Giustizia: Serracchiani (Pd); una riforma organica è indispensabile al nostro Paese Asca, 29 giugno 2014 "Un sistema-giustizia efficiente per i cittadini e le imprese costituisce parte importante della competitività complessiva del Paese", ha sottolineato, ieri a Duino (Ts), la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, aprendo i lavori dell’Unione triveneta dei Consigli dell’Ordine degli avvocati. Una riforma organica della Giustizia è quindi "indispensabile al nostro Paese", con l’esigenza di "rivedere sicuramente il processo civile e di riordinare alcune parti della giustizia amministrativa, un tema comunque importante per la Pubblica Amministrazione", ha dichiarato Serracchiani, ricordando altresì che lunedì prossimo entrerà in vigore il processo telematico (con l’informatizzazione delle attività) riguardante i procedimenti civili, "occasione non solo di semplificazione ma anche per poter contare su una giustizia più veloce rispetto ad alcune dinamiche del processo civile". Nello specifico della situazione regionale, la presidente ha rimarcato come Tolmezzo continui a scontare la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, "consapevoli delle difficoltà che questo riordino ha generato e dell’opportunità e della necessità di un ripensamento". Tra le altre problematiche sottolineate da Serracchiani, le carenze di organico e, in particolare, la necessità di copertura del personale amministrativo a Gorizia, una situazione critica rimarcata anche dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Trieste, Roberto Gambel Benussi, che ha pure evidenziato le difficoltà del tribunale di Trieste che sconta un deficit di personale di cancelleria superiore al 23 per cento. Serracchiani ha peraltro ricordato l’impegno negli anni dell’Amministrazione del Friuli Venezia Giulia per un miglior funzionamento degli uffici giudiziari, grazie al protocollo con il ministero della Giustizia per l’utilizzo di personale regionale nelle cancellerie ed a supporto dell’attività delle Procure e degli uffici del Tar, oltre ad alcuni interventi per l’ammodernamento degli uffici giudiziari nonché il recente accordo sottoscritto con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ed il Tribunale di sorveglianza di Trieste per favorire misure alternative alla pena e per l’avvio di percorsi sociali per i detenuti. Giustizia. l’ennesima riforma-truffa, firmata da Renzi e Orlando di Valter Vecellio Notizie Radicali, 29 giugno 2014 Dunque, appuntamento a domani, quando il Consiglio dei Ministri discuterà le proposte di riforma della Giustizia. Comunque il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha già voluto rassicurare la magistratura associata incontrandone i vertici. Già questo è un mattino che fa capire che tipo di "buongiorno" sarà. C’è una coda infinita di processi, circa nove milioni, tra penale e civile. Se non si parte di qui, questo il ragionamento di Orlando, "non ci si raccapezza più". Per raccapezzarci, ben cinque mosse: snellimento, con interventi sia sul codice di procedura civile e che quello di procedura penale; potenziamento della magistratura ordinaria e onoraria; sterzata ai tempi del Csm; punizioni e responsabilità; garanzia effettiva che i processi non cadano nel vuoto con la prescrizione, come avviene ora. A parte il merito delle proposte - bisognerà vigilare sui prevedibili pasticci che saranno capaci di combinare con gli interventi sui codici di procedura penale e civile- siamo a programmi da mille e passa giorni. E cosa si vuole fare, per esempio, per evitare le prescrizioni? Si allungheranno i tempi. Bingo! E per quanto la responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato pochi giorni fa la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto… Nel frattempo che accade in città? Che viene presentato il quinto Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi. Se ne ricava che il 38,6 per cento dei detenuti presenti nelle carceri italiane sono imputati-condannati per reati di droga. Il rapporto conferma gli effetti nefasti di 8 anni illegittimi di legge Fini-Giovanardi. Nel 2013, su un totale di 59.390 ingressi negli istituti penitenziari, il 30,56 per cento era per violazione dell’art.73 Dpr 309/90 mentre quasi il 40 per cento delle presenze in carcere al 31.12.2013 sono dovute direttamente alla legge sulle droghe. Nonostante i ripetuti proclami gli affidamenti terapeutici dei tossicodipendenti restano al di sotto del dato precedente all’approvazione della legge, ed oggi avvengono perlopiù dopo un periodo di detenzione. Resta irrisolto il grave problema dei detenuti che stanno scontando pene ritenute illegittime dalla Corte Costituzionale: in assenza di un intervento legislativo si rischia il collasso dei Tribunali, costretti ad esaminare una per una le richieste di ricalcolo delle pene o peggio si rischia di lasciare scontare alle persone pene ingiuste. Per quanto riguarda il sistema di repressione se si sommano le denunce per hashish, per marijuana e per le piante si raggiunge la cifra di 15.347 casi (45,37 per cento del totale). La "predilezione" del sistema repressivo per la cannabis è confermata dal numero di operazioni che aumentano, in controtendenza con tutte le altre sostanze, del 35,24 per cento rispetto al 2005. Insomma, la mancata distinzione tra droghe "pesanti" e "leggere", abrogata poi dalla Consulta, e il carcere anche per il piccolo spaccio, sono la combinazione che in sette anni di applicazione della Fini-Giovanardi ha ingolfato il sistema carcerario di "pesci piccoli", pusher tossicodipendenti a loro volta, che vendono droga per procurarsi la dose. Sono 18mila i detenuti per il solo articolo 73 delle legge sulle droghe, che punisce la coltivazione, la detenzione e lo spaccio, mentre pochi, solo 810, scontano la pena o sono imputati del ben più grave articolo 74, l’associazione finalizzata al traffico; circa 5.400 rispondono di entrambe le imputazioni. Si tratta di cifre ufficiali, numeri forniti dal Dap. Negli anni di applicazione della Fini-Giovanardi c’è stato un aumento continuo degli ingressi in carceri per droga, passati in percentuale dal 28 al 30,6 per cento tra il 2006 e il 2013, e delle presenze, aumentate nello stesso periodo da 14.640 a 23.346, annullando rapidamente l’effetto dell’indulto. Come si vede, la questione giustizia riguarda sì le carceri e le indegne condizioni in cui versano, ma non solo; e sempre più diventa centrale e urgente, affare che riguarda tutti, non solo i detenuti; i provvedimenti annunciati dal Governo Renzi sono motivo di inquietudine. L’unica preoccupazione del presidente del Consiglio, del ministro della Giustizia e del Pd è quella di non entrare in rotta di collisione con la magistratura associata. Possono essere molte le ragioni alla base di questa scellerata scelta di campo; quello che è certo è che si tratta di riforme che non riformeranno nulla, anzi. Giustizia Mauro Palma; rivedere 41-bis, va evitato degrado psico-fisico per isolamento Asca, 29 giugno 2014 L’isolamento dei detenuti - secondo gli standard europei - va compensato con misure che evitino il degrado psico-fisco del soggetto. Per questo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha chiesto, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime detentivo del 41-bis, che le due ore d’aria attualmente previste vengano raddoppiate. A dirlo Mauro Palma - presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e per sei anni (fino al 2011) presidente del Comitato per la prevenzione della tortura - durante l’audizione svolta il 25 giugno davanti alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani proprio in relazione al regime del 41-bis. Palma ha spiegato che il Comitato ha mosso alcuni rilievi rispetto a questo regime detentivo: il primo relativo all’applicazione non omogenea nei diversi istituti penitenziari; il secondo connesso al sistema di reclutamento e formazione degli agenti appartenenti al gruppo operativo mobile; il terzo legato alla presenza all’interno del circuito penitenziario, nelle sezioni destinate ai detenuti in regime di 41-bis, di aree riservate in cui vengono adottate misure ancora più restrittive. Nell’ultimo rapporto pubblicato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in merito al regime del 41-bis, ha indicato alcuni punti su cui intervenire: lo svolgimento di maggiori e più estese attività nonché il raddoppio delle ore d’aria; la possibilità di cumulo delle visite mensili; modalità più agevoli per le telefonate ai detenuti. Sullo stesso