Giustizia: l’Onu all’Italia "carceri troppo affollate? trovate alternative alla detenzione…" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 luglio 2014 L’Italia dovrebbe fare uno sforzo per "eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti". A chiedere alle autorità italiane "misure straordinarie" sul tema è un comunicato del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria reso noto al termine di una visita di tre giorni nel paese (7-9 luglio). "Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione", ha detto Mads Andenas, Presidente del Gruppo. Gli esperti ricordano le raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, e le considerano "quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale". Per l’Onu le recenti riforme tese a ridurre la durata delle pene detentive, il sovraffollamento carcerario e il ricorso alla custodia cautelare sono positive, ma sussistono preoccupazioni per l’elevato numero di detenuti in regime di custodia cautelare ed il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare per gli stranieri e i Rom, minori compresi. "L’Italia - spiega il gruppo dell’Onu - non ha una politica generale di detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo e migranti irregolari, ma 2restiamo preoccupati per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione". Gli esperti si dicono inoltre preoccupati per i resoconti dei rimpatri sommari e per il fatto che "il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis" per i mafiosi non è ancora stato allineato agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Composto da cinque esperti, il gruppo di lavoro dovrebbe presentare un rapporto al Consiglio Onu dei diritti umani nel settembre 2015. Giustizia: risarcimento ai detenuti, il più folle dei decreti legge di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2014 Da due giorni è in vigore il Dl 42/2014. Prevede lo sconto di pena di un giorno ogni 10 per i detenuti in condizioni che, secondo i parametri dell’Ue, costituiscono "tortura"; e il risarcimento del danno cagionato da queste condizioni di carcerazione nella misura di 8 euro per ogni giorno di detenzione. Follia pura. 1) Va chiarito che l’Ue considera "tortura" la carcerazione quando lo spazio a disposizione di ogni detenuto è inferiore a 7 mq. L’Italia, nell’aprile di quest’anno, ha assicurato l’Unione che nessun detenuto sarà ristretto in meno di 3 mq pro capite. Il che significa che, su un po’ più di 60.000 detenuti, il nostro Paese ne "torturerà" in pianta stabile almeno 50.000, considerato che le carceri italiane garantiscono circa 40.000 posti con un sovraffollamento standard pari a un terzo. Sottratti un po’ di privilegiati, la massa sarà certamente detenuta in uno spazio inferiore a 7 mq. Pensare di sottrarsi alle multe comminate dall’Ue e alla disapprovazione politica internazionale - a cui peraltro siamo abituati, con lo sconto di pena di 1 giorno ogni 10 o con 8 euro di "risarcimento" per ogni giorno di detenzione è appunto folle. Senza contare che, dopo gli sconti Gozzini, incrementati da Severino e Cancellieri (ogni anno di prigione sono, in realtà, 7 mesi e mezzo) ce ne sarà un altro: ogni mese di galera varrà, in concreto, 27 giorni; un altro mese di galera (veramente un mese e 6 giorni) regalato ogni anno a tutti i delinquenti. Un anno sarà uguale a 6 mesi e mezzo. 2) L’applicazione concreta di quanto previsto dal Dl è impossibile. Sia lo sconto di pena che il "risarcimento" non possono essere automatici. Presuppongono l’accertamento delle condizioni che li legittimano. Quindi i giudici di sorveglianza dovranno fare, da domani, 50.000 istruttorie per verificare quanti giorni ogni detenuto ha passato in spazi minori di 7 mq. Il che significa, nel caso di detenuti trasferiti da un carcere all’altro (capita spesso) moltiplicazione per N volte di questa indagine. Inoltre questi accertamenti non hanno una fine nel senso che, una volta fatti questi ipotizzati 50.000, poi non se ne fanno più. Ogni futuro detenuto si troverà nella medesima situazione a partire da dopodomani. La domanda è: dove si trovano centinaia di giudici di sorveglianza a cui affidare questo lavoro? Perché quelli che ci sono non bastano nemmeno per mandare in tempi ragionevoli B a badare ai vecchietti, visto che c’è voluto circa un anno. 3) Il problema, naturalmente, è identico per quanto riguarda il "risarcimento". Ma qui c’è un’altra difficoltà. "Risarcimento" significa corrispondere una somma di danaro a compenso del danno cagionato. E il danno sarà diverso da detenuto a detenuto. Una persona anziana o malata avrà patito il sovraffollamento in misura maggiore di un giovane incarcerato che se ne è stato in compagnia dei suoi amici a giocare a carte e a progettare colpi mirabolanti per il giorno successivo alla scarcerazione. Sicché non si può pensare di "risarcire" entrambi nella stessa maniera. E, se è per questo, nemmeno si può quantificare il "risarcimento" in via preventiva, ex lege. Il pagamento di una somma di denaro predeterminata costituisce "indennizzo" e non "risarcimento". E i giuristi che assistono il governo Renzi certamente conoscono la differenza; se "risarcimento" hanno scritto, "risarcimento" sia. Quindi i giudici di sorveglianza non potranno limitarsi ad accertare lo stato di detenzione nelle condizioni di cui al punto 2 ma dovranno accertare la sussistenza e la gravità del danno da questa derivante. Tutto questo moltiplicato per 50.000 più enne (per le procedure future). Ma questa gente lo sa quello che fa? 4) Per i "risarcimenti" sono stati stanziati 20 milioni di euro. Che saranno del tutto inadeguati. Nel 2009 la Cedu ha condannato l’Italia a "risarcire" a tale Sulejimanovic (condannato a 2 anni e mezzo per rapina aggravata e altri reati) 1.000 euro per 4 mesi e mezzo trascorsi in una cella con spazio insufficiente; il che è prova evidente di quanto questo Dl sia inidoneo a schivare i fulmini della Ue. 5) Ma la cosa che fa davvero… arrabbiare è la perdurante stupidità (o consapevole progetto criminoso, scegliete voi) della politica italiana. Secondo uno studio del Sappe (Sindacato di polizia penitenziaria), un carcere "leggero" da 600 posti, più che idoneo per la stragrande maggioranza dei detenuti (non sono tutti Totò Riina), costruibile in 4 mesi, costa meno di 20 milioni. E la Provincia di Bolzano (c’entrerà qualcosa il fatto che sono tedeschi?) ha avviato la costruzione di un nuovo carcere in project financing, che significa che sarà costruito e gestito da privati. Il contributo dello Stato sarà inferiore al 50%. Ha senso spendere soldi per "risarcire" i delinquenti invece che per tenerli in galera in condizioni - si capisce - adeguate a un Paese civile? Giustizia: Orlando; effettueremo correzioni al decreto-detenuti, il testo entro l’estate di Giuseppe Vettori L’Unità, 12 luglio 2014 "Dobbiamo stabilizzare la normativa che si è venuta a creare e anche effettuare alcune correzioni": lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando a Catania del provvedimento "svuota carceri". "Lo possiamo fare in una condizione di relativa tranquillità nel senso che abbiamo un sistema che dal punto di vista dei numeri - ha assicurato - è sotto controllo, non c’è un rischio di un’impennata e questo dato ci consente di affinare alcuni strumenti, di correggere alcuni distorsioni e di avere una situazione che in grado di essere programmata e gestita". E, infine: "L’ultimo tassello che manca in questo percorso è una riforma organica della custodia cautelare, il Parlamento ci ha lavorato in questi mesi, ci sono state discussioni su punti più o meno critici, ma credo che entro la pausa estiva si possa arrivare ad un testo licenziato e condiviso". Il Guardasigilli, che ieri ha partecipato ad un incontro organizzato dal Partito Democratico sulla Giustizia ad Acicastello, nel catanese, ha spiegato che sono state messe on line "le indicazioni, le linee guida e le schede