Giustizia: la riforma sempre più vicina, tra dubbi e corse contro il tempo di Eva Bosco Ansa, 27 giugno 2014 Anm preoccupata per intercettazioni. Orlando, nessuna stretta. Mentre è già tensione sulle intercettazioni, con l’Anm che manifesta "preoccupazione" e il ministro Orlando che rassicura: "nessuna stretta", il tempo e le molte questioni che il Parlamento è chiamato in questa fase ad affrontare non giocano del tutto a favore della riforma della giustizia, il cui varo è atteso per il 30 giugno in Consiglio dei ministri. L’impegno sulla data è preso: lo ha annunciato il ministro Maria Elena Boschi nel corso della conferenza stampa seguita al Cdm del 20 giugno. Se questo impegno, il 30, sarà onorato con la presentazione di articolati legge o con una serie di punti che indicano i contenuti della riforma, non è ancora chiaro. Quello che è certo e confermato da diverse fonti è che nel pre-consiglio di oggi, di riforma della giustizia non si è parlato. Una spia di un possibile slittamento del pacchetto? Fonti di via Arenula spiegano che, in realtà, parte dei testi è ancora in costruzione e alcuni dei contenuti da introdurre sono in via di definizione. Anche a Palazzo Chigi per il momento sono stati trasmessi solo i "titoli" della riforma, e solo tra sabato e domenica sarà più chiaro cosa approderà in Cdm lunedì. Certo il 30 ci sarà una discussione politica e nel merito, ma si allontana la possibilità che siano licenziati i provvedimenti. Uno dei testi che compone il pacchetto giustizia è un decreto e contiene le misure per decongestionare il processo civile e abbattere l’arretrato. Provvedimenti in cui il guardasigilli Andrea Orlando crede molto, perché, come ha sempre detto, in Italia si è sempre parlato troppo e spesso in maniera polemica di penale, dimenticando che la vera palla al piede del sistema giudiziario è il civile con la sua lentezza. Una patologia che frena economia e investimenti anche stranieri, perché non è allettante investire in un Paese in cui, se vai in causa, ci resti per anni. Nel decreto ci sono provvedimenti per favorire procedure arbitrali e negoziazione assistita dagli avvocati. Ma un decreto non basta presentarlo: è necessario che le Camere lo convertano in legge nell’arco di 60 giorni. E le Camere hanno di fronte a sé un mese di luglio congestionato dalla conversione di altri importanti decreti, tra cui quello della P.A. e quello sulle carceri; dal dibattito sulle riforme e la legge elettorale; dall’elezione in seduta comune di due giudici della Corte Costituzionale e dei membri laici del Csm, oltre che dall’attività di routine. Poi ad agosto si chiude per ferie, almeno per parte del mese. Il rischio imbuto, quindi, esiste. E una riflessione sull’opportunità di varare ora un provvedimento d’urgenza su un tema così cruciale come la giustizia civile e poi temere di non vederlo evaporare, è in atto. Del pacchetto sul civile fa parte anche un ddl per snellire il rito ordinario e valorizzare tribunale delle imprese e tribunale della famiglia. Si sta poi confezionando un altro ddl in materia penale. I capisaldi sono l’introduzione del reato di auto-riciclaggio (pene fino a 6 anni) e pene più dure per l’associazione mafiosa (da 10 a 15 anni). Ma nei titoli trasmessi a Palazzo Chigi c’è anche la riproposizione del falso in bilancio, l’allungamento dei termini di prescrizione e la riforma del sistema di elezione del Csm per limitare le correnti (riforma che comunque agirebbe dalle elezioni del 2018, senza influire su quelle che ci saranno a luglio). Quanto alle intercettazioni, non sono all’ordine del giorno di questa riforma, affermano da via Arenula. Oggi incontrando Orlando, i rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati si sono detti preoccupati di possibili interventi limitativi. Il ministro ha garantito che "lo strumento investigativo non sarà depotenziato", ma semmai potranno esservi interventi a garanzia della privacy. Ma le toghe, e l’Anm lo ha detto chiaro a Orlando, teme fughe in avanti anche sulla responsabilità civile dei magistrati. Che questo capitolo possa entrare già ora nella riforma non è escluso, una riflessione è in corso. Orlando ha sempre detto "no" a forme di responsabilità diretta. Ma su questi temi gli animi si scaldano. E lunedì si valuterà anche l’opportunità politica di entrare già da ora su terreni così accidentati. Giustizia: carceri scandalo, ma la politica non vede di Lirio Abbate L’Espresso, 27 giugno 2014 La politica non può continuare a delegare alla magistratura compiti che le appartengono. Non può chiudere gli occhi su problemi amministrativi, sullo spreco di denaro pubblico, sulla mancanza di ottimizzazione delle risorse economiche; e lasciar correre quando un uomo dello Stato segnala distorsioni e irregolarità. È quanto accaduto per i lavori nei penitenziari, per ampliare il numero dei posti. Un’inchiesta della procura di Roma ha portato ad indagare nove persone fra le quali il commissario straordinario all’emergenza carceri, il prefetto Angelo Sinesio. È accusato dai pm Paolo lelo e Mario Palazzi di abuso d’ufficio, falso e diffamazione nei confronti di Alfonso Sabella. ex magistrato antimafia a Palermo, ex direttore generale del Dap e oggi al ministero della Giustizia in via Arenula. La politica sapeva e non ha agito prima dell’azione della magistratura. Sapeva dai giornali - la copertina de "l’Espresso" che vedete qui sotto è addirittura del febbraio 2012 - quali affari si celavano dietro la costruzione di nuovi istituti di pena. E sapeva pure da un uomo dello Stato che negli ultimi due anni ha segnalato, prima ai vertici del Dap, nella persona del capo del dipartimento, Giovanni Tamburino, e poi al Gabinetto e alla segreteria dei ministri Paola Severino e Annamaria Cancellieri e infine anche alla Commissione Giustizia della Camera, ciò che non andava negli appalti del piano carceri. le irregolarità e i falsi. Da quattro anni si parla di emergenza, di sovraffollamento nelle celle e quindi di un piano straordinario da mettere a segno con centinaia di milioni di euro. Il primo piano è stato voluto da Angelino Alfano nel 2010 che doveva creare, in due anni, 9.150 posti per una spesa di quasi 700 milioni di euro, e il secondo piano da Paola Severino. Naturalmente tutti questi posti non sono arrivati e di milioni di euro ne sono stati spesi tanti, in gran parte per pagare consulenze e collaborazioni che sono andate anche ad amici di politici. Quelli non mancano mai in questa emergenza. Ne sbucano tanti in tutti i ruoli. La cosa che però manca è il risultato finale, anzi il raggiungimento dell’obiettivo fissato di risolvere in