Basta ergastolo, battiamoci per una pena che non uccida i sogni e le speranze Il Mattino di Padova, 30 giugno 2014 Sono tempi bui, per chi lotta contro le pene che tolgono anche la speranza, come l’ergastolo, o come quelle condanne in cui si cumulano anni e anni di carcere, per quelle leggi "emergenziali" che nel nostro Paese si sono abbattute come mannaie sulla vita delle persone. Certo, sono persone che hanno più volte sbagliato, ma che non sono "da buttare via". E non sono nemmeno, semplicemente, da rinchiudere in carceri che uccidono la speranza e i sogni, non deve essere questa la prospettiva, non dovrebbe esserlo neppure per chi ritiene che la sicurezza sia al primo posto nella politica e nel governo delle nostre città. Perché recuperare alla dignità e alla speranza chi sconta una pena è comunque un modo per rafforzare davvero la sicurezza della società. Il verde dell’erba di casa e il cemento della galera Sono passati diversi anni, e continuo alla sera a pensare a quel paese di campagna dove sono nato, che sogno sempre, ricordando quando ero un ragazzino e d’estate mi sdraiavo sull’erba all’ombra di un albero. Ormai è tanto tempo che vivo circondato dal cemento, lo calpesto tutti i giorni non per mia volontà, sto scontando una condanna interminabile alla pena dell’ergastolo, nel carcere di Padova, e a circa una ventina di chilometri c’è il paese dove sono nato, e che non vedrò per diversi anni ancora. Tutte le sere alle nove in punto come un orologio svizzero, sono alla finestra del bagno che guardo attraverso le sbarre l’oscurità della notte, mi accendo l’ultima sigaretta, e mentre la fumo penso a quando ero giovane e a quella fattoria dove sono cresciuto. Di quella fattoria conoscevo molto bene com’erano sistemati i confini terrieri. Anni fa erano gli alberi che segnavano la linea di confine, a ogni angolo c’era sempre un grosso pioppo, alto più di dieci metri. Per me e per tanti ragazzini di quella strada, quegli enormi alberi erano dei punti d’incontro e osservazione. Sopra quegli alberi potevamo vedere lontano e, a volte, notavamo che le piante di granturco si muovevano in modo strano, non per il vento, ma perché erano scosse dal passaggio di altri ragazzi che abitavano lì vicino. In primavera e anche d’estate era abitudine incontrarsi sotto questi enormi alberi, in mezzo ai campi, vicino ai fossi. All’epoca quei fossi erano pieni di vegetazione di diverse specie, di muschio ce n’era così tanto dalla parte di tramontana, che d’inverno lo strappavamo dal terreno per usarlo per fare il presepe a Natale. In quei fossi nidificavano diverse specie di uccelli, merli, passeri, qualche pettirosso. Specialmente a primavera era pieno di piccoli merli appena nati, nei loro nidi ce n’erano sempre tre o quattro, a volte ne toglievamo via uno, per allevarlo a casa. In quei fossi in autunno raccoglievamo i funghi pioppeti, ne crescevano così tanti che andavo anche a venderli. Raggiunta la maggiore età, ho continuato ogni tanto a frequentare quei fossi di campagna. Poi, non per mia volontà, sono stato strappato da quel luogo, mi hanno privato della libertà portandomi in un carcere. E ci sono rimasto per anni, circondato dal cemento armato, obbligato a sentire l’odore nauseante della massiccia presenza del ferro, delle sbarre e dei cancelli. Dopo diverso tempo, mentre mi trovavo a scontare la misura di sicurezza detentiva della "casa di lavoro", mi hanno concesso una licenza di un mese, e sono ritornato a casa, in quei luoghi dove ero cresciuto. Ho risentito quei profumi della primavera, dei fiori, delle piante da frutto, del gelsomino, ma ho notato che non c’erano più quegli enormi alberi che costeggiavano i fossati, non esisteva più quella vegetazione, non c’era più quel verde come me lo ricordavo, non sentivo il cinguettio degli uccelli, deserto assoluto. Non era più quel luogo di campagna che mi ricordavo, in lontananza si vedevano case costruite di recente, si notava che non c’erano più alberi che facevano da barriera. Quel luogo che una volta era pieno di tanti ricordi, ora emanava solamente tristezza, non era più quel posto pieno d’erba verde, nascosto dalla vegetazione, che era un punto di riferimento per tutti i ragazzini di quella strada di campagna. Alle prime ore dell’alba, il verde dell’erba bagnata dalla rugiada non era più come me lo ricordavo, una volta asciutta con i primi raggi del sole quell’erba era ricoperta di polvere che proveniva dalla strada vicina, piena di auto in transito. In quel paese che tanto avevo desiderato vedere, ho trascorso poco tempo, anche se le mie intenzioni erano di rimanerci per il resto della mia vita. Dopo pochi giorni di libertà, che non era una libertà reale, ero sempre controllato sia di giorno che di notte dalle forze dell’ordine, sono stato arrestato di nuovo e condotto in carcere, anche se non avevo commesso nessun reato. Tutto ciò a causa di una specie di collaboratore di giustizia, che si è pentito dopo che l’hanno tratto in arresto mentre stava commettendo dei reati, e per non farsi la galera ha cominciato a fare nomi e cognomi, dicendo che di certi reati era a conoscenza perché gli erano stati raccontati. Per farla breve sono stato condannato all’ergastolo in modo incomprensibile, con persone che non ho mai frequentato e mai conosciuto all’epoca dei fatti. Io non pretendo di essere creduto, ma ricordo anche che di condannati innocenti ce ne sono, qualcuno si è fatto anni di galera prima che venisse fuori la verità. Per la pena dell’ergastolo i detenuti hanno il loro linguaggio, e dicono "sono stato condannato all’erba". Credo si dica così per ricordare che gli ergastolani che morivano in galera venivano sepolti in tombe ricoperte di terra su cui cresceva l’erba perché nessuno le accudiva. Così quando penso al verde dell’erba di quei luoghi dove sono cresciuto, ironia della sorte mi ricordo sempre del peso della condanna, e di quanti anni dovrò trascorrere ancora in questi luoghi di cemento armato, e non so quando potrò calpestare quell’erba tanto desiderata. Angelo Meneghetti Speranze o sogni, o solo illusioni Raggiungere la consapevolezza di non essere più lo stesso uomo del reato, è un traguardo veramente importante e fondamentale nel percorso di un detenuto, ma se poi la condanna ha l’obbligo di proseguire, qual può essere un altro scopo da raggiungere? Vorrei tanto che qualcuno che ha le competenze necessarie mi desse una risposta, perché io non riesco più a dare un senso alla mia pena. Qui non si tratta più di espiare degli anni di carcere per il male recato, in questi casi si applica solo il concetto della punizione, senza riconoscere che un essere umano può essere davvero cambiato. Perché un detenuto che ha riconosciuto di aver commesso delle scelte di vita sbagliate, tenendo conto che quelle scelte credeva fossero le uniche possibili, oggi deve continuare a stare rinchiuso e basta? Ma poi, rinchiuso a far cosa? Questa non è rieducazione, questa condanna che persiste e dura una infinità di anni rischia di far decadere tutti i progressi fatti, rischia di far crollare tutte le speranze di una vita diversa, ammazza solo il desiderio di tornare a vivere. È giusto che la giustizia faccia il suo corso, ma non può uccidere la voglia e la speranza che ha un essere umano di vivere prima o poi una vita "normale", una vita con la sua famiglia, e con persone diverse dal passato. Conosco uomini che sono rinchiusi da più di 20 anni con un fine pena mai, e la consapevolezza di non essere più la persona del reato l’hanno raggiunta da tanti anni. Queste persone le ammiro perché hanno una forza straordinaria, non lasciano che questo sistema spenga la loro speranza, no, loro proseguono sognando che un giorno qualcuno gli riconoscerà il cambiamento. Io non lo so se avrò questa forza, ho una condanna lunga, e ogni giorno è sempre più pesante. Prima il carcere non aveva nessun effetto sulla mia persona, anzi io ero quello che, quando sentiva lamentele da parte dei compagni, rispondeva con una frase fatta alquanto squallida "Hai voluto la bicicletta". Prima il carcere lo vivevo come un sistema da abbattere, un sistema che serviva solo a incrementare la mia voglia di vendetta, e a me piaceva tutto questo, ma se gli dai degli strumenti diversi, qualsiasi uomo, anche il peggiore, è in grado di fermarsi a riflettere e ammettere che il suo più grande nemico è sempre stato lui stesso. Allora perché non riconoscergli questo cambiamento? Abbiamo delle leggi emergenziali che risalgono agli anni delle stragi mafiose, ‘90-’91, che allungano i tempi per poter accedere ai benefici, per di più sono state introdotte altre nuove leggi che allungano ancora di più questi tempi e aumentano le pene, ad esempio la ex Cirielli del 2006, che punisce pesantemente i recidivi, questo significa cercare di buttare in un dimenticatoio degli esseri umani, cercare di tenerli il più lontano possibile dalla società, invece di accompagnarli gradualmente a reinserirsi nella società in modo responsabile. Personalmente spero che le cose possano cambiare, ma non solo giuridicamente, io spero che sia la mentalità a cambiare. Spero che il concetto di punizione possa un giorno passare in secondo piano e subentrare il vero senso della parola rieducazione. Anche questo è un sogno, identico a quello che faccio ogni sera, il sogno di poter tornare a vivere. Lorenzo Sciacca Giustizia: slitta la riforma, decisione presa per evitare l’ingorgo in Parlamento L’Unità, 30 giugno 2014 Troppi e delicati i decreti in scadenza entro la fine di agosto, quando il Parlamento è in ferie. Troppo scivolosa la situazione al Senato alla voce riforme costituzionali. Fattori prevedibili, come il complesso tavolo delle maggioranze variabili da una parte con Fi e dall’altra con M5S. Fattori imprevisti e ugualmente pericolosi come la