tortura. L’ultima volta proprio il primo luglio scorso in cui la Corte europea dei diritti umani ci ha nuovamente condannato dopo il ricorso di un cittadino italiano per fatti avvenuti nel 2000 nel carcere di Sassari dove gli agenti penitenziari sono stati trascinati in giudizio per violenza privata, lesioni personali e abuso di funzioni. Del resto, nonostante la stretta data dal Ministro Orlando sulle pene alternative e il lavoro esterno, è rilevante la forbice tra la capienza regolamentare delle celle di 49.461 e quella effettiva di 58.092, secondo i dati diffusi dal Ministero al 30 giugno 2014. Il tutto stabilito sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni, più favorevole rispetto ai 7 mq + 4 stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, organismo del Coe. Delle due, l’una: o si fanno più carceri o se ne mettono più fuori. Nei 205 istituti di pena italiani distribuiti nelle regioni del paese, solo in Sicilia sono 26 seguita dai 19 della Lombardia, la capienza regolamentare è quasi sempre superata da quella effettiva: ora da uno o qualche centinaia e ora in almeno quattro regioni, addirittura di mille. In Lombardia, Lazio, Puglia e Campania, la mancanza di spazio è emergenziale: nella prima i 6.075 detenuti previsti dalla capienza regolamentare diventano ben 2 mila in più con 8.297 effettivi, ce ne sono circa 1.300 in più nel Lazio dove i regolamentari sono oltre 5 mila e gli effettivi oltre 6.200, lo scarto è invece di circa 1.800 in Puglia dove gli oltre 2.300 sulla carta diventano più di 3.500 mentre i 6.000 detenuti campani si traducono nella realtà in oltre 7.500. Quattro regioni che da sole ci trascinano oltre i livelli di guardia e dire che se non fosse per loro, non andrebbe poi così male. Tra i virtuosi c’è la Basilicata attestata a 480, appena dieci in più rispetto al dovuto e i due casi isolati della Valle d’Aosta e del Trentino dove la capienza regolamentare non è neppure raggiunta da quella effettiva. Nell’unico carcere valdostano ci sono 180 detenuti da capienza regolamentare e 144 effettivi e 348 presenze contro le 509 regolamentari dei due istituti altoatesini. Situazione sotto controllo anche per Calabria, Marche, Molise e Piemonte dove lo scollamento resta sempre intorno al centinaio, poco più poco meno ma riproporzionato su ben 13 istituti rispettivamente per Calabria e Piemonte, sette nelle Marche e tre in Molise. C’è poi la forbice dei 300 e 400 di Emilia-Romagna, Sicilia e Abruzzo anche qui da riparametrare sui 12 istituti emiliani, i 26 siciliani e gli otto abruzzesi. Giustizia: ecco servita la beffa dei braccialetti elettronici di Martino Villosio Il Tempo, 14 luglio 2014 Il governo ha previsto che siano usati per controllare chi è ai domiciliari. Gli apparecchi sono finiti e i detenuti escono lo stesso. Pure quelli pericolosi. Prima il decreto sul femminicidio, la scorsa estate, li ha introdotti come strumento di controllo per gli stalker. Lo svuota carceri dello scorso inverno, li ha fatti diventare praticamente obbligatori per chi va agli arresti domiciliari. Infine è arrivato il decreto legge entrato in vigore lo scorso 28 giugno che prevede sempre gli arresti domiciliari, invece della custodia in carcere, per indagati o imputati se la condanna prevista non supera i tre anni. In sole tre mosse, in meno di un anno, la politica ha trasformato i braccialetti elettronici in uno strumento chiave. Ha fatto di questi apparecchi, applicati alle caviglie dei detenuti a domicilio, una risposta al cronico sovraffollamento delle carceri. Solo un particolare è stato trascurato: bisognava comprarli. Già, perché mentre i governi di Letta e Renzi creavano le condizioni perché la domanda di braccialetti elettronici esplodesse, la macchina amministrativa ha viaggiato in direzione ostinata e contraria. Nonostante i ripetuti allarmi lanciati al ministero dell’Interno da Telecom, cui una convenzione ha assegnato la fornitura degli apparecchi, la dotazione di 2.000 "pezzi" non è stata ampliata. Il risultato risplende nella circolare che lo scorso 19 giugno l’ufficio del capo della polizia Pansa ha inviato ai vertici del Dap: "Ad oggi", scriveva Pansa, "si è arrivati a circa 1.600 dispositivi attivi con una saturazione del plafond di 2.000 unità prevista entro il corrente mese di giugno". E poi un’altra cattiva notizia: per i nuovi braccialetti bisognerà attendere fino ad aprile del 2015, visto che è necessario predisporre un capitolato per una gara europea. Ci ha pensato però il governo a trasformare un grosso problema in un rischio emergenza. Solo dieci giorni dopo l’allarme di Pansa, infatti, è entrato in vigore il decreto 92. In base alla norma ogni nuovo arrestato, ma anche chi è già detenuto in attesa di giudizio o con una sentenza non ancora definitiva, deve essere inviato agli arresti domiciliari se il giudice competente prevede per lui una pena non superiore ai tre anni. Un provvedimento che, nell’interpretazione che stanno dando alcuni magistrati, ha effetto anche per chi è già in carcere con una condanna non definitiva superiore al limite di tre anni, ma deve scontare una pena residua inferiore. Nelle prossime settimane, spiegano gli addetti ai lavori, usciranno insomma di prigione per andare a casa non solo i piccoli pusher, ma anche rapinatori, spacciatori o altri condannati di elevata pericolosità sociale, che non potranno però essere dotati del braccialetto elettronico come previsto dalla legge. A chi la responsabilità? La Telecom, che nel 2004 a firmato un contratto con il Viminale per la fornitura, l’installazione e il monitoraggio dei 2.000 apparecchi, avrebbe informato mensilmente il ministero dell’Interno sul rischio di un esaurimento delle scorte. Dal dicastero di Alfano, per ora, l’unica risposta operativa è stato scaricare la patata bollente sugli uffici giudiziari, con la circolare del 27 giugno scorso indirizzata dal capo di gabinetto del ministro Giovanni Melillo a Procure e Tribunali della penisola. "In attesa che il ministero dell’Interno giunga ad una nuova convenzione che ampli la disponibilità di braccialetti elettronici", si legge nell’invito rivolto a giudici, "si prega di accertare preventivamente la disponibilità da parte della polizia giudiziaria dei mezzi elettronici suddetti". Accertare la disponibilità di strumenti ormai dichiaratamente esauriti e che non saranno incrementati prima di un anno: un’interessante acrobazia. "Il braccialetto oggi sta dando risultati positivi", ci ha spiegato il gip di Roma Stefano Aprile, "in tre giorni viene applicato al detenuto, porta dei risparmi economici importanti". Eppure quando fu introdotto, nel 2001, nessuna circolare si preoccupò di dettare agli uffici giudiziari come utilizzarlo. Per un decennio il braccialetto è rimasto un oggetto misterioso, poi due anni fa proprio il gip Aprile impose alla questura di Roma di utilizzare sistematicamente gli apparecchi disponibili visto che il sistema risultava regolarmente attivato. In pochi mesi il braccialetto elettronico ha preso piede anche in altre procure e tribunali d’Italia. Fino all’epilogo odierno. Anni di polemiche contro i costi di uno strumento percepito come "inutile", e ora che il braccialetto diventa essenziale l’Italia se ne trova