fretta il problema che i diversi governi hanno sbandierato ai quattro venti. Adesso l’inchiesta dei pm ci porta a guardare dietro le quinte della politica e si scopre che Sabella da direttore generale del Dap aveva iniziato due anni fa a far vedere all’amministrazione penitenziaria che in pochi mesi era possibile recuperare migliaia di "posti detenuti" con poche risorse finanziarie. Il segreto era quello di puntare alle ristrutturazioni e alle manutenzioni dei penitenziari esistenti, abbandonati da oltre un decennio. E i risultati sono arrivati. Ma questa soluzione non è piaciuta. Perché si spendeva poco? Realizzare, invece, un intero carcere è un grande affare per gli imprenditori, che spesso sono amici dei politici. E così Sabella è stato destituito dei suoi poteri. Tutto è transitato nelle mani del commissario straordinario grazie anche al decreto "svuota carceri" voluto dalla Cancellieri. A leggerla così è ancora una volta una brutta storia all’italiana. E sembra di rivedere le stesse ombre sui grandi affari: Sinesio proviene dai servizi segreti (Sisde), come pure dall’intelligence arriva il suo collaboratore, l’architetto Mauro Draghi, che è marito della commercialista Fiordalisa Bozzetti, la quale gestisce tutte le somme del piano carceri. E la politica sa: a novembre Sabella scrive una dettagliata lettera alla commissione Giustizia che aveva ascoltato Sinesio. Per l’ex pm quell’audizione è piena di falsità e omissioni, quindi denuncia le irregolarità di cui si sarebbe macchiato il commissario. Per Sabella ci sarebbero stati un aggravio di costi anche per la progettazione, fino a determinare una spesa per l’erario "in molti casi superiori addirittura al millecinquecento per cento". Sarebbero bastati questi elementi per insospettire i commissari della Giustizia, e invece non accade nulla. E così Sabella si rivolge ai pm denunciando irregolarità e anomalie sul piano carceri. Un gesto civico da apprezzare. Parallelamente il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha criticato in diverse occasioni la gestione straordinaria del piano carceri, presenta un esposto in procura sull’affido di lavori di ampliamento e ristrutturazione. Prorpio da questo esposto sono nate ipotesi di corruzione. Siamo a quattro anni dall’avvio del piano carceri con un fiume dì denaro riversato nelle casse del commissario, con l’emergenza non risolta. E con la politica che resta a guardare. Giustizia: Rapporto Cnel-Istat; resta allarmante situazione di sovraffollamento carcerario Il Velino, 27 giugno 2014 Gli indicatori sulla qualità dei servizi offerti in Italia ai cittadini mostrano un quadro di luci e ombre con miglioramenti in alcuni ambiti, ma anche con alcune situazioni meno positive. Inoltre, persistono differenze territoriali importanti e diffuse che si riflettono in un sostanziale ritardo rispetto alle medie europee. Il caso che desta maggiore preoccupazione è la recente inversione di tendenza nell’accessibilità dei servizi per l’infanzia. Nel 2011, dopo cinque anni di miglioramento, si registra infatti una riduzione nella percentuale di bambini accolti nelle strutture pubbliche o convenzionate. Tale percentuale, dopo essere cresciuta dall’11,2% nel 2005 al 14% nel 2010, cala al 13,5% nel 2011. Anche la dotazione di posti letto nei presidi socio-assistenziali peggiora, passando dal 7,1% nel 2009 al 6,5% nel 2011, mentre l’utilizzo dell’Adi (Assistenza domiciliare integrata) rimane pressoché costante a quattro assistiti ogni 100 anziani. È quanto emerge dal rapporto Bes 2014 elaborato da Cnel e Istat Tutti i servizi socio-sanitari mostrano profonde differenze tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno: il divario è particolarmente rilevante nel caso degli asili nido, dove sono iscritti il 18% dei bambini di 0-2 anni nel Centro-Nord e solo il 5% nel Mezzogiorno; l’Adi varia dal 5% del Nord al 3% del Mezzogiorno; i posti letto nelle strutture socio-assistenziali sono 10 per 1.000 abitanti al Nord e solo tre nel Mezzogiorno. Le difficoltà economiche dei Comuni si sono fatte sentire nel caso del trasporto pubblico locale, che ha visto una generalizzata contrazione del servizio offerto, soprattutto nelle regioni del Centro. Inoltre, rimane allarmante la situazione di sovraffollamento delle carceri; nonostante la diminuzione del numero di detenuti e l’aumento di posti letto, il numero di detenuti per 100 posti disponibili nel 2013 è 131,1 (139,7% nel 2012). Miglioramenti graduali si osservano invece per quanto riguarda la disponibilità e il funzionamento delle public utilities. In media, i cittadini sopportano due interruzioni del servizio elettrico senza preavviso l’anno, in diminuzione rispetto al 2011 in quasi tutte le regioni, e le famiglie allacciate alla rete di gas aumentano, sfiorando il 78%. Tuttavia, nel 2013, aumentano le famiglie che lamentano irregolarità nella distribuzione dell’acqua, ora sono il 9,9%, quasi 2,5 milioni di famiglie, soprattutto nel Mezzogiorno. Benché il ritardo italiano rispetto al resto d’Europa resti elevato, la gestione dei rifiuti urbani continua a migliorare, sia per la raccolta differenziata (dal 37,7 al 39,9%) che per il conferimento in discarica (dal 42,1 al 38,9%). Giustizia: ecco il decreto-risarcimenti… ovvero 8 euro per torturarti di Maria Brucale (Avvocato) Il Garantista, 27 giugno 2014 Dopo la "pena sospesa" da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più "minori" nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito "svuota carceri", che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come "più gravi" dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi "sbloccare fondi" utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece - lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: " i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto" - così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: "Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate". E ancora: "a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese". Giustizia: i pestaggi nel carcere di Vicenza e la sorte di Dimitri Alberti di Rita Bernardini (Segretaria nazionale di Radicali italiani) Il Manifesto, 27 giugno 2014 Diritti umani. Che fine ha fatto l’uomo picchiato dai carabinieri, caso per il quale la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia? Il manifesto è stato uno dei pochi giornali a dare la notizia dell’ennesima condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia per violazione dell’art. 3 Convenzione: "Trattamenti inumani e degradanti". Alla vittima, Dimitri Alberti, la Cedu ha riconosciuto un risarcimento di 15.000 