sentenza d’Appello del processo Ruby attesa dal 18 di luglio in poi. Prendete tutto questo, mescolatelo un po’ ed è chiaro perché un pacchetto più volte annunciato come quello che riguarda la giustizia - civile e penale - e la sua organizzazione - ad esempio il Consiglio superiore della magistratura - è difficile che siano sul tavolo del governo e del parlamento prima dell’estate. Il contesto pesa. E si capisce bene perché palazzo Chigi e lo stesso ministro Guardasigilli Andrea Orlando abbiano deciso di attendere ancora un po’. "Anche per evitare passi falsi - si spiega - che nel semestre europeo, mentre tutta Europa attende le nostre riforme anche sulla giustizia considerata una delle zavorre ai nostri ritardi, sarebbero micidiali". Oggi il Consiglio dei ministri è convocato. Ma all’ordine del giorno non c’è nulla che abbia a che fare con la giustizia. Piuttosto ci sarà "una prima esposizione di tutte le questioni sul tavolo e delle opzioni per risolverle, un primo giro di tavolo con i ministri interessati, ad esempio Alfano e Guidi, per poi fissare i criteri e a quel punto in tempi rapidi". Si potrebbe obiettare che alcune questioni sono note da tempo. E che da tempo sono filtrate sui giornali e nelle audizioni del ministro in Parlamento anticipazioni sulle soluzioni. Parliamo dei nuovi reati di auto-riciclaggio (pene tra i 3 e gli 8 anni) e falso in bilancio (pene fino a 5 anni), delle soluzioni per rendere più efficaci le norme per la confisca dei beni sequestrati alle mafie; per "ridurre del 20-40% i 5 milioni di arretrato sul civile" e limitare il ricorso alla giustizia su cui ha lavorato a lungo il consigliere di Cassazione, ex Csm, Giuseppe Maria Berruti; di asciugare il codice penale e il processo ormai diventato un mostro dalle mille teste. Ma anche della norma che fissa con rigore la responsabilità civile dei magistrati (il cittadino vittima di una giustizia sbagliata si può rivalere sullo Stato che può prelevare fino alla metà dello stipendio del magistrato che ha sbagliato) e del modo di "recepire - come spiegò il ministro Orlando il 19 giugno davanti alla commissione Giustizia della Camera - le raccomandazioni del Garante per la Privacy in materia di intercettazioni telefoniche "in modo tale da non toccare in alcun modo lo strumento di indagine ma di tutelare la privacy di chi resta coinvolto in un giro di intercettazioni". I motivi del rinvio, perché di questo si tratta nei fatti, vanno quindi cercati un po’ nel merito. E molto nel contesto. Intrecciando entrambe le questioni. Nel merito i tecnici fanno trapelare che resta un problema tra il Guardasigilli Andrea Orlando e il ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi sulla definizione del reato di falso in bilancio, dal 2001 (governo Berlusconi) derubricato a delitto societario e perseguibile (fino a un massimo di due anni di carcere) solo a determinate condizioni. L’ex vicepresidente di Confindustria chiede di pesare sillaba dopo sillaba il ripristino del reato (e quindi nel penale) di falso in bilancio. Ha posto sul tavolo, ad esempio, la necessità di fare alcuni distinguo "tra aziende piccole rispetto a quelle più grandi". Orlando, dal canto suo, ha studiato a lungo le riflessioni di esperti che da anni spiegano come l’assenza del reato di falso in bilancio abbia impedito in questi anni una lotta seria alla corruzione. Sarebbe stato, ad esempio, molto più facile indagare sul sistema del Mose a Venezia. Resta un problema nella maggioranza anche il modo di affrontare la prescrizione, un altro tema che scotta rispetto all’alleanza con Forza Italia. Ora, è chiaro che risulta "rischioso e divisivo" mettere questa roba sul fuoco del Parlamento in questi giorni e settimane in cui i voti di Forza Italia sono tanto importanti quanto ballerini per approvare le riforme costituzionali e mentre Berlusconi è sotto stress per le tensioni nel suo partito e nel centrodestra e per il verdetto dell’Appello Ruby che se confermato potrebbe costringerlo agli arresti domiciliari. Meglio attendere. Almeno un po’. Si insinua, nel governo, il dubbio di aver fatto un errore a voler annunciare ai quattro venti la grande riforma della giustizia entro la fine di giugno. Errore di calcolo, però, un po’ più veniale. Perché il vero errore sarebbe "un eccesso di calendarizzazione di provvedimenti". Oltre alle riforme costituzionali, il Parlamento deve convertire entro il 24 agosto il delicatissimo decreto che riforma la Pubblica amministrazione contro la quale lobby di ogni genere e burosauri stanno affilando armi, strategie e pacchetti di voti. Non solo: nei 53 articoli di quel testo, ben 25 riguardano già la giustizia. Parte oggi il processo civile telematico, senza più faldoni di carta. Ci sono le norme per mandare in pensione in pensione i magistrati (dal 1 gennaio 2016) che hanno compiuto 70 anni. Per decurtare (dal 75 al 25%) le propine, cioè i guadagni, di avvocati e procuratori di Stato. Per obbligare il Csm a coprire entro tre mesi gli incarichi direttivi. Per non parlare di una serie di strumenti che dovrebbero deflazionare il contenzioso e i tempi delle cause: l’aumento del 15%o del contributo unificato che ogni avvocato deve versare allo Stato per avviare una causa civile e l’obbligo di motivare i ricorsi del Tar solo dietro pagamento. Insomma, è stato il ragionamento a palazzo Chigi, c’è già fin troppa carne al fuoco. Metterne altra, ora, potrebbe incendiare la cucina. Giustizia: i penitenziari online… il ministro Orlando mette in rete i numeri e le info di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 giugno 2014 Da circa un mese è realtà: alla voce "trasparenza" del sito istituzionale www. giustizia.it, è possibile entrare nelle realtà delle singole carceri del paese conoscendone dati numerici e informazioni a vario titolo: dalle attività lavorative, inclusi i progetti e le convezioni attivi nell’istituto alle attività sportive e ricreative. Online dal 22 maggio scorso, consente, come ha dichiarato il ministro Andrea Orlando, di "verificare con un click, per ogni istituto penitenziario, quali siano le condizioni, i posti reali, il numero di detenuti, le regole per l’accesso dei familiari, i progetti di lavoro e formazione e la possibilità di seguire corsi di studio". Dentro i dati di 154 istituti e in breve tempo arriveranno anche le schede delle restanti 49 strutture per un totale di 203 strutture censite dal ministero. È così possibile entrare dentro la casa circondariale di Trapani dove sono attivi corsi professionali da artigiani, orticoltori, aiuto restauratori e aiuto pasticceri oltre a un laboratorio teatrale organizzato da volontari. Nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, invece, alla voce Lavoro, non sono previsti più dei lavori domestici: quelli intramurari, regolamentati dall’ordinamento penitenziario e consistenti nei lavori sulle tenute agricole o di manutenzione ordinaria dei fabbricati e quelli da piantoni, scrivani e spesini come in gergo si chiamano gli incaricati di raccogliere gli ordini di acquisto dai compagni e la loro distribuzione. Fa da contraltare, Rebibbia, a Roma, dove oltre ai lavori interni all’istituto, c’è un’ampia offerta lavorativa presso terzi: da chi è inserito nella digitalizzazione dei dati presso il tribunale di sorveglianza a Roma, a chi lavora in cooperative sociali nella lavorazione della plastica e nello smaltimento della raccolta differenziata, chi per il Cup dell’Ospedale Bambin Gesù e chi in attività di data entry per Autostrade spa. Per l’attività ricreativa del carcere romano, invece, dal 2000 l’Associazione "La Ribalta" del Centro studi Enrico Maria Salerno ha coinvolto i detenuti in laboratori di formazione e corsi di specializzazione ai mestieri dello spettacolo con 15 produzioni teatrali alle quali hanno assistito oltre 32.000 spettatori esterni, in massima parte studenti delle scuole superiori e universitari. A Verona, per i lavori gestiti da terzi, i detenuti hanno la possibilità di lavorare nella panificazione e pasticceria, falegnameria e carpenteria meccanica, tra le attività sportive e ricreative, figurano calcio e pallavolo dove per le partite le detenute si incontrano con le studentesse di un liceo cittadino, corsi di genitorialità e di avvicinamento e cura del cavallo, mediazione culturale, arte educativa e architettura. E ancora: corsi di sartoria, pittura, informatica, inglese, chitarra e anche un corso base di addestramento cani. In Calabria, a Sala Consilina, si punta invece sulle attività ricreative di decoupage, lavorazione dell’argilla e laboratorio per il riciclo della carta, oltre all’attivazione di un cineforum settimanale e di una biblioteca. A Potenza, alcuni detenuti sono stati assunti da ditte esterne per i lavori di ristrutturazione dell’istituto e tra i corsi professionali si può scegliere tra informatico, cartapestaio, ceramista, calzolaio, decoratore e persino allenatore di calcio. Tra le attività sportive attivate nell’istituto potentino, figurano anche corsi di zumba e yoga. A Milano, nel carcere di San Vittore, oltre agli ordinari lavori domestici, per la sezione femminile, c’è la possibilità di lavorare in una sartoria gestita da una cooperativa. Al Marassi di Genova, tra le attività gestite da terzi, una panetteria e una stamperia magliette, il Teatro Stabile collabora al laboratorio teatrale dell’istituto e si organizzano corsi per arbitri di calcio e pallavolo. Per le attività culturali, la scelta è tra laboratori di scrittura creativa, mostre e la redazione di un giornalino. In un’ottica di umanizzazione della pena fortemente voluta dal ministro Andrea Orlando, il progetto è stato realizzato dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e l’Istituto superiore di studi penitenziari proprio alla partenza delle intese che il ministero