Giustizia: risarcimenti per pena inumana, in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge 92/2014 di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2014 Varata con decreto urgente la disciplina del rimedio "compensativo" richiesto dalla Corte di Strasburgo per la carcerazione in condizioni "disumane". È approdato infatti ieri nella Gazzetta Ufficiale 147 il decreto legge 92/2014 che introduce il rimedio giurisdizionale di carattere risarcitorio del danno sofferto dalle persone detenute e internate in condizioni contrarie alla dignità e all’umanità (articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), richiesto dalla stessa alta Corte con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013. Il ricorso, la cui disciplina è contenuta nel nuovo articolo 35-ter, legge 354/75 (articolo 1, dl 92/2014), distingue tre possibili modalità di risarcimento, correlate essenzialmente alla durata del pregiudizio subito dai soggetti ristretti. Se il danno consiste in una detenzione in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione, protrattasi per un perìodo di tempo non inferiore ai 15 giorni, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio (comma 1, articolo 35-ter). Il comma 2, articolo 35-ter, prevede una seconda fattispecie, integrata qualora il residuo dì pena ancora da espiare non consenta l’integrale detrazione di pena prevista dall’ipotesi precedente. Subentra allora la liquidazione in favore del richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a 8 euro per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Il magistrato di sorveglianza provvede negli stessi termini anche nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione sia stato inferiore a 15 giorni. Il comma 3, articolo 35-ter, regola la terza modalità risarcitoria, che concerne il danno sofferto in relazione a periodi di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ai sensi dell’articolo 657, Cpp, ovvero i soggetti danneggiati che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere. In questi casi, la domanda deve essere proposta, nel termine decadenziale di sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o di custodia cautelare, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio i soggetti hanno la residenza. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti, Cpc, con decreto non reclamabile, liquidando il danno nelle medesime forme sopra indicate. L’articolo 2, di 92/2014, introduce una disciplina transitoria, modellata su quella prevista dall’articolo 6 della legge 89 del 24 marzo 2001 ("legge Pinto"), applicato le con riguardo a coloro che, alla data di entrata in vigore del decreto-legge, abbiano cessato di espiare la pena detentiva o non si trovino più in stato di custodia cautelare in carcere, i quali dovranno proporre l’azione risarcitoria di cui all’articolo 35-ter, comma 3, legge 354/75, entro se i mesi decorrenti dalla stessa data, a pena di decadenza. Entro lo stesso termine, chi abbia già presentato ricorso alla Cedu per violazione dell’articolo 3, potrà formulare la domanda di risarcimento ai sensi dell’articolo 35-ter, qualora non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità del ricorso da parte della Corte europea, la domanda dovrà contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione della data di presentazione del ricorso alla Corte europea. La cancelleria del giudice adito informerà senza ritardo il Ministero degli affari esteri di tutte le domande presentate, nel t er-mine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. Arresti domiciliari, si aspetta il braccialetto elettronico Oltre al risarcimento per detenzione inumana, il decreto legge 92/2014 introduce altre importanti novità, che spaziano dall’ordinamento penitenziario, a quello minorile; dal Codice di procedura penale all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria. Viene introdotto l’obbligo per il giudice di sorveglianza che provvede su richieste di provvedimenti incidenti sulla libertà personale di condannati da tribunali o corti penali internazionali, di darne immediata comunicazione al ministro della Giustizia, che informa il ministro degli Affari esteri e, qualora previsto da accordi internazionali, l’organismo che ha pronunciato la condanna (articolo 3). In ausilio agli uffici di sorveglianza viene prevista la possibilità di impiego degli assistenti volontari, sia pure con compiti meramente ausiliari (articolo 1, comma 2). In materia di disciplina esecutiva degli arresti domiciliari disposti in sostituzione della custodia cautelare, è riformulato l’articolo 97-bis, disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale: il giudice della cautela, in caso di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, può autorizzare il differimento dell’esecuzione dell’ordinanza per il tempo necessario alle forze dell’ordine per acquisire la materiale disponibilità dei dispositivi elettronici di controllo ("braccialetto elettronico"). In tema di ordinamento minorile, è modificato il testo dell’articolo 24 del Dlgs 272/1989, con estensione delle disposizioni in materia di esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nei confronti dei minorenni a chi non ha ancora 25 anni. Il dl 92/14 interviene, inoltre, con una rimodulazione della pianta organica del Corpo di polizia penitenziaria e abbrevia la durata del corso di formazione degli agenti e vice ispettori neoassunti. È anche disposto, per due anni, il divieto di comandi e distacchi del personale del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (articolo 6 e 7). Il quadro delle riforme si chiude con la riformulazione del comma 2-bis dell’articolo 275 del Codice di procedura penale, con riguardo alle condizioni di applicabilità della custodia cautelare in carcere (che non potrà più essere disposta se il giudice ritenga che la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni), per armonizzarne la disciplina la con le disposizioni dettate dall’articolo 656 del Codice di procedura penale, relativamente alle ipotesi di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (articolo 8, dl 92/2014). Giustizia: detenzione scontata del 10% oppure 8 euro al giorno e misure cautelari limitate di Francesco Cerisano Italia Oggi, 28 giugno 2014 Niente custodia cautelare in carcere o arresti domiciliari se il giudice ritiene che l’imputato possa beneficiare della sospensione condizionale della pena. Se il giudice ha sufficienti elementi per prevedere che, all’esito del processo, la pena da eseguire non sarà superiore a tre anni di reclusione, non si potrà applicare la custodia cautelare in carcere, ma saranno ammessi gli arresti domiciliari. Il decreto legge con le misure urgenti in materia di sovraffollamento carcerario, approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 di ieri, spinge decisamente sull’uso di misure cautelari non detentive (quali il divieto di espatrio, l’obbligo di firma, l’obbligo o il divieto di dimora, l’allontanamento dalla casa familiare) per decongestionare i penitenziari italiani. E in materia minorile eleva da 21 a 25 anni la soglia d’età fino alla quale il minore nel frattempo divenuto maggiorenne nel corso dell’esecuzione della pena, potrà continuare a beneficiare del regime carcerario (misure cautelari, misure alternative, sanzioni sostitutive, pene detentive e misure di sicurezza) dei minorenni. Il provvedimento (n. 92 del 26 giugno 2014) prende le mosse dalla sentenza Torreggiani con cui l’8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato al nostro paese un anno di tempo per predisporre una serie di misure idonee a rimediare ai pregiudizi da sovraffollamento carcerario sofferti dai detenuti. La soluzione individuata dal decreto prevede uno sconto di pena a chi ha vissuto una carcerazione disumana. E se non c’è detenzione da espiare, il danno viene monetizzato. Il detenuto che ha subìto condizioni carcerarie contrarie alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo (Cedu), su istanza presentata personalmente o tramite legale, avrà diritto alla riduzione della pena detentiva, ancora da espiare. Il decreto fissa la decurtazione in misura pari al 10% della pena residua ("un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subìto il pregiudizio"). Se, però, le condizioni disumane si sono protratte per un periodo inferiore ai quindici giorni o se il periodo di pena ancora da scontare non è tale da consentire l’applicazione dell’intera riduzione percentuale di cui sopra, si liquiderà a favore dell’interessato la somma di 8 euro per ogni giornata di trattamento carcerario illegittimo. I soggetti che non si trovino più in stato di detenzione alla data di entrata in vigore del decreto potranno proporre azione risarcitoria entro sei mesi dall’entrata in vigore. E anche chi ha già presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo potrà presentare domanda di risarcimento a condizione che i giudici di Strasburgo non si siano ancora pronunciati sulla ricevibilità