argomento, la Commissione straordinaria del Senato il 26 giugno ha ascoltato Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia. Giustizia: il 4% dei detenuti assistiti dal Patronato delle Acli, 2.500 le pratiche aperte Radio Vaticana, 29 giugno 2014 Anche i detenuti e le loro famiglie hanno diritto alla disoccupazione o alla pensione. Uno spaccato che trova nelle Acli un punto di riferimento. Le 71 sedi provinciali delle Acli infatti hanno assistito il 4% della popolazione carceraria, perché il welfare sta rapidamente cambiando e le fasce più deboli rischiano di rimanere escluse. Una volta che si entra in carcere non si perdono i diritti all’assistenza. Ma quanti sono i detenuti che lo sanno davvero? D’altronde la progressiva informatizzazione di questi servizi rischia di escludere tutta una serie di soggetti. Paola Vacchina, presidente del patronato Acli: "La nostra idea con il nostro volontariato e con i nostri operatori è di rendere concretamente esigibili anche i diritti per queste persone più fragili, più escluse e di permettere anche a loro di accedere a tutte le prestazioni del welfare locale e statale". Tra i 2.500 detenuti assistiti dalle Acli la maggior parte ha avuto bisogno di aiuto per chiedere la disoccupazione, gli assegni familiari, l’invalidità civile. Un’iniziativa accolta bene spesso dalle istituzioni. Paolo Ferri, direttore del Patronato Acli: "Stiamo riscontrando un interesse reciproco tra il servizio che svolgiamo e l’attenzione che le amministrazioni ci stanno dando. È una cosa che è nata spontaneamente sui nostri territori ma che mano a mano si sta strutturando e che fa crescere relazioni che riteniamo possano diventare importanti per migliorare questo servizio in futuro". Più diritti significa anche facilitare il reinserimento dei detenuti che hanno finito si scontare la loro pena. Giustizia: il pm del caso Tortora si scusa… 30 anni dopo (poteva soffrire in silenzio) di Aldo Grasso Corriere della Sera, 29 giugno 2014 Poteva starsene zitto. Poteva portare ancora il peso del suo silenzio. Poteva vedersela con la sua coscienza, che non fa mai dichiarazioni pubbliche. Giorni fa, Diego Marmo ha chiesto scusa alla famiglia di Enzo Tortora (scuse respinte) per le vicende giudiziarie che annientarono la carriera televisiva e la vita del famoso presentatore: "Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede". Tormento? Marmo è tornato all’attenzione della cronaca le scorse settimane, quando è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. A molti, la nomina è sembrata un insulto alla memoria di Tortora e così sono scoppiate le polemiche. Trent’anni fa Diego Marmo era il pubblico ministero che formulò pesantissime accuse contro Tortora, poi assolto con formula piena perché il presentatore di Portobello non faceva parte della camorra. Ma di quelle accuse Tortora morì e nessun magistrato di quel processo aveva finora pubblicamente manifestato rincrescimento. Una pagina nera per la giustizia italiana e non solo: il Tg2 d’allora si distinse subito per l’accanimento con cui seguì la vicenda "dell’insospettabile di lusso", la stampa preferì sposare, almeno all’inizio, la tesi colpevolista (con la sola eccezione di Enzo Biagi), molti mascherarono il suo arresto con una sorta di risibile rigenerazione da una tv che non piaceva. Marmo, che durante la requisitoria, nel 1985, descrisse il giornalista come "un cinico mercante di morte", non era solo. I magistrati inquirenti erano Lucio Di Pietro (promosso poi procuratore generale a Salerno e alla Procura nazionale antimafia) e Felice Di Persia (giunto poi al Csm). Tortora fu rinviato a giudizio da Giorgio Fontana, allora giudice istruttore, e messo alla gogna "nel nome del popolo italiano". Le nostre ingiustizie si vendicano sempre. Non ci rendiamo conto, spesso, che nel porre rimedio alle cose finiamo col cercare un sollievo che le aggrava ancora di più. Lettere: emergenza carceri… tra legalità e legalismi di Marco Margrita www.articolotre.com, 29 giugno 2014 So bene quanto "Articolo Tre" sia - voglia fortemente essere - assolutamente attento al tema della legalità. Pur avendo, nel mio tortuoso percorso ideale di salti e conversioni, nel garantismo una delle costanti - anzi, proprio per questo - non sono avvezzo a distribuire patenti di giustizialismo. La ritengo una triste (e mai disinteressata) posa sallustiana. Faccio questa premessa per adeguatamente contestualizzare la richiesta di ospitalità a questa mia replica all’articolo dell’amico e collega Gianfranco Scarpa, recentemente pubblicato sul quotidiano. In quell’articolo, l’autore si incarica di rappresentare - alla Montanelli - una "maggioranza silenziosa" avversa ad una presunta eccessiva attenzione all’emergenza carceri. Un’attenzione che non si replicherebbe rispetto alle condizioni di tanti connazionali vittime di nuove e vecchie povertà. Non è mia intenzione - ritenendo non ricevibile la classificazione della rispettabilità dell’emarginazione: i poveri sì, i carcerati no - avventurarmi nella diatriba su chi sia meritorio di auto e chi no. Ritenendo che la solidarietà sia un valore che dovrebbe, almeno in potenza, dovrebbe tendere ad una destinazione universale. Mi limito a richiamare il sempre valido criterio del Beccaria: la civiltà di una Nazione si desume dalla civiltà delle condizioni delle sue carceri. Va riconosciuto a Scarpa di non cedere, felice complice la sua consumata capacità di armeggiare la scrittura giornalistica, alle sirene del benaltrismo. Nondimeno, però, le parole fortemente critiche verso la purtroppo non approvata amnistia rivelano la natura del suo (retro)pensiero: perché tante attenzioni ai delinquenti, se poi si ignora la povera gente! Le nostre carceri, però, sono state giustamente condannate da tutti gli organismi internazionali, perché violano i diritti umani, contengono (in spregio alla Costituzione) un terzo dei detenuti che non sono stati condannati. C’è, poi, lo scandalo della carcerazione preventiva: quei 17mila detenuti che sono in larga parte lì non per fatti di sangue, sono tutti casi di ingiustizia evidente che non hanno relazione con un circuito penitenziario come quello europeo. Non c’è, per questa situazione, alcuna giustificazione. Non la si può certo tacitare, per quanto il qualunquismo di vario colore si periti di tentare l’impresa. Per chi scrive, rimangono di drammatica scottante attualità le parole pronunciate da Giovanni Paolo II, nella sua storica visita alla Camera dei Deputati (14 novembre 2002). "La solidarietà, tuttavia, - disse il Papa Santo - non può non contare soprattutto sulla costante sollecitudine delle pubbliche Istituzioni. In questa prospettiva, e senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza dei cittadini, merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento. Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società". L’autorevole maestro pose con chiarezza il tema dell’universalità della solidarietà. Se non si sa essere solidale con i carcerati, sia concessa la chiosa, non lo si saprà essere nemmeno con i poveri delle cui condizioni ci si rammarica. In chiusura, vale la pena di ricordare che la direttiva europea sui suini - hanno calcolato - prevede che ciascun maiale disponga di almeno 6 metri quadrati, ma la Corte di Strasburgo (se la prende Scarpa con "l’attivismo europeo", ma…) ha condannato l’Italia perché un detenuto a Rebibbia viveva in 2,7 metri. Difendere la legalità, senza farisaici legalismi, non vuol dire porre fine a questo scandalo? Silenziare questa realtà di rende propri o disonesti. Secondo me no, per questo ho sottratto spazio e pazienza con questa mia replica. Lettere: perché la tortura non è reato risponde Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2014 Caro Colombo, leggo un po’ dappertutto che in Italia non esiste il reato di tortura perché le polizie si oppongono. Cioè Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza si oppongono in tutti i modi. È vero? Nadia Lo leggo anch’io ogni volta che si torna a discutere del problema (che è grave e urgente) e me lo sentivo dire da colleghi deputati e senatori quando ero in Parlamento. Spiegavano, sussurravano o tuonavano (secondo l’inclinazione politica, ma anche con diverse intonazioni dentro lo stesso partito) che mai e poi mai si sarebbe potuta fare una legge contro la tortura perché le Forze dell’ordine non volevano una simile legge. Non ci credevo allora e non ci credo adesso. Solo i Radicali appoggiavano l’urgenza della legge e il doppio argomento