tecniche per la riforma del processo civile, nei prossimi giorni andremo avanti anche per la parte ordinamentale penale". E proprio dalla Rete il ministro si aspetta una "risposta significativa" dopo un confronto cominciato mesi fa. A settembre saremo in grado di proporre e di desumere da questo confronto degli articoli che saranno costruiti tenendo conto anche di tutti i soggetti della giurisdizione - ha aggiunto Orlando. Mi pare che il perimetro delle questioni che abbiamo posto all’attenzione sia molto ambizioso e gli obiettivi sono sufficientemente chiari. Ora ci viene chiesto giustamente di dire come e noi lo stiamo facendo con una serie di indicazioni più puntuali". Trovandosi a Catania, dopo una visita al carcere di Catania e un incontro con i magistrati e gli avvocati del capoluogo etneo, il ministro ha risposto anche alle questioni che riguardano la città: "Abbiamo deciso di aprire un tavolo presso il ministero sui problemi della edilizia della giustizia del capoluogo etneo e per dare un supporto al processo di accorpamento alle sezioni distaccate e sostenere una realtà che ha dato buona prova di sé su molti fronti e mi riferisco in particolare alla attuazione del processo civile telematico". Intanto si è conclusa in commissione Giustizia della Camera la discussione generale del decreto svuota carceri (nonostante il M5S chiedesse ulteriori audizioni), con termine per gli emendamenti fissato a lunedì 14. La Lega ha preannunciato una durissima opposizione, anche sulla norma che consente al giudice di non applicare la custodia cautelare e i domiciliari quando ritiene che con la sentenza possa essere disposta la condizionale; e la custodia cautelare quando ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni. Rispetto alla riforma della custodia cautelare bloccatasi in terza lettura alla Camera nelle scorse settimane, dunque, resta la possibilità di disporre i domiciliari in caso di pena inferiore a tre anni: "La ratio della stessa - ha spiegato il viceministro Costa - consiste nell’esigenza di evitare la custodia cautelare in carcere per colui che in caso di condanna non eseguirà comunque la pena in carcere: di conseguenza dovrebbe essere sancita la non applicabilità della custodia cautelare in carcere all’imputato che in caso di condanna usufruirà, secondo una prognosi del giudice, di misure alternative al carcere". Giustizia: Schifani (Ncd); intervenire su carcere preventivo e responsabilità magistrati Il Velino, 12 luglio 2014 "Mi auguro che la giustizia entri a breve nell’agenda di governo, e su questo il Nuovo centrodestra si farà paladino di una riforma che da un lato affronti il delicato tema della carcerazione preventiva, e dall’altro risolva definitivamente la questione della responsabilità civile dei magistrati". Lo ha dichiarato il senatore Renato Schifani, responsabile del programma del Ncd, intervenendo ad Agorà Estate. "Riguardo la carcerazione preventiva non voglio parlare di abusi, ma il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, la reiterazione del reato sussistono effettivamente tutte le volte in cui si chiede l’arresto del singolo cittadino, non soltanto di un parlamentare. Rivisitare la normativa in fatto di carcerazione preventiva - ha aggiunto Schifani - non significa impedire l’andamento e l’accertamento dei fatti giudiziari, ma piuttosto evitare che si trasformi in una sorta di pena preventiva spesso addirittura non seguita da un’effettiva condanna. In questo modo risolveremmo anche un tema tragico quale quello della deflazione della detenzione carceraria, visto che più del 40 per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio. Infine sulla responsabilità dei magistrati, già come presidente del Senato mi ero espresso contro il principio di una citazione diretta nei confronti del magistrato, senza il filtro dello Stato. Piuttosto, e l’Anm era d’accordo, bisogna rivedere l’impianto della responsabilità civile prevedendo che sia lo Stato a dover essere citato in giudizio, e quindi a risponderne, rivalendosi poi nei confronti dei singoli magistrati. L’Anm anni fa condivideva questa impostazione - ha concluso Schifani - e credo che il governo abbia fatto bene a riconsiderare questa soluzione". Giustizia: Ciruzzi (Ucpi); serve amnistia e indulto, il carcere non è "strumento d’indagine" Roma, 12 luglio 2014 "Invece di depenalizzare, dal 1999 ad oggi abbiamo prodotto 320 nuove norme. I risarcimenti? Non risolvono il problema". I cambiamenti in campo carcerario sono in atto, se ne parla da tempo e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è riuscito a strappare una proroga a Strasburgo. Ma le misure messe in campo sono davvero efficienti per dare un nuovo volto alla giustizia italiana? A queste domande risponde l’avvocato Domenico Ciruzzi, Presidente della camera penale di Napoli. Avvocato, i dati sul sovraffollamento carcerario a Napoli, indicano una flessione delle presenze. Secondo lei, sono dati significativi? "I dati non sono significativi perché arrivano dopo un periodo di totale illegalità. Quelli messi in campo sono piccoli, importanti provvedimenti, ma non sono risolutivi. Continuiamo a versare in uno stato di censure europee. Insisto nel dire che il Governo si sarebbe dovuto precipitare ad attuare amnistia e indulto per avere una situazione accettabile. Amnistia e indulto non sono un male necessario, ma un dovere necessario da parte dello Stato". Meno di due settimane fa è stata approvata una normativa per il risarcimento a favore dei detenuti che hanno subito la carcerazione in condizioni inumane. Pensa che ci saranno fiumi di ricorsi? "Difficile capire come si evolveranno le cose, ma questi restano provvedimenti finalizzati ad evitare la sanzione, non certo a risolvere il problema. Per una questione meramente elettoralistica, perché si teme di perdere consensi, non si fa un indulto che invece sarebbe la mossa risolutiva". L’Italia ha ottenuto una proroga dall’Europa per l’attuazione delle sanzioni fino a giugno 2015. Secondo lei c’è tempo sufficiente per riuscire a rientrare nei parametri europei e tornare ad avere un sistema carcerario aderente ai dettami della Costituzione? "Per riuscirci i campi di cambiamento dovrebbero essere due". Quali? "Dovrebbe esserci un cambiamento culturale e uno delle riforme. Gli stessi giudici hanno una visione del carcere come strumento d’indagine, quando dovrebbe essere invece l’estrema ratio. Non ci sono strumenti in atto, nemmeno le norme per gli arresti domiciliari sono state approvate in via definitiva". Nel concreto, che cosa si sarebbe dovuto fare? "Guardi, dal 1999 ad oggi si sarebbero potuti fare tanti passi avanti, ma invece di depenalizzare alcuni reati, sono state varate sempre nuove norme per dare al cittadino l’impressione di una maggiore sicurezza". Di quante norme stiamo parlando? "Sono state introdotte 320 nuove norme, per fortuna e ‘è stato il recente intervento della Corte costituzionale per differenziare almeno le pene in materia di droghe pesanti e leggere, superando la Bossi-Fini. Il carcere dovrebbe essere applicato solo per le cose eclatanti". Giustizia: dna, cellulari, telecamere… l’illusione di sapere tutto di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 12 luglio 2014 Tutti siamo tracciati, tutti quindi siamo ipotetici assassini e se fossimo indagati sarebbe difficile spiegare agli inquirenti i nostri "strani" movimenti. C’è questo vizio tutto italiano di voler osservare pruriginosamente tutto dal buco della serratura, quel voler sapere tutti i passaggi, anche quelli che nessun giallista penserebbe mai di scrivere per la soluzione del suo delitto, quel voler rivoltare la storia delle persone, i propri movimenti, i luoghi, gli amici, gli amici degli amici. Assistiamo, ormai da mesi, a questa invasione mediatica di storie centrifugate nei vari talk show pomeridiani, veri e propri lavatrici di emozioni. Gente intervistata sulle abitudini