del ricorso. Giustizia: la tregua europea non ha risolto i problemi delle carceri di Dimitri Buffa www.italia24news.it, 28 giugno 2014 Solo il ministro Andrea Orlando poteva illudersi che "avere messo una pezza con l’Europa" sulle carceri, come ha lui stesso candidamente ammesso con le agenzie di stampa il 6 giugno, dopo lo scampato pericolo di una condanna esemplare da parte della Cedu, e avere ottenuto l’ennesimo rinvio a giugno 2015 per rimettere a posto le cose della giustizia penale e del sistema penitenziario, potesse placare gli animi delle vittime di questo sistema. E degli addetti ai lavori. Invece i giornali più sensibili a queste tematiche, "il Manifesto" e "il Garantista", oggi hanno ripreso l’opera di bombardamento mediatico che verte soprattutto su due temi: la condizione delle carceri che non è affatto mutata solo perché con un po’ di artifizi (che comprendono anche i trasferimenti di massa in Sardegna) si sono raggiunti i fatidici tre metri quadrati a individuo per cella e il mini risarcimento da 8 euro al giorno per chi ha subito la carcerazione in modalità di sovraffollamento. Un lungo articolo di Lirio Abbate pubblicato oggi su "L’espresso" ricorda anche la genesi del piano carceri voluto da Angelino Alfano nel 2008: doveva creare, in due anni, 9.150 posti per una spesa di quasi 700 milioni di euro. Naturalmente tutti questi posti non sono arrivati e di milioni di euro ne sono stati spesi tanti, in gran parte per pagare consulenze e collaborazioni che sono andate anche ad amici di politici". Abbate racconta anche che il prefetto oggi indagato, Angelo Sinesio, "proviene dai servizi segreti (Sisde), come pure dall’intelligence arriva il suo collaboratore, l’architetto Mauro Draghi, che è marito della commercialista Fiordalisa Bozzetti, la quale gestisce tutte le somme del piano carceri". Insomma il problema del sovraffollamento è ancora all’anno zero, risarcire i detenuti con 8 euro al giorno o con un giorno di sconto di pena ogni dieci viene considerata una misura tampone e il piano carceri non sembra potere funzionare. Se il governo Renzi e il ministro Orlando credono di avere chiuso la partita lo scorso 5 giugno e che adesso nessuno parlerà più di queste cose si sbagliano di grosso. Giustizia: l’odissea del bambino di 6 anni nella cella di Sollicciano che nessuno sa aprire di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 28 giugno 2014 Il piccolo Giacomo, sei anni e mezzo, doveva uscire dalla cella dove vive con la madre tre anni e mezzo fa. Il tribunale dei minori per due volte ha disposto l’allontanamento del bambino dalla madre ma per due volte i familiari hanno presentato ricorso contro il provvedimento. L’ultima volta è stato solo qualche mese fa. Tanti i messaggi arrivati in questi giorni da ogni parte d’Italia. Qualcuno ha chiesto anche l’affido di Giacomo. Ricorsi e lentezze: le tappe di una storia troppo lunga. E da due anni una pratica è ferma anche alla Consulta. Come può accadere che un bambino di quasi sette anni abbia vissuto quasi sei anni in un carcere? Perché fino ad oggi nessuno è riuscito a tirarlo fuori da una cella dove non dovrebbe stare? La storia di Giacomo che abbiamo raccontato nei giorni scorsi, oltre ad essere la storia di una madre che non vuole separarsi dal figlio, è la storia di un percorso ad ostacoli, fatto di intrecci di leggi, regolamenti penitenziari, procedimenti aperti davanti al tribunale dei minori, ricorsi che paralizzano tutto. Quando la madre di Giacomo viene arrestata a Bari, nel 2009, per traffico internazionale di minori e sfruttamento della prostituzione minorile, il figlio più grande viene affidato dal tribunale per i minori di Lecce a una zia paterna che vive in Spagna, mentre il più piccolo, Giacomo, di appena un anno, segue la madre. Nel 2010 madre e figlio vengono trasferiti a Firenze e quando Giacomo compie tre anni il giudice del tribunale dei minori tenta il ricongiungimento familiare, provando con una rogatoria internazionale a rintracciare la zia alla quale era stato affidato il fratello di Giacomo. Quella strada non porta a niente ma intanto è quasi passato un anno. A quel punto il tribunale dispone l’affidamento del bambino ai servizi sociali ma la famiglia della madre presenta un ricorso contro quel provvedimento. L’ultima volta che il tribunale dei minori si è pronunciato sulla vicenda è stato qualche mese fa, dopo che il bambino ha compiuto sei anni. Il giudice stabilisce che il bambino sia affidato a una comunità in attesa di arrivare a un affido extra-familiare. Ma anche quel provvedimento viene sospeso dopo un ricorso presentato dai familiari. Il piccolo Giacomo, grazie al lavoro quotidiano dei volontari e della responsabile di Telefono Azzurro, a 3 anni inizia a frequentare l’asilo, nonostante l’opposizione della madre che teme di perdere il bambino. È la madre stessa ad accompagnare Giacomo al suo primo giorno di scuola grazie a un permesso del magistrato di sorveglianza. Nel 2011 per la mamma di Giacomo arriva la condanna definitiva a sette anni per reati gravissimi come riduzione in schiavitù di minori e sfruttamento della prostituzione. A questi sette anni si aggiungono altri due anni e sei mesi per un cumulo di vecchie pene. Gli anni da scontare diventano 9 anni e sei mesi: pena e reati troppo pesanti per accedere a misure alternative o sconti di pena. Alla fine del 2012, quando Giacomo ha già 4 anni, era stata trovata anche una struttura che potesse accogliere madre e figlio ma il tribunale di sorveglianza nel dicembre 2012, quando la madre di Giacomo propone istanza domiciliare speciale, (per le madri di bambini che hanno meno di dieci anni) nel respingere la richiesta, trasmette gli atti alla Corte Costituzionale sollevando la questione di legittimità costituzionale nell’interesse del bambino. In pratica il tribunale presieduto da Antonietta Fiorillo sostiene che la norma che vieta di accedere alla detenzione domiciliare, in questa situazione, "pone degli ostacoli, non all’accesso di un detenuto a un beneficio penitenziario ma all’esercizio di un diritto del tutto diverso, quello del minore a vivere e a crescere mantenendo un rapporto con la madre, dalla quale ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione". La norma in materia, continuano i giudici, non sembra tutelare "il superiore interesse del minore", piuttosto sembra "cedere il passo innanzi alla pretesa punitiva dello Stato e ai rigori che il legislatore ha inteso prevedere per l’accesso ai benefici penitenziari per i responsabili di gravi delitti". "Non appare ragionevole - scrivono i giudici - addossare sulle fragili spalle del minore le conseguenze delle gravi responsabilità della madre, tantomeno quella della sua scelta di non collaborare, visto che si trasferirebbero sul bambino gli esiti negativi di una scelta rispetto al quale il piccolo è del tutto estraneo". La Corte Costituzionale, a distanza di un anno e mezzo, non si è ancora pronunciata sulla questione. Nel frattempo Giacomo ha compiuto sei anni a Sollicciano. Giustizia: "mai più bambini in carcere…", quella svolta rimasta tra le promesse di Tommaso Ciuffoletti Corriere Fiorentino, 28 giugno 2014 Domenica 13 ottobre 2013, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, è ospite di Lucia Annunziata nel programma In mezz’ora su Raitre. Da candidato alle primarie che allora si svolgevano per eleggere il segretario nazionale del Pd, rivendica il suo spirito pratico di "uomo del fare" con grinta. E su carceri e giustizia dice: "Noi siamo stati i primi in Italia ad aver fatto l’Icam (l’Istituto di custodia attenuata per le madri) per dire che le mamme detenute non stiano in carcere ma in una struttura ad hoc". Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, commentò che Firenze non poteva essere la prima città in Italia ad aver istituito l’Icam per la semplice ragione che a Firenze l’Icam non c’era. E non c’è nemmeno oggi. È questa la paradossale ragione che a Sollicciano costringe in carcere da 5 anni un bambino che di anni ne ha poco più di 6, come ha raccontato Antonella Mollica sul Corriere Fiorentino di due giorni fa. In Italia un bambino può rimanere in carcere con la madre detenuta fino ai 3 anni. Una legge del 2011 ha innalzato l’età massima per i bambini detenuti, ché tali sono anche loro, fino a 10 anni, a patto che vengano alloggiati in uno dei già rammentati istituti di custodia attenuata (non esattamente il paese dei balocchi). Che però, nella gran parte dei casi, non ci sono. È la solita grande ipocrisia italiana. Una legge dello Stato prescrive una condotta che lo Stato stesso non è in grado di rispettare. Il carcere è lo specchio più evidente di questa ipocrisia. La stessa con la quale, come Repubblica italiana, aderiamo a trattati internazionali contro la tortura, ma poi nelle nostre carceri non siamo in grado di far rispettare standard minimi di umanità e rispetto della dignità umana. Tecnicamente dunque il nostro è uno Stato criminale. Criminale non meno di coloro che alloggia nelle proprie sovraffollate carceri. E sarebbe divertente spiegarlo agli sventolatori di manette, ai tanti intellettuali del "bisognerebbe sbatterli in galera e buttare via la chiave", agli alfieri della società civile che in sprezzo ad ogni logica riescono ad evocare nella stessa frase parole come "etica", "morale", "calci in culo" e "impiccagione". Ma sarebbe interessante che l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi riprendesse in mano la pratica. Tanto più che ora è premier. Non è tempo di annunci infondati, però. Né di giravolte verbali. Le condizioni in cui versano le nostre carceri sono una emergenza vera, per la quale non possono contare solo i sondaggi di gradimento di un’opinione pubblica imbarbarita. Ma riguardano la civiltà di un Paese. E di un popolo. Giustizia: "qui c’è uno zainetto per lui"… offerte d’aiuto e polemiche in Rete Edoardo Lusena Corriere Fiorentino, 28 giugno 2014 La psicologa: "Non ce la fa più a stare lì dentro, i diritti dell’infanzia vanno difesi". I lettori: "Liberate la mamma. Non ha mica ucciso". "No, si fa scudo del bambino". A Brescia c’è uno zaino che aspetta Giacomo, pronto per il suo primo giorno di scuola. È un pezzetto della piccola valanga di solidarietà, proteste, commenti e domande che si è innescata dopo la pubblicazione, sul Corriere Fiorentino di mercoledì scorso, dell’articolo di Antonella Mollica sulla storia del bambino cresciuto tra le mura del carcere fiorentino di Sollicciano. Ci sono le telefonate arrivate in redazione, le email, i messaggi e i tanti commenti piovuti sul sito corriere-fiorentino.it. Tra toni e intenti diversi una cosa è certa: la storia che abbiamo deciso di raccontare ha lasciato il segno e, forse, ha mosso qualcosa. Ieri sera, ad esempio, Radio Radicale ha deciso di dedicare una puntata della trasmissione Radio carcere, condotta da Riccardo Arena, proprio alla storia di Giacomo. "Se posso fare qualcosa...". "Mi chiamo Immacolata, chiamo da Campi Bisenzio, volevo chiedere cosa posso fare per aiutare Giacomo. Ho letto la sua storia e sono rimasta sconvolta". Immacolata ha chiamato la redazione del Corriere Fiorentino per offrire il suo aiuto: "Vivo da sola con il mio cane, ho un lavoro, qualcosa posso sicuramente fare per quel bambino, anche solo accompagnarlo fuori da quella cella dove vive o addirittura prenderlo in affido. Ditemi voi come posso essere utile. Vi lascio il mio numero di telefono, fatemi sapere qualcosa". "Scusi, vorrei tanto andare in carcere ad aiutare i bambini come Giacomo, mi spiega come posso fare?". Sandra ha 26 anni ha lasciato la facoltà di Scienze della formazione per andare a lavorare e dopo aver letto la storia di Giacomo vorrebbe andare come volontaria nel carcere di Sollicciano. "Mi piacciono tanto i bambini, non è giusto che un bambino di sette anni possa vivere così, penso a mio nipote che ha la stessa età di Giacomo e mi viene da piangere". Un anziano telefona al Corriere: "Volevo solo dire che questa storia in un Paese civile non può accadere. È forse più grave del fatto che un bambino di dieci anni possa finire in galera perché ha commesso un reato". Le chiamate da "dentro". Tante anche le telefonate arrivate proprio dal carcere di Sollicciano. Un ispettore spiega che "quel bambino è intelligente, fate assolutamente qualcosa per tirarlo fuori da lì". La psicologa "Conosco quella storia e conosco Giacomo perché ho lavorato a Sollicciano. Dico solo che non ce la fa più a stare in carcere, difendiamo concretamente i diritti dell’infanzia". Lo zaino. Dopo l’articolo una mail arriva in redazione. "Sono la mamma di una bambina che a settembre andrà a scuola - scrive Marina da Brescia - proprio come il bambino "Giacomo" che vive nel carcere di Sollicciano. in questi giorni con mia figlia stiamo scegliendo la cartella per la nuova scuola, ed ecco... mi chiedevo se posso regalare anche a "Giacomo" uno zaino ed un astuccio nuovi per andare a scuola a settembre. È l’unica cosa che posso fare, mi piacerebbe sapere se è possibile, naturalmente in modo anonimo e senza alcuna informazione sul bambino". La piazza virtuale. È nei commenti comparsi sul nostro sito, però, che la storia di Giacomo commuove, divide e indigna. "Leggere questo articolo mi ha fatto venire le lacrime agli occhi - scrive "Marco-Bru" - ma come si può tenere un ragazzino di 6 anni così a lungo in una prigione? È vergognoso, inumano, cattivo e stupido.... che Paese da terzo mondo che siamo diventati!". "Come sempre - gli fa eco un altro lettore - in un Paese indietro di cento anni rispetto ad altri (per ignavia, incapacità o semplice corruzione) un bambino soffre inutilmente e corre il rischio di "incallirsi" come un ergastolano adulto. È semplicemente una vergogna...". C’è chi invoca la clemenza per la madre ("Fatela uscire, almeno guadagna qualche soldo. Non ha mica ammazzato!) e a stretto giro chi, come "Carmine", ribatte: "Dispiace per lui, ma la madre deve espiare la pena senza farsi scudo del figlio" e chi aggiunge: "Se la madre fosse davvero attaccata al bambino avrebbe fatto di tutto per mandarlo in affido". Accuse e tesi contrastanti, quelle che emergono dal dibattito web, su ogni aspetto della storia di Giacomo. Incluso il ritardo nella costruzione dell’Icam, il centro per madri detenute dove la reclusione avrebbe minore impatto sul bimbo. "Buttiamo soldi pubblici nel nulla e non siamo capaci di creare strutture adatte" scrive un lettore, mentre un altro propone: "Casa famiglia, affidamento, spostare la madre dove c’è un Icam non si può?". Tra i lettori, infine, anche un’educatrice in un centro di minori: "È vero che è importante la relazione madre-figlio, soprattutto nella fase 0-3 anni però se la madre deve stare in carcere non è giusto che ci debba stare anche il bambino (...) ha diritto a una famiglia affidataria e quando la madre esce tornare con lei se ha le adeguate competenze parentali. Basta con questa ipocrisia che chi partorisce un figlio è automaticamente capace di averne cura". Giustizia: bimbo di 6 anni "detenuto" a Sollicciano, il caso arriva in Parlamento Adnkronos, 28 giugno 2014 Interrogazione dei deputati toscani Gelli (Pd) e Nicchi (Sel). Un’interrogazione parlamentare congiunta al ministro della Giustizia per sapere "quali iniziative intenda intraprendere per risolvere il caso del bambino recluso nel carcere fiorentino di Sollicciano e consentire al piccolo di 6 anni di trascorrere una vita normale lontano dalla prigione". A presentarla i deputati toscani Federico Gelli (Pd) e Marisa Nicchi (Sel) all’indomani della questione emersa sul dorso toscano del Corriere della Sera lo scorso mercoledì. "È incomprensibile - hanno detto i deputati toscani Gelli e Nicchi - come un bambino di appena 6 anni possa aver trascorso tutta la sua vita in carcere. La burocrazia nel nostro Paese è per l’ennesima volta un ostacolo a quello che è un comune senso di civiltà ed umanità. Siamo di fronte ad una legislazione che non è in grado di garantire la dignità di una vita innocente". "Sono anni che si discute dell’apertura della casa delle detenuti madri a Firenze, il cosiddetto Icam - hanno aggiunto i due parlamentari. Peccato che i lavori annunciati non sono mai partiti e la struttura si stia deteriorando giorno dopo giorno, mentre continua il rimpallo delle responsabilità istituzionali sulla pelle del bambino che continua a vivere a Sollicciano. Non certo un’eccezione, visto che in Italia sono circa 40 i bambini detenuti sotto i 3 anni". "Serve pertanto agire immediatamente - hanno aggiunto i due deputati - E per questo facciamo appello al Ministero della Giustizia affinché i finanziamenti già a disposizione per l’Icam possano essere utilizzati per ultimare i lavori". "Questa storia - hanno concluso Gelli e Nicchi - è un’altra prova evidente di come sia assolutamente necessario procedere speditamente per una nuova riforma della giustizia che metta la parola fine a situazioni paradossali a cui siamo costretti ad assistere quotidianamente". Saccardi: in autunno la prima pietra dell’Istituto di custodia per detenute madri Sarà posta a settembre o a ottobre la prima pietra dell’Istituto di custodia attenuata per detenute madri (Icam) a Firenze. È quanto annunciato oggi dal vicepresidente della Regione Toscana, con delega al sociale, Stefania Saccardi, parlando con i giornalisti che gli chiedevano un commento sulla vicenda del bimbo di sei anni costretto a vivere in carcere perché la madre è detenuta. "Da tempo lavoriamo alla realizzazione dell’Icam in Toscana - ha spiegato - abbiamo iniziato subito a lavorare con il neo sindaco di Firenze perché episodi come questo non si ripetano". Secondo Saccardi "siamo a buon punto, stiamo facendo le procedure di appalto e contiamo a settembre-ottobre di poter mettere la prima pietra dell’Istituto. Questa è una struttura che in tante parti del nostro paese non c’è e finché non verranno realizzati realtà specifiche per le mamme detenute con figli non sarà risolto". Il vicepresidente ha ricordato che "ci sono stati un pò di problemi di carattere burocratico ma la Regione ci ha messo 400 mila euro per adeguare la struttura che è di proprietà della Madonnina del Grappa. Le procedure le ha fatte la Società della salute e le ha seguite anche il Comune e quindi mi auguro che a Firenze molto presto queste cose non si ripetano". Giustizia: Bernardini (Radicali); servono case-famiglia, ma non convengono a chi specula di David Allegranti Corriere Fiorentino, 28 giugno 2014 Rita Bernardini, segretaria del Partito Radicale, da sempre segue il caso delle carceri italiane ed è in prima linea per la tutela dei diritti dei detenuti. Con il Corriere Fiorentino parla del caso del bambino che sta crescendo in prigione e degli Icam, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri. Segretaria Bernardini, è a conoscenza di casi simili, in Italia o in Europa? "No, e il motivo è semplice: noi radicali essendo stati esclusi dal Parlamento non possiamo più entrare "a sorpresa" negli istituti penitenziari come abbiamo fatto costantemente nella passata legislatura. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non fornisce dati recenti e dettagliati. L’ultima rilevazione risale al 31 dicembre del 2013: a quella data in carcere c’erano 40 bambini incarcerati con le loro madri, ma senza nessuna specificazione sull’età dei piccoli reclusi". Come si può risolvere la vicenda? "Occorre innanzitutto uscire dalla mentalità che il carcere sia l’unica pena da poter comminare e fare ricorso a pene alternative che possano abbattere i tassi di recidiva. Le madri detenute con i loro figli sono nella maggior parte dei casi povere e con gravissimo disagio sociale: rom, tossicodipendenti o rientranti nel giro della prostituzione. Sono i servizi sociali sul territorio ad essere disastrosi e, in molte zone del Paese, incapaci di offrire risposte che valgano per il futuro". Le pene alternative per le donne madri sono inefficaci? "Dipende dalla pena. Faccio un esempio. Se dai a una giovane detenuta di etnia rom la detenzione domiciliare presso uno dei campi/lager che sono stati creati nelle periferie degradate delle città, certo che la pena è inefficace. Se, invece, le consenti di andare in una casa-famiglia dotata di personale qualificato e motivato, per quelle giovani vite si aprono nuove prospettive di integrazione". Una legge del 2011 ha aumentato l’età dei bambini che possono stare con le madri, a patto però che stiano in un istituto a custodia attenuata. Firenze però lo aspetta da anni. In Italia ne esistono solo due. Il governo italiano che cosa dovrebbe fare? Che giudizio dà sulla legge? Siamo di fronte a un caso fuorilegge? "L’essere fuorilegge delle istituzioni ad ogni livello, in Italia, è la normalità. Soprattutto se parliamo di Diritti Umani fondamentali. Le condanne che riceviamo dall’Europa per "trattamenti inumani e degradanti" lo provano costantemente. La legge del 2011 era sbagliata e noi radicali in Parlamento abbiamo cercato di correggerla in tutti i modi con i nostri emendamenti. Ma in televisione chi ci andava a farsi bello? Proprio i propugnatori di quella normativa fallimentare! Se lo ricorda il ministro Alfano quando con la sua faccia da Alfano proclama su tutte le reti "mai più bambini in carcere?". Non trova paradossale questa situazione? Si creano leggi per avere un effetto deflattivo del numero di bambini presenti nelle carceri, e a protezione delle detenute madri, ma questo poi non avviene. "Certo che lo trovo fallimentare, come lo è qualsiasi questione che non rispetti la legalità perché, a farne le spese, sono sempre i più emarginati, mica quelli che possono permettersi buoni collegi di difesa! E, parlando di bambini, vorrei che si affrontasse anche il problema delle decine di migliaia di bambini che vanno a trovare i genitori in carcere. La maggior parte di loro lo fanno in condizioni di umiliazione e di degrado, assieme ai loro parenti. Provi ad andare a Poggioreale e ad assistere ad una fila triste e infinita, terminata la quale è prevista per i piccoli l’ispezione del pannolino". Ma gli Icam sono davvero la soluzione adatta? "Considerato l’esiguo numero di madri detenute con i loro bambini sarebbe molto meglio prevedere le case-famiglia. Ma forse il problema è che costano troppo poco… per specularci sopra". Giustizia: il pm Diego Marmo "su Enzo Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia" dii Francesco Lo Dico Il Garantista, 28 giugno 2014 "Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede". Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta. Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un "episodio" della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza? A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa. Eppure lo ha fatto. Ha definito come "episodio" il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: "Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora". In trent’anni non ho mai pensato o detto "chissenefrega del caso Tortora". Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica. Verrà pagato per questo incarico? Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza. A che cosa si riferisce? Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto. Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato? È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio. Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto? Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi. È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri. Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale. Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la "nazionale dei pentiti". Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore? Mi vuole fare il processo? No, voglio delle risposte. A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io. Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: "Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora". Si sente il capro espiatorio? Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai. Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato? Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i "Diego Marmo". Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo. È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un "cinico mercante di morte", un "uomo della notte" ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta. La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga. Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra? Non l’ho detto. Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti. Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero. Che cosa? Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente. Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora? Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito. Che cosa intende esattamente? Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità. Perché chiese la condanna? Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai. Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito? Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere. Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un "episodio" della sua carriera. Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli "episodi" sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio. Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa? Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. "Si, potrei anche provare a incontrarli", ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito. E forse ha paura di chiedere perdono. Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede. Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo. Livorno: si riaprono le indagini sulla morte di Marcello Lonzi nel carcere delle Sughere di Maria Nudi La Nazione, 28 giugno 2014 Il gip Beatrice Dani ha respinto la richiesta di archiviazione. Colpo di scena in una delle indagini più delicate degli ultimi anni, un’indagine caratterizzata dalle opposizioni della parte offesa rispetto alla richieste di archiviazione. L’indagine riguarda la morte alle Sughere del giovane detenuto Marcello Lonzi. Dopo ben 11 anni dal decesso del giovane livornese avvenuto l’11 luglio del 2003, il giudice delle indagini preliminari Beatrice Dani ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e con un provvedimento di cinque pagine, depositato in cancelleria, ha disposto che vengano svolti nuovi accertamenti. Il giudice ha chiesto al pmi Antonio Di Bugno, titolare delle ultime indagini, di procedere a nuovi accertamenti. Accertamenti che diano una risposta ai quesiti e all’ipotesi dell’avvocato Erminia Donnarumma che assiste Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, e del professor Alberto Bellocco, consulente della madre. Le nuove indagini dovranno essere svolte nell’arco di sei mesi danno una speranza alla madre di Marcello Lonzi da sempre convinta che il figlio Marcello non sia morto per cause naturali o che sia stato lasciato morire per soccorsi ritenuti non idonei. Marcello