euro per danni fisici e morali causati da un pestaggio dei Carabinieri al momento del suo arresto avvenuto nel marzo del 2010. I magistrati avevano creduto - come capita quasi sempre - alla versione delle Forze dell’Ordine: le costole rotte e l’ematoma al testicolo sinistro, Dimitri se li era procurati da solo nel corso della sua "resistenza ai pubblici ufficiali" che gli stavano stringendo i polsi dentro le manette. Ma dove si trova ora Dimitri? Dopo quell’arresto, Dimitri fu ristretto nel carcere di Verona; poi era andato a finire in una comunità ma da qui, per il sopraggiungere di un definitivo, era stato portato al carcere di Vicenza. Ricordo la visita ispettiva che da deputata radicale feci proprio in quel carcere, accompagnata dai radicali Maria Grazia Lucchiari e Francesco Donadello. Ci arrivammo a sorpresa in una domenica di novembre: nessuno se lo aspettava. Il comandante e il direttore non c’erano e ci raggiunsero già a ispezione in corso. L’istituto versava in condizioni pietose, tutte meticolosamente riportate in un interpellanza parlamentare. L’atmosfera era di paura e i detenuti, chiusi nelle loro piccole celle, sembravano intontiti e rassegnati a quello stato di prostrazione. Fino a che uno di loro, un nigeriano, ebbe il coraggio di parlare e, come un fiume in piena, raccontò delle violenze commesse da una consolidata squadretta di agenti nei confronti dei detenuti. Dopo O.P.M. - queste le iniziali dell’uomo nigeriano che, nonostante le condizioni vessatorie, si stava per laureare in carcere - altri, anche italiani, confermarono i pestaggi. Dopo quella visita e dopo l’interpellanza radicale, ci fu un’approfondita inchiesta interna del Dott. Francesco Cascini del Dap, la situazione migliorò e la magistratura aprì finalmente un’indagine (altre denunce dei detenuti degli anni passati erano state lasciate cadere nel vuoto) che portò sul banco degli imputati 15 agenti di polizia penitenziaria. Ma, tornando a Dimitri, oggi dov’è? È ancora in carcere? Pestato dai Carabinieri, come accertato dalla Cedu, ma anche in carcere dagli agenti? Dimitri è ricoverato in stato neurovegetativo presso il Centro riabilitativo veronese di Marzana: ci è finito, dopo un’ischemia sopraggiunta ad un attacco epilettico che lo ha colto nell’agosto del 2012 mentre era detenuto al carcere di Vicenza. Che ci siano di mezzo anche i pestaggi denunciati da O.P.M.? Per come si sono svolti i fatti in passato, c’è da tenere gli occhi bene aperti. Il fatto che in Italia non sia stato ancora introdotto il reato di tortura la dice lunga sulle omertà del sistema che, intanto, è riuscito ad ottenere che noi radicali non si sia più parlamento, con la conseguenza che le lunghe visite ispettive "a sorpresa" negli istituti penitenziari - effettuate ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario - si siano nella pratica interrotte. Infine, una preoccupazione: sulla violazione dei Diritti Umani Fondamentali, l’osannato Presidente del Consiglio Matteo Renzi, detentore di primati ineguagliabili quanto a presenze in tv, il lugubre "verso" del passato non ha dimostrato la minima propensione a volerlo cambiare. Ecco perché riteniamo che questo sia il punto centrale e irrinunciabile dell’iniziativa e della politica radicale. Giustizia: storie di bambini "dimenticati" nei penitenziari d’Italia di Chiara Sirianni Tempi, 27 giugno 2014 "Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?". La vicenda del piccolo di Sollicciano fa riemergere un problema poco conosciuto. Intervista a Riccardo Arena (Radio Carcere). Vive in carcere da cinque anni e tre mesi, a Sollicciano, Firenze. È il più giovane dei detenuti. Ha sei anni e mezzo, non ha commesso reati, ed è arrivato nella sezione femminile assieme alla mamma, arrestata per reati legati allo sfruttamento della prostituzione. La sua storia l’ha raccontata il Corriere Fiorentino. "Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?", ha chiesto un giorno alle educatrici. E alla domanda di un compagno di scuola - "tu dove abiti?" - con il candore che solo un bambino può avere ha risposto: "Casa mia è in carcere". E adesso, quando non arrivano i volontari a portarlo fuori, ad esempio la domenica, lui protesta perché vuole uscire, e la sera, quando sente che chiudono a chiave la porta, piange e protesta. L’errore di Renzi Il carcere di Sollicciano dal 1983 è il principale istituto di detenzione di Firenze e si trova nell’omonimo quartiere nella parte sud-ovest della città ai confini con la città di Scandicci. A ottobre 2013 venne citato da Matteo Renzi, allora sindaco del capoluogo toscano e candidato alle primarie del Pd, che intervistato a Lucia Annunziata si riferì proprio ai bambini presenti nelle case circondariali: "È devastante, per me, come sindaco e come padre, vedere le giovani detenute che hanno un figlio che è nato in carcere e cresce con loro. È una cosa indecente. Noi siamo i primi in Italia ad aver fatto l’Icam per far sì che le madri non siano costrette a far vedere il cielo a sbarre ai propri bambini, che non c’entrano niente". L’Icam è un istituto a custodia attenuata per le donne detenute madri. Il vicecapo del Dap, Luigi Pagano, lo aveva però smentito, attraverso i microfoni di Radio Carcere. Rubrica radiofonica in onda su Radio Radicale e condotta da Riccardo Arena. "Il dottor Pagano - racconta Arena - ci ha confermato due fatti. Il primo, che nell’ottobre del 2013 l’Icam a Firenze non esisteva. Il secondo, che non è quindi vero che ha Firenze sono stati "i primi" a istituire strutture diverse dal carcere per le mamme detenuto con i bambini. Il primo Icam è quello di Milano, inaugurato nel 2006. Segue quello di Venezia, entrato in funzione nel 2013, mentre Firenze allora era in una fase di progettazione. Insomma un dato erroneo fornito da Renzi, causato forse da un consigliere a dir poco frettoloso". L’Icam ancora non c’è A un anno di distanza, cos’è cambiato? "Ad oggi l’Icam a Firenze ancora non c’è. Non a caso nel carcere di Sollicciano ci sono bambini detenuti e uno tra questi ha addirittura più di 6 anni, quando per legge i bambini devono lasciare il carcere al compimento del terzo anno di età. Pochi lo sanno, ma attualmente sono circa una trentina i bambini detenuti che vivono in cella all’interno delle carceri d’Italia, anche se il dato è ovviamente in continua evoluzione. A volte non si ha neanche la capacità e la serietà di capire che alcune madri, per la natura dei reati commessi, non meritano di tenere accanto a sé il proprio figlio. Un aspetto che so essere di estrema delicatezza, ma su cui è necessario ragionare". Sarebbero, invece, solo