Contro l’ergastolo, per vivere in un Paese in cui nessuno deve essere escluso Il Mattino di Padova, 9 giugno 2014 Agnese Moro all’incontro con gli ergastolani: una giustizia che dialoga e supera il rancore. Un convegno "anomalo" quello che si è svolto il 6 giugno nella Casa di reclusione di Padova, promosso dall’Università e dalla rivista dal carcere Ristretti Orizzonti, "anomalo", perché protagonisti sono stati decine di ergastolani, provenienti dalla sezione di Alta Sicurezza e per la prima volta coinvolti in una grande iniziativa pubblica e invitati, insieme ai loro famigliari, a raccontare cosa significa vivere una vita senza speranza, senza futuro. Ma l’intervento che ha aggiunto qualcosa di straordinario alle loro testimonianze è stato quello di Agnese Moro, la figlia di Aldo Moro, lo statista ucciso con la sua scorta dalle Brigate Rosse nel 1978. L’idea, che emerge dalle parole di Agnese, è quella di una giustizia che dialoga, e che trova la sua forza nel superamento del rancore e della rabbia. Gli esseri umani sono fatti di libertà Io ringrazio molto di questo invito che mi fa piacere, ma che mi mette anche in crisi, che mi aiuta a capire sempre di più una realtà così difficile come quella del carcere. L’ergastolo, intanto vi vorrei dire io come lo vedo, io che non lo vivo, perché io non so cosa sia davvero l’ergastolo, nessuno che non lo vive credo che possa saperlo davvero. Fra le cose che mi colpiscono c’è prima di tutto quest’idea di non uscire mai più. Mio padre diceva che l’ergastolo è la cosa più inumana che si può dare, perché gli esseri umani sono fatti di libertà e dire a una persona che non ha nessuna speranza di tornare libera è almeno altrettanto crudele che ucciderla. Non uscire mai più: non riesco nemmeno a immaginare che cosa possa essere. Immagino che il tempo, lo scorrere del tempo non abbia molto significato, che ogni giorno sia uguale a quello prima. La mancanza di relazioni affettive stabili, continue, senza la speranza di recuperarle, il sentirsi completamente rifiutati dalla società, buttati via, un oggetto inutile che nessuno vuole riavere indietro. E mi colpisce tantissimo che è una pena che ferisce anche i familiari, che naturalmente non hanno nessuna responsabilità, di nessun genere. Ma che comunque vengono privati di qualche cosa di così enormemente importante come è l’affetto di una persona cara. Io l’ergastolo non lo vivo, io ho il ruolo della vittima, e credo che la mia voce possa essere quella di una persona che ha subìto un torto e che quindi guarda a tutto questo dal punto di vista di qualcuno a cui è stato tolto qualche cosa perché qualcun altro ha deciso di togliergliela. E qualcuno di noi, che siamo stati vittime di un reato dice, e anche io l’ho detto qualche volta, che noi siamo condannati comunque a un ergastolo, perché il nostro dolore è eterno e nessuno ci può tirare fuori da questo dolore, però secondo me non è vero. Cioè, è vero che il dolore è eterno e adesso vi dirò qualcosa di questo dolore, ma non è come l’ergastolo, perché io comunque ho il mio dolore ma posso andare a passare una giornata al mare, vedere qualcosa di bello, andare da qualcuno che amo, farmi abbracciare, consolare, posso andare a fare una psicoterapia, posso scappare, andare in viaggio, posso fare qualche cosa per gli altri che mi dia una soddisfazione, posso fare, posso muovermi, posso decidere, posso dare, e non è la stessa cosa. Uno che è chiuso in un carcere molte di queste cose non le può fare anche se magari avrebbe voglia di farle. Certamente il dolore è qualche cosa di importante, ma non è un ergastolo, è un’altra cosa. Perché sono contraria all’ergastolo? Perché sono contraria all’ergastolo? Non è che il mio parere conti tantissimo, ma sono piccole riflessioni mie: da una parte perché mi sembra assolutamente disomogeneo, contrastante, disarmonico con quello che è il nostro progetto di Paese. Tanti anni fa, alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il fascismo, dopo una serie di catastrofi infinite, abbiamo deciso di darci una regola, degli obiettivi, abbiamo scritto come desideriamo essere come Paese e tutto questo è diventato la nostra Costituzione, che non è una cosa che è stata inventata da quattro saggi che si sono messi in una stanza, è stata scritta da persone che hanno saputo raccogliere le aspirazioni alla pace e alla giustizia, a una vita diversa del popolo italiano, e quella speranza che c’è nella Costituzione, quel progetto di Paese, è un Paese in cui ogni persona è importante, in cui le persone sono il centro della vita, in cui nessuno deve essere escluso, a ognuno deve essere data la possibilità di fare, di essere, di assumersi delle responsabilità. E tutto questo è realizzato con la partecipazione e il concorso di tutti, tanto che in questa carta se si dice che mandiamo qualcuno in prigione perché lo vogliamo fermare, perché comunque c’è un problema di fermare il male quando il male si sta compiendo, noi però lo facciamo per riaverla poi indietro, quella persona. La rieducazione che cos’è? Ti rivoglio indietro in un altro modo, però ti rivoglio, punto. Ecco, l’ergastolo dice esattamente il contrario. Dice esattamente che non ti rivoglio, perché non sono in grado di cambiarti, perché non credo che tu possa cambiare, e questo secondo me è un messaggio terribile che alla fine vale per tutti. Cioè è un messaggio che viene dato a fronte di cose particolarmente gravi che sono state compiute, ma questo messaggio, che c’è qualche cosa, ci può essere qualche cosa negli esseri umani che gli impedisce di cambiare, alla fine è un messaggio che mandiamo noi stessi a tutti noi, lo mandiamo anche per la vita ordinaria. Allora il ragazzo che è diverso dagli altri non può cambiare, la persona che ha un problema fisico non può essere come gli altri. Nulla si può cambiare. È un messaggio terribile e comunque un messaggio che sta fuori dalla nostra Costituzione. Ma uno degli argomenti che viene portato più facilmente è che le persone che sono state colpite dal male del reato devono avere giustizia. Ora, nella mia esperienza personale, mio padre è stato rapito e ucciso, e prima di lui sono stati uccisi cinque uomini che lo proteggevano, che lo aiutavano. Le persone che hanno fatto questo sono state prese, sono state condannate, sono andate in prigione scontando quello che dovevano scontare. A me onestamente tutto questo non ha dato niente. Vedo spesso in Tv quando intervistano qualcuno a cui hanno ammazzato un famigliare, qualcuno a cui è successa una cosa tragica, vedo la speranza, che queste persone quando partecipano a un processo hanno, che il loro dolore possa cambiare perché c’è una condanna esemplare, e provo una pena enorme per loro e so che quella condanna a loro non cambierà assolutamente niente. Fossero anche quattromila anni, non è quello che può curare il loro dolore. Il dolore c’è, non scherziamo. Ti tolgono una persona e tu vivi da quel momento una situazione che non è una situazione normale, è come se tu avessi ingoiato una grossa pietra, non puoi digerirla e non puoi sputarla, ti toglie il fiato, io dico che è come vivere in un elastico. Quando è stato ucciso mio padre io avevo 25 anni e adesso ne ho 61. Chiaramente sono andata avanti, ho fatto la mia vita, mi sono sposata, ho avuto dei figli, ho lavorato, ho fatte tante cose, però un pezzo di me è sempre fermo tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978. È come se