sta via via siglando con le regioni italiane per migliorare le condizioni detentive dei detenuti, regione per regione. L’ultima, del 19 giugno scorso, in occasione del protocollo siglato con la regione Sicilia, per facilitare il ricorso alle pene alternative per i tossicodipendenti e l’accesso a progetti di lavoro in carcere e dopo il carcere. Giustizia: Rita Bernardini in sciopero della fame, per richiedere risposte sulle carceri Ristretti Orizzonti, 30 giugno 2014 Dalla mezzanotte di oggi, lunedì 30 giugno 2014, Rita Bernardini, Segretario Nazionale dei Radicali Italiani, inizierà un Satyagraha nella forma dello sciopero della fame per richiedere a Governo e Parlamento che si faccia chiarezza e si intervenga immediatamente: 1) per scongiurare le morti in carcere 2) sulle cure negate ai detenuti, molti dei quali incompatibili con lo stato di carcerazione 3) sulla tortura del 41-bis inflitta perfino a detenuti, come Bernardo Provenzano, per i quali le Procure della Repubblica di Palermo, Caltanissetta e Firenze hanno dato parere favorevole alla revoca del 41 bis. Giustizia: Angela Napoli (Fdi); il garantismo è molto pericoloso... soprattutto in Calabria intervista a cura di Davide Varì Il Garantista, 30 giugno 2014 Il 27 giugno, Angela Napoli pubblica uno stato sulla sua bacheca Facebook, che getta ombre sulla nascita de "Il Garantista". E prontamente, l’edizione calabrese del nostro giornale ne chiede conto in un’ intervista in cui l’ex parlamentare chiarisce le sue affermazioni. "Io sono giustizialista, è noto, e penso che ogni forma di garantismo, almeno qui in Calabria, sia decisamente pericolosa". Angela Napoli, ex parlamentare del Pdl prima, e di Futuro e libertà poi (all’origine una passione ferrea per il Msi di Almirante, quindi uno scontro durissimo con Scopelliti quand’erano dalla stessa parte) ha postato su Facebook una frase "sibillina" in cui associa quello che lei giudica un clima di tolleranza nei confronti dei clan calabresi alla nascita del Garantista. Noi giornalisti ci siamo decisamente "sorpresi" e abbiamo chiesto chiarimenti alla diretta interessata. Onorevole Napoli, perché associa la nostra testata a un presunto abbassamento della guardia nella lotta contro la ndrangheta? Io non ho mai neanche lontanamente pensato che il vostro giornale abbia un atteggiamento assolutorio nei confronti dei clan. Non penso questa cosa e non l’ho scritta. Ho soltanto detto che parlare di garantismo in una terra di mafia è un’operazione assai rischiosa. Prendo atto della sua risposta. Mi tranquillizza. Ma perché non si può essere garantisti in Calabria? Dobbiamo sospendere diritti e garanzie e dichiarare lo stato di guerra? Dico solo che la nostra regione si trova in questa situazione per un eccesso di garantismo. Non abbiamo bisogno di garantismo ma di giustizialismo. C’è una grande necessità di verità e giustizia e una serie di coincidenze… Quali? Vedo strane assoluzioni nelle corti d’appello catanzaresi e calabresi… Se è per questo anche dalla Cassazione arrivano botte… Ma torno al tema: dopo venti anni e passa di battaglie in un clima crescente di giustizialismo i risultati in Calabria non sono un granché. Non sarà il caso di cambiare strategia? Certo, la battaglia la stiamo perdendo tutti. Ma io sono convinta che se iniziamo a criticare il 41bis e se iniziamo a parlare ogni giorno di garantismo e via dicendo, la vittoria sarà compromessa del tutto. Mi scusi, onorevole, pensa che in Calabria si debbano sospendere i diritti che la Costituzione garantisce a tutti? Ricorda: "Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge". Il principio dovrebbe essere cancellato per i calabresi? Guardi, io conosco benissimo la nostra Costituzione. Non ne dubito. Ma la lotta alla ndrangheta confligge con la Costituzione? Questo non c’entra nulla. La Costituzione viene abbattuta ogni giorno da chi prevarica le persone perbene e corrette. Giusto. È innegabile: la ndrangheta riduce drasticamente la democrazia. Ma se anche noi cancelliamo le garanzie sciogliendo i comuni due, tre o più volte, senza andare troppo per il sottile sulla carcerazione preventiva e via dicendo, non arriviamo molto lontano… Ma scusi, quando vedo che cade l’aggravante mafiosa per Santi Zappalà e quando gli dissequestrano i beni, vuole che io non pensi male? Vuol dirmi che è tutto normale? Certo, non è normale. Secondo le regole della legalità avrebbe sbagliato chi ha fatto l’indagine e ha emesso le sentenze. Il giustizialismo rigetta il principio di legalità? Guardi, io ho ancora in mente l’ammazzasentenze, Carnevale. Un giudice che assolveva tutti, compreso Ciccio Macrì di Taurianova, un personaggio che io combattevo quotidianamente. Già, Taurianova. Il Comune è stato sciolto per mafia 3 volte. Tutto inutile, i risultati mi pare siano stati disastrosi: continuano a vincere le cosche. Scusi, o i cittadini son in massa irredimibili o questa strategia invece di colpire i clan li rafforza… Io ho vissuto le vicende del comune di Taurianova sulla mia pelle. Lo scioglimento dei comuni è fondamentale per spezzare i legami perversi tra mafia e politica. Ed è proprio con lo scioglimento che si ripristina la legalità e la democrazia. Però su un punto sono d’accordo con lei: è indubbio che la presenza della ‘ndrangheta è servita da pretesto per giustificare l’assenza della politica. Giustizia: morti in carcere; "indagare sui medici…", dopo 11 anni si riapre il caso Lonzi di David Evangelisti Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2014 Il 29enne Marcello Lonzi fu trovato cadavere nel 2003 in una cella del penitenziario "Le Sughere". Ora il gip ha respinto la richiesta di archiviazione, dopo altre due indagini chiuse senza esito. Restano ancora ombre sulla morte in carcere di Marcello Lonzi, il 29enne deceduto l’11 luglio 2003 all’interno del carcere "Le Sughere" di Livorno. Le cause del decesso? Secondo le inchieste del 2004 e del 2010 (entrambe archiviate) si è trattato di morte per cause naturali, nello specifico di infarto: la madre Maria Ciuffi sostiene invece che il figlio sia stato vittima di un pestaggio e ha cercato di dimostrarlo anche diffondendo sul web le foto shock della salma. Adesso il gip Beatrice Dani, respingendo la richiesta di archiviazione avanzata lo scorso marzo dal pm Antonio Di Bugno, ha disposto nuove indagini (sei mesi di tempo) per capire se ci siano state imperizie durante le operazioni di soccorso. "Una buona notizia finalmente" dichiara Ciuffi (la donna è rappresentata dall’avvocato Erminia Donnarumma). Era stata proprio lei il 3 maggio 2013 a presentare un esposto ai carabinieri di Pisa per far luce sulle operazioni di soccorso e sull’esame autoptico. In particolare nel mirino è finito il lavoro del medico legale Alessandro Bassi Luciani (uno dei collaboratori più longevi della magistratura livornese) che effettuò l’autopsia e i due medici della casa circondariale Gaspare Orlando e Enrico Martellini. Ciuffi - ricorda il gip nel provvedimento depositato - ipotizza che la morte del figlio possa essere stata determinata "anche dalle errate, imperite o addirittura omesse manovre di soccorso e rianimazione" messe in atto dai due medici "il cui operato sarebbe poi stato coperto dal parziale accertamento del professor Luciani in sede autoptica". A tal proposito si parla infatti di "innumerevoli omissioni" che avrebbero reso "estremamente difficile o impedito la ricerca della verità". L’ipotesi di reato sarebbe insomma quella di concorso in omicidio colposo. I due medici vengono inoltre accusati di "falso e di false informazioni al pm". Secondo Ciuffi infatti le manovre rianimatorie "o non sono mai avvenute o si sono svolte in via totalmente approssimativa". Stesso concetto per quanto riguarda l’utilizzo del defibrillatore. Da chiarire inoltre l’esatta ora del decesso: "È avvenuto alle 17.10 e non alle 19.50?. Secondo il parere del professor Alberto Bellocco (specialista in medicina legale all’università Sacro Cuore di Roma) allegato all’atto di opposizione alla nuova richiesta di archiviazione, la morte di Lonzi sarebbe imputabile "alle conseguenze di un politraumatismo al quale ha fatto seguito vomito alimentare e un conseguente di stress cardiocircolatorio". Su tutte queste questioni dovranno adesso cercare di far luce i consulenti del pm Francesco De Ferrari (Università di Brescia) e Florinda Monciotti (Università di Siena). Lonzi, entrato alle "Sughere" il 1 marzo 2003, avrebbe dovuto scontare 9 mesi di carcere per tentato furto. Quattro mesi dopo è stato trovato morto in cella. Morto per "cause naturali". Una spiegazione che però non ha mai convinto la madre. La salma presentava infatti la mandibola fratturata, due buchi in testa, il polso sinistro fratturato, due denti spaccati, otto costole rotte e varie escoriazioni: "Altro che infarto, c’è stato un pestaggio". La "battaglia" di Ciuffi nelle aule giudiziarie ha perciò inizio. Il procedimento aperto a carico di ignoti si chiude nel 2004: il gup Rinaldo Merani accoglie la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm Robero Pennisi. Nel 2006 "madre coraggio" - così come la chiamano le amiche - ottiene la riesumazione della salma e la riapertura dell’inchiesta. Nel 2010 il procedimento aperto nei confronti del compagno di stanza di Lonzi, Gabriele Ghelardini, e dei due agenti di polizia penitenziaria Alfonso Scuotto e Nicola Giudice si chiude però con l’accoglimento da parte del gip Merani della richiesta di archiviazione avanzata dal pm Antonio Giaconi. Secondo le perizie sul corpo del 29enne non sarebbero rinvenibili segni di percosse. La donna non si arrende e continua la propria battaglia. Nel 2011 la Cassazione negherà la riapertura del processo mentre l’anno successivo sarà la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo a dichiarare "irricevibile" il ricorso. La madre di Lonzi non si dà ancora per vinta e nei mesi scorsi lancia una raccolta di firme (al momento sono circa 22800) sul sito change.org per chiedere che una commissione europea dei diritti dell’uomo riesamini il caso: "Non mi fermo, voglio giustizia". Giustizia: sulla storia del Corriere e di Dell’Utri... io sto con De Bortoli di Piero Sansonetti Il Garantista, 30 giugno 2014 Il Presidente dell’ordine dei giornalisti della Lombardia ha proposto l’abolizione della libertà di stampa in Italia. Lui, per essere precisi, non dice proprio così: dice che bisogna distinguere tra libera espressione delle proprie opinioni e apologia di reato. L’apologia di reato va perseguita con severità. Concetto che era chiarissimo già al tempo del minculpop, cioè negli anni venti e trenta (per i giovani, che magari non lo hanno studiato, preciso che il minculpop era il ministero della cultura popolare istituito da Mussolini e aveva proprio questo compito: fare in modo che non circolassero idee balorde e che si distinguesse sempre tra buone opinioni e sovversione). Il Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia - che si chiama Gabriele Dossena - ha deciso addirittura di avviare un processo disciplinare (almeno così sembra da un comunicato che ha inoltrato anche alle agenzie) contro un noto sovversivo, che con i suoi colpi di testa sta offuscando un po’ l’immagine onorata della stampa italiana. Il reo si chiama De Bortoli Ferruccio e attualmente ricopre l’incarico di direttore del "Corriere della Sera". Il Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia si è indignato perché il "Corriere della Sera" ha pubblicato una pagina a pagamento (cioè una pagina di pubblicità) nella quale gli amici di Marcello Dell’Utri parlano bene di Marcello Dell’Utri. Dice il presidente dell’Ordine della Lombardia che ciò è inaccettabile perché è apologia di reato e dice che bisogna fare una legge per impedire che ciò possa mai più avvenire. In attesa della legge, si deve punire De Bortoli. Anche Luigi Albertini, predecessore di De Bortoli, che guidò il "Corriere della Sera" insieme a suo fratello dal 1900 fino al 1925, si trovò in guai simili a quello che ora sta passando De Bortoli. L’ordine dei giornalisti non si è mosso di sua iniziativa. Era stato sollecitato il giorno prima da un appello rivoltogli da alcuni deputati del Pd. Anche loro preoccupati che con la scusa della libertà di stampa si finisse persino per arrivare a fenomeni intollerabili di libertà di pensiero, che è cosa diversa dalla libertà di stampa e assai più rischiosa per una società ben ordinata. Non si capisce, in verità, perché i deputati del Pd invocassero un intervento dell’Ordine dei Giornalisti, dal momento che - fino a prova contraria - la pubblicità sui giornali non viene raccolta dai giornalisti (almeno: non dovrebbe succedere) ma dagli editori. Sarebbe stato più logico rivolgersi alla Fieg, che è la federazione degli editori. Ma, si sa, i deputati hanno tante cose alle quali pensare e non si può pretendere che distinguano tra giornalisti, editori e giornalai. Comunque, gli stessi astuti deputati del Pd non avevano agito di propria iniziativa ma sospinti da una iniziativa del Comitato di redazione del "Corriere" (cioè del sindacato interno) che a sua volta si era indignato per la pagina di messaggi amichevoli a Dell’Utri, organizzata e pagata dalla moglie dell’ex senatore. Mi ricordo che quando lavoravo all’Unità, che era un giornale di partito, e anche abbastanza ideologico, il regolamento interno stabiliva che il giornale avrebbe accettato qualunque tipo di pubblicità eccetto quelle che esaltavano il nazismo e il razzismo. Erano gli anni del Pci, ma il Pci era assai più laico, sembrerebbe, del comitato di redazione del "Corriere" e dei deputati del Pd. E sicuramente meno autoritario - forse per riflesso antifascista - del presidente dell’Ordine di Milano. Potremmo adesso cercare di spiegarvi perché questa iniziativa del presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano a noi sembra molto rischiosa, ma non credo che ce ne sia bisogno. È chiaro che testimonia di un clima, che sta dilagando. Di un vento che soffia più a copiare certe caratteristiche degli stati religiosi islamici che a preoccuparsi dell’eventuale sopravvivenza dello Stato di diritto. Che lo stato di diritto conviva male coi reati di opinione è cosa nota. Lasciamo stare però questa lamentela e proviamo a dire un’altra cosa, più semplice, più tecnica. L’Ordine, il Cdr e deputati del Pd e magari altri ancora, invocano il reato di apologia di reato. Cos’è l’apologia di reato? L’esaltazione di un reato. L’apologia di reato, ad essere pignoli, non è la difesa di chi ha commesso il reato: dunque la difesa di Dell’Utri, ragionevolmente, non può essere apologia di reato. Ma c’è di più. È proprio il reato presuntamente apologizzato che non c’è. Dell’Utri si è beccato sette anni perché responsabile, secondo i giudici, di concorso esterno in associazione mafiosa. Benissimo. Il problema è che questo reato non esiste nel codice penale italiano. Non c’è un articolo del codice che dice "il concorso esterno in associazione…". No. E allora come si fa a fare l’apologia di un reato che non è iscritto nel codice? Neanche ai tempi di Mussolini e del dottor Rocco ciò sarebbe stato possibile. Quantomeno, Mussolini e Rocco si sarebbero premurati, prima di incriminare De Bortoli, di cambiare la legge. Questa osservazione però ne chiama un’altra. Che ci sta a fare Marcello Dell’Utri in carcere, accusato di un reato che non esiste nel codice penale? È vero o no che il primo articolo del codice penale recita così: "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge né con pene che non siano da essa stabilite ". Ma allora la condanna di Dell’Utri è illegale e chi l’ha emessa ha violato l’articolo 1 del codice penale e dunque è perseguibile? E magari si potrebbe pure contestare l’apologia di reato a chi dovesse difendere quel giudice? E quindi, forse, è apologia di reato non difendere Dell’Utri? P.S. Io comunque difendo apertamente Dell’Utri e credo che la sua detenzione sia una atto di sopraffazione. Spero di cavarmela, perché sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio, e mi auguro che l’Ordine dei Giornalisti del Lazio sia un po’ più saggio di quello della Lombardia. Giustizia: Bossetti "mostro" a prescindere?… condannatelo, ma non col gossip di Vittorio Feltri Il Giornale, 30 giugno 2014 Massimo Giuseppe Bossetti è in carcere da due settimane, accusato nientemeno che di aver ucciso Yara Gambirasio. La vicenda è nota e non la riassumo se non nelle ultime fasi. A quasi quattro anni dalla morte della tredicenne di Brembate Sopra (Bergamo), quando ormai sembrava che il caso fosse da archiviare, gli inquirenti hanno estratto l’asso dalla manica: il famoso Dna del quale ora tutti parlano senza sapere di che si tratti. Già. Davanti alla scienza, chiunque tace. Come si fa a contestare ai camici bianchi la fondatezza dei loro referti? Nessuno osa mettere in dubbio gli esami di laboratorio, anche quando sono sballati. Questo è un problema, poi ce ne sono altri. Noi, a differenza dei periti, siamo pieni di dubbi e non abbiamo certezze. Rifiutiamo i dogmi, anche quelli che escono dalle provette. Facciamo fatica a credere in Dio, figuriamoci se crediamo ciecamente ai ricercatori, che sono uomini colti, ma uomini e quindi non infallibili. In altri termini, abbiamo fiducia nella scienza e meno in chi la pratica, che ci assomiglia e sbaglia. Detto questo, per sottolineare che non esistono verità assolute aggiungiamo qualche considerazione non sulle indagini in corso quanto sulle indiscrezioni che emergono ogni dì. Dato che il Dna non basta a inchiodare una persona alle sue eventuali responsabilità, i signori investigatori si affannano per trovare altri indizi - di contorno - allo scopo di provare la colpevolezza del Bossetti, muratore in proprio, marito senza macchia e padre affettuoso di tre figli. Sul conto del quale cosa è stato trovato di decisivo? Nulla. Ma solo un monte di pettegolezzi insignificanti spacciati per importanti indicazioni per chi desideri sollevare sospetti sulla sua personalità. Altro che buon padre di famiglia: un orco travestito da agnello. Chi lo dice? Vox populi. Stando ai "si dice", ovvero a quanto raccolto sul conto del presunto assassino, questi avrebbe raccontato un sacco di balle. Quali? Banalità, insinuazioni, frescacce da brivido. Ricavo dalla lettura del Corriere della Sera, e non dal Corriere della serva, le seguenti notizie da pattumiera. Udite. "Si è contraddetto. Amava ballare e fare il brillante". Non è una frase pescata da un articolo cretino. È addirittura un titolo. E non è finita. Ecco il sommario, due righe: "Le serate latino americane al disco pub; e quelle bugie in apparenza inutili". Proseguo: "Prima e dopo la scomparsa di Yara frequentava la ?Toscanaccia?, locale a pochi passi da casa di Yara" (ho copiato fedelmente dal primo quotidiano italiano, pertanto le vaccate non sono mie). Capite, cari lettori, come si fa a identificare uno sporco omicida? Se uno frequenta talvolta un pub deve essere un tipo pericoloso, un pedofilo con tendenze omicide. Se poi costui ama il ballo ed è brillante, bè, allora diffidate perché se avete in famiglia una adolescente rischiate di perderla, morta ammazzata da lui. Quanto alle incursioni di Bossetti alla "Toscanaccia", attenzione: i clienti della citata trattoria sono tutti potenziali criminali, anche io che vi ho cenato spesso, essendo il locale di proprietà di Marco Falconi, titolare dell’omonima osteria di Ponteranica dove la domenica sera mi reco spesso con moglie e amici senza assistere, tra una portata e l’altra, a episodi di violenza carnale e a omicidi seriali. Ecco, questi sarebbero alcuni