sprovvista. Chapeau. Finora il gingillo è costato centomila euro Un braccialetto elettronico in Italia costa 12 euro al giorno, un detenuto in carcere circa 130. Con questa formula (anche se esistono Paesi in cui il costo del braccialetto è di 3 euro la giorno) si può riassumere l’appeal esercitato - secondo il giudizio di molti addetti ai lavori - da uno strumento che nel nostro Paese ha avuto una storia travagliatissima. Fino a poco tempo fa era guardato con grande sospetto: inutilizzato e ignorato dai giudici per più di un decennio, il braccialetto è costato in compenso quasi 100 milioni di euro tra fine 2003 e fine 2011 allo Stato, in virtù del contratto stipulato con Telecom, chiamata a fornire il servizio di installazione e monitoraggio degli apparecchi come gestore unico, in affidamento diretto e senza gara. Oggi che l’uso del braccialetto è decollato fino a spiazzare lo stesso ministero, rimasto senza scorte, l’Italia continua ad essere distaccata da altri Paesi nella classifica della sua utilizzazione. Si veda la Francia, dove dati ufficiali parlano di un salto da 3.430 persone monitorate nel 2011 alle 5.050 di fine 2013. Mentre nel Regno Unito si è passati da 18.176 persone con braccialetto per giorno a 22.420 nel 2010 (oggi la cifra oscilla tra i 30 e i 35 mila soggetti). In Italia, nonostante il forte ritardo accumulato, tra l’ottobre 2012 e l’ottobre 2013 è avvenuto un importante balzo in avanti: in quel periodo sono stati infatti attivati 90 dispositivi mentre in precedenza - tra il gennaio 2008 e il settembre del 2012 - i dispositivi attivati in tutta Italia erano stati soltanto 18. La diffusione del braccialetto elettronico nel nostro Paese è avvenuta grazie soprattutto all’impulso dell’ufficio Gip del tribunale di Roma: è infatti nella Capitale che sono stati attivati 65 dei 90 braccialetti messi in funzione tra 2012 e 2013. Ma il braccialetto funziona? Uno studio dell’amministrazione penitenziaria francese sembra dimostrarlo: il 23 per cento di coloro che sono stati condannati alla sorveglianza è poi tornato in carcere, e il 42 per cento di questi è stato poi condannato in seguito. Giustizia: treni, traghetti e web… ecco la grande fuga del killer del catamarano di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 14 luglio 2014 Le foto segnaletiche sono in ogni porto, in ogni stazione e a ogni frontiera. Ma potrebbero essere ormai inutili. Quel che conta è il lavoro di intelligence quasi sul filo della psicologia, per capire quale sarà la prossima mossa, quale il prossimo viaggio, quale la prossima meta. Quel che conta è la mappa sulla quale gli inquirenti, ogni giorno, aggiungono un dettaglio, un passaggio, una possibile pista. Sono trascorsi 87 giorni da quando Filippo De Cristofaro, condannato per aver ucciso - nell’estate del 1988 insieme alla sua fidanzata 17enne olandese - la skipper pesarese Annarita Curina, è uscito dal carcere di Porto Azzurro senza farvi più ritorno. Aveva con sé una valigia enorme, che dovrebbe destare sospetti, ma nessuno la nota. Doveva essere un permesso premio da passare nell’isola. Si è trasformata in quell’evasione che lui sognava e programmava da mesi. Come hanno ormai capito i 15 investigatori della squadra mobile di Ancona che da allora gli danno la caccia. Giorno e notte. Un’inchiesta nata con difficoltà, quella coordinata dal procuratore generale di Ancona, Vincenzo Macrì e dal sostituto Teresa Cameli, perché la fuga di De Cristofaro, noto alle cronache come il "killer del catamarano", è stata scoperta con due giorni di ritardo. Ritardo che, ora, potrebbe essere fatale per la riuscita della caccia all’uomo. Soltanto il 21 aprile, infatti, è stato lanciato l’allarme: quando ci si è accorti che per due giorni, il "Rambo dei Mari" non aveva "firmato" alla stazione dei carabinieri dell’isola d’Elba. Ma a quel punto, questo il sospetto di chi indaga, l’uomo era già ormai lontano. Tracce, dettagli. Mentre la procura di Livorno indaga sull’evasione (e per qualcuno, ritenuto responsabile di omesso controllo, è già stato aperto un procedimento disciplinare), nelle Marche si avvia un altro tipo di lavoro. Che cerca di ricostruire gli spostamenti dell’uomo, partendo da una certezza: non commetterà gli errori fatti nel 2007 quando era evaso dal carcere di Opera. Fu riacciuffato in Olanda, a Utrecht, dove vivono la moglie e la figlia, mentre Diane Beyer, la fidanzatina dell’epoca e suo "grande amore", abita a Rotterdam. Anche perché questa volta tutto è stato pianificato nel dettaglio. Gli investigatori della squadra mobile di Ancona hanno ricostruito i mesi precedenti alla fuga. Ed è una certezza che De Cristofaro abbia lavorato a questo progetto per anni. In carcere ha acquisito una serie di conoscenze informatiche. Si dice che sia diventato una specie di programmatore, ormai. "Cosa - spiega una qualificata fonte investigativa - che potrebbe permettergli di trovare lavoro, una volta che si siano calmate le acque". Ci passava le ore al computer, hanno spiegato dal carcere. Eppure, anche se gli accertamenti sono ancora in corso, "il Rambo dei mari" non è stato così sciocco da lasciare tracce del suo immaginario percorso. Le sue ricerche sul web parlano di tanti, troppi posti diversi. Il sospetto è che volesse confondere chi, un giorno, avrebbe dovuto cercarlo. Eppure qualcosa si sa. Per esempio, che la prima notte l’ha passata a Portoferraio, nell’appartamento dell’associazione "I Dialoghi". Era solo. Alla mattina, di buon ora, si è alzato e ha preso il traghetto. Prima tappa, ovviamente, Piombino. Nessuno gli chiede i documenti, nessuno lo nota. De Cristofaro a quel punto è quasi un uomo libero. Sa bene cosa deve fare: dal carcere ha programmato tutto minuto per minuto. E, questo è sicuro, qualcuno in quei mesi lo ha aiutato. Sono passate pochissime ore dalla sua fuga, ma lui sa che di tempo non ne avrà molto (ne ha già avuto molto di più quanto potesse sperare). Prende un treno diretto a sud e si ferma in qualche cittadina in Toscana - Grosseto, forse - dove si procura un documento d’identità falso. Sa bene che i controlli, nelle ore successive, diventeranno serrati. E lui deve passare inosservato. Probabilmente si taglia i capelli, ne cambia il colore. Di sicuro acquista vestiti nuovi. Gli inquirenti non sanno quanti soldi abbia con sé: il sospetto è che nei mesi della sua preparazione, qualcuno possa avergli dato del denaro. O averlo nascosto da qualche parte in Toscana in modo che lui potesse andare a prenderlo. Il giorno dopo la fuga, 20 aprile, De Cristofaro arriva a Civitavecchia. Nessuno ancora lo cerca (l’allarme verrà dato 24 ore più tardi). Ed è qui che se ne perdono le tracce. Forse si imbarca su un traghetto. Forse su una nave da crociera. Certo è che in queste ore gli investigatori stano controllando tutte le immagini che sono riusciti ad avere (non molte a quanto pare) dalle telecamere che sorvegliano la zona del porto. Quando iniziano le ricerche, di tempo ne è già passato molto. Troppo. Ecco perché gli investigatori della mobile di Ancona, guidati da Giorgio Di Munno, lavorano soprattutto sul profilo psicologico del latitante. Sanno che viaggia solo: non può permettersi il rischio di avere una donna con sé. E l’esperienza lo aiuta nell’evitare