fossi attaccata a un elastico, vado avanti, vado avanti ma non so mai se quell’elastico mi riporterà indietro. E comunque io non sono mai staccata da quel momento. Come fare allora ad avere giustizia e anche a riuscire a sciogliere quell’elastico e a scalfire quella pietra, quel sasso che soffoca, renderlo più piccolo, farlo sparire, fino a che ti lascia più spazio per un respiro completo? Io voglio giustizia ma quella giustizia per me non è data da quegli anni di prigione e non è che mi sento colpita perché quelle persone sono uscite dal carcere. Per me il momento che credo più vicino ad aver ricevuto un atto di giustizia è stato quando ho avuto la possibilità, la fortuna, grazie a persone che mi hanno aiutato, di conoscere le persone che erano responsabili dell’omicidio di mio padre, guardarle in faccia e vedere la loro riflessione, il loro cambiamento, il loro dolore, scoprire con meraviglia che lo stesso sasso che ho io, lo stesso elastico che ho io ce l’hanno anche loro e allora forse una consolazione viene dal provare insieme a sciogliere quell’elastico e a scalfire quel sasso. Certamente non dal pensare che la persona responsabile del tuo dolore non tornerà mai più a casa dai suoi figli. Agnese Moro Si è svolta a Roma la VII Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2014 Il 6 e 7 giugno scorsi si sono svolti a Roma i lavori dell’Assemblea Nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia dal titolo "Oltre la sentenza Torreggiani". L’Assemblea ha aperto i lavori con una considerazione da parte della Cnvg: far rispettare i diritti umani costa meno che violarli, il cui incalcolabile costo in termini umani dovrebbe essere la ragione principale per non farlo, mentre, all’evidenza, le cose sembrano andare diversamente. Molte le osservazioni dei relatori in merito alle decisioni assunte il 5 giugno dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo competente per verificare l’esecuzione delle sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo, che ha affermato che l’Italia sta rispettando le indicazione date nelle sentenza pilota. Pur dando atto di un cambio di passo nella gestione delle carceri, da più parti è stato sottolineato come la prudenza, come è evidente, debba rimanere alta, mentre parecchie perplessità sono state espresse sulla applicazione effettiva di questo rimedio soprattutto considerando le difficoltà oggettive, di tipo organizzativo in particolare, nella sua attuazione. Nel vivace scambio intercorso tra istituzioni penitenziarie, esponenti del volontariato e detenuti, è stato rimarcato quanto ancora, nonostante il miglioramento riscontrato, resti da fare non solo in termini di metratura ma di condizioni di vivibilità negli istituti, di opportunità trattamentali e, in particolare, della carenza di risorse destinate al reinserimento ed alle misure alternative, per lo più delegate al volontariato che opera senza alcun sostegno economico e spesso con scarse possibilità di essere recepito a livello istituzionale come indispensabile componente per l’umanizzazione della pena. È quindi necessario il riconoscimento del "valore politico" del Volontariato e della sua capacità di disegnare scenari. Esso, che da tempo aveva indicato le direttrici anche legislative verso le quali indirizzarsi per modificare l’inumana condizione carceraria, accoglie nuovamente la sfida di costruire insieme un nuovo modello sociale, impegnandosi a fare la propria parte sino in fondo, ma indicando alcuni punti essenziali che dovranno essere affrontati, che riguardano il rapporto con le istituzioni, le modalità di sostegno, ed anche soluzioni legislative innovative che facciano emergere quelle potenzialità che restano ancora inespresse a causa di difensivi arroccamenti istituzionali. Al di là, quindi, delle parole di circostanza, da parte delle istituzioni devono seguire delle azioni che tutelino il volontariato nella propria funzione, che valorizzino nella pratica concreta le azioni poste quotidianamente in essere a favore della popolazione detenuta. Il nostro Volontariato è quello che lavora a partire dai territori, ed è in essi radicato, che intercetta cambiamenti e fenomeni sociali profondi e che in funzione di ciò attua una costante innovazione sociale; che opera in rete e che di essa ha fatto la propria modalità di costruzione e sviluppo, tutti elementi di eccellenza che è doveroso affermare e su cui è necessario investire. Dal punto ora raggiunto è ora necessario non solo non arretrare, ma proseguire con la massima decisione verso un vera realizzazione del carcere riformato secondo le leggi e gli ordinamenti da troppo tempo inapplicati. Sta a tutti noi non lasciare le cose come stanno, ed evitare che i continui rimbalzi di competenza producano un moto perpetuo di immobilità. Chiediamo a tutti di impegnarsi perché non si tratti di una ulteriore occasione perduta per innovare politiche e pratiche che diano risposte stabili e progettuali. Non è solo la drammatica urgenza del sovraffollamento ad imporle: si tratta di attualizzare e di concretizzare modelli operativi che realizzino un modello stabile di "governance" che neghi la centralità del carcere come unica forma di pena, affermi l’importanza dello sviluppo di alternative alla detenzione, riconosca la necessità dell’integrazione di tutte le parti. Di elevatissimo interesse il workshop sul progetto "scuola di libertà- "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", la cui giornata si realizza a livello nazionale il 15 novembre. Le cifre dell’iniziativa del 2013 stimano 125 scuole coinvolte, per un totale di oltre 10mila studenti, 1.000 volontari impegnati, in rappresentanza di 56 Associazioni, una sorprendente ricchezza progettuale. Le straordinarie esperienze presentate, contrassegnate da grande spirito di inventiva permeato da solide professionalità e spirito etico, riconfermano una realtà di Volontariato che spesso si è posta anche come antesignana nell’individuazione di percorsi coraggiosi e difficili e che, pur subendo momenti di sconforto e disillusione derivati dall’immobilità delle situazioni non si è mai arresa: nel sollecitare le istituzioni verso una carcerazione più umana, nell’idea della pena non solo come retribuzione ma come opportunità di riscatto della norma infranta attraverso un sistema di esecuzione penale rispettoso dei diritti umani. Elisabetta Laganà, presidente Cnvg Giustizia: carceri, l’Italia si adegui all’Europa di Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica) Messaggero Veneto, 9 giugno 2014 Il ministro Orlando ha avviato una sana politica per combattere il sovraffollamento in cella. Capita che il lavoro di un ministro italiano trovi apprezzamento presso Autorità europee abituate da anni a infliggere ammonimenti o addirittura sanzioni al nostro Paese. È il caso del ministro della giustizia Orlando, che all’inizio della primavera ha incontrato il Consiglio d’Europa. Capita che il lavoro di un ministro italiano trovi apprezzamento presso autorità europee abituate da anni a infliggere ammonimenti o addirittura sanzioni al nostro Paese. È il caso del ministro della giustizia Andrea Orlando. All’inizio della primavera si era recato a Strasburgo per incontrare il Consiglio d’Europa, con l’intenzione di convincere gli interlocutori, fra i quali la Corte dei diritti dell’uomo (innanzi alla quale pendono circa 3.000 ricorsi di detenuti nella carceri italiane), della bontà di una politica