una decina i bambini che vivono negli Icam di Milano e Venezia. Perché? "La legge non viene applicata perché sono pochissime (2 o 3 in tutta Italia) le strutture diverse dal carcere indicate dalla normativa. D’altra parte, non serviva neanche scomodare l’assonnato Parlamento per fare l’ennesima legge, ma sarebbe bastato un semplice accordo amministrativo tra ministero della Giustizia e i singoli enti locali per creare queste strutture alternative e togliere i bambini dalle carceri. Nel capoluogo lombardo in pochi mesi è stata creata una sezione del carcere di San Vittore in un appartamento nella città. Un "miracolo a Milano", realizzato grazie alla capacità di chi lo ha voluto e a un semplice atto amministrativo, senza chiedere un intervento normativo". Amnistia e indulto? Il premier Matteo Renzi aveva annunciato entro giugno una straordinaria riforma della giustizia, che effettivamente verrà portata in consiglio dei ministri il prossimo 27 giugno. Fra gli obiettivi, allungamento della prescrizione e archiviazione dei processi di lieve entità. La volta buona? "Il teatrino intorno alla riforma della legge elettorale, riforma che è assai più semplice rispetto a quella della giustizia, mi sembra purtroppo eloquente. L’amnistia e l’indulto comportano da parte dello Stato una rinuncia alla sua potestà punitiva. Una rinuncia che non piace neanche a me. Ma il problema resta e va affrontato anche con strumenti poco graditi. Infatti il processo penale non riesce più a dare una risposta di giustizia, e quando questa arriva è tardiva, mentre la pena si traduce in una tortura. Resto stupito da una politica che ignora un problema che attiene allo Stato di diritto e quindi all’assetto democratico del Paese. Come resto stupito da una politica che non abbia la capacità, ed il coraggio, di affrontare il grave problema rappresentato dal collasso in cui versa un potere sovrano dello Stato". Giustizia: Cassazione; se lo spaccio è di "lieve entità" la pena va rivista di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore La successione delle leggi determina il rinvio alla Corte d’appello per la rideterminazione della pena. La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, avverso la sentenza 4490/2013 della corte d’appello di Bologna, presentato da due condannati in materia di stupefacenti - per detenzione a fini di spaccio di cocaina, i quali lamentavano l’eccessiva quantificazione della pena. I giudici di merito avevano ritenuto il fatto di "lieve entità" commesso sotto la vigenza della legge 49/2006 (recupero tossicodipendenti recidivi). La Cassazione ritiene invece che, quanto al trattamento sanzionatorio, vada applicata la legge più mite, retroattivamente applicabile, individuata nell’articolo 73, comma 5 del Dpr 309/1990 (testo unico sugli stupefacenti) da ultimo sostituito dall’articolo 1, comma 24-ter del Dl 36/2014 (disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) convertito con modifiche dalla legge 79/2014 che dispone che "salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329". La Corte di cassazione sottolinea come questa pena sia meno severa rispetto a quella tenuta presente dai giudici di merito, nella determinazione della pena inflitta a entrambi i ricorrenti. Per questo ha deciso, con sentenza n. 27619 pubblicata ieri dalla quarta sezione penale - presidente Vincenzo Romis, che andasse ricalcolata la pena con "un’operazione che implica un’integrale rinnovazione del giudizio di commisurazione, in funzione della nuova cornice edittale da assumersi a riferimento". La sentenza impugnata è stata, quindi, rinviata a un’altra sezione della Corte d’appello di Bologna. Giustizia: Roberti (Procuratore Antimafia); lo strumento del "carcere duro" resta valido Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2014 Il regime di carcere duro previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario "si é rivelato in questi 22 anni uno strumento estremamente efficace nella lotta alla mafia". Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, in audizione davanti alla Commissione diritti umani di Palazzo Madama. "Aver impedito, o ridotto notevolmente, la possibilità che un soggetto pericoloso, con una posizione di rilievo all’interno dell’organizzazione criminale, mantenesse collegamenti operativi con l’esterno - ha osservato Roberti - ha giovato notevolmente al contrasto alla mafia". Il 41 bis "é una misura di prevenzione - ha rilevato il procuratore nazionale antimafia - non ha nulla di afflittivo, o sanzionatorio, non va confusa con l’isolamento diurno" e non si deve ritenere che "sia uno strumento per costringere il detenuto a collaborare con la giustizia, anche se, oggettivamente, ne sono scaturite delle scelte di questo genere". Certo, ha aggiunto Roberti, "esiste il rischio di una inutile afflittività, ma va ricordato che tanto più si manifesta il lato preventivo della norma, tanto é più efficace nella lotta alla mafia". Roberti, però, rileva anche alcune criticità esistenti sul regime di carcere duro: per questo, auspica un "intervento delle sezioni unite penali della Cassazione" sulle modalità dei colloqui del reclusi al 41 bis con i propri familiari o con i difensori, e sottolinea la "questione delicata" delle proroghe (il 41 bis viene applicato per 4 anni, prorogabili di altri 2 di volta in volta). "Bisogna trovare uniformità sulla materia delle proroghe - ha concluso Roberti - la disciplina del 2002, confermata nel 2009, richiede il requisito oggettivo, relativo alla perdurante esistenza dell’organizzazione criminale di riferimento del detenuto, e quello soggettivo, sulla capacità del detenuto di relazionarsi con l’ambiente criminale esterno e di poter incidere sull’azione dell’organizzazione". Giustizia: Ugl; rivedere testo Reato Tortura, rischio criminalizzazione agenti penitenziari Adnkronos, 27 giugno 2014 "Siamo consapevoli che l’introduzione del delitto di tortura sia un atto dovuto del nostro Paese verso gli obblighi normativi di matrice internazionale e comunitaria, ma riteniamo fondamentale che tale fattispecie sia disciplinata in maniera adeguata, evitando di trasformare in ‘carneficì coloro che istituzionalmente sono deputati ad applicare le leggi penali". Lo afferma il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, nel suo intervento in audizione presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, spiegando che "se il testo non verrà radicalmente rivisto, si correrà il serio rischio di criminalizzare un Corpo dello Stato che, tra equilibri organizzativi continuamente in pericolo di implosione ed assenza di uomini e mezzi sufficienti a garantire