dell’altro, domande impertinenti e gettate così, alla rinfusa, giusto per costruire ad arte il colpo magistrale, lo scoop che ti cambia, al massimo, la giornata. Ci siamo tutti a collezionare queste storie inanimate, a voler tirare i fili tra le coscienze e la fantasia, nella speranza che si arrivi all’atto finale, a scovare il perfido assassino. Se ciò non accade quella storia diventa leggenda, plastico da esibire, sudario da mostrare. A volte diventa fiction, docufilm, analisi criminologica per chi, da un salotto bello ordinato, cammina con le parole tra il sangue e le notizie. La bulimia di voler sapere tutto a tutti i costi si scontra con l’anoressica realtà di non poter raccontare ciò che tutti noi vorremo sapere. Perché di questo si tratta: scoprire l’assassino, osservare la sua faccia e poter dire con grande soddisfazione che si capiva da subito, da come si vestiva, da come si muoveva, da come postava le frasi in Facebook che quello qualcosa di strano l’avrebbe commessa. Questa analisi lombrosiana figlia di un positivismo superato da prove ormai schiaccianti, continua imperterrita a brulicare nei pensieri di molti e non riesce a scardinare, neppure per un attimo, la possibilità di analizzare le cose. Si parte, se ci fate caso, sempre dal fatto e a piccoli cerchi si ara il terreno intorno alla presunta vittima, con cerchi concentrici via via più grandi, sino a giungere alla periferia della sua vita, provando a trovare quelle prove che, a volte, non ci sono. Oggi, per fortuna, ci aiuta la scienza: tutti abbiamo un telefono portatile che si attacca ad una cella (terribile locuzione che ricorda, guarda caso, il carcere) tutti abbiamo un bancomat, una carta di credito, tutti camminiamo con la nostra valigia di Dna. Tutti siamo tracciati da videocamere, fotografie, molti abbiamo una pagina su Facebook dove scriviamo le nostre impressioni, scolpiamo frasi utili a raccontare la parte bella della nostra vita. Tutti, quindi, siamo ipotetici assassini e qualora fossimo indagati sarebbe davvero difficile spiegare i nostri movimenti considerati subito "strani" dagli inquirenti. Ricordo sempre la domanda da giallista classico: "Lei dove si trovava quella notte tra le due e le tre?". Una domanda che oggi non pone più nessuno e la muta in un’altra: "Perché lei, tra le due e le tre si trovava proprio a trecento metri dal delitto?". Il suo cellulare si trovava in una cella vicino, è stato filmato da una telecamera. Ho provato, un giorno, a disegnare mentalmente i miei spostamenti e ho riflettuto molto su alcuni passaggi, apparentemente normali, ma sicuramente inspiegabili se ci fosse stato un delitto da quelle parti. La realtà è sempre molto complessa e ha colori sicuramente diversi da quelli dipinti da tutti gli spettatori in attesa del delitto "imperfetto", quello dove c’è sempre la prova regina che inchioderà l’assassino. Elementare Watson. Ma non troppo. I colpevoli diventano tali solo dopo una condanna definitiva e solo dopo una giusta contrapposizione di prove in un’aula processuale. Capisco che è difficile ma è l’unica verità che abbiamo accettato come Stato di diritto. La voglia di verità ci porta, molto spesso a ricercare la "nostra" verità: quella che vorremmo. E a volte non ci rendiamo conto che il male è molto più denso e duro di come lo immaginiamo e non è poi troppo lontano dal nostro orto. Giustizia: "braccialetto elettronico", la legge c’è, ma sono finiti gli apparecchi… e i fondi di Diletta Della Rocca www.laveracronaca.com, 12 luglio 2014 I penitenziari sono pieni e non si trova il modo giusto per risolvere questo problema, ma solo procedimenti tampone. La Corte Europea per i diritti dell’Uomo con la "Sentenza Torreggiani" ha sanzionato l’Italia imponendo il risarcimento a tutti quei detenuti che hanno subito trattamenti contrari all’Art.3 della Costituzione Europea dei Diritti dell’Uomo che sancisce il divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti. Per questo motivo si è resa necessaria l’introduzione di una norma specifica per sorvegliare e tenere sotto controllo questa situazione. Il decreto "svuota carceri", nato da questa esigenza, prevede quelle che sono le misure alternative di detenzione in carcere: la riduzione della pena, affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare e uso del braccialetto elettronico. La storia del braccialetto elettronico è quella di un lungo e travagliato percorso tra governo e la Telecom, azienda produttrice del dispositivo. È uno strumento elettronico che applicato alla caviglia o al polso, permette all’Autorità Giudiziaria di monitorare costantemente i movimenti di chi lo indossa. Il bracciale, emette onde radio a bassa frequenza grazie a una centralina sistemata a casa del carcerato che trasmette il segnale alla centrale operativa più vicina. L’apparecchio ha un raggio di azione superiore ai 100 metri e se la persona si allontana dal perimetro, la centralina smette di mandare il segnale ma invia alla centrale un allarme sonoro. L’operatore presente in centrale si metterà quindi, subito in contatto con il detenuto per capire cosa succede. In caso di evasione la centrale manderà una pattuglia presso l’abitazione. Il braccialetto elettronico previsto dall’articolo 275 bis del Codice di procedura Penale è stato introdotto nel 2001 quando l’allora Ministro dell’Interno Enzo Bianco, diede il via alla sperimentazione di questi dispositivi: 400 braccialetti per un costo esoso di oltre 11 milioni di euro in due anni. Nel 2003 il nuovo Ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu firma una nuova convenzione con la Telecom, pattuendo la stessa quantità di braccialetti fino al 2011, per un costo superiore a dieci milioni di euro. Nei primi mesi del 2012 però c’è un terzo rinnovo, questa volta a opera di Annamaria Cancellieri, all’epoca del Governo Monti Ministro dell’Interno, che conferma la convenzione con la Telecom, nonostante la sua collega Paola Severino di Benedetto Ministro della Giustizia, non era molto d’accordo. La Severino infatti, non aveva firmato nessun rinnovo, almeno non prima di valutare una effettiva utilità del braccialetto. La cosa passò poi in sordina, dilapidata con l’affermazione alla stampa della Severino: "Non c’è nessuno screzio tra noi, ma solo intesa. I braccialetti sono previsti dalla legge". Dopo questo idillio, gli anni che passano e le carceri in esubero di detenuti, ecco che subentra il governo Enrico Letta, alle prese con le riforme richieste dall’Europa per il rilancio del nostro paese. Nella squadra di governo rispunta Annamaria Cancellieri, questa volta come Ministro della Giustizia che ritorna sul braccialetto elettronico da usarsi solo per gli arresti domiciliari, misura introdotta nel decreto svuota-carceri. In questi giorni però, il capo della Polizia Alessandro Pansa, ha diramato una comunicazione ufficiale chiedendo al capo di gabinetto del Ministero della Giustizia, Giovanni Milillo, di scrivere ai procuratori delle Corti di Appello di tutta Italia, spiegando che sono terminati i fondi e non ci sarà per tutto il prossimo anno la distribuzione di braccialetti elettronici. Non ci sono più i dispositivi e quindi i detenuti ritorneranno in carcere. Il ministero aveva a disposizione 2.000 dispositivi ottenuti attraverso la convenzione con Telecom, però poi il Consiglio di Stato ha cancellato questa convenzione perchè troppo esosa e per avere nuovi braccialetti, bisogna sottoscrivere una nuova convenzione. In Italia però la burocrazia è molto lenta, e per firmare il contratto e aspettare la diffusione dei braccialetti, ci vorrà un bel po’, come confermato da Alessandro Pansa, che senza mezzi termini ha spiegato che le forniture non saranno disponibili prima di marzo-aprile. Toccherà ora ai magistrati capire come muoversi, dovranno decidere chi lasciare ai domiciliari e chi eventualmente riportare in carcere o per ipotesi assurda, decidere di riutilizzare i braccialetti elettronici. Giustizia: Consulta; la detenzione precedente non è un "credito" per successive condanne di Antonio Ciccia Italia Oggi, 12 luglio 2014 La custodia cautelare si sconta dalla pena definitiva solo se successiva alla commissione del reato. Quella precedente, invece, non si computa e non può considerarsi un credito di pena da decurtare in caso di successive condanne. La Corte costituzionale con la sentenza n. 198 depositata l’11 luglio 2014 ha salvato l’articolo 657, comma 4, del codice di procedura penale, ai sensi del quale nella determinazione della pena detentiva da eseguire, sono computate soltanto la custodia cautelare subita o le pene espiate senza titolo dopo la commissione del reato per il quale è stata inflitta la pena che deve essere eseguita. Il caso ha riguardato una persona condannata nel 2013, per fatti del 2000, che ha chiesto la detrazione dalla pena del periodo di custodia cautelare ingiustamente subita per altri reati nel lontano 1983, reati per i quali era stato assolto. Secondo l’impostazione del tribunale che ha sollevato il caso dovrebbe essere consentito lo sconto della custodia cautelare subita anche prima dei reati, per i quali si sconta la pena. La Corte costituzionale è stata di diverso parere. Se è vero, infatti, che la carcerazione preventiva deve essere considerata nel conteggio della pena, la regola non vale sempre. In particolare non vale per la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la commissione del reato. La regola ha una sua logica: impedire che chi ha subito una ingiusta detenzione sia incentivato a commettere reati, con la certezza di non rischiare l’esecuzione della pena (che sarebbe compensata con l’ingiusta carcerazione anteriore). Un’altra spiegazione riguarda l’essenza stessa della sanzione, che deve seguire il reato, altrimenti non raggiunge alcuna finalità. La consulta spiega che una pena anticipata rispetto al reato, anziché sconsigliarne la commissione, rischierebbe di incoraggiarla. Anche le finalità rieducative che certamente possono aver senso anche se la pena o la carcerazione preventiva è stata scontata con riferimento ad altro reato, ma certamente non possono mai riguardare un reato da commettere. Lettere: la paura dei mafiosi in cella è di perdere la speranza di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 12 luglio 2014 La speranza non si baratta ed è la sola che illumina le giornate nere, senza sogni, senza ponti da attraversare. La religione cattolica è un inno alla speranza, alla salvezza, alla possibilità di poter, un giorno, riconciliarsi con il proprio Dio disegnato e descritto da tutti come un padre paziente ma, in ogni caso, esigente. Affermare che la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta siano lontani da Dio, per quanto sia un messaggio forte è anche, per certi versi, piuttosto ovvio. Scomunicare chi vive di mafia, camorra e ‘ndrangheta è quindi consequenziale. Il problema però diventa importante quando a dibattere della questione sono i detenuti, quelli condannati per questi reati e quindi considerati da sentenza dello Stato appartenenti alla criminalità organizzata. La religione è stata sempre un terreno molto delicato e il rispetto per i credenti e per i non credenti deve essere sempre al di sopra di tutto. Ognuno ha diritto di professare il proprio credo. Da questo diritto, particolarmente importante in carcere, nasce però la richiesta di chiarezza da parte di chi è stato condannato, magari all’ergastolo che, oltre a nutrire una flebile speranza di poter uscire un giorno dal carcere, si ritrova anche la saracinesca della sua religione, del suo credo, incredibilmente chiusa. Papa Francesco non ha però condannato l’uomo, ma ha condannato un aspetto, un comportamento, un vivere al di fuori della comunità che si è data regole diverse da quelle dei mafiosi. Per chi rifiuta un confronto con il proprio Dio, per chi non ha il coraggio di attraversare nel deserto, in solitudine, in riflessione, per chi continua a mantenere quegli atteggiamenti, non può bussare alla porta della Chiesa proprio perché si è accasato da un’altra parte. E non valgono i santini bruciati, gli inchini di statue davanti a signorotti del paese (inchini che, beninteso, si ripetono da anni e solo una nuova presa di coscienza oggi ce li mette in mostra e ci fa gridare allo scandalo) non valgono i soldi ottenuti chiedendo il "pizzo" o vendendo sostanze stupefacenti e utilizzati per la festa del Santo. Papa Francesco ha semplicemente detto che tutto questo non può valere al cospetto di Dio perché manca, fondamentalmente, il passaggio del confronto, della riflessione. Manca, dunque, la disposizione al perdono che è chiaramente profondamente religiosa e lontana dalla laicità dello Stato. I detenuti si avvicinano al cappellano perché egli rappresenta un barlume di speranza e a volte confondono i piani tra Stato e chiesa. Su questo però occorre essere chiari e il buon Cavour lo ricordava alla fine del 1800: "Libera chiesa in libero Stato" dove ognuno ha le sue prerogative e ognuno le sue strategie. Molti detenuti, a volte, ritengono di poter miscelare le due libertà, pensano di poter ottenere di più se ci si avvicina alla religione, se i loro passaggi si infarciscono di buone intenzioni. Tutto questo è un fatto assolutamente positivo e apprezzabile, ma non è il percorso richiesto dallo Stato che mantiene una visione assolutamente laica del comportamento all’interno degli istituti penitenziari e la religione è solo un elemento del trattamento che ha nella sua globalità interventi più complessi. "Lo sciopero della messa", così come frettolosamente hanno titolato alcuni quotidiani, è un falso problema. Bisognerebbe domandarsi, invece, perché chi si ritiene quasi sempre estraneo ai reati come l’associazione per delinquere e nessuno di essi si dichiara "mafioso", abbia richiesto un confronto. Semplicemente per paura di restare isolati, di non far parte più della comunità, quella costruita nei secoli attraverso le credenze religiose e non sulla "religione". Uniti agli usi e alle tradizioni, non certo disposti all’analisi e all’esegesi cristiana. Hanno avuto paura che la religione, quella vera, le chiedesse uno sforzo cristiano e le chiedesse di abiurare un’altra religione, un altro credo: quello mafioso. Di questo hanno avuto terribilmente paura. Di restare soli e perdenti, quello che, laicamente, auspico da sempre. Sardegna: Sdr; dati ministero confermano sovraffollamento in 7 Istituti penitenziari su 12 Ansa, 12 luglio 2014 "La Sardegna registra ancora un sovraffollamento in 7 strutture penitenziarie su 12. Il peso maggiore è concentrato nei nuovi Istituti di Massama, Bancali e Tempio Pausania e nella Casa Circondariale di Cagliari". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 30 giugno scorso. "La distribuzione dei cittadini privati della libertà - sottolinea - conferma una situazione di sofferenza anche a Lanusei (47 su 32 posti), Macomer (53 su 46) e Iglesias (96 su 62) mentre nelle Case di Reclusione di Alghero, Mamone-Onanì, Isili e Is Arenas i detenuti sono notevolmente diminuiti. A Badu e Carros invece i ristretti sono 165 (2 donne; 8 stranieri) su 271 spazi". "Dall’analisi numerica dei posti disponibili però emerge qualche dato sorprendente. È il caso di Massama dove erano previsti 250 posti (240 nella sezione circondariale e 10 semiliberi) mentre nell’ultimo rapporto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risulta una capienza regolamentare di 266 posti e una presenza effettiva di 286 detenuti (40 dei quali stranieri). Un dato - evidenzia ancora la presidente di Sdr - che sembra confermare il costante aumento di presenze nella struttura dove convivono detenuti in regime di alta sicurezza molti dei quali ergastolani". Per quanto riguarda Tempio Pausania i posti regolamentari sono 167 ma i cittadini privati della libertà risultano 196. Analogamente a Sassari-Bancali dove a fronte di 363 posti sono