finalizzata a sanare l’indecorosa situazione del sovraffollamento carcerario. L’impegno era quello di adottare entro la fine di maggio provvedimenti significativi, atti a scongiurare nuove sanzioni e l’applicazione della "sentenza Torreggiani", che ha condannato l’Italia a pagare un risarcimento per ciascuno dei detenuti costretti a vivere in uno spazio ristretto, equiparato alla tortura. L’opera del ministro ha ottenuto un risultato significativo, anche se parziale. Attraverso una serie di provvedimenti, sia pure frammentari, il numero delle persone in carcere è diminuito, essendo oggi pari a circa 58.000 detenuti. Attualmente non è più obbligatorio l’ingresso in carcere per reati di lieve entità, droghe pesanti e leggere non sono più equiparate (grazie alle sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione circa 3.000 detenuti usciranno dal carcere), sono cadute le rigidità assolute per i recidivi introdotte con la ex Cirielli. Inoltre i giorni di riduzione della carcerazione per buona condotta sono passati da 45 a 75 per semestre di detenzione. Così la Corte dei diritti dell’uomo ha apprezzato la diminuzione della popolazione detenuta e il conseguente raggiungimento del limite minimo di 3 metri quadri di spazio a disposizione di ogni persona in carcere, fin qui disinvoltamente superato in nome delle varie emergenze e soprattutto per effetto della ricorrente illusione di poter affrontare con il ricorso al carcere ogni problema sociale. Ha anche apprezzato l’intenzione del governo italiano di adottare con decreto un rimedio compensativo - 10 euro al giorno per chi ha già scontato la pena, una riduzione di questa per chi è ancora in carcere - per le persone che hanno subito la carcerazione in condizioni di sovraffollamento. Ha però mantenuto la vigilanza sull’Italia (tra l’altro i posti-letto disponibili sono ancora 45.000), chiamata a dimostrare, nel giugno del 2015, il conseguimento di ulteriori significativi progressi. Si può dire che per effetto dei provvedimenti adottati il carcere tende a diventare l’extrema ratio, cioè la sanzione eccezionale da applicare quando le altre appaiono insufficienti? Certamente no, come ha riconosciuto lo stesso ministro Orlando quando li ha definiti un punto di partenza. Una politica di riforma del sistema penale rimane infatti lontana. Nessuno, nella maggioranza o fra le opposizioni, si pone il tema del diritto penale minimo, cioè la questione del come ridurre il numero delle persone che oggi sono destinate al carcere, in primo luogo attraverso coraggiose riduzioni dei comportamenti sanzionati come reati, e poi con la limitazione dei casi nei quali la sanzione è costituita necessariamente dalla reclusione. Che siano possibili alternative di tutela di beni e valori della collettività è stato ampiamente dimostrato, anche da esperienze straniere, ma l’intero ceto politico si è sempre tenuto a larga distanza da simili prospettive. Il carcere continua a essere generalmente considerato la misura repressiva per eccellenza, prevista per un numero rilevantissimo di reati. Il problema, però, non può essere solo quello di non farsi tirare le orecchie in Europa. Lo stesso ministro Orlando lo sa. Ma da dove può cominciare, con questo Parlamento, un discorso di riforma organica del sistema penale? Giustizia: Radicali; Europa e Governo prorogano la vergogna delle carceri e la tortura www.eolopress.it, 9 giugno 2014 Dai Radicali italiani riceviamo e volentieri pubblichiamo: "Fa inorridire il giudizio del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: "significativi risultati", quasi si possa stabilire una gradazione della tortura, dei trattamenti inumani e degradanti. Secondo la Corte Costituzionale italiana devono obbligatoriamente cessare gli effetti normativi lesivi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: per questo avrebbero dovuto adoperarsi i poteri dello Stato. Sono cessate queste violazioni? Noi siamo convinti di no, e lo abbiamo documentato con il dossier che abbiamo inviato proprio al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Condizioni igieniche disastrose, mancanza di cure anche per malati con patologie gravissime, attività trattamentali di lavoro e studio praticamente inesistenti, sofferenze indicibili per i tossicodipendenti e per coloro che essendo troppo lontani non possono più vedere figli, coniugi o genitori: gli atti di autolesionismo, le morti e i suicidi sono l’indice di questo sconforto che spesso arriva alla disperazione. Altro che "significativi risultati". Dichiarazione di Donato Salzano segretario Radicali Salerno Ass. "Maurizio Provenza": "Orribile, tanto da far inorridire, un terribile giudizio del comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, una proroga di un anno sulla pelle già martoriata di uomini e donne, sacrificare lo Stato di Diritto della sentenza pilota della Corte Edu "Torreggiani ed altri Vs Italia", per favorire la ragion di Stato del "Governo della tortura" di Matteo Renzi. Questi hanno accettato "il gioco dei tre metri" dei "treccartari e bari" italiani, in primis il Presidente del Consiglio del quale abbiamo chiesto le dimissioni; tre metri quadri a disposizione di ogni detenuto, calcolati chissà come e ottenuti violando altri diritti umani come la deportazione di migliaia di reclusi in istituti lontani centinaia di chilometri dalla propria famiglia. Questo Governo sta per varare un decreto legge "in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali": vedremo quale sarà il "prezzo della tortura" e della vergogna dell’Italia, di questo Stato delinquente abituale. Noi Radicali, vogliamo dare Speranza ed essere speranza, proseguiamo la nostra lotta nonviolenta per l’amnistia e l’indulto subito per la Repubblica! Forti dell’attualissima sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (tanti i giudici a Berlino, anche qui da noi!) e del messaggio alle Camere da garante degli ultimi del nostro Presidente Giorgio Napolitano. Ma soprattutto della preghiera e del sostegno di questo Papa Francesco e della sua "Chiesa dei Poveri per i poveri", della fame di verità di Rita Bernardini e la sete di Diritto di Marco Pannella, ma di tanti tra militanti Radicali, di detenuti e i loro familiari, che sappiano scorgere e denunciare con forza la violenza dei crimini perpetrati dal Regime italiano che si credevano debellati nel secolo scorso". Giustizia: Società Italiana Psichiatria; su Opg serve collaborazione magistratura-psichiatri Agi, 9 giugno 2014 Evitare a coloro che non sono portatori di disturbi psichici ma appartengono alla criminalità organizzata di approfittare dei percorsi sanitari alternativi previsti nel percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Un rischio concreto, che potrebbe insinuarsi tra le pieghe delle applicazioni della nuova normativa per il superamento degli Opg. Un allarme della Società Italiana di Psichiatria lanciato preventivamente, dal momento che già il 10 giugno, con l’incontro a Roma del Gruppo Interregionale della Salute Mentale (Gism) con il Gruppo Interregionale della Sanità Penitenziaria (Gispe), inizieranno una serie di scadenze molto rigide che porteranno, il 31 marzo 2015, alla conclusione del processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e alla loro chiusura definitiva. "La Società Italiana di Psichiatria - spiega il presidente Sip, Emilio Sacchetti, che dirige anche il Dipartimento di Salute Mentale degli