di commettere sciocchezze. La pista più accreditata, al momento, è dunque questa: dal porto di Civitavecchia si sarebbe imbarcato verso qualche porto all’estero. Con un traghetto o a bordo di una nave da crociera. Ma non ci sono conferme ufficiali. Eppure tutti danno per scontato che la sua meta finale sia una località di mare. Dettaglio vago, per ora. Ma che potrebbe essere determinante per la fine della fuga del "killer del catamarano". Lettere: se la legge vuole in cella i giornalisti "abusivi" di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 luglio 2014 Chissà, sarà in un sussulto di dignità che il sito ufficiale della Federazione nazionale della stampa, ultima scheggia brezneviana sopravvissuta al tracollo dell’89, ha deciso di nascondere lo sconsiderato elogio della legge grottesca e liberticida che stanno cuocendo in Parlamento. Con l’appoggio dell’Ordine dei giornalisti, istituito da Benito Mussolini ed ereditato, caso unico nel mondo dell’Occidente libero, nella Repubblica antifascista, si sta proponendo un avvitamento di manette a danno di "chiunque abusivamente eserciti" la professione di giornalista "per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato": il reo verrebbe "punito con la reclusione fino a 2 anni e con la multa da 10 mila a 50 mila euro". Non sono previsti umilianti riti di autocritica in appositi istituti per la riabilitazione ideologica e morale del nemico del popolo (sinora, ma non si può mai dire). È una legge semplicemente pazzesca. La si può prendere con ironia, come fa Carola Parisi sulla testata giornalistica online L’ultima ribattuta immaginando questa scena in un carcere già vergognosamente sovraffollato: "Come mai siete dentro?" "Io spaccio". "Io ho rubato una macchina". "Io non ho superato l’esame da giornalista". O con sgomento. E constatare in quale scarsa considerazione sia tenuta la libertà di stampa e di opinione per chi non dispone di un tesserino vidimato dallo Stato e con quanta ferocia corporativa si voglia tenere dall’informazione e dalla scrittura lontani gli esclusi, chi non fa parte della categoria controllata, chi non viene ritenuto degno di pubblicare e osa sfidare il monopolio della corporazione. Il carcere per chi scrive "abusivamente": ma vi rendete conto dell’enormità? E se un giorno, a legge liberticida approvata, qualcuno volesse pignolamente applicare le nuove norme, che fanno, si presentano a casa di un freelance, del collaboratore di un blog, per mettere ai ceppi un "abusivo"? E non c’è bisogno di essere entusiasti di You Reporter per capire che non si può trattare un sito come un covo di delinquenti. E non c’è bisogno di essere super-liberali, ma solo di avere un po’ di buon senso, per capire che non si può essere così rozzi, grossolanamente autoritari, per indicare il carcere come punizione di un giornalista "abusivo". Tra l’altro è semplicemente ridicolo accostare, come indica la legge, i giornalisti "abusivi" ai medici "abusivi" o agli ingegneri "abusivi". Chi entra con il bisturi in sala operatoria spacciandosi per chirurgo, o chi costruisce ponti proclamandosi ingegnere è un criminale pericoloso. Chi fa del giornalismo senza essere iscritto all’Ordine, in un regime pluralistico dove le fonti di informazioni sono tante e diverse, non fa male a nessuno. E non sarà certo un timbro dello Stato, comunque, a neutralizzarne l’eventuale pericolo. Ma il buon senso scarseggia, le corporazioni sono aggrappate al loro monopolio e la libertà di opinione non sembra un valore forte. Questo è il vero pericolo. Lettere: Totò Cuffaro dal carcere "prego, amo ma soprattutto… vivo" Il Garantista, 14 luglio 2014 Gentile direttore, grazie per l’opportunità che mi dà di pubblicare questa mia lettera, e grazie anche a nome dell’umanità carceraria sofferente per le coraggiose posizioni del suo giornale. Ho letto e apprezzato l’articolo di Marco Assennato al quale mi accomuna, al di là della vistosa diversità ideologica, la passione per la politica. Sento il dovere di riconoscere coerenza alla sua storia politica e di ringraziarlo per la coraggiosa presa di posizione. Pur politicamente a me da sempre avverso, ha avuto il coraggio di sostenere pubblicamente l’iniquità del perdurare di una carcerazione senza spirargli di accesso al trattamento penitenziario ordinario. È un pensiero che altri politicamente a me vicini certamente condividono ma non hanno avuto il coraggio di esternare. Purtroppo i giudici ad oggi hanno deciso che dovrò finire la mia pena in carcere. Ancora 18 mesi di sofferenza e privazioni, il buon Dio mi aiuterà. Vivo questo mio tempo del carcere e mi sforzo e faccio di tutto per pensarlo e renderlo buono e utile, soprattutto per gli altri, ma non riesco a considerarlo sino in fondo un tempo donato. È un tempo che offro, ma è un’offerta scelta non per intero dalla mia volontà, ma pretesa dalla giustizia ed impostami dallo Stato. Il dono e l’offerta che faccio sono sì positivi e sinceri, ma l’essere essi voluti non totalmente e liberamente da me non mi soddisfa. Allora aspetto di provare questa mia capacità di dono e di offerta quando sarò libero, per poterla fortificare ed essere completamente sicuro e consapevole e soddisfatto della importanza di fare qualcosa per gli altri, e così attendo con ansia e con pazienza di potermi dedicare a chi ha più di bisogno, conscio che mi dedicherò anche alla mia anima. È passato ed è finito il mio tempo per la "politica", ma non quello per il lavoro e per l’impegno di volontariato e solidarietà nel sociale. La vita deve cercare il motivo del suo senso, richiederne il bisogno, capirne il valore, saperne cogliere l’essenza, altrimenti è una non vita o quantomeno inutile. In carcere ho imparato che la vita va accettata così come è e che la ricompensa che essa ci dà è vivere, e poter così continuare a credere, sperare ed amare. Ho capito vivendolo che il carcere non è storie di corpi, ma è soprattutto storie di anime. Se questo lo percepisse l’opinione pubblica e lo capisse lo Stato e si comportassero di conseguenza, le condizioni delle persone detenute certamente se ne gioverebbero, si riuscirebbe a salvaguardare la dignità dell’uomo detenuto, ne trarrebbero un beneficio le famiglie dei ristretti e vantaggio la società e le nostre istituzioni. Non è utopia, non è impossibile, sono fiducioso che questo nostro Paese saprà maturare questa consapevolezza, e Papa Francesco sta certamente portando un contributo straordinario di amore e di esempio. La Ballata del carcere di Reading, magnifica opera di Oscar Wilde, è certamente una delle opere che ben descrive la vita dei reclusi e la loro disperazione. Il grande poeta per molti anni dopo la galera e persino anche dopo la morte dovette portare il marchio infamante che gli impose la giustizia del puritanesimo Vittoriano. Prego Dio di avere migliore sorte, ci spero ma non ci credo. Dice la Ballata: "E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me: perchè colui che vive più di una vita deve morire anche più di una morte". Ed io vorrei aggiungere che nella ballata del carcere di Rebibbia, per dirla con Gabriel Garcia Marquez, ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi. Il carcere è simile al Fenrir, che è un feroce ed enorme lupo