recluse 376 persone (18 donne). La Casa Circondariale di Cagliari infine dispone attualmente di 322 spazi regolamentari con 359 detenuti (20 donne e 35 stranieri). "Secondo i dati del Ministero la Sardegna ha a disposizione 2.427 posti regolamentari ma se si escludono quelli delle tre colonie penali agricole (742), a regime attenuato, gli spazi agibili si riducono a 1.685. Si evince dunque che il sovraffollamento è proprio nelle principali strutture detentive. Un aspetto tuttavia è evidente che in Sardegna sta crescendo a dismisura la servitù penitenziaria. Nel dicembre del 2012 l’isola disponeva di 2007 posti (comprese le colonie). Attualmente sono 420 in più e quando entrerà a regime il villaggio di Cagliari-Uta per altri 586 ristretti la situazione - conclude Caligaris - sarà davvero pesante". Firenze: Giacomo è libero, trasferito in un istituto il bimbo cresciuto in cella di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 12 luglio 2014 Il giorno tanto atteso è arrivato. Da ieri Giacomo, sei anni e mezzo - da cinque detenuto con la madre nel carcere di Sollicciano - è un bambino libero. Ieri, dopo aver trascorso la giornata ai centri estivi, come tutti i giorni, è stato portato in un istituto dove resterà fino a quando non verrà trovata una famiglia che lo possa prendere in affido. Disperata la madre quando si è resa conto che il bambino non sarebbe più tornato. Per tutto il pomeriggio le sue grida e il suo pianto sono risuonate in tutto il carcere. L’intenzione era di fare una cosa graduale ma quando la donna ha minacciato di fare del male a lei e al bambino, il giudice ha disposto che il bambino venisse portato via subito. Giacomo ce l’ha fatta. Dopo cinque anni e cinque mesi di galera ha lasciato il carcere. Ieri, il detenuto senza condanna, il più piccolo tra gli ospiti di Sollicciano ma il più bambino più grande che abbia mai vissuto in un carcere, ha conquistato il suo primo giorno di libertà dopo una vita in cella. Giacomo aveva un anno quando la madre è stata arrestata - era il febbraio 2009 - e da quel giorno è sempre rimasto accanto a lei. Ieri mattina Giacomo è uscito da Sollicciano come tutte le mattine per andare ai centri estivi. Alle 16 - orario di rientro a casa per gli altri bambini, di rientro in carcere per lui - le assistenti sociali invece di fare la solita strada verso Sollicciano, l’hanno portato in un istituto, così come stabilito dal giudice del tribunale dei minori con un provvedimento del 2011, pochi giorni prima del terzo compleanno di Giacomo, rimasto fino ad oggi lettera morta. Quando la madre ha visto che passava l’orario di riconsegna del bambino ha cominciato a capire quello che stava accadendo e le sue urla strazianti sono risuonate per tutto il giorno in carcere. "Dov’è mio figlio? Non potete portarmelo via. È sempre stato qui con me, perché adesso non può restare?". Da giorni sapeva che sarebbe successo. Da quando, una settimana fa, al termine dell’udienza in Corte d’Appello che doveva decidere sul suo ricorso contro il provvedimento del giudice, il sostituto procuratore generale aveva detto no all’affido del bambino allo zio. Era uscita in lacrime dall’aula di udienza quel giorno, con il padre del bambino arrivato da Brescia per dire che "nostro figlio non può stare lontano dalla madre, che poi se lo danno a un’altra famiglia, noi lo perdiamo per sempre". A nulla erano serviti i tentativi dell’avvocato di spiegarle che nessuno voleva portare via il bambino, che il giudice avrebbe consentito loro di vederli regolarmente. Da allora, tutti i giorni, gli educatori e la psicologa di Telefono Azzurro che in questi lunghi anni hanno seguito madre e figlio passo dopo passo, hanno provato a spiegare che questa volta Giacomo sarebbe uscito, che i ricorsi e i controricorsi presentati fino ad oggi non avrebbero potuto fermare più nulla. Era stato studiato un distacco graduale tra madre e figlio ma quando ieri mattina, dopo i primi colloqui, la madre ha capito che il suo tempo con Giacomo era scaduto e che non ci sarebbero stati tempi supplementari, ha cominciato a piangere e gridare "se me lo portate via io e lui stasera voliamo in cielo insieme". A quel punto il giudice che ha firmato il provvedimento, chiamato al telefono dal carcere, ha preso l’unica decisione che poteva prendere: non si può rimandare, il bambino non può rientrare in cella neppure per una notte. E così è stato. Mentre la mamma si disperava nel nido vuoto di Sollicciano, dove lei è rimasta l’unica ospite, il piccolo Giacomo stava giocando con altri bambini. È sereno, fanno sapere dall’istituto che da oggi lo ospita, non ha neppure chiesto perché, per la prima volta in vita sua, non tornerà a dormire in carcere. Quel carcere, negli ultimi tempi, stava diventando sempre più stretto a Giacomo. Qualche giorno fa, rientrando a Sollicciano dopo una giornata trascorsa in piscina con gli altri bambini che frequentano con lui i centri estivi, ha puntato i piedi e ha iniziato a piangere. "Non voglio tornare lì dentro", ha detto. L’hanno dovuto portare dentro con la forza. Adesso che Giacomo non c’è più la mamma viene sorvegliata a vista dalle agenti di polizia penitenziaria. Ogni due ore si danno il cambio, attentissime a non lasciarla sola neppure per un minuto. "Uno strazio vederla così disperata", raccontano da Sollicciano. C’è stata una processione per tutto il giorno ieri nel tentativo di calmarla e di farla ragionare. Sono andati tutti da lei, dalla direttrice del carcere alla comandante della polizia penitenziaria, dalla psicologa al cappellano ma lei non fa altro che disperarsi e gridare. Hanno fatto andare da lei anche una sua amica detenuta in un altro reparto per consolarla ma lei non ha mai smesso di piangere. L’avvocato della madre ha protestato: "Non si può fare un blitz portando via così un bambino". "Non si poteva fare diversamente", la replica. "Il bambino doveva andare via il prima possibile da Sollicciano, è rimasto per troppo tempo lì dentro - dice l’assessore ai servizi sociali di Palazzo Vecchio Sara Funaro che in queste settimane si è presa a cuore la storia di Giacomo - Adesso cerchiamo di far vivere al bambino questo distacco con la maggiore serenità possibile". "Questa situazione richiede il massimo equilibrio - dice il garante regionale per i diritti dei detenuti Franco Corleone - bisogna aiutare la madre del bambino a capire che questo strappo è per il bene di suo figlio". Adesso per la mamma di Giacomo si apre una nuova vita. Dovrà trascorrere ancora molti anni in carcere. Il fine pena previsto per lei è nel 2019. Non potrà avere misure alternative alla detenzione perché sulle spalle ha una condanna pesantissima per reati legati al traffico internazionale di minori e sfruttamento della prostituzione minorile. Se anche ci fosse un Icam a Firenze, un centro di custodia attenuata per le detenute madri, lei non potrebbe andarci perché quei reati sono ostativi. Il provvedimento del giudice del tribunale dei minori, tre anni fa, aveva stabilito che il bambino dovesse essere affidato a una famiglia ma quell’ordinanza è stata sospesa due volte per il ricorso presentato dalla madre. Tra provvedimenti e ricorsi Giacomo ha avuto il tempo di imparare a camminare e a parlare. Ha imparato a riconoscere il suono dei portoni blindati che la sera si chiudono alle sue spalle. E soprattutto ha avuto il tempo di festeggiare sei compleanni. "Reati troppo gravi, non doveva stare con lei fin dall’inizio" Intervista a Riccardo Arena (Radio Radicale), a cura di David Allegranti Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere su Radio Radicale, il primo a occuparsi sui media nazionali di questa storia, è giusto sottrarre un bambino alla madre in questo modo? "Non è solo giusto, ma è ciò che doveva essere fatto tre anni e mezzo fa. La legge infatti, all’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, prevede che il bambino lasci il carcere al compimento del terzo anno