l’ordine e la sicurezza negli istituti, già svolge a costo di enormi sacrifici il proprio lavoro senza tuttavia riceverne i dovuti riconoscimenti". "Temiamo, inoltre, - continua il sindacalista - che con l’affermarsi di nuovi modelli di gestione della detenzione, come la cosiddetta "vigilanza dinamica", senza i necessari adeguamenti strutturali ed organici, aumenteranno esponenzialmente quegli eventi, quali le risse e le aggressioni, che richiedono inevitabilmente il ricorso a mezzi coercitivi da parte del personale, facendo quindi ricadere su di esso la contestazione del reato in discussione". "Il presidente della Commissione Giustizia, Donatella Ferranti, - prosegue Moretti - ci ha assicurato la massima attenzione sulle problematiche che abbiamo segnalato ed ha anche accettato di richiedere all’Amministrazione Penitenziaria, finora esclusa dalle audizioni, le sue osservazioni sulla questione. Riteniamo, comunque - conclude il sindacalista - che l’introduzione del delitto di tortura non possa prescindere né dall’adozione di provvedimenti normativi finalizzati a decrementare il numero di detenuti, rendendo il carcere realmente l’extrema ratio, né dall’analisi del contesto in cui si svolge oggi il servizio della Polizia Penitenziaria". Giustizia: "sbagliai… mi scuso", dopo 30 anni parla il pm che accusò Enzo Tortora www.rainews.it, 27 giugno 2014 Fu lui, insieme ad altri suoi colleghi, nel maxiprocesso alla Nco (Nuova Camorra Organizzata) di Raffaele Cutolo ad imputare a Tortora di essere colluso con la camorra. "Il suo cliente è diventato deputato con i voti della camorra", urla Marmo durante l’udienza del 26 aprile 1985, in seguito all’elezione del conduttore al Parlamento europeo "Dopo trent’anni è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto". A parlare è il magistrato Diego Marmo, l’uomo che accusò il giornalista e conduttore televisivo di essere colluso con la camorra, in seguito all’elezione in Parlamento Europeo. Una decisione che venne ribaltata la prima volta nel 1986, quando Tortora era già in prigione da oltre tre anni, poi confermata con formula piena. Quello che ha coinvolto il giornalista Rai è stato uno degli errori giudiziari più eclatanti della giustizia italiana, ancora oggi citato quando si discute in merito all’opportunità di introdurre la responsabilità civile dei magistrati. "Il rammarico c’era da tempo" racconta il magistrato ormai in pensione a Francesco Lo Dico per il Garantista. Torna alla dura requisitoria di quei giorni, quella in cui definì tortora "un cinico mercante di morte". Un errore che Marmo fece in buona fede anche se "questo non vuol dire - spiega - che usai sempre termini appropriati. Mi feci prendere dalla foga". Non fu comunque il solo a sbagliare , perchè ci fu un’istruttoria, un rinvio a giudizio e un tribunale che accolse la sua richiesta di condanna. Marmo è stato recentemente criticato per la sua decisione di entrare in politica. L’ex procuratore capo di Torre Annunziata è stato infatti nominato assessore alla Legalità di Pompei. Proteste si sono sollevate dal fronte del pentastellati e da Forza Italia. Mara Carfagna tempo fa aveva detto "Sarebbe più facile dimenticare la sua requisitoria se solamente Marmo chiedesse scusa". Ora le scuse, tante attese, sono arrivate, chissà se ripagheranno i familiari degli errori subiti, seppur in buona fede. Giustizia: la storia di Catello e Maria, un amore tra le sbarre di Daniel Rustici Il Garantista, 27 giugno 2014 Ci incontriamo alla sede del partito Radicale di lunedì, il giorno libero di Maria. È vestita elegante, tailleur e pantaloni neri, ma le mani sono quelle di una lavoratrice: quattordici ore al giorno per sei giorni alla settimana come lavapiatti in un ristorante. Lo stipendio non le basta per organizzare un viaggio con le due figlie ad Oristano, dove suo marito è stato trasferito dopo un periodo di detenzione nel carcere di Viterbo. È arrabbiata Maria per questo improvviso cambio di istituto penitenziario; l’ennesimo per Catello Cioffi che nella sua odissea giudiziaria, trenta anni (ventitré con l’indulto) da scontare per vari reati legati al suo passato nella camorra, ha cambiato molte carceri tra cui quelle di Regina Coeli, Rebibbia, Nuoro e Poggioreale. Questa volta però al danno si aggiunge la beffa: il trasferimento avvenuto il ventinove maggio scorso (un provvedimento che ha riguardato anche altri 800 detenuti sparsi in giro per l’Italia) è stato giustificato dalle autorità come una risposta umanitaria alla messa in stato di accusa da parte dell’Europa per le nostre galere sovraffollate. Verrebbe da dire: una pezza peggiore del buco. Cioffi infatti a Viterbo stava iniziando un graduale percorso di reinserimento, la buona condotta e il pentimento lasciavano presagire la possibilità di accedere a uno stato di semilibertà; c’erano stati segnali in questo senso e Maria e le figlie, una di 19 anni l’altra una minore di 12, stavano davvero sperando di poter riabbracciare l’uomo di casa dopo diciassette anni di contatti filtrati dall’angustia degli spazi carcerari. Con il trasferimento in Sardegna questa prospettiva si fa molto più effimera: oltre ad allontanare di molti chilometri Cioffi dalla sua famiglia, il "cambio di residenza" ha anche l’effetto di cancellare con un colpo di spugna tutto il percorso di riabilitazione che lo aveva portato a un passo dall’agognata (semi) libertà. Maria però non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha già presentato un esposto all’ufficio del garante dei detenuti della regione Lazio: "Ciò che mi dà la forza di andare avanti è l’amore". Un amore che cerca di farsi largo tra la penuria di libertà e tempi per gli affetti che concedono le patrie galere dove Catello e Maria nel 2001 hanno concepito la loro secondogenita, durante un colloquio settimanale. "Non ce l’hanno mai perdonato", mi dice. Non appena fu evidente lo stato di gravidanza della moglie Cioffi fu trasferito da Rebibbia a Nuoro: "Non può essere una casualità". È ancora un tabù il diritto alla sessualità e all’affettività per i carcerati. Ed è un tema su cui Maria Contaldo si è spesa in prima persona fondando un’associazione assieme ad altre donne i cui mariti, come il suo, sono rinchiusi in una cella. Oggi però la battaglia che Maria sente come più impellente è quella per far tornare suo marito a Viterbo o comunque in un carcere più vicino a Roma dove vive con le figlie. Al suo fianco in questa lotta ci sono l’associazione Antigone, il partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino. Nonostante la drammaticità di questa situazione di lontananza forzata Maria, oltre