partorito dal mito Scandinavo, famoso perché ostile e nemico del popolo e al popolo. È creatura cattiva e portatrice di disgrazie. Sempre tenuto incatenato si serve però delle sue stesse catene per palesare la sua forza e la sua ferocia. Quando si tenta di imbrigliarlo, lui, Fenrir, il carcere, azzanna i suoi padroni. Rabbiosa, l’orrida bestia, ulula e ringhia, e con la bava che esce dalla sua bocca si alimenta un lago, il lago "attesa"; e in attesa la bestia e il suo padrone tengono sempre le loro vittime. I detenuti, come il Fenrir, sono carichi di rabbia, ma al contrario del Fenrir sono anche carichi di speranza, non coltivano astio ma cercano amore. Si sentono emarginati dalla società e sentono che crolla loro addosso il mondo, ma lottano per liberarsi da ogni catena, lottano per vivere, sanno di avere solo una vita. La battaglia è difficile, faticosa, cruda, ma non hanno alternativa, devono combatterla. Lottare per noi detenuti vuol dire scegliere, difendere la dignità, alimentare la speranza, non consentire a Fenrir di estinguerci. Quando un giorno si riusciranno a spezzare le catene, tutte le catene, anche quelle di Fenrir si scioglieranno e Fenrir senza le sue catene morirà. Allora, solo allora finirà il carcere per emarginare i cattivi, lontani dai buoni, e potrà rinascere come un luogo dove vive, piange, soffre, prega e spera un pezzo della nostra società. Allora sarà più libero il popolo e certamente più buono lo Stato. Abbiamo il dovere di sperare e di attendere. Ogni vita, sia laica che religiosa non può fare a meno di tre convinzioni: credere, sperare e amare. Sono proprio queste tre determinazioni che animano la mia vita di detenuto, protagoniste veri ed entusiasti della vita che scorre, con i suoi colori, immagini, storie, realtà, fantasie, sogni, illusioni, aspettative, ansie, paure, sofferenze e fiducie. Vita vissuta, vita che vivo, e vita che sarà ancora buona per ascoltare e capire e fare quando tornerò libero tra la gente. Vita utilizzata per le parole ascoltate e per quelle dette. Una vita ancora buona per sorridere, per cercare il futuro, per contribuire a costruire una realtà insieme a tutti quelli che hanno voglia di vivere, amare, credere e sperare. Il carcere è un baratro profondo di miserie e di bisogni. Ho finito di scrivere il mio secondo libro in carcere, Le carezze della nenia, è già nelle librerie, racconto del carcere e delle persone che lo vivono. Mi serve scrivere, scrivendo parlo a me stesso e mi rivolgo alla mia memoria per vedere ed avere quello che il carcere mi vieta e mi impedisce. Non serve invece dividere il tempo, tanto deve passare tutto intero. Non serve neanche mischiare il tempo attuale col tempo remoto e con quello futuro, se non a ricordare e a provocare dolore. Serve invece uscire dal carcere e conservare lo stesso stupore col quale sono entrato. Calabria: Istituto Demoskopika; sovraffollamento carceri, migliora la situazione www.strill.it, 14 luglio 2014 Buon andamento sui dati parziali al 30 giugno 2014: la Calabria, con 2.589 detenuti, ospiterebbe meno detenuti rispetto alla capienza delle carceri. Trend positivo condiviso soltanto con altre tre regioni: Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. E, intanto, nel 2013, il sistema penitenziario calabrese ha ospitato oltre 2.600 detenuti a fronte di una capienza pari a poco meno di 2.500 generando una tasso di sovraffollamento del 6,9%, inferiore alla media nazionale al 31,1%. Le punte più inquietanti a Reggio Calabria "Panzera", Paola e Palmi. A rilevarlo una ricerca dell’Istituto Demoskopika che ha elaborato gli ultimi dati del Ministero della Giustizia. Nei primi sei mesi del 2014, migliora significativamente la situazione delle carceri calabresi: con un tasso negativo, pari all’1,4%, la Calabria è tra le uniche quattro regioni italiane a contribuire ad una riduzione del tasso di sovraffollamento del sistema penitenziario nazionale. Un andamento più rilevante se confrontato con l’anno precedente: su 13 istituti penitenziari calabresi, circa il 70% ha ospitato più detenuti di quanti avrebbe potuto. Su una popolazione carceraria regionale, pari complessivamente a 2.653 detenuti, le persone ospitate in più sono 172 determinando un tasso di sovraffollamento rispetto alla capienza regolamentare di 6,9 punti percentuali. È quanto emerge da uno studio dell’Istituto Demoskopika sui dati forniti dalla Direzione generale di Statistica del Ministero della Giustizia. "In questo primo semestre - commenta l’economista Raffaele Rio - la situazione del sovraffollamento nelle carceri calabresi mostra segnali di significativo miglioramento. I dati elaborati da Demoskopika - precisa l’economista Raffaele Rio - si riferiscono sia al 2013, anno in cui è possibile disporre anche del censimento dei detenuti e delle capienze per singolo Istituto penitenziario, e sia al 2014 perché ci consentono, con un dato aggiornato al 30 giugno 2014, di osservare un rilevante miglioramento nell’organizzazione di accoglienza del sistema penitenziario calabrese con una percentuale addirittura negativa del tasso di sovraffollamento pari all’1,4 per cento. In altri termini, la Calabria ospiterebbe meno detenuti rispetto alla capienza delle carceri. Il 2014, dunque, se la capienza degli istituti non è sovrastimata - conclude Raffaele Rio - potrebbe essere per il sistema penitenziario regionale, l’anno della svolta". Calabria protagonista: sovraffollamento carcerario a meno 1,4% nel 2014. Migliora la situazione del sovraffollamento del circuito penitenziario calabrese e contribuisce, in modo significativo, al risultato complessivo dell’Italia che passa dal 31,1% del 2013 al 17,5% del 2014. Soltanto quattro, infatti, le regioni che, al 30 giugno 2014 secondo una elaborazione dell’’Istituto Demoskopika sui dati aggiornati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, presentano un dato in controtendenza rispetto al tasso di sovraffollamento, ossia a quanti detenuti vengono ospitati rispetto alla capienza regolamentare di ciascun istituto penitenziario: Calabria con 2.589 detenuti presenti a fronte di una disponibilità di 2.626 posti ed un conseguenziale tasso di sovraffollamento di -1,4 punti percentuali, Sardegna con 1.967 detenuti ospitati rispetto a una capienza regolamentare pari a 2.427 posti (tasso di sovraffollamento pari a -19%). A seguire, il Trentino Alto Adige con 348 presenze rispetto ai 509 posti disponibili (tasso di sovraffollamento pari a -31,6%) e, infine, la Valle d’Aosta con 144 detenuti presenti a dispetto dei 180 posti disponibili (tasso di sovraffollamento del -20%). Identikit del detenuto: uomo, adulto, sposato e con una basso livello di istruzione. I detenuti in Calabria, al 30 giugno 2014, sono 2.589: 2.533 gli uomini, 56 le donne, 302 gli stranieri, 24 i detenuti presenti in semilibertà e un costo medio giornaliero pari a 125 euro. Secondo i dati disponibili, inoltre, 1.347 sono i detenuti presenti condannati, con almeno una condanna definitiva, per pena inflitta pari al 52,1% della popolazione penitenziaria regionale di cui 74 condannati all’ergastolo. Ben 51 sono gli analfabeti in carcere, 40 i detenuti privi di titolo di studio e 356 hanno solo la licenza elementare. In totale, inoltre, sui 1.816 