di età. La permanenza in carcere di questo bambino per i tre anni e mezzo successivi è una palese violazione della legge e potrebbe integrare estremi di reato". Ma le madri, ancorché detenute colpevoli di reati, non hanno diritti? "La mamma ha la facoltà di tenere il bambino con sé in cella finché questo bambino non compie tre anni. È evidente però che il nostro ordinamento ha una lacuna, tra le tante. Ovvero la mancata verifica che una mamma che si è macchiata di così gravi reati possa tenere il bambino con sé. L’esempio è concreto, quello di una mamma condannata per sfruttamento della prostituzione minorile che ha massacrato dei bambini. Siamo certi che sia idonea a essere madre? Questa osservazione è spinosa ma va fatta". La madre è andata in escandescenze e ha minacciato di uccidersi e di uccidere il bambino qualora dovesse rivederlo. "La minaccia di suicidio di questa mamma credo sia la trappola in cui sono cadute le autorità competenti. In altre parole, questa mamma da sempre ha minacciato il suicidio se fosse stato allontanato il bambino ed è forse per questo che le è stato lasciato. Mai una scelta è stata più avventata oltre che illegale". Perché illegale? "Perché da un lato il bambino a 3 anni doveva lasciare il carcere, dall’altro lato la direzione del carcere, di fronte a una manifesta volontà di suicidio da parte della madre, avrebbe dovuto adoperarsi per controllare la madre 24 su 24. Morale, in questa vicenda la legge non è stata applicata e nulla ha funzionato. Con la conseguenza che questo bambino ha patito 5 anni e mezzo di carcerazione, che è la pena di un rapinatore". Il ministero era conoscenza del fatto? "Per quanto ne so, prima dell’articolo di Antonella Mollica, né il ministero della Giustizia né il ministro, né il capo del Dap erano a conoscenza della detenzione illegittima di questo bambino. Ho delle perplessità quindi non solo per ciò che hanno fatto l’ex direttore del carcere e quello attuale, ma anche per la mancanza di collegamento tra direzione e Provveditorato della Toscana, per l’inerzia della magistrature di sorveglianza e per la mancata conoscenza di una notizia così grave da parte del ministero della Giustizia. Ciò detto, la normativa per me è inaccettabile. Trovo inammissibile che un bambino debba stare in carcere anche un solo giorno. Figuriamoci per tre anni. Non parliamo di sei". Come si può risolvere il problema? "Come hanno fatto a Milano, e solo a Milano, senza scomodare il Parlamento tentando di migliorare, ma facendo peggio. Basta un accordo tra Provveditorati e Regioni, per creare in ogni Regione una sezione del carcere in un appartamento di comune abitazione, dove le mamme sono detenute e i bambini escono e vanno all’asilo. Non sentono così la puzza del carcere e le urla del carcere. Invece di fare leggi complicate che peggiorano la situazione, si seguisse l’esempio dell’Icam di Milano. Un semplice accordo amministrativo, e non una legge mal scritta come quella recente". "Ora serve un gesto d’amore della mamma Lo lasci vivere fuori" Intervista a Conny Leporatti (Psicologa), a cura di Antonella Mollica "La madre è la chiave di volta perché questa storia abbia un lieto fine. È lei che deve fare un grande gesto d’amore lasciando andare suo figlio fuori dal carcere. Deve farsi ponte tra l’unica realtà che il bambino conosce, quella di Sollicciano, e il mondo esterno. Solo con questa "autorizzazione morale" della madre, il piccolo potrà iniziare un percorso al di fuori del carcere, avendo sempre la certezza che quel legame sia intoccabile". Conny Leporatti, psicologa e psicoterapeuta familiare, sposta l’attenzione sulla madre di Giacomo. "Senza la sua collaborazione, il bambino non potrà iniziare questo percorso che lo porta fuori dal carcere". Questa donna che resta nel carcere si trova a vivere un dramma enorme. Dopo aver vissuto sei anni praticamente in simbiosi con il figlio adesso lo vede uscire, mentre lei resta dentro. "La madre è il primo legame per ciascun bambino, in questo caso non solo è stato il primo legame, ma per tutti questi anni è stato anche l’unico. A separare la diade madre-figlio dopo il periodo simbiotico della gravidanza e dell’allattamento di solito subentra il padre ma in questo caso non è accaduto. Quindi l’esperienza del legame affettivo per il bambino è collegata al rapporto con la madre". Il distacco tra la madre e il bambino rischia di compromettere il loro rapporto? "Il legame deve essere intoccabile. Il bambino deve sapere che sulla madre potrà contare per tutta la vita, è l’unica certezza che ha e nessuno gliela deve togliere. Dovranno fargli capire che la mamma l’amerà per tutta la vita, che per alcuni errori commessi tanto tempo fa lei dovrà stare lì mentre lui dovrà andare fuori, dove troverà una famiglia che si prenderà cura di lui fino a quando la madre non uscirà. La mamma va convinta invece che nessuno vuole prendere il suo posto, che lei un giorno uscirà e potrà tornare a prendersi cura del bambino". Sarà importante quindi che il bambino continui a vedere la madre in futuro? "Certo il bambino dovrà continuare a vederla regolarmente. La madre, con un atto d’amore, dovrà spiegargli che lui non può stare lì ma che deve andare a scuola e frequentare gli amici, dicendogli anche che un giorno torneranno insieme. La madre dovrà essere il ponte tra Sollicciano, l’unica casa che conosce, e il mondo di fuori. Ma deve essere aiutata a capire tutto questo. Lei adesso vive con la paura di aver perso tutto quello che ha. Ha bisogno di essere rassicurata, le serve un forte sostegno psicologico. Solo con l’autorizzazione morale della madre il bambino potrà andare via". Basterà questo per fare in modo che un bambino che ha vissuto cinque anni della sua vita abbia una vita serena? "L’importante è che il bambino conservi la fiducia e la speranza nel legame con la madre. È la base per fare in modo che abbia una vita serena. Coltivare questo aspetto significa anche fare di lui un bambino equilibrato, e significa anche fare opera di prevenzione". Come trascorrerà questa donna gli anni che mancano alla sua scarcerazione? "Vivrà tra una visita del figlio e l’altra". Catania: Orlando visita il carcere di Piazza Lanza "ripristinate le condizioni di dignità" La Sicilia, 12 luglio 2014 "Questo era uno dei carceri peggiori d’Italia e oggi con piccoli interventi, con attività di manutenzione ordinaria e straordinaria si sono ripristinate delle condizioni di dignità per i detenuti". È il primo commento del ministro della giustizia, Andrea Orlando, dopo la visita nel penitenziario catanese di Piazza Lanza. Il guardasigilli ha specificato il senso della sua presenza nel carcere di Catania: "Volevo essere qui - ha detto ai cronisti - nei giorni in cui stiamo sostanzialmente uscendo dall’emergenza carceri a livello nazionale e stiamo superando le condizioni di sovraffollamento". Orlando, però, ha subito precisato che non abbiamo ancora "un sistema penitenziario all’altezza della civiltà del nostro Paese, ma credo in questi mesi un passo significativo è stato compiuto". Parlando poi della riforma della Giustizia che il governo sta perfezionando, il ministro ha ripercorso l’iter avviato in questi mesi a partire da quelle linee guida e dalle schede tecniche messe on line della riforma del processo civile: "Nei prossimi giorni andremo avanti anche per la parte ordinamentale penale", ha detto il guardasigilli aggiungendo che si si attende "una risposta significativa da parte di chi valuta queste proposte". Infine, prima di lasciare piazza Lanza per recarsi ad un convegno, Orlando ha anche parlato della norma svuota-carceri che, a detta del ministro, necessita di alcune correzioni. "Abbiamo un sistema che dal punto di vista dei numeri è sotto controllo - dice il guardasigilli - non c’è un rischio di un’impennata e questo dato ci consente di affinare alcuni strumenti, di correggere alcuni distorsioni e di avere una situazione che in grado