alla determinazione, non perde nemmeno l’ironia. Parlando del periodo di latitanza su e giù per l’Italia prima dell’arresto del marito scherzando dice: "Almeno non possiamo dire di non avere fatto un viaggio di nozze avventuroso". Giustizia: il Corriere della Sera pubblica inserzione pro-Dell’Utri, i giornalisti protestano Ansa, 27 giugno 2014 "Al tuo fianco, Marcello": è il titolo di un avviso a pagamento che occupa un’intera pagina del Corriere della Sera, e che propone decine di messaggi di solidarietà a Marcello Dell’Utri, l’ex senatore estradato di recente dal Libano ed in carcere a Parma dove sta scontando una pena di sette anni di reclusione in seguito ad una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. "A firmare i messaggi di sostegno - scrive il Corsera in un’altra pagina - è soprattutto chi ha lavorato con Dell’Utri a Publitalia 80 o alle attività culturali ed editoriali, dalla Fondazione biblioteca di via del Senato al settimanale Il Domenicale. Da Niccolò Querci, consigliere Mediaset e vicepresidente di Publitalia 80, assistente di Silvio Berlusconi negli anni Novanta, ad Alessandro Salem, direttore generale dei contenuti Mediaset e braccio destro di Pier Silvio Berlusconi. L’ex direttore del Domenicale, Angelo Crespi, lo ringrazia come editore, mentre altri ricordano conversazioni e interventi alla biblioteca di via Senato". Scrive ancora il Corsera che si leggono, tra le altre, "le firme del cugino dell’ex senatore, Massimo Dell’Utri, professore all’ Università di Sassari, e della Bacigalupo di Palermo, la squadra di calcio dilettantistico fondata da Dell’Utri nel 1957. E del deputato azzurro Massimo Palmizio". I giornalisti del "Corsera" contro l’inserzione Ai giornalisti del "Corriere della Sera" non è piaciuta l’inserzione a tutta pagina a favore di Marcello Dell’Utri apparsa sul loro giornale. In una nota il Comitato di redazione del quotidiano di via Solferino ha condannato l’iniziativa, giudicando "molto grave la scelta compiuta dalla direzione di accettare passivamente un’intera pagina pubblicitaria acquistata dagli amici di Marcello Dell’Utri", l’ex senatore di Forza Italia condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, pena che sta scontando nel carcere di Parma. "Non entriamo nel merito dei sentimenti di quanti conoscono e vogliono mostrare la loro vicinanza a una persona detenuta", afferma la nota, "ma a giudizio del Comitato di redazione sarebbe stato più opportuno rifiutare la pagina pubblicitaria. È comunque inaccettabile che la direzione del Corriere della Sera abbia deciso di pubblicare un testo simile senza sentire quantomeno il bisogno di prenderne le distanze. Invece il Corriere si è limitato a pubblicare un pezzo di cronaca a pagina 9, ricordando semplicemente che Dell’Utri è stato condannato in via definitiva a sette anni di carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa". "Inoltre - scrive ancora il Comitato di redazione del Corriere - è stato costituito un imbarazzante precedente. Da oggi, ci chiediamo, come il Corriere potrà rifiutare analoghe richieste degli amici di altri condannati per mafia, seppur meno noti di Marcello Dell’Utri". Secondo il Cdr "la scelta, per altro, entra in contraddizione con quanto il Corriere scrive spesso, vale a dire che queste forme di comunicazione con detenuti condannati per mafia possono trasformarsi in pericolose interferenze su indagini in corso e contribuire a creare un clima di discredito nei confronti dei magistrati e degli uomini delle forze dell’ordine impegnati contro la mafia". "Per quanto accaduto - conclude il comunicato sindacale - i lettori del Corriere meriterebbero le scuse da parte della direzione". Nella pagina incriminata campeggia la scritta "Al tuo fianco, Marcello". Accanto ci sono poi i messaggi di solidarietà di amici e collaboratori dell’ex senatore, come quello di Giuseppe Mariani, il suo autista, che gli esprime "tutta la gratitudine, per aver reso questi 27 anni di vita lavorativa insieme, semplicemente straordinari", oppure quello della sua storica segretaria, Ines, che afferma: "Oltre 30 anni di lavoro vissuti fianco a fianco la stima e l’affetto aumentano quotidianamente, andiamo avanti". Vicinanza viene espressa a Dell’Utri anche dai lavoratori di Publitalia, che scrivono: "Siamo sempre orgogliosi di avere avuto il privilegio di lavorare nella Publitalia diretta da Marcello Dell’Utri e nulla può cambiare il nostro giudizio sul contributo positivo e straordinario che il nostro lavoro con lui ha donato a tutta l’Industria e al nostro Paese". Giustizia: Annamaria Franzoni va ai domiciliari, ma non potrà tornare a Cogne www.giornalettismo.com, 27 giugno 2014 Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha deciso che Annamaria Franzoni andrà ai domiciliari. Il collegio ha sciolto la riserva dopo l’udienza di martedì 24 giugno, quando era stata discussa la perizia psichiatrica del prof. Balloni, il quale aveva escluso il rischio di recidiva di figlicidio per la donna. La Franzoni sta scontando una condanna di 16 anni e da sei si trovava in carcere. Nella giornata di giovedì lascerà il penitenziario, ma non potrà tornare a Cogne. Il sindaco del pase della Val d’Aosta ha così commentato la decisione dei giudici, riporta il Corriere: "Non credo che i giudici abbiano tenuto in considerazione le nostre volontà, ma la decisione di vietarle il ritorno a Cogne di certo non ci dispiace. L’importante era che non venisse a scontare il resto della pena quassù. Per noi è una vicenda chiusa - ha aggiunto Allera - e prima la dimentichiamo e meglio è". Per il professor Balloni, incaricato dal tribunale di Sorveglianza di esprimersi sul rischio di recidiva per la donna ha scritto che "dopo poco più di 12 anni dal fatto si può sostenere che non vi sia il rischio che si ripeta il figlicidio, come descritto nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino" aggiungendo che secondo lui, appunto, il crimine non si ripeterà. "Una tale costellazione di eventi non è più riscontrabile". Anche il contesto familiare della Franzoni è uno dei fattori che hanno pesato nella decisione di farle scontare il resto della pena fuori dalle mura del carcere. Il tribunale di Sorveglianza infatti ha indicato nel marito e nei due figli un elemento di sostegno nel percorso di risocializzazione della donna. La Franzoni continuerà il percorso di psicoterapia intrapreso in carcere. Inoltre nel periodo di libertà vissuto dalla Franzoni tra la custodia cautelare e la carcerazione, quando la condanna è diventata definitiva, non si sono verificati problemi di alcun tipo. La Franzoni si trovava nel