Lonzi era detenuto nel carcere delle Sughere quando quel giorno di luglio accadde qualcosa che ne provocò il decesso: era l’11 luglio del 2003, l’orario della morte, contestato dal legale e dal medico legale, è sempre stato fissato alle 19.50. All’esito delle precedenti indagini terminate con l’archiviazione era stato stabilito che la morte di Marcello Lonzi era stata una morte per cause naturali. Il consulente concludeva che la morte del detenuto era dovuta "a causa naturale e cioè sindrome della morte improvvisa conseguente, con maggior probabilità, ad aritmia maligna in soggetto portatore di ipertrofia ventricolare sinistra e discoronaroscelrosi con severa stenosi del ramo discendente ella coronaria sinistra". Un’ipotesi alla quale le indagini difensive hanno opposto una diversa ricostruzione fissando la data del decesso alle 17.10. Per il professor Bellocco Marcello Lonzi sarebbe deceduto per "morte asfittica da sommersione interna da vomito alimentare ovvero alle conseguenze di un politraumatismo al quale ha fatto seguito vomito alimentare e un conseguente di stress cardiocircolatorio". Le nuove indagini dovranno approfondire quattro aspetti: solo dopo il giallo del decesso di Marcello Lonzi troverà una risposta. Livorno: detenuto suicida nel 2007, il ministero è stato condannato a risarcire i familiari Il Tirreno, 28 giugno 2014 Ilia Dautillari aveva solo 22 anni quando si uccise nel carcere delle Sughere, a Livorno. Era depresso e doveva stare in una cella cosiddetta "liscia". Ma gli lasciarono i vestiti a portata di mano e lui si impiccò. Era il 13 settembre del 2007 e la vittima, sconvolta dalla notizia di una sentenza che lo condannava a un anno e dieci mesi di reclusione, mise in pratica l’intenzione di togliersi la vita. Dopo incontri con uno specialista psichiatrico era stato trasferito in una cella "liscia". In teoria tra quelle pareti nude, senza arredi, il giovane avrebbe dovuto essere al sicuro. Invece si tolse la vita impiccandosi alla grata della finestra della cella con una manica della sua felpa. L’agente di custodia che lo aveva accompagnato aveva lasciato gli indumenti a portata di mano del detenuto invece di riporli nell’apposito scomparto. Una "distrazione", quella dell’agente penitenziario, che, secondo la famiglia del giovane, ha in qualche modo facilitato il piano della vittima. Del resto le indicazioni del medico erano state precise: nella cella "liscia" sarebbe dovuto essere nudo. Per questa morte in carcere l’agente della polizia penitenziaria è finito sotto processo e successivamente la famiglia della vittima, i tre fratelli e la madre che risiedono nel comune di Cascina, ha chiesto i danni citando in giudizio con una causa civile il Ministero della Giustizia. Il giudice del tribunale di Firenze, Niccolò Calvani, ha accolto la domanda dei familiari condannando il Ministero a pagare a titolo di risarcimento del danno patrimoniale 75mila euro alla madre del giovane e 45mila euro a ciascuno dei tre fratelli, assistiti in questa battaglia giudiziaria dagli avvocati Luca Poldaretti e Alessio Righini di Cascina. Parma: due agenti penitenziari condannati a 1 anno e 2 mesi per pestaggio di un detenuto www.parmatoday.it, 28 giugno 2014 Sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi per lesioni personali e violenza privata i due agenti di Polizia Penitenziaria accusati di aver picchiato all’interno del carcere Aldo Cagna, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio della studentessa Silvia Mantovani. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 15 ottobre scorso: gli agenti sono stati riconosciuti colpevoli dei due reati. Per il terzo reato di cui erano accusati, ovvero maltrattamenti, invece i giudici avevano ritenuto che non ci fossero prove sufficienti. Il pestaggio di Aldo Cagna è avvenuto in carcere nel febbraio del 2007: secondo la relazione del medico del carcere il detenuto riportava sia un arrossamento del torace che un arrossamento ad un occhio. Napoli: "La porta eterna", bambini con i genitori detenuti, favole per superare il trauma di Alessandra del Giudice Redattore Sociale, 28 giugno 2014 Lo spettacolo "La porta eterna", frutto di un laboratorio realizzato dal centro territoriale Mammut nelle scuole e nel carcere a Scampia racconta come i figli dei ristretti siano le prime vittime di una società ghettizzante. I bambini con genitori sotto restrizione carceraria sono al centro dello spettacolo "La porta eterna", frutto di un laboratorio realizzato dal centro territoriale Mammut nelle scuole e nel carcere. Giovanni Zoppoli, educatore del Mammut, racconta come i bambini figli di detenuti e rom siano le prime vittime di una società ghettizzante e come il lavoro sugli archetipi del "Mito del Mammut" possa essere il punto di partenza per il superamento di traumi psicologici. Come nasce lo spettacolo "La porta eterna"? Il centro territoriale Mammut, nell’ambito della VII edizione del gioco/ricerca azione "Mito del Mammut", ha tenuto per sei mesi un laboratorio pedagogico, teatrale e video nelle scuole e nel carcere, sulla problematica dei bambini con genitori sotto restrizione carceraria, tema quanto mai presente e pressante nelle famiglie dell’area nord di Napoli. L’esperienza laboratoriale realizzata tra alcuni alunni della scuola media Virgilio IV di Scampia si è incrociata con il laboratorio teatrale realizzato da Maurizio Braucci, Pino Carbone e Linda Martinelli con alcuni detenuti del carcere di Alta Sicurezza di Secondigliano dando vita allo spettacolo teatrale conclusivo "La porta eterna", messo in scena dal Mammut oggi nel Carcere di Alta Sicurezza di Secondigliano di Napoli. Perché lavorare con i bambini sul tema del carcere? Le sette classi delle scuole di Secondigliano e Scampia coinvolte dal "Mito del Mammut" hanno scelto di lavorare sull’archetipo della porta come limite tra interno ed esterno e allo stesso tempo possibilità di scambio. Ogni classe ha però declinato il tema secondo le urgenze che sentiva più forti: la scuola Ilaria Alpi, frequentata da tantissimi bambini rom ha scelto di lavorare sull’incontro con il diverso, mentre la V classe della scuola Virgilio IV ha scelto la "porta del carcere" perché una buona parte dei bambini di quella classe hanno un genitore che è detenuto. Abbiamo affrontato il carcere su due fronti: come "servizio" pubblico affrontandone le inefficienze e come archetipo. I racconti mettono in evidenza anche l’inefficienza del sistema carcerario? Gli elementi più ricorrenti che provocano sofferenza nei bambini sono stati: i colloqui troppo brevi, le lunghe file fuori dal carcere aspettando il proprio turno, le modalità con cui sono trattati i parenti dei carcerati, la diseguaglianza nel trattamento dei detenuti. I bambini riferiscono di papà con la tv al plasma in stanza e di papà in stanze sovraffollate. C’è chi dice che non vuole più vedere il genitore perché ha sbagliato e chi dice che il papà è "in collegio" perché si vergogna. Anche se la maggior parte dei bambini che abbiamo incontrato hanno genitori che stanno scontando pene brevi, per tutti l’esperienza dei genitori detenuti è traumatica e vissuta con vergogna e nel silenzio. Cosa ha significato per i bambini lavorare su un archetipo? Utilizzare il linguaggio degli archetipi aiuta i bambini ad esprimere ciò che loro stessi faticano a comprendere. Siamo partiti dal lavoro sulle favole legate all’archetipo della "porta", come "Ali Babà e i 40 ladroni" e "Orfeo e Euriudice", ma la storia che si è rivelata più forte e incisiva è stata quella del mito della "caverna di Platone". Per i bambini sapere il padre in carcere a pochi isolati da casa eppure è irraggiungibile oppure crederlo "in viaggio o a lavoro", è un fatto assurdo e incomprensibile. Per loro è come se il padre fosse al cimitero. Il carcere nella rappresentazione simbolica è l’aldilà e per raggiungere il genitore è come se i bambini dovessero comunicare tra questo e l’altro mondo. Affrontare questo tema così doloroso e "tabu" ha permesso ai bambini di sbloccarsi: i piccoli hanno iniziato a non essere più svogliati e disattenti e ad andare a scuola con gioia. Lavorare sugli archetipi ha permesso ai bambini di rielaborare collettivamente il vissuto traumatico. L’enorme cambiamento della classe è anche dall’insegnante che monitorava il laboratorio, una persona molto sensibile e impegnata. Che ruolo gioca la scuola in quartieri come Scampia e Secondigliano? La cura, l’impegno degli insegnanti è fondamentale, e non è un caso se in questo progetto che è andato così bene abbiamo collaborato con ottime insegnanti. Ma non sempre gli insegnanti o i dirigenti sono così sensibili. C’è indubbiamente un problema strutturale: se una maestra deve occuparsi di 30 bambini contemporaneamente avrà numerose difficoltà a prendersi cura di ciascuno. Ma per ovviare alla carenza di fondi la scuola sta peggiorando la situazione con le classi speciali: ovvero mette nella stessa classe tutti i bambini rom o tutti i figli di detenuti. Una