detenuti di cui si conosce il grado di istruzione, ben 1.031 sono i detenuti con licenza di scuola media inferiore, 20 con diploma di scuola professionale, 286 con diploma di scuola media superiore e 32 con la laurea. In relazione all’età, in fine - secondo le elaborazione dell’Istituto Demoskopika - la maggior parte dei detenuti presenti negli istituti penitenziari calabresi si colloca nella fascia che va dai 35 ai 60 anni: 1.555 persone pari al 60,2% sul totale. A seguire i giovani dai 18 ai 35 anni, 854 detenuti (32,9%) e gli over 60, 180 detenuti (6,9%). E, ancora, per quanto riguarda lo stato civile, 1.197 detenuti sono sposati, 798 sono celibi e nubili, 111 separati legalmente, 281 sono i conviventi, 38 i vedovi e, infine, 38 sono i divorziati. Istituti penitenziari calabresi: 9 su 13 "scoppiano" nel 2013. Sono nove gli istituti penitenziari calabresi che superano la capienza regolamentare definita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pari al 69% sul totale complessivo regionale. Il tasso più alto di sovraffollamento della regione si registra nel carcere di Reggio Calabria "Panzera" che ospita 109 detenuti in più, con un tasso di sovraffollamento addirittura del 73,2%. Seguono gli istituti penitenziari di Paola che accoglie ben 289 detenuti a fronte di una ricettività pari a 172 posti (tasso di sovraffollamento del 68%), Lamezia Terme con 50 detenuti presenti rispetto ai 30 previsti (tasso di sovraffollamento del 66,7%) e Palmi che ospita al suo interno circa 80 detenuti in più rispetto ad una ospitalità regolamentare di 140 unità (tasso di sovraffollamento 55%). Con una percentuale di sovraffollamento inferiore al 40% si collocano gli istituti di Cosenza (39,7%) con 292 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 209 posti disponibili, Castrovillari (33,6%), Locri (30,1%), Rossano (25,2%) e Vibo Valentia (15,7%). Sul versante opposto, nel carcere più capiente calabrese, Catanzaro "Ugo Caridi", i detenuti sono 466 a fronte di una ricettività pari a 617 unità (-24,5%). E, inoltre, ospitano meno detenuti di quanti ne potrebbero accogliere Crotone (-93,3%), Reggio Calabria "Arghillà" (-56,7%) e Laureana di Borrello (-23,5%). Lombardia: Maroni; coinvolgere i territori, perché le azioni di reinserimento funzionino www.marketpress.info, 14 luglio 2014 "Bisogna coinvolgere i territori, le Regioni e gli Enti locali, perché la gestione e l´inserimento di questi fenomeni nel territorio fa la differenza fra una cosa che funziona e una che non funziona. Al di là del contenuto di questo Protocollo, mi piace molto il metodo". Così il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, intervenendo il 10 luglio, a Roma al Ministero della Giustizia, in occasione della firma del Protocollo d´Intesa per il recupero e il reinserimento sociale di persone sottoposte a provvedimenti dell´autorità giudiziaria. Sottoscrittori: Il documento è stato firmato questa mattina dal presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dai presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano, Pasquale Nobile De Santis, e di Brescia, Monica Lazzaroni. Documento Attua Leggi Su Recupero. "Sono molto lieto di sottoscrivere questo Protocollo - ha proseguito il presidente -, che dà attuazione alle leggi vigenti, perché abbiamo tutti ben presente la situazione carceraria italiana: non solo il problema del sovraffollamento, che si risolve realizzando nuove strutture, per esempio, ma anche la necessità di dare attuazione a percorsi riabilitativi e rieducativi, con l´obiettivo del reinserimento sociale e lavorativo di queste persone, laddove sia possibile". Istituzioni Del Territorio Agiscano Insieme. "Ed è possibile - ha spiegato Maroni - con la partecipazione attiva e da protagonisti proprio dei territori, la Regione, gli Enti locali, il Ministero e le Istituzioni che si occupano di questi temi, il Tribunale di sorveglianza in primo luogo". "Tutte le Istituzioni - ha proseguito - si impegnano, ciascuna per la sua parte; noi, per quanto riguarda la Regione, abbiamo il compito di adottare misure idonee all´aumento delle possibilità ricettive delle comunità residenziali, anche di tipo terapeutico, in raccordo con gli Enti locali territorialmente coinvolti. Questo è il passaggio fondamentale: l´alleanza fra Istituzioni, anche di colore politico diverso. Quando la politica assume ruolo istituzionale, il suo compito è risolvere i problemi e questo è l´obiettivo che noi ci poniamo con la firma dell´Accordo". Carceri Lombarde - A margine della firma del Protocollo, il presidente ha sottolineato come in Lombardia la situazione delle carceri sia "sotto controllo" e rappresenti anche "uno dei punti di avanguardia". "Vogliamo dimostrare - ha aggiunto - che si può fare, mantenendo alta la sicurezza per i cittadini, ma anche svolgendo tutte quelle politiche che mirano al reinserimento sociale e lavorativo di chi ha finito, o quasi, di scontare la sua pena". Orlando: Collaborazione Tra Regioni Snodo Fondamentale - "La collaborazione con le Regioni rappresenta lo snodo fondamentale - ha detto il ministro Orlando. Con le Regioni vorremmo sviluppare una serie di progetti, che riguardano, non solo, la dicotomia fra ´dentro´ e ´fuori´ il carcere, ma anche ciò che succede dentro il carcere. Oggi sono particolarmente contento di sottoscrivere questo accordo con la Lombardia, con cui proseguo il lavoro di collaborazione iniziato già da ministro dell´Ambiente". De Santis: Massimo Impegno - "Da parte nostra garantiamo il massimo impegno - ha assicurato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Pasquale Nobile De Santis. In Lombardia, in particolare, otteniamo risultati attraverso la sinergia fra le Istituzioni. Questa è la strada per raggiungere risultati ancora migliori". Lazzaroni: Punto Di Partenza Necessario. "Questo Protocollo rappresenta un punto di partenza necessario, perché questa modalità consente il confronto - ha commentato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Brescia Monica Lazzaroni. La misura alternativa si costruisce con il territorio". Toscana: oggi presentazione del rapporto sulla situazione degli istituti di pena regionali Adnkronos, 14 luglio 2014 Conferenza stampa del Garante regionale dei detenuti Franco Corleone. "La perdita della libertà deve realizzarsi all’interno di strutture che salvaguardino sempre e comunque la dignità delle persone e i loro diritti. I luoghi preposti per questo non possono essere le carceri che conosciamo. Immaginiamo altro nella fisicità delle costruzioni e nell’economia degli spazi, altro nella professionalità di chi è addetto al controllo, al dialogo e all’aiuto". Questo è un passaggio del Manifesto No-Prison, documento a cura di Livio Ferrari e Massimo Pavarini (rispettivamente direttore del centro francescano di ascolto di Rovigo e professore di diritto penitenziario all’Università di Bologna) che sarà al centro della conferenza stampa del Garante regionale dei diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, in programma lunedì 14 luglio, alle ore 11, a Firenze in palazzo Panciatichi (Sala Montanelli). L’incontro con i giornalisti sarà anche l’occasione per presentare la situazione delle carceri in Toscana ed illustrare dati su