Spedali Civili di Brescia - segue da molto tempo e con attenzione questo delicato percorso e intende partecipare a pieno titolo al coordinamento nazionale previsto nel Dl n 52/2014, per il contribuito tecnico-scientifico e operativo dei propri soci psichiatri, impegnati a tutti i livelli nel percorso di dimissione e di accoglienza delle persone malate di mente e autori di reato. Recentemente è stata anche redatta una "carta per il superamento delle logiche manicomiali" per un percorso di valutazione clinica e medico legale delle necessità assistenziali delle persone da dimettere, in modo da poter individuare le situazioni territoriali esterne più idonee alla loro assistenza. Si ritiene, infatti, fondamentale evitare che, non coloro che sono realmente portatori di disturbi psichici, ma personaggi appartenenti alla criminalità organizzata, attraverso la simulazione e consulenti compiacenti, approfittino dei percorsi sanitari alternativi previsti dalla riforma: a questo proposito è indispensabile una collaborazione tra la Magistratura e gli operatori sanitari. Gli psichiatri - conclude il prof. Sacchetti - hanno un ruolo primario soprattutto quando incaricati del ruolo di perito o consulente tecnico nel procedimento penale". Giustizia: misurazione della capienza detentiva nelle carceri italiane, un buon segnale… www.poliziapenitenziaria.it, 9 giugno 2014 La straordinaria serie di eventi politici che si sono succeduti negli ultimi mesi sta facendo sentire i suoi effetti anche al Dap, notoriamente una delle amministrazioni pubbliche più refrattarie al confronto... figuriamoci al cambiamento. Eppure, anche il Dap sta dando segnali di vita. Solo qualche giorno fa l’Europa ha dato un altro anno di tempo al Governo e quindi al Ministero della Giustizia e quindi al Dap, per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute nella carceri italiane. Una delle motivazioni per cui l’Europa ha "graziato" l’Italia è stato il superamento della soglia dei tre metri quadri a disposizione per ogni detenuto. Il valico di questa soglia (più simbolica che effettivamente soddisfacente) ha permesso al Governo di salvare la faccia e di coprirsi almeno con una foglia di fico. In effetti tutte le altre gravissime problematiche in cui i detenuti vivono e i Poliziotti penitenziari lavorano, sono rimaste pressoché uguali a prima. Ma almeno, per la prima volta nella sua storia, il Dap è riuscito a presentare dei dati misurati e rappresentabili sulla capienza detentiva delle carceri che amministra e questo è solo merito di singole persone che hanno messo in piedi un sistema di misurazione e rendicontazione efficiente: in poche parole il Dap ha iniziato ad utilizzare l’informatica per fare due conti. Sembra poca cosa, ma è solo negli ultimi mesi che le cose si sono mosse. Fino ad ora si navigava a vista e si faceva solo finta di avere sott’occhio la situazione reale dei posti detentivi. Se un padiglione di un carcere veniva chiuso per ristrutturazioni, il Dap non riusciva a tenerne conto e la capienza "percepita" e quindi "rappresentata" al pubblico di quel singolo carcere, rimaneva invariata e quindi falsata. Da qui derivano le accuse dei Radicali sui dati delle capienze e i goffi tentativi di censura del Dap. In un Paese normale dopo lo scandalo dei dati falsi sulla capienza delle carceri qualcuno sarebbe stato messo alla porta. Il "niet" del Dap ad Antigone sui dati delle carceri: un’amministrazione sempre più isolata Ora si può iniziare a partire dalle singole stanze detentive di ogni carcere e monitorarne la capienza, l’eventuale temporanea chiusura e prevedere anche quando sarà nuovamente disponibile. In poche parole, si potranno fare delle previsioni e fare delle programmazioni future. Se il Ministro Andrea Orlando vorrà davvero migliorare il sistema penitenziario italiano, non potrà che partire da un maggiore ricorso agli strumenti di comunicazione e informatizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria, una delle leve più redditizie per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della pubblica amministrazione. Fino ad ora nel Dap non avevamo nemmeno un Dirigente capace di intendere quale potesse essere l’impatto della rivoluzione informatica in corso già da decenni nelle società avanzate. Nelle stanze del Dipartimento i Dirigenti infatti hanno da poco imparato ad inviare le email (non tutti), perciò è facile immaginare perché fino ad ora non sono riusciti a "sfruttare" l’informatica. Qualche giorno fa invece il Dap ha lanciato un segnale debole. Debole si, ma importante: è un chiaro segnale di presenza di vita intelligente anche nel Dap. Giustizia: intese in Friuli e Puglia, obiettivo reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 9 giugno 2014 Ancora due protocolli, dal Friuli alla Puglia, all’insegna del miglioramento delle condizioni di vita nelle nostre carceri. Il 27 maggio scorso il Ministero della giustizia ha firmato con la regione Friuli e il Tribunale di sorveglianza di Trieste un protocollo di intesa finalizzato a sostenere programmi di reinserimento di persone in esecuzione penale per migliorare le condizioni del sistema detentivo e favorirne l’integrazione nel contesto territoriale di riferimento. Alla sottoscrizione del protocollo erano presenti il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani, il presidente del tribunale di sorveglianza di Trieste Mariangela Cunial e il provveditore regionale Pietro Buffa. "Questo è il quinto protocollo che firmiamo con le regioni dal mio insediamento ma con un’azione più ampia perché prevede anche interventi sull’edilizia, necessari per la realizzazione del percorso delle pene alternative", ha ricordato Orlando. "Stiamo anche provando", ha aggiunto, "a dare corpo all’indicazione del legislatore sul percorso per i tossicodipendenti che associ alla pena il recupero e la riabilitazione". Come in altre regioni, l’attenzione si è concentrata sull’inserimento in comunità dei detenuti tossicodipendenti e sul lavoro esterno e di pubblica utilità per tutti gli altri in grado di accedere alle misure alternative al carcere. Previsto anche in questo caso, l’inserimento in comunità residenziali per quei detenuti tossicodipendenti già ammessi alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova ai servizi sociali, senza l’aggravante dello spostamento di detenuti da altre regioni in modo da non sovraffollare il sistema carcerario. Il Protocollo firmato alla presenza del ministro Orlando, ribadisce il principio in base al quale "il carcere non rappresenta l’unica esperienza penale possibile" e caldeggia il supporto vicendevole nella "realizzazione delle misure alternative alla detenzione" in un’ottica di "territorializzazione della pena" per ottenere il meglio dalla misura alternativa. Coinvolta insieme a Provveditorato, Regione, singoli istituti penitenziari e Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe), anche la Cassa delle Ammende chiamata a cofinanziare i progetti a cui collaborano comunità di riferimento e reti di volontariato presenti. Il prossimo passo sarà "una programmazione triennale degli interventi che tenga conto di più fattori: percorsi di trattamento negli istituti di pena, opportunità di lavoro interno ed esterno, progetti di pubblica utilità per realizzare interventi mirati e finalizzati all’umanizzazione della pena, più attività all’interno delle strutture e più occasioni di accesso alle misure