dei gravi indizi a carico del povero disgraziato rinchiuso in carcere perché indicato quale probabile assassino di Yara. Ce ne sarebbero altri egualmente inconsistenti e direi cretini. Il lavoratore edile ovviamente maneggiava la calce. Nei polmoni della vittima sono state rilevate tracce della suddetta polvere. Significa che è stato lui a farla morire. Davvero? Non si considera che anche il padre della ragazza, nella sua veste di geometra, trascorreva molto tempo nei cantieri, ambienti dove la calce non è estranea? Ancora. Il cellulare di Bossetti la sera della scomparsa della fanciulla si agganciò all’antenna di Brembate. Altro indizio consistente? Ma fatemi il piacere. Il muratore abita a Mapello, a uno sputo da Brembate, e quando rincasava inevitabilmente passava nei pressi dell’abitazione di Yara. Non è vero, gridano gli investigatori. Poteva percorrere una strada più breve. Come se non fosse pacifico che chiunque sceglie il tragitto meno trafficato e non il più breve. Non è tutto. Altro titolo del Corriere su Bossetti: "Per qualcuno è un padre da oratorio, ma non tutti concordano". Cosa vuol dire? Se sei un fedelissimo "cliente" dell’oratorio sei un santo, altrimenti sei un porco? Continuo. Hanno interrogato la moglie dell’arrestato e le hanno domandato: signora, la sera in cui Yara si rese irreperibile, dov’era suo marito? A che ora è tornato a Mapello? Lei non ha saputo rispondere, nel senso che non ricordava. Interrogativo retorico: chi di voi è in grado di rammentare come si comportò tre anni e mezzo fa? Se a me chiedono in quale luogo mi trovassi mercoledì scorso, sarei in difficoltà a rammentarlo. Figuriamoci se la memoria è capace di trattenere le mie mosse negli anni trascorsi. Non c’è cristiano al mondo che annoti sul diario i particolari delle proprie azioni giornaliere. Per concludere, vari organi di stampa hanno accennato a peli rintracciati sulla vittima che sarebbero di Bossetti. Una fandonia. Ma la campagna di sputtanamento dell’uomo nell’occhio del ciclone continua. Balla su balla ci si avvicina alla condanna o, meglio, alla creazione del clima fasullo eppure adatto a produrre una sentenza di condanna. Che orrore. Se Bossetti merita l’ergastolo, bisogna esibire le prove certe della sua colpevolezza. Il gossip non basta. Firenze: un altro suicidio nel carcere di Sollicciano, la denuncia del Cappellano www.gonews.it, 30 giugno 2014 Nella notte appena trascorsa un detenuto del carcere di Sollicciano si è suicidato inalando il gas di una bombola. L’episodio si è verificato intorno a mezzanotte e mezzo e inutili sono stati tutti i tentativi di soccorso. L’uomo era di origine marocchina e aveva 33 anni. Don Vincenzo Russo, responsabile della Madonnina del Grappa e cappellano del carcere fiorentino, che commenta così: "Ormai è palese la situazione di degrado delle nostre carceri, che non garantiscono nemmeno il minimo di dignità umana a chi ha sicuramente sbagliato, anche se spesso per reati minori, ma che non per questo merita di morire. In Italia si sente dire sempre più spesso che rubano tutti, però in carcere ci finiscono soltanto i le persone ai margini della società". "Il dilemma sulla funzione del carcere è il solito - prosegue Don Vincenzo Russo - devono essere luoghi di rieducazione oppure di punizione, ma la responsabilità di tutto questo forse non è nemmeno delle carceri, ma di un sogno spezzato, di questi uomini e donne che arrivano nel nostro paese con grandi aspettative, per poi scontrarsi con una dura, durissima realtà di un Paese, di un’Europa che non è organizzata per accoglierli dignitosamente. Forse tutto il sistema dovrebbe essere ripensato, cercando di lavorare diplomaticamente e non solo, al di la del mare, nei loro paesi d’origine, o in quelli disponibili a collaborare, trasformando un dramma in un opportunità per loro ma anche per noi". Osapp: detenuti suicidi anche per incremento dei prezzi al sopravvitto Lettera al Ministro della Giustizia e ad Dap: suicidi di detenuti anche in relazione all’incremento dei prezzi dei generi in commercio negli istituti e delle telefonate. Solo grazie allo strenuo sacrificio degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, spesso non supportati né da adeguata organizzazione né da adeguati strumenti e risorse, si riescono a prevenire, nella stragrande maggioranza dei casi, gli atti auto-aggressivi posti in essere dagli appartenenti alla popolazione detenuta compresi quelli estremi finalizzati al suicidio. In tale prospettiva, purtroppo, accade sempre più spesso di ascoltare voci che, al di là delle indubbie condizioni di sofferenza psicofisica indotte nell’utenza penitenziaria dalle condizioni degli istituti nonché dei problemi personali esterni al carcere degli stessi detenuti raccontano di disagi insuperabili e tali da indurre, in situazioni peraltro già compromesse per altre cause, persino a tentativi di suicidio legati ai costi, spesso ritoccati in aumento. dei generi in vendita nelle carceri e delle telefonate come si è appreso riguardo all’ultima morte occorsa presso l’istituto di Firenze-Sollicciano. In ordine a quanto sopra, nello stigmatizzare tali situazioni ingiustamente penalizzanti nei confronti di chi non possiede risorse economiche adeguate per affrontare detti aggravi, appare opportuno ed urgente che la S.V. disponga per l’accertamento delle situazioni indicate e per l’opportuno ed urgente miglioramento delle medesime condizioni sull’intero territorio nazionale. Cagliari: detenuto di 44 anni si suicida nella sua cella del carcere di Buoncammino Ansa, 30 giugno 2014 Un detenuto del carcere Buoncammino di Cagliari si è tolto la vita oggi pomeriggio mentre si trovava in cella. Aveva 44 anni ed era residente nell’hinterland del capoluogo sardo. Doveva rimanere nell’istituto di pena sino a febbraio del prossimo anno ed era tornato in carcere, secondo le prime informazioni, dopo un periodo agli arresti domiciliari dai quali, però, era evaso. L’uomo era solo in cella e si sarebbe impiccato con un lenzuolo. La scoperta è stata fatta dalla Polizia penitenziaria. Del caso è stata informata immediatamente la Procura della Repubblica. Al momento non si conoscono le ragioni che hanno spinto l’uomo a togliersi la vita. Non sembrava depresso e non ci sarebbe stata alcuna avvisaglia delle sue intenzioni. Nei mesi scorsi altri detenuti, in alcuni casi con problemi di depressione o psichici, hanno tentato di uccidersi nel centro clinico del carcere. Socialismo Diritti Riforme: ennesima dolorosa sconfitta istituzioni "Togliersi la vita è una decisione dolorosa, spesso imprevedibile. Quando si verifica all’interno di una struttura penitenziaria purtroppo ne conferma l’inadeguatezza. È sempre una sconfitta senza appello delle Istituzioni". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al suicidio di Antonio Orrù, 44 anni, residente a Elmas, avvenuto nella Casa Circondariale di Cagliari. "Spesso si dimentica che la perdita della libertà - sottolinea - è una condizione difficile. L’emarginazione dalla famiglia, dai figli, dalla comunità pesa particolarmente. La carcerazione fa emergere tutte le fragilità. Può rendere la persona irrequieta, irascibile, depressa, disperata. Occorre rafforzare la prevenzione attraverso il Servizio Psicologico d’Istituto. Ogni detenuto in ingresso è sottoposto alla visita psicologica di valutazione ma ciò non basta. Se è vero che il 16% dei cittadini privati della libertà manifesta sofferenza psichica, bisogna agire sulle fragilità, costruire un percorso di sostegno psicologico nel tempo". "Ogni caso di suicidio in carcere ovviamente deve essere valutato individualmente e spesso appare inspiegabile, tuttavia la responsabilità ricade sul sistema. La professionalità della Polizia Penitenziaria non può sempre scongiurare il peggio. La detenzione deve diventare davvero l’extrema ratio e la vigilanza deve essere supportata da altre figure professionali competenti. Fermo restando che è indispensabile - conclude la presidente di Sdr - intervenire sulla rete sociale esterna per garantire un ritorno nella comunità di quanti hanno sbagliato". Santa Maria C.V. (Ce): detenuto 70enne muore all’ospedale, era ricoverato da 4 giorni www.interno18.it, 30 giugno 2014 Era malato da tempo ma il giudice del tribunale di sorveglianza di Napoli - l’ultima volta 15 giorni fa - ha respinto la sua richiesta di arresti domiciliari. Ieri, un detenuto di 70 anni originario di Aversa, è morto all’ospedale Melorio di Santa Maria Capua Vetere. Sul suo capo pendeva una condanna definitiva per riciclaggio ed estorsione. È stato ucciso dalla malattia nel nosocomio dove è stato trasportato quattro prima. La Magistratura ha disposto il sequestro della salma. Il tribunale di sorveglianza di Napoli, circa 15 giorni fa, gli aveva negato i domiciliari. Le cure di cui aveva bisogno il detenuto erano fornite solamente da alcuni carceri che, però, non avrebbero potuto ospitarlo per mancanza di posti. Viterbo: agente penitenziario trovato morto in casa assieme al cugino, probabile overdose www.viterbonews.it, 30 giugno 2014 Due cugini di 37 e 42 anni, Fausto Fortuna e Adriano Fortuna, sono stati trovati morti in un appartamento nel centro di Barbarano Romano, precisamente in via Garibaldi. L’allarme è scattato questa mattina, quando i due sono stati trovati privi di vita all’interno della casa. Secondo le prime informazioni pare che gli uomini abbiano assunto della droga. Per questo motivo potrebbe trattarsi di un decesso per overdose. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Viterbo, i colleghi della stazione locale e gli operatori del 118, i quali, all’arrivo, non hanno potuto fare altro che constatare la morte dei due. Adriano Fortuna, 42 anni, agente di Polizia Penitenziaria, era sposato e padre di una bambina di 10 anni. Secondo quanto si è appreso, proprio ieri pomeriggio aveva accompagnato la moglie e la figlia a Roma, da dove sono partite per una vacanza in Romania, paese d’origine della donna. Il cugino Fausto, 37 anni, idraulico, era separato. I due uomini, stando alla ricostruzione compiuta dai carabinieri del paese, avrebbero trascorso la serata insieme. Nel corso della notte si sarebbero recati nell’abitazione di Adriano e si sarebbero iniettata dell’eroina. Infine, entrambi sarebbero stati colti da malore e sono morti senza avere la possibilità di chiamare i soccorsi. I loro cadaveri sono stati scoperti questa mattina, intorno alle 8,30, dal padre di Adriano, che si è recato a casa del figlio a cercarlo. In precedenza aveva tentato di contattarlo per telefono senza ricevere alcuna risposta. Il pubblico ministero Fabrizio Tucci, incaricato dell’inchiesta, ha già disposto l’autopsia, che dovrebbe essere eseguita lunedì. Catania: reportage dietro le sbarre di Bicocca, la prigione dei boss di Agnese Virgillito La Sicilia, 30 giugno 2014 Da vent’anni è la "casa" degli uomini di Cosa Nostra sconfitti. È il carcere di massima sicurezza di Bicocca, zona sud di Catania. È qui dentro che hanno respirato, e tuttora sono imprigionati, i boss della criminalità organizzata catanese ma non solo. La struttura, costruita alla fine degli anni Ottanta, domina un angolo di contrada "Pantano d’Arci", nei dintorni della principale stazione merci della città e dalla tangenziale si mostra come una sorta di "isola" in mezzo al traffico. Nato sulla carta per accogliere un istituto penale per minorenni è stato riconvertito anche in carcere per adulti; i reclusi sono condannati per reati di tipo associativo e sono sottoposti, quindi, a una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. Vi sono i condannati definitivi (cosiddetti "puri") che rappresentano oltre il 15%; fra loro, poi, i ricorrenti e gli appellanti. Il resto - oltre il 70% - è in attesa di giudizio con cause pendenti. Non mancano gli stranieri. Le sezioni (una a destra ed una a sinistra) si sviluppano su tre piani, gli ultimi due dei quali sono destinati alle celle; ogni livello ne ospita 27 per un totale di 108. Ai locali di entrambi i reparti di Alta Sicurezza se ne devono aggiungere cinque nell’aula bunker, otto pernottamenti al transito, e uno nell’area sanitaria. A "Bicocca" oggi i reclusi sono in tutto 260. E nonostante la Sicilia sia tra le regioni d’Italia con la più alta presenza di detenuti (circa 6.100 nelle 26 carceri con 2.500 ancora in attesa di un giudizio definitivo e quasi tremila che scontano una pena alternativa alla detenzione fuori), la casa circondariale di massima sicurezza catanese non vive il disagio del sovraffollamento. Ad affermarlo è lo stesso Giovanni Rizza, che dirige l’istituto penitenziario da ben diciassette anni. "Il carcere "Bicocca" è l’unico istituto in tutta Italia che ha una particolare tipologia, quella dell’alta sicurezza. Ecco perché è considerato "atipico" rispetto ad altri, poiché - ospitando mafiosi - non vive il malessere del sovraffollamento. La struttura, poi, non è vecchia e anzi è stata oggetto di restyling". Chi riempie la cella di un detenuto a parte la sua "ombra"? Oltre alla sagoma in chiaroscuro, che accompagna in 14 metri quadrati il condannato, in un locale vivono due o al massimo tre uomini e tutti usufruiscono dello stesso bagno. Gli impianti di riscaldamento e l’aria condizionata non esistono in cella; sono consentiti: televisore, radio, giornali, riviste, fornelli per riscaldare le vivande, lamette per radersi. Una penna per scrivere lettere: qualsiasi rinchiuso può spedire posta, senza che sia visionata. Al bando, ovviamente, computer e cellulari. Le telefonate con l’esterno sono quattro in una settimana, con nessuna limitazione segnalata nelle durate. I colloqui con i familiari sono sei e si prenotano tramite call center. A "Bicocca" non esiste un refettorio: si pranza e si cena in cella. È un gruppo di detenuti a cucinare. In questo momento gli "chef dietro le sbarre" sono fra i venti che lavorano in carcere e che sono retribuiti con uno stipendio definito "mercede", calcolato sulla base delle giornate svolte. Chi ha un impiego dentro ha diritto al giorno di riposo e a due di ferie ogni mese. Si può guadagnare dagli ottocento a mille euro mensili. Si occupano anche di pulizia e di consegnare materiale (i cosiddetti "porta tutto"). Chi non lavora riceve i soldi da casa, che sono depositati per comprare generi alimentari, periodici, sigarette, etc.. Acquisti effettuati, ovviamente, in carcere. A "Bicocca" si offrono ali per volare seppure all’interno degli stessi muri: quelle ali che combattono le lancette del tempo sono libri. Dentro si provvede all’istruzione e alla formazione: alcuni detenuti seguono corsi di scuola elementare e media. Nel carcere c’è, anche, una sezione dell’istituto professionale alberghiero "Karol Wojtyla" di Catania con una cucina e un salone annesso per i laboratori di tecnica di sala. Formazione e attività. Nella casa circondariale esiste un teatro che è stato costruito dove prima c’era un cortile a cielo aperto. È stato un detenuto ingegnere a presentare la proposta di riorganizzazione dello spazio. C’è anche una palestra al chiuso dotata di attrezzi ginnici. Un corridoio cieco ospita un piccolo presidio ospedaliero, con studi che accolgono ambulatori odontoiatrici e oculistici. Non mancano i casi clinici di natura psichiatrica (40) e i tossicodipendenti (30), i cui rispettivi trattamenti prevedono la somministrazione di farmaci specifici. Tutti i giorni in ciascun padiglione è eseguita la visita medica. Ci sono molti casi di stati di ansia: sono tanti i detenuti con patologie pregresse del genere o che si scatenano dentro. Si tenta, allora, di far evitare azioni suicide. Nel 2013 si sono registrati tre casi di tentati suicidi. Ogni anno sono almeno quattro o cinque; avvengono tramite impiccagione, con le bombolette a gas o con le lamette. Presenti, poi, i volontari e gli educatori che svolgono attività: dalla catechesi (dentro esiste una cappella) ai laboratori di autobiografia, dal teatro alla lettura. Le chiavi nelle serrature, quel tintinnio di metallo che esclude dalla libertà, e la mandata a sfondare il silenzio con la solitudine, sono aperte e chiuse dagli agenti di Polizia Penitenziaria: addetti alla custodia dei detenuti. A "Bicocca" le cosiddette "guardie blu" sono oltre cento, guidate dal Commissario capo Emiliano Guardì. Un numero certamente esiguo per far fronte alla popolazione carceraria. Si vive. Si sopravvive. Perché manca la libertà. E alla domanda su cosa sia la libertà dentro il carcere risponde il direttore della casa circondariale di massima sicurezza "Bicocca", Giovanni Rizza. "È difficile rispondere da uomini liberi, poiché pur vivendo a contatto con i ristretti, la percezione delle cose è diversa - rileva - Probabilmente per il detenuto la libertà è sinonimo di pensiero; il pensiero che non può essere imprigionato, incarcerato. Il pensiero rivolto ai propri affetti, ai familiari, alle relazioni d’amicizia e, soprattutto, ai propri sbagli. Chissà quante volte un detenuto pensa a ciò, anche se poi non si ha la voglia o l’opportunità o il coraggio di esternare questo ripensamento anche sulle condotte devianti che si pongono in essere. Libertà - conclude il direttore - può significare leggere, ascoltare gli altri, evitare di parlare solo di vicende processuali e quindi vivere in una dimensione che non sia solo di ansia. Io credo che ciascuno di loro si costruisca una dimensione di libertà anche da recluso". Napoli: detenuto in carcere per rapina evade dall’ospedale, è caccia all’uomo di Carlotta Bravo Giornale d’Italia, 30 giugno 2014 Era piantonato in ospedale. È riuscito ad eludere la sicurezza e darsi alla fuga. Una scena da film quella di ieri mattina all’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli dove Antonio Avitabile, piantonato nel reparto di chirurgia, è evaso calandosi dal terzo piano. L’uomo ha utilizzato delle lenzuola per calarsi dalla finestra del bagno della stanza in cui era ricoverato, facendo perdere le proprie tracce grazie alla presenza di un complice, che lo attendeva a bordo di una vettura, Sul posto sono intervenuti i carabinieri e la polizia che hanno provveduto ad avviare immediatamente le ricerche diffondendo foto segnaletiche e predisponendo numerosi posti di blocco. Avitabile, arrestato un mese fa dalla polizia stradale per una rapina a Pompei e detenuto nel carcere di Poggioreale, era stato ricoverato in seguito ad un malore che aveva avuto in cella. Tre anni fa un altro episodio che lo vide protagonista: in quella circostanza fu arrestato per diverse rapine ai distributori di benzina dell’area vesuviana. Sul caso è intervenuto Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria il quale si sono vissuti "momenti di grande tensione". "Il detenuto - spiega Capece - è stato inviato in ospedale dal medico del carcere ed ha un curriculum criminale di un certo rilievo; è legato agli ambienti della criminalità organizzata. Ora è assolutamente prioritario arrivare alla sua cattura". Dura la reazione di Ciro Auricchio, segretario campano della Uil Penitenziaria. "C’è superficialità da parte dei medici in servizio nel carcere quando dispongono il ricovero dei detenuti in ospedale". Lamezia Terme: Uil-Pa; incendiata l’automobile di un poliziotto penitenziario La Presse, 30 giugno 2014 L’altra sera, in pieno centro, a Lamezia Terme (Catanzaro), mentre in città erano già in corso i festeggiamenti per la festa patronale di oggi, è stato appiccato il fuoco ad un’auto Opel Astra di proprietà di un assistente capo del corpo di polizia penitenziaria lametino ed in servizio presso la casa circondariale di Catanzaro. Ne dà notizia l’Unione