scelta pedagogica disastrosa, oltre che vietata dalle normative, vigenti poiché è risaputo che solo in un ambiente misto un buon lavoro didattico ed educativo può sortire effetti positivi. Invece spesso i dirigenti puntano ad incrementare il numero degli iscritti piuttosto che a dedicarsi alla crescita individuale degli allievi. Questo lo verificate anche con i bambini rom? Con i bambini rom è più lampante l’intenzionalità nel realizzare classi speciali o scuole speciali. Penso alla scuola Ilaria Alpi che sorge a ridosso del campo rom di Secondigliano ed è frequentata da un altissimo numero di bambini rom. Anche se ci sono ancora alcune insegnanti brave e motivate, la situazione della scuola è cambiata in peggio: i bambini italiani stanno diminuendo e viene utilizzata una didattica assistenziale che tende a ghettizzare. L’atteggiamento sbagliato è, più in generale, politico. Non è un caso che nella stessa zona del campo vecchio e della scuola sorgerà il nuovo campo comunale per i rom: che senso ha costruire un "centro di assistenza transitorio" per persone che stanno qui da trent’anni? Il progetto è una bomba ad orologeria, simile a quello dei bi piani di Ponticelli, ma imbellettato. Il primo problema dei rom non è quello abitativo, ma di inserimento: si sarebbero dovute accogliere le direttive europee realizzando percorsi individualizzati e cercando soluzioni famiglia per famiglia, non realizzare l’ennesimo dormitorio. Cagliari: Sdr, a Buoncammino 4/a edizione "Ramadan, cultura e preghiera" Ristretti Orizzonti, 28 giugno 2014 È iniziato anche a Buoncammino il grande digiuno che quest’anno, dal 28 giugno al 27 luglio interesserà una ventina di detenuti fedeli musulmani. L’associazione "Socialismo Diritti Riforme", in collaborazione con l’Area Educativa e la Direzione della Casa Circondariale di Cagliari, ha promosso, per il quarto anno consecutivo, l’iniziativa "Ramadan, cultura e preghiera" rivolto ai detenuti di religione islamica. Venti chilogrammi di datteri sono stati consegnati all’Istituto e saranno distribuiti quotidianamente durante i 30 giorni di digiuno rituale. Ciascuno dei detenuti praticanti, che da oggi effettuano il Ramadan, riceverà infatti a conclusione della giornata di astinenza dal cibo, un sacchettino contenente i datteri. Il rito infatti prevede che la consumazione del cibo, dopo il tramonto, sia preceduta dall’assunzione di alcuni datteri accompagnati da un bicchiere di latte. "In questi ultimi anni, la consistente presenza di detenuti extracomunitari di fede musulmana nella struttura penitenziaria di Buoncammino ha richiamato l’attenzione sul problema della pratica della fede islamica. Se ne sono fatti interpreti gli operatori dell’Area Educativa e i volontari. La cultura e la spiritualità infatti costituiscono per i detenuti aspetti di alto valore umano e sociale. Con queste finalità l’associazione sostiene - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo Diritti Riforme - un segno tangibile della cura umana verso chi vive un difficile momento". "Il Ramadan è vissuto come un’occasione di profonda purificazione, di rinascita, di pura preghiera. La fede è per tutti i detenuti la fonte primaria di consolazione e di speranza soprattutto nelle lunghe attese che precedono i processi. La preghiera rituale rappresenta per i fedeli musulmani un momento collettivo di riflessione e di crescita interiore irrinunciabile. Il gesto solidale verso chi pratica il Ramadan - conclude la presidente di Sdr - è un modo per esprimere reciproco rispetto e rafforzare i sentimenti di condivisione pacifica". Verona: "Oltre le mura", parte il progetto psicosociale per i detenuti di Montorio Cronaca di Verona, 28 giugno 2014 Tra l’Ulss 20 di Verona, diretto da Maria Giuseppina Bonavina, la Casa Circondariale di Mortorio, guidata da Maria Grazia Bregoli, il Corpo Forestale dello Stato guidato da Paolo Colombo e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, diretto da Igino Andrighetto, è stato stipulato un accordo di collaborazione per attivare un progetto sperimentale occupazionale di lavoro con gli animali per i detenuti denominato "Orme oltre le mura". Gli interventi Assistiti con gli Animali negli Istituti penitenziari sono da tempo oggetto di valutazioni e riflessioni applicative da parte di molte realtà nazionali ed internazionali. Gli obiettivi perseguiti sono finalizzati a ridurre il numero di episodi di violenza, gli episodi di suicidio, i sintomi somatici e psichici dell’ansia e della depressione, la somministrazione di farmaci ansiolitici, il senso di isolamento e solitudine e miglioramento dei legami sociali, con conseguente effetto di umanizzare l’ambiente carcerario Sulla base di queste premesse e di questi obiettivi si intende promuovere un progetto per l’introduzione in modo continuo e diversamente articolato degli IAA presso l’Istituto Penitenziario di Mortorio di Verona. Il progetto prevede l’introduzione di animali all’interno del Carcere per la realizzazione di un programma rieducativo-sperimentale occupazionale rivolto ai detenuti. Per la realizzazione del progetto sarà necessario prevedere la costruzione all’interno del carcere di tre strutture ospitanti animali che saranno gestite direttamente dai detenuti in collaborazione con personale esterno individuato dagli enti proponenti il Progetto. Le strutture saranno una Pensione per cani, un Rifugio per cani provenienti dal Rifugio sanitario e un Rifugio per animali Cites sequestrati dal Corpo Forestale dello Stato. Contemporaneamente alla realizzazione delle strutture si attiveranno corsi di formazione finalizzati a far acquisire agli utenti, oltre a competenze teoriche, nozioni sulle caratteristiche fisiologiche, comportamentali, ecc. degli animali che sono e/o saranno a disposizione. Rieti: pochi agenti e tanti detenuti, sit-in Polizia penitenziaria sotto la Prefettura Il Messaggero, 28 giugno 2014 Un nuovo reparto aperto, più detenuti in arrivo, un’assistenza sanitaria h24 inesistente. Sono tanti e tutti validi i motivi che hanno portato questa mattina gli agenti della polizia penitenziaria di Rieti a manifestazione stamane, davanti alla Prefettura, in particolare gli agenti aderenti ai sindacati Sappe, Sinappe, Osapp, Ugl, Cgil, Cisl e Cnpp. Alla base della protesta, come detto, l’apertura del reparto F del carcere di Vazia, nonostante il numero di agenti operanti soprattutto di notte e la contrarietà all’approvazione da parte del Consiglio dei ministri dei risarcimenti ai detenuti che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea per i diritti fondamentali dell’uomo che sancisce "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". C’è poi il problema dell’assenza, nella struttura di Vazia, di un reparto medico che assicuri l’assistenza sanitaria h24. Nel caso, infatti, che di notti si verifiche un’emergenza, è necessario portare il detenuto in ospedale, al de Lellis, con la scorta, con tutto ciò che ne consegue in termini di costi e personale, già ridotto, tolto alla sorveglianza. Biella: Favero (Pd); bisogna dare continuità ai percorsi d’istruzione dei detenuti La Provincia di Biella, 28 giugno 2014 "Il caso degli studenti del liceo artistico della Casa circondariale di Biella non si deve ripetere". A parlare è la senatrice del Pd, Nicoletta Favero, che torna sul tema carceri puntando l’attenzione sui detenuti di massima sicurezza che hanno potuto frequentare per 3 anni il Liceo artistico con grandi risultati, per poi essere trasferiti e dover interrompere il percorso d’istruzione. "Per questo - sono le parole della Favero - chiedo un intervento specifico dei ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell’istruzione, Stefania Giannini. Si deve dare continuità agli iter d’istruzione dei detenuti, che proprio nello studio trovano una ragione per ricominciare a vivere". "Nella sezione di massima sicurezza della Casa Circondariale di Biella - spiega - è stato attivato un Liceo Artistico, che ha visto arrivare fino alla conclusione del terzo anno un gruppo di detenuti, dei quali, tuttavia, è stato già deciso il trasferimento in altri istituti. I docenti di questa classe, la 3ª H, hanno scritto una lettera accorata che è stata pubblicata dai giornali, in cui sottolineano come il percorso educativo sia stato proficuo per il recupero umano e sociale di queste persone. Sappiamo che il trasferimento è stato disposto a causa della chiusura della sezione di massima sicurezza, perché ora nell’istituto si privilegia il circuito di custodia attenuato. Sarà difficile che gli studenti riescano a terminare il liceo artistico in altri istituti, ma è fondamentale che sia favorita comunque la prosecuzione degli studi. Io chiedo ai ministri di intervenire per evitare, se possibile, questo triste epilogo e comunque di lavorare perché non si ripetano casi analoghi". Salerno: vittima di una rapina viene scambiato per il "palo" e resta in cella per due giorni di Giuliana Tambaro www.campania24news.it, 28 giugno 2014 Accade a