presenze, situazione edilizia e prossime iniziative del Garante regionale. Alla conferenza stampa, oltre a Corleone, Ferrari e Pavarini, parteciperà anche Emilio Santoro professore di diritto ordinario, dipartimento scienze giuridiche dell’Università di Firenze. Padova: personale Uepe in stato di agitazione "il decreto-carceri mette in crisi il sistema" di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 14 luglio 2014 Il decreto svuota carceri mette in crisi tutto l’apparato amministrativo che si occupa delle misure alternative alla detenzione. Il motivo? Non ci sono assistenti sociali a sufficienza per seguire i detenuti che potrebbero scontare una forma diversa di sanzione rispetto al carcere, come la messa in prova che prevede misure alternative e l’estinzione del reato se l’esito del procedimento è positivo. La conseguenza? Ha dichiarato lo stato di agitazione il personale dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Ufficio Uepe) di Padova e di Rovigo, formato da 8 funzionari di servizio sociale (di cui 2 capo-area e un dirigente in missione) chiamati a occuparsi di mille detenuti distribuiti fra le strutture penitenziarie delle due province. Il personale è ridotto all’osso dopo continui tagli e pensionamenti mai sostituiti con forze nuove. Eppure il carico di lavoro si è moltiplicato con la legge numero 67 del 28 aprile che contiene "Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena" (nota, appunto, come decreto svuota carceri). "È un provvedimento che va nella giusta direzione di cambiare le politiche in materia penale e penitenziaria grazie all’introduzione della "sospensione del procedimento con messa alla prova per gli adulti", che comporta l’affidamento dell’imputato al servizio sociale" avverte la Cgil Funzione pubblica in una nota. Tuttavia "la stessa disposizione della messa alla prova sostiene che si tratta di una novità che potrà incidere sull’attività operativa degli Uepe incaricati di predisporre i procedimenti di indagine e i programmi di trattamento dei soggetti messi alla prova". E allora "questa scelta di politica penitenziaria doveva accompagnarsi a un aumento di personale. È avvenuto esattamente il contrario, è cioè continuata la politica dei tagli delle risorse e delle riduzioni di personale. La situazione è intollerabile" avverte Roberta Pistorello della segreteria della Funzione Pubblica della Cgil di Padova. "Per questo la Cgil Funzione Pubblica ha dichiarato lo stato di agitazione di tutto il personale dell’Uepe accogliendo le richieste dei lavoratori e le loro preoccupazioni. Abbiamo inviato anche una lettera al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e alle altre istituzioni coinvolte, dove spieghiamo il rischio che si corre se la situazione non cambierà in tempi rapidi". Il rischio è il collasso operativo degli uffici Uepe. Firenze: tutta la vita in carcere... ora finalmente Giacomino è libero di Mario Lancisi Il Tirreno, 14 luglio 2014 Dai Giacomo, buttati, nuota. E lui ci prova a nuotare assieme agli altri bambini. Schizzi d’acqua, giochi, sfide con lui che si butta dal trampolino, e Giacomo guarda, vorrebbe anche lui provarci. Poi gli educatori fischiano, i giochi sono finiti al centro estivo di Firenze. Ogni bambino torna a casa propria. Ogni bambino ha una mamma ad aspettarlo, fuori dalla porta: dai preparati lo zaino, vestiti, affrettati. Non c’è nessun parente ad attendere Giacomo. La mamma, 42 anni, è in carcere a Sollicciano dove sta scontando dieci anni di galera per sfruttamento della prostituzione. E così ogni pomeriggio il piccolo Giacomo (nome di fantasia), 6 anni e mezzo, viene riaccompagnato a Sollicciano, dietro le sbarre, perché da quando aveva un anno il piccolo vive in cella con la mamma. "Ma tu, Giacomo, dove abiti?", gli ha chiesto un ragazzino dei centri estivi. E lui: "A Sollicciano". Finché, qualche giorno fa, il piccolo, tornando dalla giornata trascorsa in piscina, si è messo a piangere e ha urlato: "Non voglio tornare lì dentro", indicando le celle del carcere di Sollicciano. L’hanno dovuto ricondurre dalla madre detenuta a forza. Ma da venerdì Giacomo è finalmente libero. Il giudice ha deciso che non poteva più tornare dietro le sbarre. Così il piccolo è stato accompagnato in un istituto, in attesa di essere dato in affidamento a qualche famiglia che lo richieda. È almeno questo l’auspicio del consigliere regionale Enzo Brogi che ha visitato il reparto del carcere adibito alle mamme. "Fino a qualche anno fa c’erano tre bambini, ma ora l’unico era Giacomo. Speriamo che possa essere affidato ad una famiglia seria e possa rivedere la mamma due-tre volte la settimana", racconta. Finalmente Giacomo è libero. La sua storia è forse unica al mondo: è stato per più di cinque anni in carcere. Senza aver commesso reato. Senza condanna e senza sentenza. Gli anni che gli psicologi sostengono essere decisivi per l’impronta di un bambino, Giacomo li ha passati dietro le sbarre, con la porta blindata, le urla dei detenuti, gli oblò, il tintinnio delle manette, i passi pesanti delle guardie carcerarie, i cattivi odori delle celle, le pietanze insipide e spesso rancide, la pena infinita negli occhi tristi dei reclusi. La storia del bimbo cresciuto a Sollicciano, raccontata il 25 giugno scorso dal Corriere fiorentino, ha commosso e indignato l’Italia. E costretto il ministro della Giustizia Andrea Orlando ad inviare ispettori a Sollicciano. Storia dolorosa, quella di Giacomo, ma anche di ordinaria burocrazia. La legge parla chiaro. I bambini figli di detenute non possono essere separati dalle loro mamme fino al compimento dei tre anni. "È il momento dell’allattamento, quello più delicato e a Sollicciano, nonostante che sia un carcere, il reparto delle mamme è aperto, ci sono le porte di legno, pupazzi, giochi, c’è insomma qualcosa che dà un senso colorato e infantile all’ambiente", riferisce Brogi. Una legge del 2011 ha disposto di portare a sei anni l’età in cui i bambini possono stare con le mamme. Ad una condizione: che vivano, mamma e figlio, in un Icam, istituto a custodia attenuata per le detenute madri, che a Firenze ancora non c’è (vedi articolo a lato). Ma anche se ci fosse la madre di Giacomo non ne avrebbe diritto perché la pena inflittagli è troppo alta per consentire misure di carcerazione attenuata. Così la mamma del piccolo si è aggrappata a corsi e ricorsi contro le decisioni del giudice di affidarlo ad una famiglia. Non voleva staccarsi da Giacomo. Per proteggerlo e sentirsi forse essa stessa protetta. Gli educatori e i volontari di Telefono Azzurro hanno provato a spiegarle che non era più possibile tenere il bambino in carcere. "Rassegnati, per il suo bene. Non lo perderai. Ti sarà portato spesso, però è bene che lui viva fuori, come gli altri ragazzi, poi tra l’altro a settembre comincia le elementari...". Negli ultimi giorni come una leonessa ferita la donna ha fiutato che un pomeriggio di questo luglio bizzarro Giacomo non sarebbe tornato a "casa", a Sollicciano. Ha cominciato a gridare, piangere e minacciare di ammazzarsi, lei con il suo piccolo. Basta, ha detto il giudice, non si può rischiare: il cordone ombelicale va rotto. Per il bene di Giacomo. Così è successo, venerdì. "Il bambino ha diritto a vivere in