che condivido. Una legge sulla tortura difende i cittadini e difende la polizia. Adesso mi sembra chiaro, addirittura evidente che poche persone nelle varie polizie hanno trovato agganci alla Camera e al Senato, diffondendo la leggenda secondo cui una simile legge avrebbe a) offeso la Polizia, b) favorito il moltiplicarsi di denunce false come espediente di difesa, c) avrebbe limitato la capacità di azioni adeguate ed efficaci degli agenti in casi di grave necessità. Cerco di spiegare perché non può essere vero, e perché è il rifiuto della legge, e non la legge, che offende la Polizia, come se la polizia volesse la libertà di abbandonarsi alla violenza. È un pensiero insultante e la prova è semplice. I casi dolorosi e barbari in cui si può legittimamente parlare di tortura (da Cucchi ad Aldrovandi, da Uva a Magherini) ci sono purtroppo. Ma sono più rari delle prodezze di bravi cittadini che all’improvviso diventano pirati della strada, falciano sulle strisce mamme e bambini, e si allontanano senza prestare soccorso e senza autodenunciarsi. Ma quando i casi di maltrattamenti violenti e mortali ci sono, e la storia raggiunge un giudice, la materia (dai maltrattamenti alla morte) rimane difficile da giudicare perché manca la definizione giuridica di quegli atti e lascia tutto in bilico tra voluto, possibile e accidentale. La pragmaticità americana ha trovato una definizione semplice e precisa: maltrattamento insolito e crudele. Chi si oppone? Evidentemente i pochi e i violenti che hanno compiuto o potrebbero compiere simili atti. Chi non ha niente da obiettare alla legge sulla tortura che c’è in ogni Paese civile? Tutti gli altri, i moltissimi che, anche in situazioni difficili e pericolose, non hanno mai violato leggi, dettami e buon senso umanitario in migliaia di interventi, di azioni, di impegni, di contenimento del disordine violento. Sono tanti coloro che non sono mai stati accusati o anche solo indicati dai cittadini come colpevoli di abusi e violenze, e pochi (ma liberi di essere recidivi) coloro che hanno commesso atti che i cittadini non possono dimenticare. Una legge sulla tortura protegge da un lato i cittadini dalle iniziative per cui è prevista una condanna. Ma, dall’altro, protegge i carabinieri e agenti delle diverse polizie che in quella legge trovano definizione e garanzia del loro comportamento e nella condanna di quella legge non incapperanno mai. Infatti anche adesso non si abbandonano e non si sono mai abbandonati al comportamento crudele e incivile. Hanno ragione i Radicali. Per il solo fatto di esistere, quella legge sarà la difesa più forte del prestigio e della reputazione delle polizie democratiche. Firenze: il bimbo a Sollicciano e i diritti rovesciati, tra burocrazia, lentezze e corti circuiti di Eugenio Tassini Corriere Fiorentino, 29 giugno 2014 Di sicuro c’è solo che Giacomo non dovrebbe essere lì, a Sollicciano. Ha sei anni, e da cinque vive con la mamma in una cella, prima in Puglia poi qui a Firenze. Il resto è un tuffo nel mare profondo e buio di una società, la nostra, che agita sempre più confusamente la bandiera dei diritti, che ha con i figli - i nostri e quelli degli altri - un rapporto chiaramente malato. Una società che è uccisa ogni giorno di più da una burocrazia cieca e sorda. Ma andiamo con ordine. La prima domanda è come sia possibile che cinque lunghi anni non siano bastati ai nostri tribunali per tirar fuori un bambino da una cella con le sbarre e che tutte le sere viene chiusa a chiave. E qui ci si addentra in una marea di carte dove ci sono magistrati che ordinano, servizi sociali che predispongono, familiari che ricorrono; ma tutto avviene con i tempi che di solito si pensano destinati a una lite di confine fra vicini di casa. Niente dalle carte lascia trapelare l’urgenza di porre rimedio velocemente alla più grave delle ingiustizie, che è appunto quella di tenere in carcere un innocente. E Giacomo innocente lo è, e non solo per l’età, ma anche perché è lì insieme alla sua mamma. Per colpa della sua mamma. Passano i giorni, i mesi, gli anni, e nulla accade. Naturalmente ci diranno che è normale, che sono oberati di lavoro, che si fa il possibile: ma è l’assenza di differenze che inquieta, e se mai ci fosse bisogno di una conferma che una volta che varchi il portone di un carcere, che tu abbia sei anni o sessanta, perdi ogni identità, anche quella di essere un bambino (anche se sei lì proprio per quello) questa storia lo è. Però fa riflettere la latitanza (o la lentezza se si preferisce) dei servizi sociali, così veloci in altre occasioni a intervenire. E anche se le storie sono diverse e assai lontane, non può non tornare in mente quella della famiglia pistoiese alla quale i figli sono stati tolti in fretta e furia: la loro colpa era di essere poveri, che la loro casa era sporca, che i bambini uscivano vestiti male, che forse a nostro giudizio (nostro perché in qualche modo i servizi sociali ci rappresentano, o rappresentano quello che noi pensiamo sia giusto o sbagliato, e su questo agiscono) quella madre e quel padre non erano dei buoni genitori. Qui i ricorsi dei familiari sono stati inutili: i figli sono stati portati via una mattina, e a nulla è servito che il loro babbo e la loro mamma ripulissero la casa, rimettessero a posto la loro stanza, salissero persino sul Duomo minacciando di buttarsi di sotto. I loro figli sono altrove, e la pratica dell’affido o dell’adozione è già in moto. Quindi giustamente ci turba privare di una madre un figlio che ha la sventura di vederla arrestare e condannare, ma non ci ferma quando noi stessi decidiamo di togliere dei figli a dei genitori poveri, forse con pochi strumenti, ma certo difficilmente accusabili di poco amore. Negli anni il nostro modo di proteggere i figli si è poco alla volta distorto: c’è chi ancora gli allaccia le scarpe a dieci anni, chi entra nello spogliatoio dopo la partita per rivestirlo a undici, chi gli taglia la pizza a dodici. Vogliamo figli perfetti, e pretendiamo genitori perfetti. Pensiamo che togliere ogni ostacolo o fatica, anche la più piccola, sia un gesto d’amore. Così, se una mamma fa uscire un figlio con la maglietta sporca non ha diritto a essere mamma, perché dimostra la sua inefficienza. È colpevole del più grave reato culturale contemporaneo: non essere un genitore esemplare. Se invece è condannata per sfruttamento della prostituzione magari minorile, questa è una colpa che riguarda i figli degli altri non il suo ruolo "genitoriale", come amano scrivere i servizi sociali. E questa mamma ha diritto a essere mamma, e suo figlio ad averla. Ovviamente, e a parte i casi gravi di violenza familiare, tutti dovrebbero avere il diritto a essere babbo o mamma, intanto perché non è un fattore culturale, non si deve dare un esame e passarlo per esserlo. E i servizi sociali non dovrebbero essere il braccio armato di un inesistente ministero della famiglia buona: dovrebbero risolvere problemi. Così non è, e sono una delle tante cose che in Italia andrebbero cambiate radicalmente. Ma soprattutto questa storia di Giacomo in cella finisce per imporre di scrivere una banalità, che però di questi tempi tanto scontata non è: e cioè che non dovrebbero essere tolti i figli a chi va in carcere, o a chi è povero. Ma che questo non è un buon motivo per mettere in galera i figli o non aiutare chi non ha soldi. Domani la visita dei Garanti: "parleremo con la mamma" Domani il garante regionale per i detenuti Franco Corleone e la garante per l’infanzia Grazia Sestini andranno nel carcere di Sollicciano per occuparsi del caso del piccolo Giacomo, il bambino di sei anni e mezzo che vive con la madre detenuta in un reparto di Sollicciano da quando aveva un anno. "Bisogna assolutamente trovare una soluzione al più presto, per questo andremo anche a parlare con la madre del bambino e cercheremo di convincerla che lasciar andare il figlio è la soluzione migliore", spiega il garante Corleone. Martedì in Corte d’Appello, alla sezione minori, è prevista l’udienza che dovrà decidere sul ricorso presentato dalla madre di Giacomo contro il provvedimento del tribunale dei minori che ha disposto l’allontanamento del bambino da Sollicciano e poi il suo affido prima a un istituto e poi a una famiglia. La madre è molto attaccata al figlio, così come il bambino è molto attaccato alla madre. E non potrebbe essere diversamente visto che per così tanti anni i due hanno vissuto in simbiosi all’interno del carcere di Sollicciano. Proprio per questo il giudice Rosario Lupo, nell’ordinanza di qualche mese fa, aveva sottolineato che "è obbligatorio preparare il bambino al distacco dalla madre, unica figura di riferimento per lui, visto che il fratello è stato dato in affido a un’altra famiglia, che il padre l’ha conosciuto solo per poco durante alcuni colloqui in carcere e che da un anno risulta irreperibile". Il Garante regionale dei detenuti Franco Corleone rivolge poi un appello al sindaco Dario Nardella affinché si arrivi al più presto alla nomina di un garante per i detenuti di Firenze, il cui posto è rimasto vuoto da sette mesi. "È assurdo che la città di Firenze non abbia ancora una figura istituzionale di riferimento per centinaia di reclusi. Sul territorio fiorentino ci sono istituti penitenziari importanti come quello di Sollicciano, il Gozzini e l’istituto minorile Meucci". Firenze: Rita Bernardini (Radicali); Sollicciano è un carcere fuori dalla legalità di Roberto Davide Papini La Nazione, 29 giugno 2014 La leader radicale: "Il bimbo dietro le sbarre? Ingiustificabile". E annuncia uno sciopero della fame nella lotta per garantire ai detenuti il diritto alle cure mediche". "Il carcere di Sollicciano è al di fuori da ogni parametro di legalità". Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani è secca nella sua valutazione del penitenziario fiorentino. Bernardini è a Firenze per la presentazione del libro "Fuori dalla gabbia", di Cristiano Scardella (fratello di un detenuto morto in prigione e poi riconosciuto innocente) e il tema del carcere è sempre al centro della sua azione politica. "Sollicciano è una delle strutture che abbiamo segnalato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel dossier sulla drammatica situazione delle nostre carceri, per le quali il nostro Paese è in una situazione di permanente illegalità", continua Bernardini. "Anche se il problema del sovraffollamento si è un po’ attenuato (ma attraverso delle vere e proprie deportazioni di detenuti spostati lontano dalle famiglie), resta carente la situazione della rieducazione (lavoro e studio) e quella del diritto alle cure mediche, oltre che quella igienico sanitaria", aggiunge la leader radicale. Sulla questione del diritto alla salute dei detenuti a livello nazionale, Bernardini annuncia "uno sciopero della fame da lunedì per denunciare casi molto gravi, casi nei quali si muore". Bernardini affronta anche la vicenda del bambino di sei anni che vive in carcere, a Sollicciano, con la madre detenuta. Una vicenda approdata anche in Parlamento. "Nel 2008, Angelino Alfano, allora ministro della giustizia, disse "mai più bambini in carcere" - ricorda Bernardini - Sappiamo che al 31 dicembre 2013 c’erano ancora 40 bambini detenuti con le loro madri in carcere. Il caso del bambino fiorentino, poi, è fuori da ogni legalità perché ha più di sei anni e la sua detenzione non si giustifica. Dovrebbe stare in un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri), strutture che comunque non vanno bene, per 40 casi in tutta Italia si potrebbe puntare su una casa famiglia dove occuparsi anche del loro futuro". Infine un appello al governo: "Il nostro Paese deve finalmente decidersi di rientrare nella legalità costituzionale e in quella prevista dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha detto chiaramente che nelle nostre carceri i detenuti sono sottoposti a tortura, cioè a trattamenti inumani e degradanti. E se il premier Renzi pensa di presentarsi in Europa con una situazione come questa, comincia molto male". Santa Maria Capua Vetere (Ce): nella Casa circondariale manca anche l’acqua corrente di Domenico Letizia (Associazione Radicale di Caserta) Il Garantista, 29 giugno 2014 Caro Garantista, scrivere della situazione della casa circondariale di Santa Maria Ca-pua Vetere significa passare concretamente in rassegna tutte le gravi difficoltà legate alla piaga del sovraffollamento carcerario, che da tempo ormai caratterizza gli istituti di pena italiani e quelli campani con particolare urgenza. Un problema, quello del sovraffollamento delle nostre galere, nel quale si riflettono tanti aspetti del malfunzionamento della giustizia italiana. La nuova struttura è stata costruita nei primi anni Novanta, nel periodo delle "carceri d’oro", e presenta diverse criticità strutturali. Problemi d’infiltrazione, ad esempio, ma anche legati al fatto che la struttura penitenziaria non è connessa all’acquedotto del comune. Ciò significa che i detenuti possono usufruire di acqua corrente solo per poche ore al giorno, con tutto ciò che ne consegue non solo sotto profilo igienico, ma anche sanitario. L’erogazione idrica sarebbe inoltre compromessa a causa di impianti inadeguati e, come se non bastasse, l’Arpac - l’Agenzia regionale protezione ambientale - avrebbe accertato la non potabilità dell’acqua. Una situazione assurda, ben descritta nell’interrogazione parlamentare che il senatore Vincenzo D’Anna ha presentato con l’aiuto dei radicali di Caserta, che riguarda anche il cortile antistante la struttura penitenziaria affollato dai parenti dei detenuti, in attesa di poter effettuare colloqui con i propri familiari e che attendono il proprio turno alle intemperie sia durante la stagione invernale che in quella estiva. Risulta la non presenza di servizi igienici idonei. Inoltre la struttura, completamente isolata dal centro urbano, è sprovvista di una linea di comunicazione di trasporto pubblico. Una situazione degradante di costante violazione dei diritti umani fondamentali, sia per i reclusi che per i parenti che si recano a trovare i propri cari. Da anni, con instancabile determinazione, l’associazione Radicale "Legalità e Trasparenza" di Caserta denuncia, con le armi della non-violenza, la situazione della struttura carceraria in provincia di Caserta. A questa denuncia si sono aggiunti il partito Socialista di Caserta e il senatore D’Anna, ma la situazione di degrado risulta ancora poco conosciuta dai cittadini del casertano. Sono in tanti a pensare, infatti, che queste strutture siano simili ad alberghi dove i detenuti vivono in condizioni dignitose. L’urgenza della battaglia di Marco Pannella, del Presidente Napolitano, del Papa e di Adriano Sofri, si vive concretamente dentro e fuori la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Una struttura che, da dati risalenti al 2013, ha una capienza regolamentare di 600 unità e ospita 940 detenuti, tra cui il 30 per cento stranieri e il 25 per cento tossicodipendenti. E un caso che conferma l’urgenza di un provvedimento di amnistia e, contemporaneamente, richiede una rivoluzione culturale illuminista, che ripristini davvero la certezza della pena ricordando che un detenuto ha il diritto ad una nuova prospettiva di vita e non alla vendetta delle istituzioni. Allo stato attuale, non ho nessun timore a sostenere che tali strutture andrebbero abolite, poiché rappresentano luoghi di tortura e spesso di morte. Diffondere informazione, raccogliere dati, monitorare gli istituti di pena è necessario per tutelare la dignità umana e anche a Caserta cerchiamo di farlo con la passione che caratterizza le nostre battaglie. Battaglie di diritto, legalità e umanità. Noto (Sr): istituto modello, ma sovrappopolato… 210 detenuti a fronte dei 50 previsti Italpress, 29 giugno 2014 "Con la visita al carcere di Noto ho terminato le ispezioni nei penitenziari della nostra provincia". Così Sofia Amoddio deputato nazionale del Pd, che aggiunge: "Non posso che ritenermi soddisfatta dalla gestione dell’istituto da parte del Direttore, Mortillaro e di tutto il personale penitenziario". "Il carcere di Noto - spiega il parlamentare - accoglie al momento 210 detenuti condannati in via definitiva e, nonostante le carenze croniche del sistema carcerario italiano, può essere definito un istituto modello". "In due sezioni - aggiunge - è partita la sperimentazione delle sezioni aperte, che permette ai detenuti di muoversi liberamente durante il giorno all’interno della sezione". "Dei circa 210 detenuti - prosegue Amoddio - la metà lavora nella struttura. All’interno del carcere è in funzione una falegnameria che fabbrica mobili che vengono utilizzati da altre carceri italiane, inoltre, l’istituto possiede una officina meccanica e un reparto tessitura con 22 telai in legno utilizzati da 12 detenuti che confezionano lenzuola e federe per tutti gli istituti in Italia". "Nonostante le iniziative importanti come quella intraprese dal carcere di Noto - dice Amoddio - la situazione delle carceri italiane è comunque disastrosa, ma si comincia