Salerno: la vittima di una rapina, viene considerata il "palo" della rapina e trascorre da "innocente" due giorni in carcere. Nei giorni scorsi in una gioielleria di Salerno c’è stata una rapina, in cui Antonio Del Ninno, è stato vittima di sequestro di persona, ma l’imprenditore salernitano è stato arrestato con l’accusa di tentata rapina in concorso con persona ignota e ha trascorso due giorni in carcere. Solo, ieri, dinanzi al gip Zambrano, la vittima ha potuto dimostrare la sua estraneità ai fatti. Nell’ordinanza di scarcerazione, infatti, si legge che "è del tutto inverosimile che abbia rivestito il ruolo di palo" risultando plausibile che "di rientro a casa sia stato bloccato da uno sconosciuto e, paralizzato dal terrore di essere colpito, abbia eseguito suo malgrado gli ordini del malvivente per assicurargli la fuga". Stati Uniti: dal 2009 ad oggi 11 suicidi in cella a New York, di cui 9 dovuti a negligenza La Presse, 28 giugno 2014 Almeno nove degli 11 suicidi registrati nelle prigioni di New York dal 2009 sono avvenuti perché le autorità carcerarie non hanno seguito le norme mirate a impedire ai detenuti di farsi del male. È quanto emerge da alcuni documenti delle autorità municipali e di polizia, ottenuti da Associated Press tramite una richiesta ufficiale di pubblicazione. In un caso avvenuto lo scorso ottobre, il detenuto con problemi di depressione Horsone Moore si è impiccato a un tubo della doccia nel carcere di Rikers Island, al suo terzo tentativo di suicidio in tre giorni. Durante quel periodo, gli ordini affinché venisse tenuto sotto sorveglianza costante per evitare che si uccidesse vennero ignorati, così come un modulo di valutazione si diceva che stava "pensando di uccidersi". In un altro caso, il prigioniero Quanell Offley si è impiccato alla griglia del sistema di ventilazione della sua cella di isolamento, dopo avere ripetutamente detto alle guardie di avere intenzione di togliersi la vita. "Se hai le palle di farlo, fallo", era stata la risposta del secondino dopo l’ultima volta che il prigioniero lo aveva avvisato. "Esiste una procedura? Sì. È stata seguita? Assolutamente no", ha detto John Giannotta, figlio di uno dei detenuti delle prigioni di New York che negli ultimi cinque anni si è ucciso in cella. Anche suo padre, Gregory, avrebbe dovuto essere sorvegliato, ma l’ordine dello psichiatra che lo esaminò venne inserito nel sistema quando il prigioniero si era ormai già ucciso. "Aveva bisogno di medicine e di essere successivamente assistito. In prigione non ha avuto nulla", ha detto ancora Giannotta. La mancanza di comunicazione fra le guardie e gli psichiatri è solo una delle cause citate nei documenti come motivo dei suicidi. Fra le altre ci sono anche l’errata compilazione di moduli, trattamenti medici inadeguati e somministrazione sbagliata di medicinali. Il dipartimento carcerario di New York ha annunciato che adotterà ulteriori misure per impedire i suicidi in cella, affermando che incrementerà il livello di comunicazione fra le guardie delle prigioni e il personale che si occupa dei detenuti con problemi mentali. Il suicidio è la principale causa di morte nelle prigioni statunitensi dopo i tumori e i problemi cardiaci. A New York il tasso di suicidi è di 17 ogni 100mila detenuti, ben al di sotto della media nazionale di 41 ogni 100mila prigionieri. Il 40% dei circa 11.500 uomini e donne trattenuti nelle carceri newyorkesi hanno problemi mentali, in rialzo rispetto al 24% del 2007 anche a causa della chiusura dei grandi manicomi a favore di piccoli centri comunitari. "Il nostro lavoro è mantenere ogni newyorkese al sicuro mentre è sotto la nostra tutela e i detenuti non fanno eccezione", ha detto il sindaco di New York Bill de Blasio, ricordando che la sua amministrazione ha nominato una task force incaricata di trovare migliori soluzioni per prendersi cura dei detenuti con problemi mentali. Le autorità cittadine, ha aggiunto, hanno recentemente dedicato 32,5 milioni di dollari del bilancio alla costruzione di nuove strutture per i detenuti mentalmente instabili, al miglioramento dell’addestramento delle guardie e all’assunzione di nuovo personale. Guinea Equatoriale: caso Berardi; il Senatore Manconi presenta esposto a Procura Roma Tm News, 28 giugno 2014 "Le sofferenze patite da Roberto Berardi, l’imprenditore italiano recluso da oltre un anno e mezzo in Guinea Equatoriale in condizioni disumane, non sono più tollerabili e devono cessare immediatamente. È quanto dichiara il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani di Palazzo Madama. "Venerdì 20 giugno scorso, insieme a Rossella Palumbo, moglie di Berardi, ho incontrato l’Ambasciatore della Guinea Equatoriale a Roma Obono Ndong - aggiunge il senatore Manconi - la quale ha confermato la chiara disponibilità del presidente Obiang a concedere la grazia. In quell’occasione abbiamo chiesto garanzie sulle condizioni di salute di Roberto Berardi ma dal carcere di Bata, dove Berardi è rinchiuso in isolamento dal dicembre scorso, arrivano notizie preoccupanti: negli ultimi giorni pare che le condizioni di detenzione di Berardi si siano inasprite: gli è stata diminuita la quantità dell’unico pasto della giornata e non gli è stato permesso di ricevere cibo dall’esterno, cibo che Berardi poteva procurarsi grazie ai soldi che la famiglia riusciva a inviargli e che è necessario alla sua sopravvivenza. Dopo l’annuncio della grazia da parte del Presidente Obiang a Bruxelles lo scorso 1 aprile, la situazione di Berardi sembrava avviata a soluzione, ma passati più di due mesi, la grazia non è stata ancora concessa. Queste notizie ancora più urgente intensificare le iniziative messe in campo per riportare a casa il nostro connazionale, uno dei 3.300 italiani detenuti in carceri straniere, e su questo presenterò una nuova interrogazione urgente". "Ho deciso inoltre, avuta conferma che le condizioni di Berardi lungi dal migliorare vengono aggravate - conclude Manconi - rendono di presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Roma affinché la magistratura italiana voglia compiere i passi necessari per accertare che ai danni di Berardi non siano commessi gravi reati e, più in generale, non vengano violati i suoi fondamentali diritti umani". Iraq: Amnesty International ha raccolto testimonianze su decine di detenuti sunniti uccisi www.dazebaonews.it, 28 giugno 2014 Amnesty International ha raccolto informazioni su una serie di esecuzioni extragiudiziali di detenuti, da parte delle forze governative e di milizie sciite, nelle città irachene di Tal’Afar, Mosul e Bàquba. Le testimonianze di detenuti sopravvissuti e dei parenti di quelli uccisi suggeriscono che le forze irachene abbiano agito prima di ritirarsi da Tal’Afar e Mosul, ora controllate dall’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) così come a Bàquba, dove le forze governative e le milizie sciite stanno contrastando il tentativo dell’Isis di conquistare la città. "Le notizie di numerosi detenuti sunniti uccisi a sangue freddo mentre erano in custodia delle forze di sicurezza sono profondamente allarmanti. Pare emergere un terrificante schema di attacchi contro i sunniti in rappresaglia per le conquiste territoriali dell’Isis" - ha dichiarato Donatella Rovera, alta consulente per le crisi di Amnesty International, che si trova attualmente nel nord dell’Iraq. "Anche nel mezzo di una guerra ci sono regole che non vanno mai trasgredite. Uccidere prigionieri è un crimine di guerra. Il governo deve ordinare immediatamente un’indagine indipendente e imparziale sulle uccisioni e assicurare che i responsabili siano portati di fronte alla giustizia" - ha aggiunto Rovera. Ex detenuti e parenti delle vittime hanno riferito ad Amnesty International che, la notte del 15 giugno, circa 50 detenuti sunniti sono stati uccisi negli uffici dell’agenzia antiterrorismo di al-Qalàa e Tal’Afar. In un altro episodio avvenuto a Mosul la sera del 9 giugno, soldati dell’agenzia antiterrorismo sono entrati in una cella nella zona di Hay al-Danadan e hanno portato via 13 detenuti. Di lì a poco, si sono uditi colpi d’arma da fuoco. Il sindaco di Bàquba, Abdallah al-Hayali, ha riferito ad Amnesty International che all’alba del 16 giugno 50 persone, tra cui suo nipote Yassir, sono state uccise in modo extragiudiziale da miliziani sciiti nella stazione di polizia di al-Wahda. Il parente era stato arrestato un mese prima ed era stato torturato: gli avevano strappato le unghie e lo avevano colpito con la corrente elettrica. Amnesty International sta indagando su denunce relative a un ampio numero di prigionieri uccisi dall’Isis nella prigione di Badoush, a Mosul. L’organizzazione per i diritti umani ha sollecitato l’Isis, così come tutti i gruppi armati e le forze che stanno prendendo parte al conflitto, a porre fine alle uccisioni sommarie e alla tortura dei detenuti, così come agli attacchi deliberati e indiscriminati contro i civili. Si tratta di crimini di guerra, che devono essere perseguiti