italiana lavoratori pubblica amministrazione (Uil-Pa). "Pur non potendosi allo stato escludere alcuna ipotesi, è assolutamente difficile non ricondurre l’episodio, sulla cui origine dolosa non ci sarebbero dubbi, all’attività che il poliziotto penitenziario svolge presso le sezioni detentive, a stretto contatto con i detenuti, nel carcere del capoluogo". "Da tempo - ha aggiunto De Fazio in una nota - denunciamo le difficoltà della Polizia penitenziaria che sono generalizzate nel Paese, ma che in Calabria ed a Catanzaro toccano punte estreme". "Proprio a Catanzaro, peraltro - ha proseguito - è stato di recente messo in funzione un nuovo padiglione detentivo che a regime ospiterà oltre 300 detenuti (allo stato ve ne sono 210) per un totale attuale di circa 700 presenze. Tutto questo con rinforzi organici davvero esigui e, peraltro, ottenuti solo grazie a continue interlocuzioni con il capo reggente dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano. Mentre, dal lato opposto, abbiamo dovuto registrare quasi una resistenza del provveditore regionale in missione Salvatore Acerra, che ha anche depotenziato i provvedimenti assunti dagli uffici di vertice. In tale quadro appare necessario che l’Amministrazione assuma una decisione chiara e definitiva anche rispetto alle sorti dell’edificio che ospitava la Casa circondariale di Lamezia Terme ormai dismessa. Si chiarisca se sussiste ancora l’ipotesi di trasferirvi il provveditorato regionale, sempreché la riforma della giustizia continui a prevederne ancora uno in Calabria, o si ceda la struttura al demanio e si recuperino le risorse umane, strumentali ed economiche ancora impiegate per presidiarla". "In ogni caso - ha concluso De Fazio - adesso è il momento di stringersi intorno alla vittima della grave intimidazione, a cui va la solidarietà della Uilpa Penitenziari e mia personale, in attesa che la magistratura e le forze dell’ordine, tra cui anche lo stesso Nucleo investigativo speciale della Polizia penitenziaria, facciano piena luce sull’accaduto". Treviso: aumentano i casi di autolesionismo tra i ragazzi del carcere minorile La Tribuna di Treviso, 30 giugno 2014 Aumentano i casi di autolesionismo tra i giovani dell’istituto penitenziario minorile di Treviso. È il nuovo fenomeno riscontrato, negli ultimi due anni, al quale stanno ponendo rimedio i responsabili della struttura. È quanto è emerso ai margini della ricorrenza di San Basilide, la patrona del Corpo di polizia penitenziaria, festeggiata ieri con una messa al duomo di Treviso. Attualmente, la struttura per minori di Santa Bona ospita 14 giovani, con alle spalle, per lo più, problemi di droga e di furti. Si tratta di ragazzi problematici che usano gli atti di autolesionismo per attirare l’attenzione su di sé oppure soltanto per essere portati all’ospedale ed uscire dal carcere. La struttura, costruita per ospitare fino ad un massimo di 12 giovani è arrivata fino a contenerne un massimo di 27. Nei tempi di crisi economica e di tagli alla spesa pubblica, i progetti di recupero sono assicurati per lo più dagli aiuti che arrivano dalle parrocchie. Migliorano, invece, le condizioni del carcere di Santa Bona. Grazie alla sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani aveva condannato un anno fa l’Italia per le condizioni in cui erano costretti sette detenuti a causa del sovraffollamento carcerario, l’apertura delle celle per otto ore giornaliere permette uno standard di vita migliore. Soddisfatto il direttore del carcere di Treviso, Francesco Massimo. "Ci stiamo adeguando alle direttive della Corte Europea - spiega - grazie alla sentenza Torreggiani le condizioni sono migliorate. Purtroppo però i tempi di spending-review ci impongono un budget ristretto. Facciamo fatica ad acquistare persino la carta igienica o il dentifricio per i detenuti". Ad oggi sono 254 i detenuti rinchiusi nella struttura carceraria di Santa Bona. "Voglio anche sottolineare - continua il direttore del carcere - l’estrema professionalità del nostro personale, sempre pronto ad adattarsi ad ogni evenienza". La ricorrenza della patrona di San Basilide è stata costellata, dopo la messa, da un buffet che è stato offerto da una pasticceria trevigiana. "Non potevamo permettercelo - conclude Massimo - per questo voglio ringraziare la generosità del nostro sponsor". Milano: a San Vittore i 12 anni del reparto "La Nave"… dove si sperimenta la libertà di Paolo Foschini Corriere della Sera, 30 giugno 2014 Dodici anni fa a San Vittore nasceva "La Nave": un reparto di trattamento avanzato, sostanzialmente unico in Italia come struttura interna a un carcere, per la cura e il recupero dei detenuti tossicodipendenti. Voluto con gran forza dall’allora direttore dell’istituto, lo stesso Luigi Pagano che oggi è alla vicedirezione del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il reparto di trova al terzo raggio e funziona tuttora secondo il principio proposto ai suoi esordi dagli esperti dell’Asl che - con i suoi psicologi, medici, educatori, volontari - ne è in pratica responsabile: offrire cioè al detenuto la possibilità di un patto, un vero e proprio contratto, in base al quale egli si impegna a seguire un determinato programma ottenendone in cambio condizioni di vita migliori. A cominciare dalla cella aperta durante tutto il giorno, anziché per la sola ora d’aria, affinché possa appunto impegnarsi nelle varie attività. Il tutto nella prospettiva di un percorso di reinserimento da portare avanti una volta fuori. Una di queste attività, sin dal principio, è la realizzazione di un giornale mensile interamente scritto dai detenuti del reparto con il coordinamento di due giornalisti professionisti volontari. L’Oblò, si chiama, soprattutto per evocare il concetto di finestra attraverso cui chi è fuori possa guardare dentro e viceversa. In generale non parla solo di carcere, anzi: il punto rispetto ad altre pubblicazioni fatte nelle carceri italiane è proprio che L’Oblò parla di qualsiasi cosa, dalle storie personali all’attualità, dallo sport ai fatti della vita. Visti, però, da chi essendo in carcere potrebbe sembrarne tagliato fuori. Ogni numero de L’Oblò, oltre che dentro san Vittore, viene distribuito gratuitamente nelle principali librerie Feltrinelli di Milano. Questo - come viene spiegato nell’editoriale - è un numero speciale, realizzato per il dodicesimo compleanno de "La Nave" che detenuti e operatori, psicologi e volontari, agenti di polizia penitenziaria e direzione del carcere celebrano lunedì 30 giugno con una festa all’interno del reparto. Busto Arsizio: progetto Caritas "Extrema ratio", così il tempo in carcere non è sprecato La Prealpina, 30 giugno 2014 "Le carceri vengono collocate lontano dal cuore delle città, per nasconderle. All’interno, pochi fortunati hanno la possibilità di affrontare lavoro e studio, ma trovare un’occupazione è il mezzo per tornare in società". Dodo Fraschini, 35 anni in cella e gli ultimi 4 con la cooperativa Exodus a organizzare progetti contro la devianza giovanile, ha sintetizzato con la forza della sua esperienza il pianeta carcere, così vicino eppure così lontano dalla vita quotidiana di molti. il dibattito organizzato con saggezza dal gruppo culturale della parrocchia di Borsano, nell’ambito della patronale dei Santi Pietro e Paolo, ha permesso di entrare un poco in questo mondo, anche fisicamente, grazie alla ricostruzione di una cella sul palco della sala Aurora: due coppie di letti a castello incastrate in pochissimi metri, il bagno con la turca, piccole mensole realizzate con i pacchetti di sigarette. Un pugno nello stomaco per chi conosce solo le celle viste nei film, tanto realistiche ma non in grado di scatenare le emozioni provate da adulti e scolaresche in visita per sette giorni con il progetto della Caritas "Extrema ratio". Nell’intento di aprire orizzonti di speranza e di non fermarsi solo alla denuncia del sovraffollamento e dei guai correlati, la serata introdotta da Emanuele Fiore si è aperta con invito del sindaco Gigi Farioli a non considerare "chi ha un debito con la collettività come escluso dalla comunità" e a "investire in scelte di sicurezza sociale". "Oggi i detenuti sono 378, la struttura è nata per accoglierne 170 - ha spiegato il direttore di via per Cassano, Orazio Sorrentini - Nel 2011 si è toccato il tetto di 457 presenze". Sorrentini ha ricostruito la storia della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo: "Accogliendo il ricorso di 7 detenuti, tra cui 3 bustesi, ha condannato lo Stato a risarcire chi ha vissuto in meno di sette metri quadrati". L’Italia, nel tempo concesso per sistemare le cose, ha ripiegato sulla "sorveglianza dinamica", che permette di "marcare i detenuti a zona" e sull’apertura delle celle durante il giorno. "Ora a Busto il quadro è meno drammatico. Nel ridare dignità si sono fatti passi da gigante, ma si può sempre migliorare - ha spiegato Sorrentini - anche grazie a istruzione, attività ricreative, opportunità di lavoro interne". L’esempio più convincente è quello della cioccolateria, di cui ha parlato Dionigi Colombo. Mentre l’insegnante Antonia Toniato ha ricordato che "se all’inizio i detenuti seguono i corsi di alfabetizzazione o di licenza media solo per uscire dalla cella, al termine rivelano commossi di aver ricevuto stimoli alla socializzazione". Don Claudio Burgio ha raccontato l’esperienza del carcere minorile Beccaria di Milano: "La vera sfida è ritrovare persone che sappiano crescere. Viviamo in un clima di giustizialismo, ma quando il mostro è in cella la coscienza si acquieta. Invece i ragazzi in carcere devono inquietarci molto, sono in piena età evolutiva, hanno un futuro da costruire". L’Associazione Kayros è nata proprio per "non lasciare che le ore passino ma si colga il "tempo opportuno". Il