ad intravedersi qualche importante cambiamento legislativo". "Una struttura come questa - aggiunge - è sovrappopolata, dovrebbe ospitare 50 detenuti in meno e avere il 50% di polizia penitenziaria in più". "A questo proposito, sento il dovere di dover ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria che svolgono un ruolo delicatissimo e che prestano servizio con rigore nonostante gli straordinari. Nel mese di settembre - conclude - come già promesso ai direttori delle carceri della provincia, tornerò negli istituti insieme al responsabile delle carceri del Pd, Sandro Favi, per affrontare insieme problematiche e soluzioni". Teramo: una giornata in carcere per toccare con mano ciò che avviene aldilà del muro di Maria Amato (Deputato Pd) Il Centro, 29 giugno 2014 Dietro le sbarre, nel regno della promiscuità. La deputata vastese Maria Amato dopo aver visitato la struttura detentiva di Vasto - sulla cui casa lavoro ha successivamente incentrato un’interrogazione parlamentare - ha scelto il carcere di Castrogno a Teramo. Nel pieno delle sue funzioni di parlamentare, è andata lì dove altri non possono entrare ed ha deciso di raccontarlo al Centro, per testimoniare carenze strutturali e impegno e fatica del personale. È da quando è stata eletta che la Amato ha riposto particolare attenzione al tema della detenzione e, insieme, della riabilitazione. La deputata ha nel passato rilevato come gran parte delle carceri siano ridotte, nella stragrande maggioranza dei casi, a contenitori di situazioni di disagio e talvolta di sofferenza psico-fisica. "È facile accettare e amare chi è uguale a noi ma molto difficile accettare chi è diverso". Ho continuato a pensare a questa frase di Luis Sepulvéda, che fa bella mostra di sé su un murales con la gabbianella e il gatto, su una parete nel Carcere di Teramo. Una immagine tenera che ho continuato a richiamare per ammorbidire la dura intensità della visita all’Istituto. Le immagini sono il mio linguaggio nel lavoro, sono le immagini quelle che mi porto: porte pesanti, corridoi ampi, sbarre, cemento, forme squadrate e lontano un sottofondo indistinto di voci. Il luogo dello Stato nell’ombra, quello che tendiamo a dimenticare come se realmente fosse un contenitore. Il cuore del carcere non è nella immagine che ho descritto, è nelle persone. Incontro, prima del giro all’interno, il Comandante che con un linguaggio semplice e chiaro mi descrive la popolazione del carcere insistendo sulla realtà complessa, una capienza di 252 detenuti che in realtà sono 358 e di recente con punte di 443 unità. Non è, però il sovraffollamento, male comune delle carceri italiane, il problema maggiore ma la disomogeneità della popolazione per reati: alta sicurezza, circondariale ordinaria, protetti e sezione femminile. Una persona paziente, il comandante, che risponde a tutte le domande, anche ovvie, con cui interrompo ogni tanto il suo discorso. Conosce palmo a palmo la "sua" struttura, parla con rassegnazione delle carenze, l’organico di polizia penitenziaria è sotto di 54 unità e l’età media delle guardie è di 45 anni. Non sono numeri vuoti: la carenza del personale di custodia a fronte del sovrannumero dei detenuti ha come effetti problemi di sicurezza, difficoltà di "guardare a vista" i tanti detenuti potenzialmente a rischio di autolesionismo, veri o dimostrativi che siano, difficoltà accresciute dalla frequente necessità di accompagnare i malati, tanti!, per accertamenti o eventuali ricoveri ospedalieri. L’età media elevata va di pari passo con un lavoro duro, stressante, che spesso mette il personale a confronto con devianze e fragilità per cui non è adeguatamente formato. Si formano e acquisiscono competenza con l’esperienza sul campo: il campo è fatto di persone. Cinque piani, un montacarichi Al colloquio introduttivo partecipa il responsabile interno della unità operativa di Medicina Penitenziaria: guardia medica h 24, 12 infermieri, accedono 22 specialisti e 1 tecnico di radiologia, si preparano 600 terapie al giorno, 20% psichiatrici, 25% tossicodipendenti, una sezione femminile col nido, 7-10 disabili, e molto altro. L’elenco non rende la difficoltà: i malati sono fragili sempre anche se colpevoli di reati, i disabili senza un ascensore non si spostano da un piano all’altro. Sì, l’ascensore! Nel carcere che si sviluppa su 5 livelli c’è un solo montacarichi che nella realtà significa che malati, biancheria, cibo, sporco, viaggiano sullo stesso percorso. La struttura è percorso di cura, lo è per i malati, lo è per la salute mentale, lo è per il complesso percorso di recupero per il reo, a volte lungo quasi una vita intera: non ci vuole una grande sensibilità per capire quanto è difficile recuperare una corretta relazione sociale vivendo senza la garanzia del decoro. La mancanza di percorsi differenziati è il più grosso handicap strutturale, viene sottolineato dal Direttore che generosamente mi ha regalato mezza giornata delle sue ferie ed è rientrato per essere guida in questa visita. I percorsi interni dei detenuti delle diverse categorie si incrociano obbligatoriamente sulla via dell’area medica, dell’attività sportiva, dell’orto, dei colloqui e del passeggio, con i rischi che ne possono derivare. L’ho ascoltato con attenzione, cortese, attento senza sussiego, un autocontrollo notevole descrivendo le iniziative finalizzate alla umanizzazione del carcere, richiami alle regole che assumono un tono che si appesantisce quando si toccano i tempi burocratici. Una persona che fa un lavoro ad alto rischio che facilmente può finire sui media per un gesto di autolesionismo: recente il suicidio di una donna con disagio sociale e in attesa di giudizio, non una rarità come caratteristiche, ma evidentemente, tragicamente più fragile degli altri. In attesa di giudizio L’attesa di giudizio, il grande nodo del nostro sistema giudiziario: a Teramo 66 persone sono in attesa di primo giudizio, 33 appellanti, 10 ricorrenti. Chiedo a bruciapelo al Direttore se lui crede nel recupero: senza remore e senza giri di parole mi dice "Non per tutti ma per molti. Devono sentire che lo Stato dentro e fuori il carcere crede al loro recupero". Il recupero è un delicato percorso di relazione ed è la base per la reintegrazione sociale. Ed è il fuori dal carcere l’anello debole del percorso, è difficile la cultura dell’accoglienza e del ridare fiducia, difficile ma indispensabile. Mi accompagnano all’interno il Comandante e il Direttore, cambia il mio grado di attenzione, acuisco il sensorio, l’unico odore forte è nell’area sanitaria, l’odore tipico delle medicherie. È pulito e non c’è lo sgradevole odore dell’alta densità umana che pure in altri posti mi ha colpito. Tre sezioni architettonicamente uguali, tante facce, tante storie diverse, ci sono detenuti famosi nel carcere di Teramo, facce e storie che si mischiano all’ordinario disagio, storie che hanno interessato i media, un femminicidio, una madre marginalmente coinvolta in un infanticidio, storie di singoli risucchiate nel mare magnum del disagio. Vedo le celle, 9 metri quadri, due posti letto a castello, un servizio decoroso con wc e lavabo, un piccolo televisore da muro, panni stesi, pareti con molto colore, altre desolatamente spoglie, molti rosari, molte madonne e qualche foto di famiglia. Le docce da tre, pulite ristrutturate da poco. I detenuti sulla porta delle celle o appoggiati al muro, un gruppetto gioca a carte, il disagio psichiatrico frequentemente riconoscibili nelle espressioni, negli occhi irrequieti o nella fissità dello sguardo, in piccoli gesti delle mani uguali e ripetitivi, molti salutano il direttore e il comandante semplicemente con garbo, qualcuno con maggiore deferenza. Ci fermiamo davanti alla porta dei protetti: da una parte, il braccetto, collaboratori di giustizia ed ex forze armate, e il braccio per i sex offender. Sex offender come se il suono di una lingua diversa potesse ridurre l’effetto del suono stupro, pedofilia, femminicidio. Mi chiedono se voglio entrare, me lo chiedo anch’io. Mi sconvolge non essere capace di guardare a questo disagio con la stessa lente con cui guardo al mondo. Dico di sì ed è stato come uscire da me, non ho saputo cercare gli occhi degli uomini, sprecando forse una occasione unica di incontro umano. Quello che colpisce è il silenzio ed il senso profondo di solitudine. Protetti perché la morale del carcere non perdona questi delitti e c’è il rischio che qualcuno decida di fare sommaria giustizia. Io che disinvoltamente, una vita fa, ho affrontato il