alternative con la contemporanea riduzione del numero dei detenuti per favorirne il reinserimento sociale". Due giorni dopo, è toccato invece alla Regione Puglia guidata da Nichi Vendola firmare con il guardasigilli un accordo per il miglioramento del sistema penitenziario regionale dei detenuti per avvicinarli alla realtà esterna e affrettarne riabilitazione e reinserimento nel suo tessuto sociale ed economico-produttivo. Qui sono stati coinvolti oltre alla Regione Puglia e al ministro Orlando, anche il presidente di Anci Puglia Luigi Perrone e i rispettivi presidenti dei tribunali di sorveglianza di Bari, Lecce e Taranto. "Oggi torniamo a guardare dentro le sbarre. Sono contento del fatto che la firma arrivi in un giorno in cui le nostre carceri torneranno a respirare un po’ di più e che questo ci spinga a tornare a discutere del sistema carcerario dopo una lunga vacanza, dove la politica è stata distratta", ha dichiarato a caldo Vendola, intervenuto in qualità di presidente di regione. Il leader di Sel ha poi ricordato le vicissitudini di un tema storicamente al centro di molto dibattito politico e sociale nel paese: "Dagli anni delle misure alternative fi no agli anni in cui si è anche evocato il carcere della speranza, poi all’improvviso si è caduti in un black out che ha consentito che il carcere fosse trasformato in quella discarica sociale di cui tanto hanno parlato diversi direttori del Dap, questi protocolli serviranno ad abbattere la barriera invisibile tra il territorio e gli istituti penitenziari". Giustizia: tortura, arriva il reato, ma è devitalizzato di Tiziana Barìllà Left, 9 giugno 2014 "Forti sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti" allo scopo di ottenere informazioni, di punizione o discriminazione. È questa la tortura secondo il disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale". E non appena la Camera lo avrà vagliato, il ddl registrato al n. 849 entrerà finalmente nell’ordinamento italiano. Al Senato, infatti, il ddl è già passato a marzo con la quasi unanimità. Quasi, perché in tre si sono astenuti dal voto: Maria Rizzotti e Francesco Aracri (Fi-Pdl) e il leghista Roberto Calderoli. Il provvedimento, proposto dal senatore Luigi Manconi (Pd), è stato però modificato ampiamente dalla commissione Giustizia del Se-nato, tanto da "devitalizzarlo", come spiega lo stesso presidente della commissione sui Diritti umani di Palazzo Madama: nell’attuale testo "la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo ai titolari di funzione pubblica". Un reato ordinario, quindi. Ma sono previste, in compenso, delle aggravanti nel caso in cui il colpevole sia "un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio", come si legge nel provvedimento. Depotenziato ma almeno ci sarà. Il disegno di legge si va a inserire tra i delitti contro la persona già previsti nel nostro ordinamento, più esattamente in aggiunta all’art. 613 del codice penale "Stato di incapacità prodi rato mediante violenza", con gli articoli 613-bis e 613- ferii reato è punibile con una pena da 3 a 12 anni. Pena che raddoppia in caso di lesioni gravi o gravissime e che diventa ergastolo in caso di decesso. Inoltre, ne beneficeranno anche gli stranieri che non potranno essere espulsi o estradati verso un Paese in cui esistano motivi di ritenere che corrano il rischio di essere sottoposti a tortura. Prima di sanare definitivamente la lacuna rispetto alla Convenzione Onu manca solo un passo: il vaglio della Camera. Diversi parlamentari avevano assicurato che la discussione sarebbe cominciata entro la fine del mese, di maggio. Siamo arrivati a giugno. Lettere: l’amnistia, una soluzione condivisa di Nicola Magaletti Gazzetta del Mezzogiorno, 9 giugno 2014 Le sezioni unite penali della Cassazione hanno stabilito che le pene per i piccoli spacciatori di droga condannati in via definitiva dovranno essere riviste al ribasso. Ciò è solo la ovvia conseguenza di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale sulla legge Fi-ni-Giovanardi ma, il numero di chi potrà usufruirne non sembra che sia di migliaia di detenuti (hanno parlato di 4-10.000 detenuti) ma di molti di meno, quindi il problema del sovraffollamento delle carceri rimane. Vedremo chi da i numeri. Inoltre si aumenterà il lavoro dei tribunali per il ricalcolo delle pene aggravando una situazione già ora insostenibile. Ricordiamo che l’Italia è stata condannata dalla Cedu (Corte europea dei diritti umani) anche per l’irragionevole durata dei processi. Se oltre ai Radicali anche il presidente Napolitano, i magistrati più illuminati (anche Ingroia, ricordiamolo), gli avvocati delle Camere penali, ecc. ecc. hanno indicato l’amnistia come unica soluzione per uscire dallo stato di flagranza criminale dello Stato italiano un motivo, autorevole, ci dovrà pur essere. Emilia-Romagna: Marzocchi (Regione); migliora situazione sovraffollamento carcerario www.marketpress.info, 9 giugno 2014 Migliora la situazione del sovraffollamento nelle carceri in Emilia-Romagna e contribuisce in modo significativo al risultato dell’Italia, che il Consiglio d’Europa ha promosso per l’impegno e i risultati ottenuti. "La decisione del Consiglio d’Europa - sottolinea l’assessore alle Politiche sociali Teresa Marzocchi - riconosce gli sforzi compiuti dal Governo e incoraggia anche noi a proseguire sulla strada intrapresa, che i dati confermano andare nella giusta direzione". In Emilia-Romagna la percentuale di sovraffollamento cala dal 167,08% del 2011 al 144,84% nel 2012, al 142% nel 2013, fino ad arrivare nei primi mesi del 2014 a 115%. Un risultato ottenuto anche grazie ad una seria progettazione di misure alternative alla detenzione elaborate in collaborazione tra la Regione e l’amministrazione penitenziaria. Proprio lo scorso gennaio la Regione ha siglato con il Ministero della Giustizia un protocollo d’intesa che, anche in attuazione del provvedimento di riordino del circuito penitenziario regionale denominato "Umanizzazione della pena", potenzia le misure volte al reinserimento sociale dei detenuti, soprattutto delle persone con caratteristiche di particolare fragilità. Il protocollo, di durata triennale, vede un impegno finanziario dell’Amministrazione centrale per tramite di Cassa Ammende per circa un milione di euro per dare continuità e consolidare il progetto di detenzione alternativa comunitaria "Acero" che nei due anni di sperimentazione ha reinserito 90 persone. La Regione garantisce un impegno economico annuale di 500 mila euro sul Fondo sociale europeo (per la formazione professionale dei detenuti) e di 550mila euro per le attività di carattere sociale. Milano: Icam, una casa con le sbarre per le mamme detenute e i loro figli di Luigi Franco e Maria Itri Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2014 Pareti colorate, agenti senza divisa e porte normali anziché sbarre. L’Icam di Milano, l’istituto a custodia attenuata che ospita donne detenute e i loro figli piccoli, cerca di conciliare la reclusione di chi deve espiare la propria pena con l’esigenza dei bambini di crescere fuori dalle celle. Un’infanzia a metà la loro, trascorsa dietro le mura di cinta e un cancello di metallo, sotto costante sorveglianza. La struttura, nata nel 2006 per offrire un luogo protetto ai bambini figli di detenute, è l’unica funzionante in Italia, dove circa 60 piccoli sono costretti a condividere la detenzione con le madri all’interno delle carceri. All’Icam