di essere programmata e gestita". Secondo Andrea Orlando l’ultimo tassello che manca in questo percorso è una riforma organica della custodia cautelare: "In questi mesi Il Parlamento ci ha lavorato e ci sono state discussioni su punti più o meno critici - dice - ma credo che entro la pausa estiva si possa arrivare ad un testo licenziato e condiviso". Avellino: Camera Penale; a Bellizzi una cella senza alcuna apertura usata come passeggio Corriere dell’Irpinia, 12 luglio 2014 Una cella senza alcuna apertura usata come passeggio per i detenuti dell’area ex transito. L’ora d’aria tra quattro mura della popolazione carceraria a rischio di Bellizzi. Uno dei casi choc denunciati dalla delegazione dell’Osservatorio delle carceri dell’Unione delle Camere Penali e da quella della Camera Penale Irpina, ieri mattina in visita alla casa di reclusione di Contrada Sant’Oronzo. Quella che è stata ricevuta dal direttore Pastena e dal comandante della Polizia Penitenziaria. A loro è andato l’apprezzamento, riscontrato anche nelle sezioni detentive da parte della delegazione. Nonostante lo sforzo di personale e dirigente, a Bellizzi si vive nella parte vecchia della struttura penitenziaria un vero e proprio "inferno". A spiegare i dettagli di questa visita "sconvolgente" nel corso di una conferenza stampa sono stati il presidente della Camera Penale Irpina Gaetano Aufiero, la responsabile dell’Osservatorio Carceri Giovanna Perna e i rappresentati giunti da Roma, gli avvocati Michele Sassone e Alessandro De Federicis. Il caso della cella ex transito finirà davanti al Ministro Orlando. A sconvolgere la delegazione anche la presenza di cinque bambini, che pure la direzione cerca di far sentire a proprio agio con giocattoli e disegni, nella sezione femminile. E non solo. Otto detenuti per una cella di 25 mq. Tutto da gestire per 260 agenti, ne servirebbero invece 350. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): ieri l’open day e l’incontro tra i detenuti e i loro familiari Corriere dell’Irpinia, 12 luglio 2014 Ancora non si è spenta l’eco dell’importante convegno di studio sulla cosiddetta "Sentenza Torreggiani" e già il Direttore della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Massimiliano Forgione, pensa a nuove iniziative per rendere sempre più attuale il dettato costituzionale per cui le pene "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Un impegno intorno al quale il Direttore chiama alla loro corresponsabilità tutte le singole professionalità che operano tra le mura del carcere altirpino, dagli educatori agli agenti penitenziari, dagli psicologi ai volontari. Una delle prossime sfide, ci anticipa, sarà quella di attrezzare al meglio gli spazi da destinare ad "area verde", ovvero il luogo all’aperto dove, periodicamente, i detenuti incontrano le famiglie e i figli per trascorrere con loro una mezza giornata in un contesto di quasi "normalità", mangiando assieme, chiacchierando con il coniuge o giocando con i piccoli senza che ci siano le sbarre a dividerli. Dice Forgione: "Non sarà facile progettare e realizzare un’area verde ottimale, poiché occorre sempre tener conto delle condizioni di sicurezza che dettano i tempi e i modi della detenzione, con le quali dobbiamo quotidianamente confrontarci. Siamo pur sempre dei carcerieri - scherza il Direttore - e la sera dobbiamo far tornare i conti quando chiudiamo le porte delle celle, anzi, più correttamente, delle "camere di pernottamento", come le chiama il regolamento". Intanto, al di là del muro di recinzione, arrivano le voci squillanti dei bambini, tutti al di sotto dei dieci anni, che, aiutati dalle operatrici sociali, giocano rincorrendo la palla o sfidandosi tra di loro negli stessi giochi che fanno tutti i giorni dell’anno nei vicoli e le piazze dei loro paesi. In verità lo spazio non è molto ampio, però tutti se lo fanno bastare. Qualche metro più in là, sotto i gazebo che li proteggono dal sole caldo di luglio, i papà osservano i loro figli compiaciuti di quanto siano diventati bravi nonostante l’assenza del genitore. Lo fanno tenendosi per mano con la moglie che, anch’essa, conta i giorni dalla scarcerazione. A qualcuno scende una lacrima. Ma per fortuna solo a qualcuno, poiché non è giusto intristire le ore dell’"area verde" che, una volta ogni tanto, sono servite a riunire la famiglia e a far dimenticare le mura alte della Casa di Reclusione di Sant’Angelo. La stessa che, per la qualità della vita detentiva che vi si pratica, e gli illustri relatori intervenuti al recente convegno sulla "Sentenza Torreggiani" lo hanno certificato, è davvero un carcere da indicare come modello per tutte le strutture detentive italiane. Ma questo, in verità, il dott. Forgione non ama sentirlo dire: "Non facciamo nulla di più di quanto non si faccia altrove - insiste - poi - ché anche qui si applicano le stesse norme e gli stessi tempi che le leggi e i regolamenti dettano per tutte le carceri italiane". Sarà vero, ma la carica di contagiosa passione che Massimiliano Forgione mette nelle sue iniziative non c’è tra le consegne istituzionali del funzionario dell’amministrazione penitenziaria, né tra i compiti delle diverse figure professionali che con lui dividono la responsabilità di progettare la giornata detentiva di alcune centinaia di reclusi. Macomer (Nu): lettera dei detenuti "non chiudete questo carcere… ci stiamo benissimo" di Pier Luigi Piredda e Piero Marongiu La Nuova Sardegna, 12 luglio 2014 "Non chiudete questo carcere. In questa struttura penitenziaria stiamo bene, gran parte della popolazione detenuta usufruisce della sorveglianza dinamica. Veniamo seguiti bene e, soprattutto, veniamo considerati come persone e non come semplici numeri". I detenuti del carcere di Macomer hanno inviato una lettera al nostro giornale per cercare di riportare tra le priorità del ministro alla Giustizia, Andrea Orlando, un argomento scottante come l’imminente chiusura del penitenziari. Una lettera scritta con grande garbo e indirizzata al ministro affinché non faccia l’errore di ascoltare chi, quando si parla di carceri, elenca soltanto dei numeri, trascurando il fatto che dietro quei numeri ci sono uomini e donne che hanno sì sbagliato, ma che stanno pagando i loro errori e vogliono farlo con l’obiettivo di poter un giorno tornare alla vita come persone migliori. "Facciamo appello alle autorità e, in particolare, al ministro Orlando affinché revochi il decreto di chiusura di questo istituto che non è affatto fatiscente ed è anzi una struttura nuova e funzionale - hanno scritto i detenuti. Qui stiamo bene. Usufruiamo della sorveglianza dinamica e quindi per 12 ore abbiamo i blindi (le porte in ferro, ndr) aperti e di conseguenza posiamo fare socialità. Non c’è sovraffollamento e molti usufruiscono di permessi premio e di lavoro all’esterno. La chiusura comporterebbe enormi disagi a noi e ai nostri familiari. Non neghiamo di avere risentito dei tagli economici che l’istituto ha subito - hanno continuato nella lettera - con una diminuzione di attività, stipendi e inserimenti lavorativi essenziali per il nostro mantenimento e reinserimento sociale. Ma ci siamo organizzati per superare le difficoltà. Questo carcere è piccolo ma proprio questo lo rende speciale, si può dire a conduzione familiare e proprio come in una famiglia i problemi vengono affrontati e risolti insieme allo staff educativo e al personale penitenziario. Chiediamo e crediamo in un mantenimento e potenziamento di questo istituto dove siamo seguiti bene e soprattutto considerati come persone e non come semplici numeri. Per questo - hanno concluso i detenuti di Macomer - speriamo in un ripensamento del ministro della Giustizia. Ci opponiamo alla chiusura e chiediamo l’aiuto e il sostegno di tutti in questa nostra lotta per salvare il carcere". Venezia: maxi-rissa nel carcere di Santa Maria Maggiore, processo a 20 detenuti di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 