ponte di Salle con lo bungee jamping, ho attraversato un corridoio di miseria senza correre alcun rischio e provando una punta di paura viscerale; a metà corridoio mi sono accorta di tenere le braccia strette sul petto. Ecco questa è la traduzione vera non controllabile della resistenza culturale a dare di nuovo fiducia: la mia reazione irrazionale. Lasciandoci alle spalle i tre settori degli uomini ci siamo diretti alla sezione femminile. Ci sono spazi esterni che il direttore sta rendendo più accoglienti per ridurre la brutalità impattante delle mura, alte e sorvegliate, sulle famiglie in visita: col prato cresce la speranza di un sistema carcerario meno brutale, in cui prevalga la valenza riabilitativa con un percorso che possa comprendere le famiglie, i figli, i bambini. I gazebo sono predisposti, due murales grandi sono completati, un ponte di pietra e due cerbiatti, uno dei detenuti ha il grande talento delle forme e dei colori, c’è uno spazio in attesa dei giochi da giardino che speriamo la generosità di associazioni e singoli voglia riempire. Mi meraviglia la modestia del Direttore, quando rispondendo alle mie domande, senza vanto mi dice che quello che vedo è a iso-risorse, che vuol dire tempo, domande e soprattutto l’impegno a chiedere il concorso della generosità della società, risultati che qualche volta arrivano di slancio ed altri per sfinimento. Le donne sono più colorate, molte rom, capelli e gonne lunghe, parlano e sorridono più volentieri. Due bambini, uno di due e l’altro di tre anni in braccio alle madri, un mezzo sorriso: come ci si può sentire paese civile con i bambini nel carcere? Sono più ordinate le donne, ridono anche, una vuole un po’ più di tempo di sole. Porto con me uno sguardo profondo, muto di una giovane donna, lineamenti bellissimi, lunghi capelli neri, un mezzo sorriso a rispondere al mio: è dentro per rapina. Penso come sempre cosa sarei stata senza la fortuna della mia famiglia, senza i miei insegnanti, senza il mio lavoro, senza la mia salute, sarei stata a rischio, come molti di loro. Una donna piccola, sottile con evidenti segni di abuso di stupefacenti, le cicatrici sulla braccia, è l’unica a cui interessa il mio ruolo e di che partito sono. Un mondo a sé il carcere perché noi lo abbiamo voluto così, più facile per non pensare che uno stato moderno, civile deve garantire il rispetto della dignità ovunque. Vorrebbero lavorare o imparare un lavoro. Il bisogno di lavoro rende fragile il mondo nel carcere e fuori, il lavoro un mal comune che non è mezzo gaudio. Alla fine una lucina di soddisfazione negli occhi scappa all’autocontrollo del Direttore: mi fa vedere l’area dedicata al progetto genitorialità, uno spazio che per arredamento e struttura pare una casa, è per le donne con i figli, a basso rischio psichiatrico ed elevato senso materno: la gabianella e il gatto sono qui, le tende da doccia colorate e nei servizi compare il bidet tra i sanitari. Fasciatoi, box, seggiolini nuovi, mobili semplici, chiari per un ambiente accogliente e luminoso. Ripete "tutto a costo zero". È tutto pronto da aprile ma in attesa di autorizzazione. È un uomo dello Stato il Direttore, rispettoso delle regole, non usa il mio tono un po’ stizzito a dire "burocrazia", non perde mai il tono rispettoso. Mi sono impegnata, senza che me lo chiedesse a provare a far velocizzare la procedura autorizzatoria. Fuori un orto con tante fragole, delle viti e un albero da frutta: cresce ed è anche qui, tra le mura un segno di speranza. Si vede la montagna e mi esibisco nella domanda stupida: com’è l’inverno qui? Che volevo che mi rispondessero, è freddo l’inverno, molto! Vado via, un amico mi ha aspettato tutto il tempo e con la sua carica umana e una grande capacità di ascolto mi consente attraverso il racconto di tornare a casa serena, portando con me una esperienza umana forte e le informazioni che un parlamentare deve avere visitando un carcere. Cagliari: due casi di tbc nel carcere di Buoncammino La Nuova Sardegna, 29 giugno 2014 Allarme tubercolosi tra le celle del carcere cagliaritano di Buoncammino. Due casi ravvicinati, il primo a fine maggio e il secondo pochi giorni dopo, hanno fatto scattare la campagna di profilassi tra i detenuti e gli agenti. Ma il pericolo di contagio è tutt’altro che rientrato. All’interno della struttura carceraria gli operatori sanitari della Asl numero 8 stanno lavorando con grande difficoltà a causa della scarsità di tubercolina: i bacilli tubercolari adoperati come antigeni per la diagnosi dell’infezione nell’uomo. Il secondo problema è che l’infezione potrebbe essersi diffusa anche fuori dalle mura del vecchio istituto di pena, perché il primo caso scoperto a fine maggio era in uno stato avanzatissimo. Il detenuto che aveva contratto il virus si trovava in carcere da molto tempo e potrebbe aver contagiato la tbc ad altre persone che nel mentre potrebbero aver lasciato il carcere, perché tornate in libertà o trasferite in altre strutture dell’isola. La malattia può avere infatti un periodo di incubazione anche molto lungo, fino a sei mesi senza nessun disturbo. Solo dopo la scoperta del primo caso all’interno del carcere di Buoncammino sono scattati i controlli della Asl tra i 250 detenuti ed è così che è venuto alla luce anche il secondo caso, fortunatamente molto meno grave del primo. Il problema sarà ora quello di raggiungere con la profilassi tutte le persone, tra detenuti, agenti della polizia penitenziaria, educatori e altri operatori del carcere che siano entrati in contatto negli ultimi mesi con i detenuti colpiti dal virus. La tubercolosi attacca solitamente i polmoni, ma può colpire anche altre parti del corpo. Si trasmette per via aerea attraverso goccioline di saliva emesse con la tosse. La maggior parte delle infezioni che colpiscono gli esseri umani risultano essere asintomatiche, cioè si ha un’infezione latente. Circa una su dieci infezioni latenti alla fine progredisce in malattia attiva, che, se non trattata, uccide più del 50% delle persone infette. I sintomi classici sono una tosse cronica con espettorato striato di sangue, febbre di rado elevata, sudorazione notturna e perdita di peso. L’infezione di altri organi provoca una vasta gamma di sintomi. La diagnosi si basa sull’esame radiologico (comunemente una radiografia del torace), un test cutaneo alla tubercolina, esami del sangue e l’esame microscopico e coltura microbiologica dei fluidi corporei. Il trattamento è difficile e richiede l’assunzione di antibiotici multipli per lungo tempo. Vigevano (Pv): un detenuto denuncia "picchiato in cella", gli atti trasmessi alla procura La Provincia Pavese, 29 giugno 2014 Prima dell’alba Massimiliano Cannata, 31 anni, e il suo compagno di cella svegliano la sezione del carcere in cui sono detenuti. Sono ubriachi, non di alcol ma di un distillato che i detenuti producono in proprio facendo macerare la frutta con lo zucchero. Urlano, picchiano calci contro la porta, svegliano tutti. Alle 8 un agente di polizia penitenziaria apre la loro cella per accompagnarli all’ufficio di sorveglianza ma Cannata, a differenza del compagno, ha una reazione: insulta la guardia penitenziaria, la strattona. Lo ammette lui stesso, più tardi davanti al giudice del Tribunale di Pavia. Ne nasce una colluttazione. Lui rimedia un occhio nero e una distorsione rachide cervicale, l’agente una distorsione al polso (7 giorni di prognosi). Ma la vicenda non finisce qui. Il detenuto viene visitato in tre occasioni dichiarando, ogni volta, di essere caduto dal letto: la prima volta nell’infermeria del carcere, che dà atto dell’occhio nero ma non di altri lividi, la seconda volta in ospedale intorno alle 10 con un referto analogo mentre la terza volta, verso mezzogiorno, viene anche sottoposto a una tac e tenuto in osservazione. Ieri mattina, assistito dall’avvocato d’ufficio Marco Sommariva, è comparso davanti al giudice Luigi Riganti per rispondere di resistenza a pubblico ufficiale. Ma in aula ha fornito una nuova versione dei fatti: ha raccontato di essere stato picchiato, nell’ufficio di sorveglianza, da 5 agenti di custodia. Una dichiarazione che apre nuovi scenari e soprattutto la necessità di approfondire la vicenda. Il giudice ha infatti trasmetto gli atti alla Procura che identificherà gli agenti e dovrà poi formulare un’ipotesi di reato per lesioni o, al contrario, per calunnia. Il pubblico ministero Antonella Santi ha ottenuto la convalida dell’arresto. Il processo invece è stato rinviato al 26 maggio 2015. Livorno: la Gorgona, da