di Milano attualmente vivono 11 bambini sotto i tre anni di età, che ogni giorno possono uscire accompagnati dalle educatrici per andare all’asilo o al parco. Un luogo migliore del carcere - raccontano le mamme - dove però i loro figli sentono ugualmente la mancanza degli altri familiari. E dove esistono problemi di spazi: secondo l’associazione Antigone, l’Icam non risponde ai requisiti previsti dal Dpr 230 del 2000, visto che le camere, pur essendo relativamente ampie, sono senza bagno. I lavori di manutenzione della struttura, che è di proprietà della provincia di Milano, spettano all’amministrazione penitenziaria, ma su questo aspetto pesa la cronica mancanza di fondi. L’emergenza per gli operatori oggi è però la legge 62, che tre anni fa ha modificato l’ordinamento del 1975, estendendo fino a sei anni l’età dei bambini incarcerati con le madri e creando così la necessità di dover conciliare i diversi bisogni di neonati e di bambini prossimi ad andare a scuola Viaggio nel nido di Rebibbia tra i "detenuti" da zero a tre anni… d’età Non hanno commesso un reato, non lavorano per l’amministrazione penitenziaria, non sono nemmeno volontari. Eppure trascorrono le loro giornate in carcere. Sono i circa sessanta bambini che stanno crescendo all’interno di cinque istituti di reclusione in Italia. Una realtà poco conosciuta: la legge 354 dell’ordinamento penitenziario permette alle detenute madri di piccoli dai 0 ai 3 anni di tenerli con sé. Si evita così il trauma del distacco, ma per i bambini il prezzo rimane altissimo. Nonostante la grande umanità degli operatori, i piccoli trascorrono i primi anni di vita in cella, in un ambiente opprimente, lontani dal padre e dai fratelli fino al compimento del terzo anno d’età. A quel punto dovranno lasciare la mamma. Il carcere di Rebibbia a Roma è uno degli istituti che ospita una sezione nido. In alcuni momenti è arrivato ad accogliere fino a diciannove bambini, molti di origine rom. "I nostri bambini stanno male. Non hanno colpe ma scontano una pena", ci hanno raccontato le ragazze recluse che abbiamo incontrato. Madri e figli trascorrono le giornate in un luogo protetto e separato dal resto del carcere, ma senza libertà. "Una vergogna, i casi sono così pochi che è inconcepibile che lo Stato non intervenga", spiega Gioia Passarelli, presidente di "A Roma Insieme". L’associazione si prende cura dei piccoli che vivono nel nido di Rebibbia da 22 anni, organizzando feste di compleanno, gite al mare e in montagna. Le detenute e i bambini potrebbero vivere in strutture diverse dal carcere, ad esempio in case famiglia. A Milano esiste l’Icam, l’Istituto a custodia attenuata, ma si tratta di un caso unico: per realizzare progetti simili in altre parti d’Italia non ci sono i fondi. La vera condanna? Non poter più cucinare per mio figlio Possono cucinare. Ma non per i propri figli. È questa una delle mancanze più grandi per le donne in carcere. Lo racconta una delle detenute di San Vittore, a Milano. E così alla perdita della libertà si aggiunge la perdita della quotidianità. Con un paradosso: le donne delinquono di meno, vanno in carcere più raramente (solo il 4,2% dei detenuti è donna), ma devono così adattarsi a una carcerazione pensata per gli uomini. E spesso - racconta il garante dei detenuti della provincia di Milano Fabrizia Berneschi - devono fare i conti con l’abbandono da parte della famiglia e con il distacco dai figli. Dopo la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per il sovraffollamento nei penitenziari, le condizioni di vita a San Vittore sono migliorate: le donne recluse oggi sono circa ottanta, hanno la possibilità di frequentare corsi e le loro celle restano aperte per diverse ore al giorno. Ma un detenuto comune ha diritto a sei ore di colloquio al mese e dieci minuti di telefonate a casa alla settimana, troppo poco perché le detenute possano far sentire la loro presenza ai famigliari o perché possano cucinare per i propri figli durante la visita per il colloquio. La detenzione può diventare però uno spazio per riflettere sulla propria vita e scoprire passioni come la scrittura: è quello che cerca di fare il gruppo di donne coordinate da Renata Discacciati che hanno dato vita alla rivista "Oltre gli occhi". Oristano: Ugl; a Nuchis circa 90 uomini della penitenziaria, 23 in meno di pianta organica di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 9 giugno 2014 Nella Casa di Reclusione di Nuchis, operano attualmente circa 90 uomini della Polizia penitenziaria. 23 in meno rispetto alla pianta organica predisposta, nel 2013, dal competente Ministero di Giustizia. Settanta in meno, invece, sempre secondo il sindaco Ugl della Polizia penitenziaria che, sempre nel 2013, aveva richiesto, al momento della pianificazione della pianta organica, 160 unità. I detenuti attualmente presenti nella struttura nuchese, sono oltre 200 più altri 20, fuori sede per udienze processuali. Numeri che, secondo i massimi esponenti dell’Ugl regionale, richiederebbero una più attenta lettura e un pronto intervento riparatore da parte del ministero della Giustizia. "Per motivi di sicurezza, sin troppo evidenti - dicono -, e per alleggerire carichi di lavoro che, concepiti con l’attuale ritmo, vanno a discapito del lavoratore e della sua stesa resa nell’adempimento di un incarico particolarmente difficile e delicato". Per il sindacato Ugl (Unione generale del lavoro), della Polizia penitenziaria, la casa di reclusione di Nuchis, (classificata finora di "alta sicurezza"), per la pericolosità sociale dei detenuti, deve essere considerato a tutti gli effetti un carcere di "massima sicurezza". Per tale motivo la struttura deve ricevere dall’amministrazione carceraria nazionale e regionale una conseguente attenzione soprattutto per quanto concerne la sicurezza del personale e degli stessi ospiti. A dirlo, a chiare lettere, sono stati ieri i sindacalisti Alessandro Cara, segretario regionale dell’Ugl della polizia penitenziaria, Libero Russo vice segretario regionale, il commissario Manuela Cojana, coordinatrice regionale del corpo di polizia penitenziaria e Gianfranco Falferi, segretario zonale dello stesso sindacato. "Proprio per l’alta pericolosità sociale dei detenuti - sottolinea Alessandro Cara - è inderogabile che l’amministrazione penitenziaria si affretti a colmare i paurosi vuoti di organico tuttora esistenti". Il sindacalista si affretta a precisare che la carenza di organico non è dovuta certamente alla direzione locale del carcere per la quale spende invece, parole di elogio "per l’ottimo lavoro che sta svolgendo, a favore dei detenuti - dice - e di tutto il personale". Altrettante espressioni di encomio, i sindacalisti le esprimono nei confronti del comandante di reparto e dei componenti del corpo di polizia penitenziaria che operano a Nuchis. "È grazie alla loro professionalità e alla loro abnegazione - dice ancora Alessandro Cara -, se nel carcere di Nuchis si vive, tutto sommato, in un clima sereno. Di questa serenità occorre dare atto anche ai detenuti per i quali è stata attivata, sempre dalla direzione, una intensa e importante attività intramuraria, graditissima dagli stessi e che li fa sentire parte integrante del territorio in cui vivono". "Questo stato di cose però - aggiunge Libero Russo, non deve illudere. È necessario che l’organico venga completato per fare in modo che gli addetti lavorino in serenità non oberati da