carcere di Bologna dal 2008 e alcuni mesi fa era stata ammessa al lavoro esterno in una cooperativa sociale di una parrocchia della città, usufruendo anche di permessi per tornare nella casa sull’Appennino bolognese dove vivono il marito e i due figli. "Siamo felici. Sono momenti di fibrillazione, speravo in questa decisione" ha commentato Paola Savio, avvocato di Annamaria Franzoni. L’ex procuratore capo di Aosta Maria Del Savio Bonaudo ha commentato la concessione dei domiciliari alla donna. "Non credo che sbaglierà più. Sono cambiate le condizioni: i bambini sono cresciuti, non ha più quella vita dura che spiega tante cose, non c’è più la solitudine di Cogne, ora i familiari le sono vicini". Lettere: quale sarebbe la pena giusta per un uomo che ha fatto questo? di Carmelo Musumeci (ergastolano in carcere a Padova) Ristretti Orizzonti, 27 giugno 2014 Penso che in questi giorni sia difficile difendere la lotta per l’abolizione dell’ergastolo con questi brutti fatti di cronaca nera. E a volte mi viene voglia di arrendermi davanti alla "Pena di Morte Viva" quando qualcuno del mondo dei buoni mi fa domande come questa che mi ha fatto Angelo. Ciao Angelo, mi chiedi quale sarebbe la cosa (la pena) giusta per un uomo che ha fatto questo (ha ucciso la moglie, la figlia di cinque anni e il figlio di venti mesi). Non è facile rispondere alla tua domanda. Io sono un vigliacco e ci rinuncio. Ti farò però rispondere dal mio cuore perché lui è più coraggioso di me. Condannerei quest’uomo alla pena più terribile e più dolorosa, lo punirei a diventare buono per tirargli fuori il senso di colpa. Angelo, la tua domanda è difficile, molto difficile perché credo che parti dal punto di vista che la pena deve punire, deve vendicare il male commesso. Io invece credo che la pena debba vendicare cambiando in meglio l’individuo che ha commesso il male. Angelo, la reclusione a vita come pena è peggiore della morte stessa. La società, la buona società, quando punisce dovrebbe preoccuparsi di farlo senza arrecare altro male, tanto non si può rimediare al male già fatto. E non si può confondere la giustizia con la vendetta. Angelo, credimi, la pena dell’ergastolo è semplicemente una vendetta, la vendetta dei forti e dei vivi, non certo dei morti. E questa pena non rende migliore né chi lo emette né chi lo subisce. Si può scontare la propria pena in tanti modi, ma non con l’ergastolo perché non c’è reato che si possa pagare con una vita intera in carcere. La pena per essere giusta deve pensare al futuro e non al passato, l’ergastolo invece guarda sempre indietro e mai avanti. Angelo, la pena per essere capita, compresa e accettata, deve avere una fine, una pena che non finisce mai non può essere capita, compresa e accettata. Credo che neppure Abele avrebbe voluto l’ergastolo per Caino perché sennò Abele sarebbe diventato peggiore di Caino. Angelo, la pena dell’ergastolo non potrà mai essere giusta e te lo dice un criminale incallito che credeva alla vendetta. E ora invece credo che il perdono sociale sia la pena più perfetta, più difficile, più giusta e più dolorosa per chi la concede e per chi la riceve. Angelo, una pena come l’ergastolo non sarà mai in grado di fare giustizia perché reagendo al male con il male non si fa altro che alimentare altro male. Un sorriso fra le sbarre. Lettere: la mia odissea, in cella per false accuse di Emilio Quartieri Il Garantista, 27 giugno 2014 Più volte mi è stato chiesto di raccontare la mia "esperienza carceraria" ma, fino ad ora, ho sempre evitato perché ripercorrere con la mente certi momenti non è affatto facile e, peggio ancora, quando li si deve rendere pubblici. Credo, però, che certi fatti non debbano passare inosservati per cui, ho accettato di raccontare la mia storia a "Il Garantista". Da anni svolgo attività politica con la Federazione dei Verdi ed ultimamente con i Radicali, mi sono occupato - e mi occupo -problemi legati al carcere, anche accompagnando parlamentari negli istituti penitenziari durante le ispezioni, per fargli rendere conto delle condizioni degradanti di detenzione sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Alla luce di questo mio impegno, ho anche accettato alle ultime elezioni la candidatura nella Circoscrizione della Calabria, con la Lista Radicale "Amnistia, Giustizia e Libertà". La mia vicenda ha inizio proprio pochi giorni prima delle elezioni, il 13 febbraio del 2013, quando alle 5 del mattino, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip del tribunale di Paola nell’ambito dell’Operazione Antidroga "Scacco Matto", vengo arrestato dai carabinieri e condotto presso la casa circondariale di Paola insieme ad altre persone. Mi veniva contestato di aver detenuto illecitamente ed occultato, negli anni precedenti, quantità imprecisate di cocaina e marijuana e di averla ceduta a terzi. Unici elementi di prova nei miei confronti, raccolti in sede di indagine, le dichiarazioni rese ai carabinieri da alcuni soggetti tossicodipendenti che mi accusavano di avergli ceduto, in più occasioni e dietro pagamento, piccole quantità di droga. Contrariamente agli altri indagati, in sede di interrogatorio di garanzia, ho scelto di non fare "scena muta", ho risposto alle domande del giudice, rifiutandomi di rispondere a quelle che ritenevo potessero fornire elementi suscettibili di provare la responsabilità di terzi. Le mie spiegazioni non vennero ritenute credibili e, per il rifiuto da me opposto, il giudice respinse l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Mi sono dunque rivolto al Tribunale del Riesame di Catanzaro che però ha rigettato la richiesta, sostenendo che dovessi restare in carcere perché esistevano diverse intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché attività di riscontro, di osservazione e pedinamento. Non riuscivo a crederci. Dopo qualche mese, il pm otteneva il giudizio immediato per tutti i reati contestati. Io scelsi di seguire il rito ordinario ritenendo di poter essere prosciolto da ogni accusa. La prima udienza, fissata per il 10 luglio, veniva rinviata al 2 ottobre per lo sciopero - giusto - degli avvocati. Così sono tornato in cella. Ma la situazione per me si faceva ogni giorno più insopportabile, anche per i continui contrasti con la direzione dell’istituto. Così analizzati tutti gli atti processuali, ho chiesto di essere scarcerato contestando anche quanto inspiegabilmente riportato nell’ordinanza dai giudici del Riesame rispetto all’esistenza di intercettazioni o riscontri da parte degli investigatori che confermassero l’attività delittuosa ipotizzata. Niente da fare! Nel frattempo, dopo ripetuti