libertà e non in carcere. Va però garantito anche il suo diritto a mantenere il rapporto con la madre", commenta al Tirreno Franco Corleone, garante regionale per i diritti dei detenuti. Ora la leonessa ferita è stata messa in cella con altre due donne e non sa darsi pace mentre Giacomo è in un istituto. Chissà quando e come madre e figlio potranno raccontarsi le verità di questi loro dolorosi anni perduti alla vita. Viterbo: boss della Sacra Corona Unita diventa padre in regime di 41 bis di Andrea Ossino Il Tempo, 14 luglio 2014 Non si tratta di un miracolo ma della possibilità, per i detenuti in regime di "carcere duro", di utilizzare la tecnica della procreazione assistita. Esistono casi in cui il diritto alla paternità non conosce limiti e confini. Lo dimostra la vicenda che vede come protagonista Armando Libergolis, esponente dell’omonimo clan mafioso, condannato a scontare ventisette anni di reclusione in regime di massima sicurezza. Il detenuto infatti, nonostante la sua libertà personale sia limitata e regolata dall’articolo 41 bis, è riuscito a far spiccare il volo alla "cicogna" e lo ha fatto da dietro le sbarre del carcere Mammagialla, a Viterbo. Non si tratta di un miracolo ma della possibilità, per i detenuti in regime di "carcere duro", di utilizzare la tecnica della procreazione assistita. La sentenza che riconosce anche ai detenuti pericolosi il diritto a diventare padri, da dietro le sbarre, è destinata a far giurisprudenza. Sia la Cassazione che il magistrato del tribunale di sorveglianza di Viterbo, avevano già sentenziato e stabilito la possibilità, per i carcerati, di ricorrere ai benefici previsti dalla legge 40 del 2004: "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita". In quel caso però poteva diventare padre solo il detenuto che riusciva a dimostrare di aver avuto rapporti sessuali con il proprio partner, per almeno un anno e senza risultati, conclamando dunque uno stato di sterilità. Naturalmente per un uomo recluso in regime di massima sicurezza non vi è la possibilità di trascorrere con la propria compagna il tempo previsto dalla legge. Il professor Luca Ripoli, legale di Libergolis, è quindi riuscito a dimostrare alla corte lo stato d’infertilità della compagna del detenuto e quindi l’impossibilità della coppia ad avere figli. La richiesta di fecondazione assistita, esternata dal detenuto nel 2013, è così stata concessa all’inizio dell’anno successivo sia dal tribunale di Viterbo che dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della stessa città. Quindi la provetta contenente il liquido seminale di Armando Libergolis ha potuto varcare le mura di cinta del carcere e raggiungere un laboratorio di analisi della Capitale, dove nell’aprile scorso l’intervento è stato effettuato senza problemi. La futura mamma è la moglie del carcerato, Maria Riccardo. La donna, insieme al marito, sta anche affrontando un processo penale che sembra però destinato a concludersi con l’intervento della prescrizione. I due imputati sono accusati di aver frodato e truffato l’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura. Invece Armando Libergolis, ritenuto essere un esponente del "clan dei Montanari", una famiglia mafiosa legata alla Sacra Corona Unita e presente soprattutto nella provincia di Foggia, è in carcere da molti anni. Tra il 1998 ed il 2001 aveva scontato la pena in diversi istituti penitenziari della penisola. Nel 2003 era stato però raggiunto da un’altra ordinanza di custodia cautelare, frutto di un’indagine storica, iniziata nel 1999 e terminata con il processo Iscaro-Saburo, uno dei procedimenti giudiziari più importanti dopo il maxiprocesso a Cosa Nostra. Accusato di aver fatto parte di un’associazione mafiosa armata e dedita anche al narcotraffico, doveva difendersi, tra l’altro, dall’accusa che lo riteneva responsabile di diversi omicidi, il primo commesso nel 1978. In appello era stato però assolto dall’accusa di omicidio ed era stato condannato per gli altri capi d’accusa. Da allora l’imputato aveva trascorso la sua vita in carcere ma la reclusione non è bastata ad impedirgli di diventare padre e adesso attende la nascita del suo erede. "Il 41 bis è una forma di deprivazione applicata a persone che sono già private della libertà personale - afferma il professor Luca Ripoli, l’avvocato che assiste il futuro papà. A mio giudizio è una tortura e sono felice di aver conquistato una vittoria che riconosce il diritto alla paternità". Nel 1983 fu il camorrista Cutolo ad appellarsi alla legge 40 La battaglia che vede i detenuti al 41 bis lottare per il riconoscimento del loro diritto di paternità ha origini lontane. Inizia infatti nel 1983, quando Raffaele Cutolo aveva sposato la moglie nella cappella del carcere dell’Asinara. In quel momento l’ex super boss della Nuova Camorra Organizzata, aveva espresso un desiderio: "Morirò in prigione - aveva rivelato anni dopo o’ professore - il mio ultimo desiderio è regalare un figlio a mia moglie". Così nel 2001 il ministero di Grazia e giustizia aveva autorizzato la famiglia Cutolo a ricorrere ai benefici previsti dalla legge sulla fecondazione assistita. La notizia era stata tenuta nascosta per nove mesi ma quando, nell’ottobre del 2007 era nata la piccola, la stampa ne era venuta a conoscenza. La bambina oggi ha sette anni ed è l’unica erede del detenuto. L’uomo, rinchiuso dal 1982 in un penitenziario da cui non uscirà mai, ha settantadue anni e aveva già avuto un figlio, Roberto, da un precedente matrimonio. Il ragazzo era morto però in un agguato avvenuto nel 1990, quando aveva ventotto anni. Per quell’omicidio era stato condannato Mario Fabbrocino, "o’ Gravunaro", uno dei promotori della Nuova Famiglia, l’associazione mafiosa nata proprio per contrastare la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo. Un altro caso di fecondazione assistita riguarda i fratelli Graviano, detenuti dal 1994, in seguito alla condanna per le stragi mafiose avvenute a Roma, Milano e Firenze. I due boss della periferia palermitana, in carcere anche per essere stati ritenuti responsabili dell’uccisione di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, riuscirono a diventare padri nel 1997. Chiamarono entrambi i loro figli "Michele", ma la storia di quella fecondazione assistita resta un mistero. Le loro rispettive compagne partorirono ad un mese di distanza l’una dall’altra, a Nizza, anche se nessuno aveva autorizzato i due criminali ad accedere ai benefici previsti dalla legge. In pratica qualcuno riuscì a portare fuori dal penitenziario le due provette necessarie alla fecondazione. Un fascicolo era quindi stato aperto presso la procura del capoluogo siciliano ma le indagini non portarono in carcere le persone che presumibilmente avevano aiutato le rispettive famiglie a realizzare una fecondazione assistita illegale. Un altro mistero è quello che riguarda la nascita del primo figlio di Salvatore Madonia, condannato in via definitiva per l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi. Nel 2000 infatti, Mariangela Di Trapani, moglie del detenuto e figlia di un altro "uomo d’onore", Francesco, aveva dato alla luce un figlio, durante la detenzione del marito presso il penitenziario dell’Aquila. Le falle del 41 