sulla base del diritto internazionale. "Coloro che si stanno rendendo responsabili di crimini di guerra in Iraq devono sapere che l’impunità di cui stanno attualmente beneficiando non durerà per sempre. Un giorno verranno chiamati a rispondere del loro operato di fronte alla giustizia" - ha concluso Rovera. Stati Uniti: pressioni su Obama per trasferire in Uruguay sei detenuti di Guantánamo di Stefania Spatti www.america24.com, 28 giugno 2014 Oltre quattro mesi fa, l’accordo con il Paese sudamericano. Ma le dinamiche della liberazione del sergente Bergdahl complicano la situazione. Manca solo la firma del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, ma è in stallo il trasferimento in Uruguay di sei dei detenuti di basso profilo presenti al carcere americano di Guantánamo, Cuba. Ecco perché ieri i legali di quei carcerati hanno inviato al presidente degli Stati Uniti Barack Obama una lettera (ottenuta dal New York Times) affinché venga concluso l’accordo siglato mesi fa con il presidente dello Stato sudamericano José Mujica, pronto ad accogliere i sei. Questo è l’ultimo esempio delle difficoltà politiche e legali che aleggiano sul centro di detenzione dell’isola cubana, soprattutto dopo il controverso scambio avvenuto il mese scorso e che ha visto il sergente americano Bowe Bergdahl essere liberato in Afghanistan in cambio del trasferimento di cinque ex funzionari talebani, trasferiti da Guantánamo al Qatar. Lo scambio ha sollevato le polemiche dei legislatori americani, anche perché la Casa Bianca ha di fatto bypassato una legge che richiede un preavviso di 30 giorni prima di effettuare un trasferimento di qualsiasi detenuto. Come ripicca, la Camera dei rappresentanti a maggioranza repubblicana la settimana scorsa ha aggiunto un emendamento a un provvedimento legislativo sulla spesa militare che impedirebbe categoricamente ogni trasferimento. Tale emendamento rischia però di morire nel Senato a maggioranza democratica. Secondo fonti citate dal New York Times, tali polemiche hanno portato Hagel ad essere riluttante nel procedere con i trasferimenti persino di detenuti non considerati pericolosi. Ciò mette a rischio lo spostamento di 11 carcerati sui cui è stato già trovato un accordo e per cui si aspetta solo il via libera di Hagel e la notifica al Congresso. Tra quegli 11 ci sono quattro afghani, i sei che l’Uruguay è pronto ad accogliere e un altro uomo. Nella missiva, i legali sostengono che i sei detenuti attesi in Uruguay (quattro siriani, un tunisino e un palestinese) "non devono essere usati come capri espiatori nell’attuale scontro della politica americana". Gli avvocati riconoscono: "il tempo non è dalla nostra parte", visti l’emendamento repubblicano e le elezioni d’autunno in Uruguay. Obama aveva promesso la chiusura di Guantánamo subito dopo essere stato eletto, ma ha incontrato notevoli difficoltà. Il campo di prigionia è stato creato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 da George W. Bush, ma da anni vi sono rinchiusi molti presunti terroristi che non sono mai stati accusati formalmente di alcun reato. Per questo Washington sta cercando di rimpatriare i prigionieri o di consegnarli a Paesi terzi, nel caso fosse pericoloso farli tornare nel Paese di provenienza. Cina: SOS cucito nella tasca dei pantaloni "siamo schiavi nelle carceri cinesi… salvateci" di Enrico Franceschini La Repubblica, 28 giugno 2014 I naufraghi affidano le richieste di soccorso a una bottiglia. Uno schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Le probabilità che arrivasse in mano a qualcuno erano più o meno le stesse di quelle di un uomo abbandonato su un’isola in mezzo all’oceano. Eppure alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al mondo conclusosi nell’armadio di una casa vicino a Belfast, in Irlanda del Nord. Karen Wisinska aveva acquistato un paio di calzoni sportivi stile cargo da Primark, una catena di grandi magazzini a basso prezzo, nel capoluogo dell’Ulster tre anni fa, ma non li aveva mai indossati perché la chiusura lampo era difettosa. La settimana scorsa, preparando la valigia per una vacanza, li ha tirati fuori dal guardaroba e ha notato che una tasca era rigonfia, come se ci fosse dentro qualcosa. Ha slacciato un bottone, ci ha messo la mano dentro e ha estratto un biglietto accuratamente ripiegato. Era un cartoncino scritto in caratteri cinesi, per cui non poteva comprenderne il significato, ma in cima c’erano, in alfabeto latino, tre parole che chiunque conosce, in tutte le lingue: "SOS", seguita da un punto esclamativo. Il segnale internazionale di richiesta di aiuto. Non ancora completamente convinta, ha fotografato il biglietto, lo ha messo sulla propria pagina di Facebook e chiesto agli amici se qualcuno era in grado di decifrarlo. Quando ha ricevuto una prima bozza di traduzione è rimasta scioccata: "Era stato scritto da qualcuno che evidentemente lavorava in condizioni di schiavitù in una prigione cinese". A quel punto si è rivolta ad Amnesty International e la sua impressione è stata confermata: il messaggio sembra provenire dal Gulag di Pechino, dove apparentemente i detenuti sono costretti a lavorare in condizioni disumane per produrre articoli da vendere poi alle grandi aziende occidentali. Il prigioniero o la prigioniera cinese avrebbe confezionato personalmente i pantaloni per la Primark, rischiando la vita per nasconderci dentro il suo Sos. "Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina", afferma il biglietto. "Da molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l’esportazione. Ci fanno fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello che si darebbe un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la Cina per questo trattamento disumano". Commenta Patrick Corrigan, direttore di Amnesty in Irlanda del Nord: "È una storia orribile. Naturalmente sarà molto difficile appurare se è genuina, ma abbiamo il timore che sia solo la punta di un iceberg". La Primark ha aperto immediatamente un’inchiesta. "Tre quarti dei pantaloni di quel tipo sono stati acquistati da noi all’inizio del 2009", dice un portavoce dei grandi magazzini alla Bbc. "Troviamo un po’ strano che il biglietto sia venuto alla luce solo ora, quando i pantaloni sono stati comprati nel 2011. Contatteremo la cliente per farci dare l’indumento e per proseguire le indagini. Dal 2009 ad oggi la Primark ha condotto nove ispezioni dei nostri fornitori per verificare il rispetto degli standard etici in Cina e altrove, e nessun caso di lavori forzati, lavori in prigione o altre violazioni è mai stato riscontrato". Si tratta tuttavia della stessa azienda coinvolta, insieme ad altre marche d’abbigliamento occidentali, nel crollo di uno stabilimento in Bangladesh in cui morirono più di 1.100 persone: criticata per non avere denunciato le insufficienti condizioni di sicurezza dello stabile, la Primark ha finora pagato 12 milioni di dollari (8 milioni di euro) di indennizzo ai familiari delle vittime e sostiene di avere moltiplicato le ispezioni dei suoi fornitori. Non è la prima volta che un capo d’abbigliamento della Primark viene ritrovato un biglietto con richieste di soccorso da parte di presunti schiavi dell’industria del fashion in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Il boom del settore tessile nel Terzo Mondo è uno dei motori della globalizzazione e sta portando milioni di famiglie fuori dalla povertà. Ma l’altra faccia della crescita è lo sfruttamento. E talvolta per denunciarlo non c’è altro mezzo che un messaggio in una tasca di pantaloni. Kosovo: Eulex, stupro riconosciuto per la prima volta come crimine di guerra Nova, 28 giugno 2014 La procura speciale del Kosovo è "pienamente soddisfatta" della condanna a 12 e 10 anni di carcere emanata dal Tribunale di appello contro due imputati per crimini di guerra contro la popolazione civile. Lo ha reso noto la missione europea Eulex attraverso un comunicato. "Gli imputati hanno commesso un grave crimine di guerra contro una ragazza di 16 anni. Questo caso è una dimostrazione della volontà della comunità internazionale di porre fine all’impunità per tutti coloro che commettono tali crimini. Entrambi gli imputati in questo caso sono stati giudicati colpevoli di stupro come crimine di guerra, ed è la prima volta che ciò avviene in Kosovo", riferisce la procura. "Il procuratore si augura che questa condanna incoraggi altre donne e uomini coraggiosi a denunciare le violenze sessuali subite durante la guerra, a prescindere dagli autori di queste violenze", riferisce ancora la nota. Un Tribunale d’appello kosovaro ha ribaltato oggi una sentenza di assoluzione della Corte di Mitrovica, risalente al 24 giugno scorso, condannando due imputati, il cui nome non è stato rivelato, a 12 e 10 anni di carcere per crimini di guerra contro la popolazione civile. I giudici hanno ordinato la detenzione preventiva fino alla sentenza finale. Le parti hanno la possibilità di ricorrere contro la sentenza presso la Corte suprema kosovara.