cappellano non è un folle o un buonista, crede nella possibilità di un futuro". L’esperienza di Dodo e quelle raccontate da Casa Onesimo e dal Comune hanno aperto la strada all’intervento di Roberto Sartori, che con Exodus a Gallarate cerca di "aprire strade impossibili". "A Mornago abbiamo 20 posti di reinserimento pedagogico, 19 sono occupati da detenuti - ha detto - A Gallarate su 12 posti sette sono assegnati a ex detenuti, poi ci sono i dodici profughi della Libia nella struttura che Dodo dirige". Famiglie e carcerati invocano aiuto. "Nonostante le delusioni incassate non ci siamo fermati - è stata la conclusione - Un’opportunità va data, se si lancia un seme si possono raccogliere frutti". Roma: 20 detenute di Rebibbia si diplomano operatrici informatiche La Presse, 30 giugno 2014 Sono 20 le detenute del carcere di Rebibbia femminile che, al termine di un corso informatico di nove giorni, hanno ricevuto dalle mani dei responsabili di Microsoft Italia e da quelle del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, il diploma di operatore informatico. Il progetto ‘Informatica senza barrierè ha consentito alle detenute di apprendere i passi base rudimenti dell’utilizzo del computer e dei più comuni applicativi (posta elettronica, pacchetto Office, Word base e avanzato, Excel, Power Point), ed è nato da un protocollo d’intesa firmato dal Garante dei detenuti del Lazio, dalla direzione del carcere e da Microsoft Italia che ha organizzato gratuitamente i corsi. Nei dieci giorni del corso le detenute hanno lavorato a turno sulle 10 postazioni di computer che è stato possibile allestire all’interno del carcere. "La conoscenza e l’uso del computer sono diventati imprescindibili nel mondo del lavoro - ha detto il Garante al termine della consegna dei diplomi - e la possibilità di trovare un’occupazione al termine del periodo detentivo è il punto cardine del percorso di recupero dei detenuti solennemente statuito dalla Costituzione. Nasce da qui l’importanza di questa straordinaria iniziativa di alto valore simbolico e sociale. Ora, spero che il lavoro che abbiamo svolto con Microsoft Italia venga preso a modello dalle altre realtà produttive della nostra Regione. Abbiamo bisogno del contributo e della buona volontà di tutti per aiutare tante persone a costruirsi un futuro diverso". Reggio Emilia: sit-in del Sappe davanti alla prefettura "poca sicurezza in carcere" La Gazzetta di Reggio, 30 giugno 2014 Un sit-in davanti alla prefettura per protestare e chiedere attenzione sulle ormai troppe criticità che riguardano il carcere della Pulce, con un problema-sicurezza che s’ingigantisce ogni giorno di più. La manifestazione è organizzata - per oggi dalle 10.30 alle 12.00 - dal Sindacato autonoma di polizia penitenziaria (Sappe) e non giunge certo come un fulmine a ciel sereno. Da tempo infatti Michele Malorni - segretario provinciale del Sappe - evidenzia le varie problematiche (strutturali e tecnologiche) che attanagliano la struttura restrittiva di via Settembrini. A partire dalle gravi carenze di personale, che significano difficoltà a coprire i turni, inoltre la mancanza di ufficiali di polizia penitenziaria fa sì che la sorveglianza venga demandata ad agenti assistenti che, così, gestiscono questioni che non sarebbero di loro competenza. Gli stessi mezzi usati dalla polizia penitenziaria sono ormai non solo vetusti ma anche poco sicuri (diversi hanno raggiunto i 400mila chilometri...). Per non parlare del sovraffollamento nelle celle, il che genera situazioni delicate, in cui i rapporti detenuti-agenti diventano a rischio, con tanto di aggressioni a chi lavora nell’istituto di pena. Napoli: la Comunità di Sant’Egidio organizza "gita fuori porta" per gli internati dell’Opg di Salvatore Tuccillo Metropolis, 30 giugno 2014 È per il 5° anno consecutivo che la Comunità di Sant’Egidio di Napoli riesce ad organizzare questa straordinaria gita fuori porta ed è per il quinto anno che Sorrento risponde con grande senso di solidarietà e partecipazione. Lunedì 30 giugno un gruppo di 17 internati dell’Ospedale Giudiziario Psichiatrico di Napoli vivrà una giornata molto diversa da quella che normalmente si svolge nella struttura che li detiene. In mattina partiranno da Secondigliano per raggiungere la Marina di Puolo dove faranno il bagno. Poi all’ora di pranzo saranno ospitati da Enzo Maresca patron dello storico ristorante sorrentino "da Filippo". Qui la chef Maria Gargiulo li accoglierà con menù che si ispirerà al mare dall’antipasto al secondo e con un dolce di sua creazione che confermerà la sua bravura di pasticcere oltre che di cuoca. E confermerà il legame tra buona cucina e solidarietà. Gli internati saranno accompagnati dai volontari della Comunità di Sant’Egidio con il loro portavoce Antonio Mattone, da operatori dell’Asl Napoli 1, dagli operatori penitenziari e dal direttore dell’Opg Marco Casale. A loro si uniranno anche il vescovo di Sorrento Castellammare mons. Francesco Alfano, il magistrato di sorveglianza, la dott.ssa Di Giglio, e Michele Pennino direttore sanitario della struttura. Immigrazione: la storia di Gradisca d’Isonzo… nel 2000 la decisione di istituire il Centro di Luigi Murciano Il Piccolo, 30 giugno 2014 La vicenda del doppio centro immigrati di Gradisca d’Isonzo inizia nel 2000: nel pieno dell’emergenza-clandestini sul confine goriziano, quando l’allora ministro Bianco (governi D’Alema e Amato) indica nell’ex caserma Polonio un sito ideale. Il Consiglio comunale di allora dice sì a un centro di prima accoglienza, ma si dichiara contrario a una struttura di detenzione. Con i governi Berlusconi (ministri Scajola e Pisanu) si scopre che Gradisca ospiterà invece proprio un Cpt, centro di permanenza temporanea e di detenzione amministrativa, costato 17 milioni. Dopo anni di battaglie legali e manifestazioni, la struttura apre i battenti nel 2006. Conta su 248 posti destinati alla detenzione amministrativa propedeutica al rimpatrio per reato di clandestinità. Un luogo di contraddizioni: ci sono le sbarre ma i poliziotti restano fuori; gli immigrati non sono detenuti ma "ospiti", e quindi la fuga non è evasione, ma "allontanamento volontario". Vi convivono (con la Bossi-Fini fino a 18 mesi) dal clandestino, allo straniero con gravi precedenti costretto a un supplemento di pena, all’immigrato che ha lavorato in Italia per un decennio salvo ritrovarsi coi documenti in disordine. Nel 2007 la rimozione delle sbarre "per maggiore umanizzazione". Nel 2008 apre invece la seconda struttura, il Cara, altri 150 posti destinati ai richiedenti asilo. Nel 2009 per la vigilanza esterna vengono impiegati anche i militari. Gli interni vengono resi inagibili dalla furia dei reclusi. In 6 anni la struttura non è mai stata a regime. Nel 2009 un pacco bomba esplode nell’ufficio dell’allora direttore Dal Ciello. Nel 2010 tre rivolte in pochi giorni, feriti sia agenti che immigrati, almeno 70 evasioni riuscite. Nel 2012 l’appalto per la nuova gestione viene congelato dai tribunali che dopo una lunga battaglia danno ragione all’attuale coop Connecting People, giunta seconda nella gara. Parallelamente lo stesso cda del consorzio siciliano, alcuni dipendenti, e due funzionari della Prefettura finiscono sotto indagine per presunte fatturazioni false e presenze degli ospiti secondo l’accusa "gonfiate" rispetto al reale numero di immigrati presenti. Emerge anche il dramma dei dipendenti e sanitari che lavorano nella struttura: lamentano costantemente mesi di ritardo nell’erogazione degli stipendi. Nel novembre del 2013, dopo una nuova ondata di rivolte e devastazioni, la struttura del Cie viene dichiarata inagibile e chiude i battenti per consentirne i lavori di ristrutturazione. Pressoché contemporaneamente viene aumentata a 200 persone la capienza del Cara, con una sezione di accoglienza per gli immigrati sbarcati sulle coste siciliane. Il mondo politico si interroga sulla nuova destinazione del Cie: le opzioni sono lasciarlo chiuso, riaprirlo, utilizzare questi spazi per migliorare la vivibilità del Cara, o addirittura farne il Cara più grande del Nord Italia. Cina: 113 condanne a pene detentive per terrorismo nella regione dello Xinjiang La Presse, 30 giugno 2014 Tribunali della regione cinese di Xinjiang hanno condannato a pene detentive 113 persone nei cui confronti erano state formulate diverse accuse, tra cui quelle di terrorismo. Lo riporta il sito di notizie governativo Tianshan.net, precisando che quattro degli imputati sono stati condannati all’ergastolo. I tribunali nella zona di Kashgar, si legge sul sito, hanno tenuto sessioni aperte e valutato complessivamente 69 casi. Due persone sono state condannate all’ergastolo per aver creato e guidato gruppi terroristici, diffuso posizioni religiose estremiste e complottato per organizzare attacchi. In un altro caso, il proprietario di un negozio di posate di Kashgar è stato condannato a dieci anni di carcere per aver venduto due asce, due mannaie e due pugnali a un uomo che usò poi le armi in un attacco, uccidendo due persone e ferendone un’altra. Il venditore distrusse il registro in cui era stata segnata la vendita ed era stato accusato di aver offerto protezione a criminali. Corea Nord: due cittadini americani arrestati andranno a processo per "atti ostili" Ansa, 30 giugno 2014 La Corea del Nord processerà i due cittadini americani detenuti, entrati nel Paese come turisti, per la volontà di "perpetrare atti ostili". Lo riferisce un funzionario citato dall’agenzia Kcna, secondo cui i preparativi per portare dinanzi al giudice Matthew Miller e Jeffrey Fowle, rispettivamente arrestati ad aprile e a maggio scorsi, sono stati completati. "In base ai risultati delle indagini, i sospetti sugli atti ostili sono stati confermati sia dalle prove sia dalle loro testimonianze".