isola-penitenziario a laboratorio in difesa degli animali www.gonews.it, 29 giugno 2014 "Restituire persone migliori", è scritto su un cartello che accoglie i visitatori di Gorgona, ultima isola-penitenziario italiana, la più piccola dell’Arcipelago toscano, tra le più verdi: pini, lecci, macchia mediterranea e pure una varietà autoctona di olivo, "Bianca di Gorgona". Un carcere dove si sta soprattutto fuori dalle celle - a uno o due posti, poche a tre, lavorando in vigna o nell’orto, curando gli animali, producendo formaggi e miele, oltre a chi è addetto a manutenzione e cucina. Terra, piante e animali sono considerati i primi educatori per i detenuti - circa 70 attualmente - che, ricorda un’assistente capo della polizia penitenziaria (50 agenti sull’isola), arrivano su richiesta dopo aver scontato più della metà della pena. Hanno la possibilità, oltre a vivere in un contesto di libertà, di imparare un mestiere. Se le statistiche parlano di una recidiva stimata intorno all’80% tra i detenuti che non lavorano, a Gorgona "si attesta sul 20%", spiega Carlo Mazzerbo, tornato a dirigerla: ci ha passato 15 anni, dal 1989 al 2004, ci era già tornato, l’hanno nuovamente richiamato. Tante le iniziative sviluppate dagli anni 90 - come l’impianto di una vigna che ora, con l’accordo firmato dal precedente direttore Giampiccolo, vede coinvolta l’azienda Frescobaldi e produce il bianco Gorgona - che hanno fatto della colonia penale una sorta di laboratorio. L’isola oggi mostra i segni del tempo, i fondi hanno subito una fortissima riduzione ma si cerca di rilanciare progetti, con la collaborazione del mondo di fuori. Sempre con lo scopo di formare e fare assumere i reclusi. Dopo il vino potrebbe accadere ad esempio con attività legate all’accoglienza sull’isola, dove si potrebbero "riportare le scolaresche come in passato", anche se il grande scoglio rimangono i collegamenti con la terraferma. Tre intanto sono stati assunti dalla General appalti che sta sostituendo il vecchio generatore elettrico e ripristinando il fotovoltaico. L’obiettivo, spiega Mazzerbo, è fare di Gorgona "un’isola dei diritti, dello Stato, dei detenuti e anche degli animali", che, al pari degli uomini, aggiunge Marco Verdone, dal 1990 veterinario a Gorgona dove ha introdotto l’omeopatia, "devono avere una vita e una fine degna". Per questo si punta a eliminare la macellazione, ai fini anche del percorso rieducativo. Intanto la grazia l’hanno avuta Valentina, mucca di 13 anni, e Bruna, scrofa salva grazie ai bimbi di una scuola. Scommessa esportabile Gorgona? Mazzerbo osserva che "a parte aprire le celle, come ha imposto l’Europa, si vuole dare un contenuto alle giornate detentive". Ovvero "cambiare la prospettiva" di chi è dentro: non più subire il carcere, ma diventare parte attiva di un progetto, responsabilizzando i detenuti. Tra loro a Gorgona c’è Yang, cinese di Wenzou, che con l’aiuto dell’agronomo di Gorgona Francesco Presti, cura l’orto certificato biologico: spiega che da piccolo accompagnava il padre nelle risaie, ma è la prima volta che "lavora la terra, mi piace". "Il giorno vola, altra cosa stare tra quattro mura, è sempre un carcere ma è un’oasi, aggiunge Santo, italiano, ancora 6 anni da scontare, addetto alla vigna di cui non ha mai assaggiato il vino: gli alcolici sono vietati. Samir, Jorge e Yassine, nati in Bangladesh, Spagna e Marocco, stanno al caseificio e hanno imparato a fare i formaggi. Riccardo e Roberto curano gli animali, Benedetto lavora in cantina, si occupa delle api, realizza sculture: in carcere è da 26 anni, ne deve scontare altri 4: "Qui si riassapora la vita". A Umberto, dentro dal 1996, mancano 18 mesi: lavora in vigna ma non sa cosa farà una volta fuori. Del suo vecchio carcere ricorda le urla e la tv sempre accese. L’isola è "altro" ed è contento quando ci sono visitatori, come in occasione della presentazione della nuova vendemmia del vino ‘Gorgonà: "Il mondo si accorge di noi, aspettiamo queste giornate per far vedere il carcere in modo diverso, che le persone si possono anche riscattare". Livorno: anche Andrea Bocelli per sostenere i detenuti-viticoltori del carcere di Gorgona Ansa, 29 giugno 2014 Anche Andrea Bocelli a sostegno dei detenuti-viticoltori di Gorgona, l’ultima isola-penitenziario italiana. Già produttore di vino a Lajatico, è diventato partner di "Frescobaldi per Gorgona", progetto sociale nato dalla collaborazione tra l’azienda vitivinicola toscana Marchesi de Frescobaldi e la Direzione della colonia penale e che ora ha presentato, direttamente sull’isola, la seconda vendemmia. Bocelli ha scritto un testo e firmato l’etichetta di "Gorgona", questo il nome del vino, un bianco a base di vermentino e ansonica prodotto grazie al vigneto di un ettaro coltivato dai detenuti in collaborazione con agronomi ed enologi della Frescobaldi: 2.500 bottiglie e 200 magnum, tutte numerate, la produzione 2013, destinata ai migliori ristoranti ed enoteche d’Italia, America, Germania e Asia. Bocelli è stato coinvolto da Lamberto Frescobaldi, presidente dell’azienda, in un progetto che "sposa due mie passioni, spiega: la vigna e l’Arcipelago toscano", con Gorgona, "l’isola più sofferta" che "merita progetti visionari e intraprendenti. Come questo". Altri partner Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri che ha dedicato un piatto all’isola e quest’anno mette a disposizione una borsa di studio per un detenuto, Simonetta Doni, dello Studio Doni & Associati, che ha regalato la veste grafica del vino, e Argotractors che ha fornito un trattore da frutteto. Il progetto "Frescobaldi per Gorgona" vuole offrire ai detenuti la possibilità di fare un’esperienza professionale, retribuita, nella viticoltura, e, una volta fuori, "concrete opportunità di formazione e lavoro". "Partito da una stretta di mano", ricorda Frescobaldi, ora si è posto un orizzonte più ampio: azienda e colonia penale hanno firmato un accordo per 15 anni. Primo obiettivo portare a due gli ettari di vigneto (lavori al via a novembre, tra 3-4 anni in produzione) e forse, nell’intenzione di Carlo Mazzerbo, tornato a fare il direttore di Gorgona e al quale si deve l’impianto della vigna nel 1999, puntare a tre, sfruttando i terrazzamenti realizzati dai monaci che vissero sull’isola. "Questo progetto torna a commuovermi e a darmi grandi soddisfazione non solo enologiche - spiega Frescobaldi. Quest’anno sono riuscito a coinvolgere una persona con un grandissimo cuore e sensibilità come Bocelli e spero che questo permetta al progetto di continuare a fare conoscere Gorgona come una best practice italiana". "L’azienda ha capito e valorizzato il lato umano e sociale del produrre sull’isola, trasformando i nostri detenuti in veri attori di un prodotto di eccellenza", sono le parole di Mazzerbo che ha ringraziato anche tutto il personale dell’istituto. Genova: trovata droga nelle celle e due telefonini nel cortile del carcere di Marassi di Alice Martinelli La Repubblica, 29 giugno 2014 Sono entrati alle prime luci dell’alba nel carcere di Marassi per un’operazione di routine, un controllo con i cani anti-droga nelle celle dei detenuti. Il reparto cinofili e antidroga della Polizia Penitenziaria ha trovato 70 grammi di "fumo" e una busta di polvere bianca che adesso sono al vaglio degli esperti e della magistratura. "È un controllo che facciamo solo sporadicamente perché la Liguria non ha un reparto cinofilo proprio e invece ce ne sarebbe bisogno per prevenire e reprimere il fenomeno dello spaccio e della detenzione di sostanze stupefacenti all’interno degli istituti di pena - spiega Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe, il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria - il nucleo che entra in azione infatti è quello di Asti che però deve occuparsi anche dei controlli nella propria Regione, nelle stazioni, negli aeroporti e negli altri penitenziari". Nel pomeriggio la Polizia Penitenziaria ha intercettato anche un altro panetto di droga e due telefoni cellulari senza sim card. "Il collega di turno all’interno della garitta ha visto volare, lanciati dall’esterno, degli indumenti arrotolati", continua Lorenzo. All’interno c’erano due telefoni cellulari privi di sim card e un pacchetto di hashish che sono caduti nel cortile passeggio, dove i detenuti trascorrono l’ora d’aria. "La sim card è piccola, può essere nascosta più facilmente - spiega il sindacato - di sicuro "l’operazione" doveva avvenire in due fasi successive". I detenuti all’interno del carcere hanno la possibilità