carichi di lavoro eccessivi che li obbligano, in qualche caso, a ricoprire anche contemporaneamente posti di servizio diversi nello stesso ambito". Sempre per quanto concerne l’organico, l’Ugl tiene a precisare infine che il sindacato non è contro le innovazioni, come ad esempio la "vigilanza dinamica" effettuata attraverso le telecamere e affidata ad un solo operatore. "Ben vengano le novità - chiudono i sindacalisti - Purché le stesse non spersonalizzino il lavoro dell’operatore, cui è affidata anche la rieducazione e la riabilitazione del detenuto". Sassari: processo per la morte di Marco Erittu, oggi parla la difesa di Mario Sanna La Nuova Sardegna, 9 giugno 2014 Prosegue questa mattina, con la discussione degli avvocati Mattia Doneddu e Agostinangelo Marras (che assistono l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna) il processo per il presunto omicidio del detenuto Marco Erittu. Udienza dopo udienza in aula si stanno ricomponendo i tasselli del giallo del 18 novembre 2007 quando Erittu venne trovato morto nella sua cella del braccio promiscui. Domani saranno i legali di Mario Sanna - uno degli imputati per i quali il pubblico ministero Giovanni Porcheddu ha chiesto l’ergastolo - a cercare di smantellare le accuse che pendono come un macigno sul loro assistito. Sanna, stando alla Procura, avrebbe aperto la cella al commando di assassini che uccisero il detenuto. Da qui l’accusa di concorso in omicidio con Pino Vandi (presunto mandante) e Nicolino Pinna (altro detenuto che avrebbe aiutato il reo confesso Giuseppe Bigella a commettere il delitto). Il processo, a questo punto, volge quasi al termine. Giovedì 12 giugno, infatti, la parola passerà agli avvocati Pasqualino Federici e Patrizio Rovelli, difensori di Pino Vandi - all’epoca dei fatti detenuto a San Sebastiano - che, secondo il sostituto procuratore Porcheddu, sarebbe il mandante dell’omicidio. Esaurita la discussione verrà chiuso il dibattimento e presidente e giudici della corte d’assise si riuniranno in camera di consiglio per la sentenza. Milano: "Fuori-dentro", i detenuti diventano libri umani al Parco Sempione di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 9 giugno 2014 Il 7 giugno, nel parco milanese, si è svolta l’VIII edizione dell’iniziativa: la Biblioteca vivente organizzata dalla cooperativa ABCittà. Di che si tratta? Di libri umani, consultabili, ossia persone che aprono la propria vita nella narrazione e, rispondendo alle domande più dirette e spontanee, cominciano a scardinare pregiudizi e luoghi comuni. Quest’anno il tema è stato il carcere. Titolo: "Fuori-dentro". Antonella è un libro umano intitolato "Sulla porta di casa"; così si legge nella quarta di copertina: "Nella vita di prima tutto era frenetico: lavoro, figli, casa… Era "sulla porta di casa" quando il carcere le ha strappato la famiglia, un’occupazione a tempo indeterminato, i risparmi, la vita. Ora Antonella ha iniziato di nuovo a uscire (dal carcere) e ogni volta che si trova sulla porta di casa prova ancora frenesia, questa volta perché deve tornare di nuovo dentro". Ne "Il cerchio di gesso", Genti scegli invece di ricordare un’usanza dell’Albania di 30 anni fa: un cerchio bianco per indicare un oggetto smarrito e il divieto di toccarlo. La trama è la sua storia: l’immigrazione, il ribaltamento dei valori, la scuola dei reati, il carcere. Ora come volontario accudisce gli anziani alla Casa della Carità. "Chi lo avrebbe mai detto che mi sarei occupato di qualcun altro". Se Einstein diceva che "è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio", la cooperativa ABCittà (www.abcitta.org) ci prova con un’iniziativa ospitata, il 7 giugno, presso la Biblioteca del Parco Sempione di Milano: libri umani consultabili nella Biblioteca Vivente "Oltre il muro", dal titolo "fuori-dentro". Ma che cos’è una Biblioteca vivente? Una lista di "titoli" che colpiscono nel segno i nostri pregiudizi, quelli evidenti e quelli più sottili e inespressi. Dietro a ciascun titolo, un libro umano, una persona che apre la propria vita nella narrazione a episodi personali e, rispondendo alle domande più dirette e spontanee, comincia a scardinare quel pregiudizio proprio dalle sue fondamenta: la mancanza di conoscenza e la paura. Un contesto, la biblioteca pubblica, che offre la possibilità di un incontro inconsueto. È un’esperienza nata nel 2000 con la danese Human Library, quando, in seguito a un violento episodio di razzismo, un gruppo di giovani volle rispondere non con le tradizionali forme di denuncia civile ma attraverso un processo di coinvolgimento diretto sulle tematiche all’origine dello scontro. Nel 2011, è stata ABCittà (www.abcitta.org) a portare questo metodo a Milano, in quartieri e contesti diversi, toccando i temi dell’immigrazione, della disabilità e della malattia psichica. Nell’ottava edizione, il tema è il carcere, grazie a un percorso partecipato che ha trasformato 30 detenuti del V reparto del carcere di Bollate in libri umani. Spiega Ulderico Maggi di ABCittà: "Se non è possibile abbattere i muri che nella città dividono le persone, almeno si può provare a scavalcarne qualcuno. È un modo per dare dignità ai detenuti, metterli in comunicazione con il mondo fuori e superare i pregiudizi che isolano il carcere". "Il carcere è un’accademia del crimine, chi ci entra ci ritorna sempre, "loro", quelli che stanno dentro, sono violenti di natura, escono sempre troppo presto, vivono a nostre spese come se fossero in albergo, e alla fine stanno meglio di noi". Sono tra i tanti pregiudizi che la Biblioteca Vivente vuole affrontare e spezzare, pregiudizi che si incontrano e scontrano con scorci di autobiografie, narrate dalla viva voce dei protagonisti. Spiega Maggi: "È necessario iscriversi (gratuitamente), scegliere nel catalogo di oltre venti titoli il libro che si desidera consultare e immergersi nella lettura. È un incontro fatto di domande (nessuna è mai banale), di dialogo, di conoscenza e arricchimento reciproco". Il libro umano Michele narra i 23 istituti in cui ha vissuto, Vincenzo la scoperta della fede e Antonio dello sport come chiave per "evadere legalmente"; la storia di Gualtiero è un "trattato filosofico" sulla bellezza e l’utilità della cultura: dietro le sbarre, ha frequentato un corso come ausiliario d’ospedale, si è iscritto al gruppo di poesia, fa parte della Commissione Cultura, si è immatricolato all’università e spera, il prossimo anno, di laurearsi in Scienze dell’Educazione… I generi letterari sono vari: Santino, detenuto da molti anni, sceglie l’ironia e in "La panca dei mille culi" spiega come è cambiato il carcere pensando alle tante persone che, appena arrivate, si sono sedute sopra una lunga panca per aspettare la conclusione delle procedure d’ingresso. In tutte le storie, torna il tratto umano. Christian, libro umano intitolato "Mia figlia mi chiama papà!", racconta "il grande cruccio di un genitore che vede nascere e crescere da lontano i propri figli: padre presente o assente?". La bimba di Christian lo chiama papà, è felice perché s’incontrano una volta a settimana, anche se in un centro commerciale. Il futuro di Christian "è fare solo passi in avanti, per lei". Roma: incendio all’Ufficio Matricola di Regina Coeli, a Rebibbia i nuovi arrestati La Repubblica, 9 giugno 2014 Ha causato solo danni materiali l’incendio divampato nelle prime ore del pomeriggio nel carcere di romano Regina Coeli. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che, con i suoi collaboratori, sta monitorando costantemente la situazione con la direzione del carcere. A causare l’incendio, probabilmente, delle cicche di sigarette accese gettate dalle celle dei piani superiori in un cortile sottostante dove era ammassato materiale da smaltire. "Le fiamme - ha fatto sapere il Garante - avrebbero causato il danneggiamento dei computer e dell’impianto elettrico dell’Ufficio matricola, che gestisce tutti i nuovi ingressi e che per questo è stato temporaneamente chiuso. Un servizio importante visto che a Regina Coeli vengono assegnate, in prima battuta, tutte le persone arrestate dalle forze dell’ordine a Roma. Per questi motivi i nuovi ingressi sono stati dirottati, fino a nuova disposizione, a Rebibbia". Il Garante ha auspicato che vengano immediatamente assunti i provvedimenti necessari affinché non possa ripetersi quanto accaduto questo pomeriggio. Monza: detenuto legato in commissariato, nessun reato in capo a Polizia di Valentina Rigano www.mbnews.it, 9 giugno 2014 Tutto nel rispetto delle regole. Questo è l’esito delle prime verifiche approntate dalla Procura di Monza, in merito alla fotografia diffusa dal quotidiano "La Repubblica", che immortala un detenuto legato mani e piedi e trattenuto a terra da due agenti della Polizia di Stato di Monza. L’uomo, condannato ad otto mesi per rissa e resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale, lesioni e minacce, ha aggredito cinque persone e per farlo calmare è stato necessario sedarlo. L’immagine è arrivata nei giorni scorsi sul tavolo del Procuratore Capo di Monza Corrado Carnevali, direttamente dal Questore di Milano Luigi Savina. L’istantanea che ritrae due agenti che tengono fermo un detenuto, dopo averlo immobilizzato a terra mani e piedi, è probabilmente stata scattata da un terzo agente. I primi riscontri della Procura non hanno ravvisato alcun reato, proprio perché il detenuto, fermato per un’aggressione ad un connazionale nord africano, aveva aggredito sia gli agenti che il personale del 118 chiamato in Commissariato per farlo trasportare in ospedale visto lo stato di grave agitazione in cui si trovava. La Questura ha poi comunicato che l’uomo fosse molto aggressivo, in stato di alterazione psico-fisica da alcol e che, dopo aver aggredito agenti e personale del 118, sia stato necessario chiamare una guardia medica per farlo sedare. In attesa del medico gli agenti sono stati costretti ad immobilizzarlo per evitare che facesse del male ad altre persone o a se stesso. Gli aggrediti hanno riportato ferite con prognosi dai 10 ai 15 giorni, per le percosse ricevute dall’uomo. Medio Oriente: l’Onu a Israele "rilasciate i prigionieri politici in sciopero della fame" di Mario Lucio Genghini www.polisblog.it, 9 giugno 2014 Da maggio, ci sono 120 detenuti politici palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Si trovano in regime di "detenzione amministrativa". Una misura antidemocratica, da "stato di eccezione", che prevede l’incarcerazione per un periodo indeterminato, senza accusa né processo. Per il governo israeliano si tratta di qualcosa di necessario, dettato da motivi di sicurezza interna. Ban Stephane Dujarric, portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki moon, ha detto che c’è grossa preoccupazione "per le notizie riguardanti il peggioramento della salute dei detenuti amministrativi palestinesi che sono in sciopero della fame da oltre un mese. Il segretario ribadisce la sua posizione in merito: i prigionieri devono essere equamente processati o rilasciati immediatamente" (Via Aljazeera). La misura adottata da Israele, in aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, preoccupa l’Onu anche per un altro motivo. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, sta appoggiando un disegno di legge in discussione alla Knesset (il parlamento), che prevede l’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero della fame. Un trattamento che viola palesemente i diritti umani e che comporta rischi altissimi per la salute dei detenuti. La minaccia di giungere all’approvazione un tale dispositivo, una mostruosa aberrazione giuridica, è arrivata questa settimana dall’ufficio del primo ministro israeliano. Yoel Hadar, consigliere di Netanyahu, ha illustrato alla stampa la proposta di legge. L’obiettivo di Tal Aviv, come riportato da Nena News, è quello di rendere cogente per i giudici l’autorizzazione all’alimentazione forzata, qualora fossero a rischio la salute dei detenuti e gli interessi dello Stato. A tutto ciò si aggiungono già una serie di misure non molto differenti da quelle adottate nel carcere di Guantanamo. I prigionieri non possono incontrare i legali, non possono avere alcuna comunicazione con il mondo esterno e vengono tradotti continuamente da un carcere all’altro. Dopo l’annuncio della costruzione di 3300 nuove unità abitative coloniche nei territori occupati, Tel Aviv continua con la sua politica autoritaria. Chi mette in relazione certe proposte, come quelle dell’alimentazione forzata, con la nascita del governo Fatah- Hamas è miope. Nell’ultimo periodo, Netanyahu non ha dimostrato mai di volersi impegnare veramente al tavolo del negoziato con l’Anp, disattendendo anche accordi di breve periodo che dovevano implementare il processo di pace. E, inoltre, ha continuato a proporre leggi liberticide per i palestinesi israeliani e a perseguire una politica di aggressione territoriale. Canada: 3 detenuti evadono a bordo di un elicottero, ricerche estere a tutto il Paese La Presse, 9 giugno 2014 In Canada tre detenuti sono riusciti a fuggire da un carcere della città di Quebec a bordo di un elicottero. Lo ha reso noto ieri la polizia, aggiungendo che l’elicottero si è diretto a ovest della struttura, il centro di detenzione Orsainville, dopo la fuga. "(Stiamo lavorando) con altri enti, come gli aeroporti di Quebec e di altre zone nei dintorni, con le basi militari, e ovviamente c’è una ricerca sul terreno nel caso in cui sia localizzato l’elicottero", ha riferito la portavoce della polizia Audrey-Anne Bilodeau. Le forze dell’ordine hanno identificato su Twitter i tre evasi, affermando che si tratta di Yves Denis, Denis Lefebvre e Serge Pomerleau. Chiunque li veda, ha chiesto la polizia, non li avvicini e contatti immediatamente il 911. I tre erano detenuti in attesa di processo. Si tratta della seconda fuga a bordo di elicottero in Quebec in due anni. L’anno scorso a marzo un pilota di elicottero è stato minacciato con un’arma e costretto a prelevare due detenuti dalla prigione di St-Jerome una domenica pomeriggio. I due evasi si sono arrampicati con una scaletta di corda sull’elicottero in volo e sono riusciti a fuggire. Poche ore la polizia li ha catturati insieme ai due complici che avevano dirottato l’elicottero. Ucraina: liberati e rimpatriati due giornalisti del canale televisivo russo "Zvezda" Agi, 9 giugno 2014 Sono stati rilasciati e rimpatriati i due giornalisti del canale televisivo russo "Zvezda" detenuti dalla Guardia nazionale ucraina da venerdì. Mosca ne aveva chiesto la liberazione e la prospettiva di un disgelo tra la Russia e la presidenza di Petro Poroshenko ha molto probabilmente influito positivamente sull’andamento di questa vicenda. I due erano stati arrestati a Bylbasovka e accusati di spionaggio, messo in atto secondo Kiev con la scusa di dover seguire l’insediamento di Poroshenko.