12 luglio 2014 Una maxi rissa all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore: detenuti magrebini da una parte (cittadini marocchini e tunisini su tutti, per lo più detenuti per reati legati al mondo della droga) e dall’altra detenuti con passaporto dell’Europa dell’Est (moldavi e ucraini, soprattutto, in carcere per lo più per sfruttamento della prostituzione, con gli albanesi che si erano invece tenuti volontariamente fuori dalla mischia, a guardare). Una cinquantina di persone coinvolte, che si erano picchiate furiosamente per una decina di minuti a mani nude e colpendosi con le cinghie dei pantaloni, dopo essersele sfilate (vengono trattenute solo nella prima fase della detenzione, poi cinture e lacci sono regolarmente autorizzati in cella). Ieri, davanti alla giudice del Tribunale monocratico, Daniela Defazio, è iniziato il processo per la gigantesca rissa - questo il reato contestato dal pubblico ministero Giorgio Gava - che sconvolse l’ora d’aria del pomeriggio del 31 maggio 2012, nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. In una struttura dove si registra una altissima presenza multietnica - a Natale, in occasione della visita del patriarca Moraglia, i numeri davano 100 reclusi italiani e 169 stranieri, e ben 35 nazionalità differenti - le tensioni non mancano tra alcuni gruppi, spesso anche a causa delle diverse religioni. Tant’è, in questo caso una "spallata" durante l’ora d’aria della mattina - un detenuto marocchino aveva colpito un moldavo, a detta di quest’ultimo, per provocarlo - aveva determinato la reazione organizzata nel pomeriggio. In quell’occasione, gli agenti penitenziari temevano un regolamento di conti, tanto da aver sottoposto i detenuti al controllo del metal detector, prima di entrare in cortile, temendo che qualcuno si fosse portato appresso un coltello. Invece sono bastate le mani e le cinghie. Quasi neppure il tempo di ritrovarsi tutti insieme per l’ora d’aria ed era partita l’aggressione: dopo dieci minuti, gli agenti erano riusciti a riportare la calma, identificando una ventina di partecipanti. E sono questi ultimi ad essersi presentati ieri davanti alla giudice Defazio, che ha presto aggiornato il processo per discutere nel merito, in un’udienza dedicata all’affollato "banco degli imputati", con relativi avvocati al seguito. I due gruppi si trovavano in carcere per motivi diversi: come spesso accade, i magrebini sono più legati al mondo dello spaccio di sostanze stupefacenti, mentre i detenuti dell’Europa dell’Est al mondo dello sfruttamento della prostituzione. Torino: Allasia (Ln); inaccettabile che telefoni cellulari siano a disposizione dei detenuti Il Velino, 12 luglio 2014 "Alfano chiarisca subito la gravissima vicenda dei telefoni cellulari rinvenuti nelle celle di un detenuto romeno e due albanesi nel carcere di Torino". Lo chiede in un’interrogazione al ministro dell’Interno il deputato della Lega Nord, Stefano Allasia. "Non è accettabile che nel giro di due settimane siano stati ritrovati due cellulari funzionanti, all’interno dello stesso carcere, a disposizione di tre detenuti stranieri. Chiediamo un intervento urgente del ministero dell’Interno affinché venga risolto il problema e sia garantita immediatamente maggiore sicurezza all’interno del sistema penitenziario". Firenze: lunedì conferenza stampa del Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone www.parlamento.toscana.it, 12 luglio 2014 Conferenza stampa del Garante regionale Franco Corleone lunedì 14 luglio 11 sala Montanelli di palazzo Panciatichi. Tra i dati che saranno presentati, presenze detenuti, situazione edilizia, manifesto No-Prison. "La perdita della libertà deve realizzarsi all’interno di strutture che salvaguardino sempre e comunque la dignità delle persone e i loro diritti. I luoghi preposti per questo non possono essere le carceri che conosciamo. Immaginiamo altro nella fisicità delle costruzioni e nell’economia degli spazi, altro nella professionalità di chi è addetto al controllo, al dialogo e all’aiuto". Questo è un passaggio del Manifesto No-Prison, documento a cura di Livio Ferrari e Massimo Pavarini (rispettivamente direttore del centro francescano di ascolto di Rovigo e professore di diritto penitenziario all’Università di Bologna) che sarà al centro della conferenza stampa del Garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone, in programma lunedì prossimo, 14 luglio, alle 11 in palazzo Panciatichi (Sala Montanelli). L’incontro con i giornalisti sarà anche l’occasione per presentare la situazione delle carceri in Toscana ed illustrare dati su presenze, situazione edilizia e prossime iniziative del Garante. Alla conferenza stampa, oltre a Corleone, Ferrari e Pavarini, parteciperà anche Emilio Santoro professore di diritto ordinario, dipartimento scienze giuridiche dell’Università di Firenze. Napoli: il Cardinale Crescenzio Sepe a pranzo con i detenuti della Casa Pastorale Il Velino, 12 luglio 2014 Il Cardinale Crescenzio Sepe a pranzo con i detenuti ospiti della Casa della Pastorale Carceraria, da lui fortemente voluta e realizzata già da diversi mesi in un ex convento di suore, acquisito in uso dalla Diocesi proprio per accogliere ed assistere detenuti e per le relative attività pastorali. L’Arcivescovo, accompagnato dal Vicario Episcopale per la Carità, don Tonino Palmese, dal Direttore della Caritas, don Enzo Cozzolino, e dal suo Segretario, don Giuseppe Mazzafaro, ieri si è recato, a piedi, in via Trinchera dove ha sede la Casa, a pochi passi dal Palazzo Arcivescovile di Donnaregina. Al suo arrivo, è stato accolto dal Direttore della Pastorale Carceraria, don Franco Esposito, e si è intrattenuto poi per diverse ore con i detenuti, prevalentemente giovani, con i volontari e con il personale impegnato "a progetto". Con tutti loro ha avuto modo di consumare un pasto, preparato, come tutti i giorni, all’interno della Casa, interessandosi molto alla loro vita e alle attività nelle quali sono impegnati quotidianamente. Ha molto apprezzato la sensibilità e i propositi testimoniati dagli ospiti, nonché la loro bravura nel preparare oggetti di bijoutterie e confezionare corone del rosario, di materiale e colore diversi, che vengono inviati, su commissione, in molte parrocchie, in istituti religiosi e in negozi di varie località italiane. Pari attenzione e parole di compiacimento ha avuto anche per coloro che sono occupati nella cooperativa di servizi o in lavori di falegnameria e per l’occasione ha acquistato anche un oggetto in legno, ottimamente lavorato. Nella Casa trovano ospitalità trenta detenuti, alcuni in affido, altri agli arresti domiciliari ed anche ex detenuti. Perù: torneo di calcio dei detenuti, vince la squadra dell’Olanda La Presse, 12 luglio 2014 L’Olanda ha perso l’opportunità di diventare campione del mondo ma in un campionato di calcio fra carcerati in Perù è risultata la squadra più forte. Il torneo è stato organizzato dal servizio carcerario del Paese, che ha diviso i detenuti di tutto il Perù in base alla nazionalità. Il torneo ha preso il via il 2 giugno presso la prigione Miguel Castro Castro, nella capitale Lima, dove è stata piazzata una replica della statua del Cristo Redentore che sovrasta Rio de Janeiro in Brasile, ma in piccolo. "Dal momento che è in corsa la Coppa del Mondo in Brasile, e c’è un Cristo Redentore, perché non farne una replica qui", ha detto lo scultore Vicente Palomino. Prima del torneo i detenuti hanno eseguito una coreografia di apertura dei giochi, con tanto di musica. La finale si è disputata giovedì, fra i detenuti del carcere Sarita Colonia, vestiti di arancione per rappresentare l’Olanda, e i carcerati del carcere San Pedro, vestiti di bianco per rappresentare la Germania. Il ministro della Giustizia del Perù Daniel Figallo si è congratulato con i vincitori e ha detto che l’evento è stata un’occasione per aiutare i detenuti verso il loro recupero sociale.