di comunicare con l’esterno tramite postazioni fisse, ma il destinatario deve essere autorizzato dal direttore del carcere, se il detenuto è definitivo, o dal magistrato in tutti gli altri casi. "Altrimenti sfugge il motivo e il destinatario della telefonata: il carcerato potrebbe per esempio comunicare con persone che hanno un procedimento penale in corso connesso alla persona - conclude - questi episodi sono gravi. È opportuno che gli uffici dirigenziali liguri si dotino di dirigenti più attenti alle problematiche connesse alla sicurezza. La polizia penitenziaria a Marassi è sotto di almeno 100 agenti e anche il nucleo traduzioni, che si occupa cioè del trasferimento e del trasporto di detenuti, è sotto organico. In tutti gli istituti della Liguria abbiamo riscontrato innumerevoli anomalie, tutte riconducibili alla discutibile politica attuata dall’attuale gestione dei manager liguri". Napoli: un detenuto evade dall’ospedale, i Sindacati di Polizia penitenziaria protestano Ansa, 29 giugno 2014 Un detenuto ricoverato e piantonato nell’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli è evaso stamane. Lo rende noto Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Ugl-Polizia Penitenziaria, denunciando le precarie condizioni di lavoro degli agenti e la carenza di organico. L’evaso, detenuto per rapina, si è calato dal terzo piano con delle lenzuola. Ad attenderlo un’autovettura. Nelle ricerche sono impegnati carabinieri e polizia. Ugl: ricoveri troppo facili "C’è superficialità da parte dei medici in servizio nel carcere quando dispongono il ricovero dei detenuti in ospedale". A denunciarlo è Ciro Auricchio, segretario campano dell’Ugl Penitenziaria, commentando l’evasione di un detenuto del carcere di Poggioreale ricoverato nell’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli. Il fuggitivo, originario di Torre Annunziata (Napoli), in carcere per rapina e furto, ha accusato un malore in cella ed è stato portato in ospedale per accertamenti. "Lavoriamo in condizioni estremamente critiche - prosegue il sindacalista - con turni massacranti, senza uomini e mezzi. A Poggioreale - ricorda Auricchio - mancano 200 uomini, 700 ne mancano in tutta la Campania". "Se il Dap non ci darà risposte concrete, - annuncia Auricchio - l’Ugl, insieme ai sindacati di categoria Sinappe, Uil e Cisl Penitenziari, e l’Osapp, organizzeranno manifestazioni di protesta che da Poggioreale si propagheranno in tutte le carceri della Campania. In queste condizioni tutto può accadere". Piacenza: pomeriggio di musica al carcere delle Novate con i Jack Folla Il Piacenza, 29 giugno 2014 Pomeriggio di musica sabato 28 giugno al carcere delle Novate. All’interno della struttura di Piacenza si sono esibiti i Jack Folla, la band piacentina formatasi nel 2012 e che già nel suo nome presenta forti legami con la realtà del carcere. Jack Folla, come molti ricorderanno, è il personaggio (creato da Diego Cugia), che vive ad Alcatraz al quale è stato concesso di mandare in onda la propria trasmissione dal titolo Jack Folla: un DJ nel braccio della morte. Il gruppo ha proposto un mix di generi che passano dall’hip-hop al rap con una base musicale elettronica dalle venature rock, esibendosi in una delle zone passeggio del nuovo padiglione. Molti applausi, richieste di bis e alla fine qualcuno dei cinquanta spettatori si è anche messo a ballare. Un’esperienza bellissima sia per i detenuti che per i musicisti: Davide Magnani (voce), Federico Merli (batteria), Lodovico Pagani (basso),Matteo Zerbi (voce), Riccardo Molinari (chitarra) che si sono avvalsi della collaborazione di Brunello Buonocore, incaricato Asp Città di Piacenza e del Comune di Piacenza, di Giovanni Castagnetti, consigliere comunale e anima di Piacenza Music Pride oltre che educatore del Sert dell’Usl di Piacenza, del cappellano del carcere, don Adamo Afri e soprattutto del direttore della Casa Circondariale, dott.ssa Caterina Zurlo nonché del personale della Polizia Penitenziaria, che hanno ritenuto questa iniziativa un piccolo esempio concreto di quell’umanizzazione della pena di cui tanto si parla. India: ministro Pinotti su caso marò; senza soluzione caso a rischio missioni anti-pirateria Asca, 29 giugno 2014 La mancata soluzione del caso dei fucilieri di marina italiani detenuti in India mette a rischio le missioni anti-pirateria e lo stesso concetto di immunità funzionale dei militari che operano all’estero: lo ha affermato il ministro della Difesa Roberta Pinotti, in visita a Washington dove ha incontrato l’omologo statunitense Chuck Hagel. Come si legge in un comunicato diffuso dal Ministero della Difesa sui due fucilieri italiani Pinotti ha spiegato la linea del governo (internazionalizzazione e arbitrato) trovando la piena condivisione del ministro Hagel, il quale si è impegnato a sollevare la questione con il governo indiano. D’Ambrosio Lettieri: bene Pinotti su arbitrato internazionale "Ci auguriamo che quella del ministro della difesa Usa Hugel non vada inutilmente ad aggiungersi alle promesse fatte sino ad ora da altri esponenti europei, della Nato e dell’Onu e che il governo italiano trovi finalmente autorevolezza e coraggio per agire duramente al fine di riportare a casa Latorre e Girone". Lo afferma in una nota Luigi D’Ambrosio Lettieri, capogruppo di Forza Italia in 12^ Commissione al Senato. "Da tempo sosteniamo che la vicenda vada affidata ad un arbitrato internazionale, considerato che l’incidente è avvenuto in acque internazionali e che i marò svolgevano il proprio dovere a bordo di una nave mercantile in base ad una legge italiana e alle risoluzioni Onu sulla lotta alla pirateria - aggiunge. E, dunque, concordo con il ministro della Difesa, Roberta Pinotti: senza una soluzione giusta e onorevole sul caso dei nostri marò detenuti in India da ormai due anni, le missioni anti-pirateria sono a forte rischio, con tutte le conseguenze che questo comporterebbe sul piano della sicurezza dei mari per le navi mercantili e non solo. Si tratta di una vicenda penosa e vergognosa che presenta una immagine mortificante del nostro Paese nel panorama internazionale. Oltre due anni di indebita prigionia, tre presidenti del Consiglio che si sono avvicendati, con il governo Monti a svettare per incapacità e azioni eticamente e politicamente inaccettabili - come quella di aver rimandato indietro i marò mandando allo sbaraglio due servitori dello Stato - e ancora molte opacità che forse nascondono responsabilità e interessi inquietanti che vanno assolutamente disvelati", conclude D’Ambrosio Lettieri. Israele: terzo giorno protesta migranti, indignati per condizioni di detenzione disumana Ansa, 29 giugno 2014 Prosegue per il terzo giorno consecutivo, a breve distanza dal confine con l’Egitto, la protesta inscenata in Israele da un migliaio di migranti originari di Sudan ed Eritrea che denunciano la "condizioni di detenzione disumane e a tempo indefinito" di cui affermano di essere oggetto nel centro di accoglienza forzata di Holot (Neghev). Ieri i dimostranti (che si sono raccolti in una rada boscaglia a Nitzana, a poche centinaia di metri dal Sinai) hanno ricevuto una visita di funzionari dell’agenzia dell’Onu per i profughi (Unhcr). "Tenteremo di varcare il confine con l’Egitto se le nostre richieste non saranno accolte", affermano i portavoce della protesta in un documento inoltrato alle agenzia di stampa. Venerdì i dimostranti hanno abbandonato il centro di Holot (dove si trovano 2.300 internati degli oltre 50 mila africani immigrati in Israele) e hanno improvvisato una Marcia della Libertà verso il Sinai egiziano, ma sono stati bloccati da reparti dell’esercito. Accampatisi in un’area desertica, hanno ricevuto acqua e viveri da un kibbutz israeliano vicino. "Ma le nostre condizioni fisiche sono molto dure" precisano nel documento inoltrato alla stampa. Ad Israele chiedono che finalmente riconosca loro lo status di profughi e, in primo luogo, che liberi immediatamente quanti di loro sono detenuti nella prigione di Saharonim (Neghev) o ospitati nel Centro di accoglienza di Holot. Secondo Haaretz nei confronti di uno dei dirigenti della protesta, Mutassim Ali, è stato emesso un mandato di arresto. La radio militare aggiunge che in teoria i dimostranti rischiano da questo pomeriggio di essere arrestati in massa e trasferiti nel carcere di Saharonim, dove potrebbero essere detenuti di tre mesi. Ma Israele, secondo la emittente, preferisce ancora cercare una soluzione mediata ed evitare una repressione violenta dalla protesta.