bis Mariangela le conosceva bene. Secondo gli inquirenti infatti, la donna, insieme ad altre quattro persone, era la portavoce del coniuge, capace di riferire gli ordini del marito recluso. La coppia si era sposata il 23 maggio del 1992, lo stesso giorno in cui il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta venivano uccisi nei pressi dello svincolo di Capaci, vicino Palermo. Per avere un secondo figlio, i coniugi avevano dovuto attendere il 2008, quando la Suprema Corte, contrastando il volere del Dap, aveva accettato il ricorso presentato da Salvatore Madonia. Roma: due anni e mezzo chiuso a Regina Coeli da innocente… ora comincio a vivere di Beatrice Picchi Il Messaggero, 14 luglio 2014 "Hai voglia a dire che sei innocente... lo dicono tutti, mi urlavano in carcere". José Alberto Cadena Ruiz lo ha ripetuto per due anni, sei mesi e diciotto giorni di non aver strangolato e ucciso la sua cara amica Graciela, fino a quando la Corte d’Assise di Roma, gli ha restituito la libertà con una sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste. Oggi José, 52 anni, due figli grandi, un nipotino che non ha visto e una famiglia che lo ha aspettato senza mai dubitare della sua innocenza, deve pensare a ricostruirsi una vita, tanto nessuno potrà restituirgli il tempo chiuso nella cella dell’ottava sezione di Regina Coeli. "In carcere sono sopravvissuto vivendo la vita degli altri: mio nipote che nasceva, mia figlia che trovava una piccola occupazione, mia madre di ottanta anni che esce dall’ospedale, gli amici che fanno la colletta per trovare gli avvocati. E ogni volta mi ripetevo che dovevo aspettare, che qualcuno avrebbe capito che ero vittima di un errore giudiziario, che bastava leggere le perizie. Invece niente, ogni volta che passavano i giorni rinchiuso trattenevo il fiato e tornavo in cella. Non parlavo con nessuno per settimane". Graciela Carbo Flores, 29 anni, viene rinvenuta morta in uno scantinato alla Cecchignola il primo dicembre 2008. La ragazza era stata dimessa dall’ospedale pochi giorni prima: è gravemente malata da tempo. Secondo i primi rilievi della Scientifica non ci sono dubbi, la donna è deceduta per cause naturali. Ma, quando viene richiesto un riscontro diagnostico, la storia prende un percorso inatteso: per il consulente dell’accusa la morte è avvenuta per strangolamento. È l’inizio di un incubo per José, in Italia da oltre dieci anni, diviso tra i lavori di badante, giardiniere, muratore, autista, non ha mai avuto problemi con la giustizia. Pur sapendo di essere l’unico sospettato rientra a Roma, dall’Ecuador, è certo di chiarire ogni cosa: lui il giorno della morte dell’amica era dall’altra parte di Roma, a Labaro. Il 10 ottobre 2010 José viene arrestato per omicidio pluriaggravato: resterà a Regina Coeli per due anni e mezzo, per pericolo di fuga, (nonostante sia tornato spontaneamente dal suo Paese per due volte). Viene rinviato a giudizio, il processo davanti alla Corte d’Assise inizia dopo circa un anno. "Pensavo di non farcela, ripetevo come un dannato che qualcuno mi avrebbe creduto, mi avrebbe ascoltato. Due anni e mezzo sono un tempo infinito. Un giorno uguale all’altro, tutti i giorni: ho preso la terza media, pregavo e lavoravo. E non riesci a pensare ad altro se sei innocente: diventa la tua ossessione". Innocenza che è emersa chiara a dibattimento, tanto che la stessa procura ha deciso di non appellare la sentenza. Determinante nel processo il contributo dei medici legali Paolo Arbarello e Luigi Cipolloni. Il 3 giugno la decisione dei giudici è diventata definitiva, poiché passata in giudicato. José è uscito da Regina Coeli il 20 marzo 2013, una busta della spazzatura in mano con dentro una maglione, un pantalone e una medaglietta: "Quando mi hanno arrestato stavo per andare a richiedere la carta di soggiorno. Ora devo ricominciare daccapo, tutta la mia vita". Agrigento: riforma della giustizia, il ministro Orlando incontra magistrati e avvocati Agrigento Notizie, 14 luglio 2014 Tanti gli argomenti affrontati, tra i quali anche il decreto svuota carceri in relazione al loro sovraffollamento, l’amnistia e l’indulto. Durante l’incontro, Orlando si è lasciato andare in un confronto con il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale. Andrea Orlando, ministro della Giustizia, incontra avvocati e magistrati ad Agrigento per un convegno incentrato sulla riforma della giustizia. Tanti gli argomenti affrontati, tra i quali anche il decreto svuota carceri in relazione al loro sovraffollamento, l’amnistia e l’indulto. Durante l’incontro, Orlando si è lasciato andare in un confronto con il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale, sulla responsabilità civile dei magistrati. Per il ministro si tratta di una "impalcatura da difendere"; per Di Natale, invece, sarebbe un modo per "spuntare le armi della Magistratura". Nello spiegare i vari punti previsti dalla riforma della giustizia, il ministro Orlando parla anche della prescrizione. "Penso - ha detto il ministro all’Agi - che bisogna interrompere i termini con il primo grado di giudizio ma bisogna anche introdurre dei correttivi perché non si può stare sotto processo per tutta la vita". Sull’argomento è intervenuto anche il magistrato Di Natale, secondo il quale "molti processi importanti attualmente in corso rischiano di finire in prescrizione a causa dei lunghi tempi della giustizia"; per questo ha proposto di "far scattare la prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto e contestato e i termini per la prescrizione vengano sospesi a partire dalla data in cui viene emesso il decreto che dispone il giudizio". In merito al tema "carceri", Orando parla non di amnistia o indulto, ma di "manutenzioni straordinarie" che pare abbiano già dato i prima frutti sulla ripresa della situazione. Insomma, una serie di semplificazioni che dovrebbero portare a un più veloce e fluido lavoro della giustizia. Firenze: 15enne fermato per omicidio evade da Istituto di accoglienza per minori, ripreso Ansa, 14 luglio 2014 Evaso e ripreso dopo poche ore un minorenne che era in stato di fermo nell'ambito delle indagini per l'omicidio di Ezio Taddei, il 78enne trovato morto nel parco delle Cascine a Firenze il 2 luglio. A riferirlo nelle pagine locali è il quotidiano La Nazione. In carcere con l'accusa di omicidio c'è già un 28enne romeno legato agli ambienti della prostituzione maschile. Il ragazzo evaso, anche lui romeno e poco più che 15enne, sarebbe riuscito a fuggire sabato sera da un istituto di accoglienza per minori dove si trovava in attesa della convalida del fermo riuscendo a chiudere in una stanza tre persone che lo sorvegliavano per poi fuggire. Scattato l'allarme è stato bloccato poco ore dopo, prima che potesse allontanarsi da Firenze. Il giovanissimo romeno, secondo quanto appreso, era stato identificato dai carabinieri lunedì scorso, giusto una settimana fa, come una delle persone coinvolta nell'omicidio. Quindi, dopo le indagini, era stato portato in caserma per accertamenti. Il fermo del giovanissimo, che è stato avvolto nel riserbo fino alla sua evasione, è stato disposto giovedì sera, ma l'udienza di convalida era stata fissata proprio per oggi, a ridosso della scadenza dei termini.