procedimenti disciplinari, sono stato trasferito nel carcere di Cosenza e dopo un breve periodo, trascorso anche in regime di isolamento, mi sono stati concessi gli arresti domiciliari in un paesino di montagna, lontano dalla mia città. Alla prima udienza utile, ho presentato personalmente una questione di legittimità costituzionale sulla famigerata Legge Fini-Giovanardi. Successivamente, alla ripresa del processo, ho depositato la sentenza della Corte Costituzionale che accoglieva le stesse questioni di costituzionalità che altre autorità giudiziarie avevano sollevato. Nelle scorse udienze sono stati sentiti gli Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che hanno svolto le indagini. Hanno affermato di non aver mai documentato alcuna attività di detenzione o cessione di stupefacenti da parte mia, che non sono mai state effettuate sul mio conto intercettazioni telefoniche ed ambientali e che l’arresto era scaturito solo per via delle dichiarazioni rilasciate dai tossicodipendenti. Precisavano, infine, che nell’ambito dell’inchiesta, erano emersi solo dei miei contatti con alcuni degli altri indagati di natura esclusivamente amichevole. Nulla a che fare con lo spaccio di droga! Inoltre qualcuno tra i miei accusatori ha ammesso di essersi inventato tutto, "pressato" dai carabinieri. Il processo intanto è ancora in corso. Se ne riparlerà ad ottobre. Mi domando: è mai possibile che in uno Stato di diritto una persona venga arrestata e portata in carcere solo sulla base di qualche dichiarazione, priva di qualsivoglia riscontro, perché sospettata di aver detenuto e poi ceduto qualche dose di droga? È mai possibile che si possa restare in "carcerazione preventiva" ed in attesa di giudizio tanto tempo? Toscana: dalla Regione apprezzamento per l’attività del Garante dei detenuti Corleone www.nove.firenze.it, 27 giugno 2014 La commissione Affari istituzionali ha approvato all’unanimità una proposta di risoluzione dopo aver esaminato la relazione dell’attività del Garante nel 2013. Apprezzamento per l’attività svolta dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Ad esprimerlo è la commissione Affari istituzionali, presieduta da Marco Manneschi (Idv-Alde). La Commissione ha esaminato la relazione annuale 2013 presentata dal Garante Franco Corleone, che nel corso del 2013 ha sostituito il dimissionario Alessandro Margara. L’apprezzamento è rivolto all’attività di entrambi. La commissione si è espressa con voto unanime, ha approvato una proposta di risoluzione che "ribadisce l’impegno, assunto con la legge di istituzione della figura del Garante regionale dei detenuti, a contribuire attraverso tale organo ad assicurare la finalità rieducativa della pena e il reinserimento sociale dei condannati e, più in generale, l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali e la rimozione degli ostacoli al godimento di tali diritti all’interno delle strutture restrittive della libertà personale". Viene inoltre ribadito l’impegno "a sostenere e rafforzare l’efficienza dell’Ufficio del Garante regionale nel compimento delle funzioni assegnategli". Nella relazione del Garante si rileva un calo, ancora modesto, nei numeri della popolazione detenuta in Toscana: 3mila 680 unità ad oggi a fronte dei 4mila 344 del dicembre 2009. Si evidenzia inoltre come molte delle carceri toscane siano in condizioni di degrado strutturale, o parzialmente chiuse, e con spazi inutilizzati perché le ristrutturazioni non sono portate a termine a causa principalmente di lungaggini burocratiche. Secondo l’analisi effettuata nella relazione, il 26 per cento dei detenuti in Toscana è in carcere non per scontare una pena ma in custodia cautelare, mentre il dato nazionale è del 36 per cento. Si riscontra un aumento nell’applicazione delle misure alternative alla detenzione, mentre risultano in calo gli affidamenti in prova. Il Garante ha inoltre indicato tra gli impegni programmatici per il 2014 la chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino; il funzionamento della sanità in carcere dopo il passaggio al servizio sanitario nazionale; l’impegno, in relazione all’uscita dal carcere dei detenuti tossicodipendenti, per il potenziamento dei trattamenti e del supporto ai carcerati; il monitoraggio sull’uscita dal carcere di detenuti per reati legati alla tossicodipendenza. Lombardia: dalla Commissione Speciale via libera alla Risoluzione sulle carceri regionali Agenparl, 27 giugno 2014 Via libera dalla Commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia alla risoluzione volta a risolvere le problematiche che interessano gli istituti di pena di Canton Mombello, Varese e Cremona. "Attraverso il documento, approvato all’unanimità nella seduta odierna - spiega Fabio Fanetti, presidente della Commissione speciale - si invita la Giunta a porre in essere tutte le azioni possibili per promuovere una efficace collaborazione tra le istituzioni locali e l’amministrazione penitenziaria per trovare soluzioni idonee a risolvere le criticità strutturali presenti negli istituti penitenziari. Ma non solo: tramite la promozione di un’intesa presso la Conferenza Stato Regioni e il Ministero di Giustizia, ci auguriamo che possano essere messe a disposizione le risorse necessarie per sopperire alle carenze strutturali riscontrate in questi istituti, affinché possano essere garantiti la salute e il benessere dei detenuti". Brescia "Nel caso specifico di Canton Mombello - spiega il presidente Fanetti - l’attenzione deve rimanere particolarmente alta. Seppure la condizione della casa circondariale sia migliorata grazie al lavoro del direttore, degli operatori e della polizia penitenziaria e grazie al trasferimento di parte dei detenuti presso Cremona, non si può certo dire che il problema sia risolto. Considerate le gravi carenze strutturali, auspichiamo che il Ministero, di concerto con l’Amministrazione comunale, possa al più presto decidere quando si farà il nuovo carcere cittadino. Il Piano di governo del territorio ha individuato nell’area adiacente a Verziano lo spazio per ampliare l’istituto di pena. Tale soluzione permetterebbe di dismettere la struttura di Canton Mombello, risolvendo l’annoso problema del sovraffollamento". Varese "Auspichiamo che venga al più presto trovata una soluzione per salvaguardare la struttura - dichiara Fanetti - e che si arrivi al più presto a revocare il decreto del 2001 che ne prevedeva la chiusura e che ha bloccato di fatto l’arrivo dei finanziamenti. Nel Pgt del Comune di Varese è stata individuata in via Friuli un’area da destinare alla realizzazione del nuovo carcere o, in alternativa, è stato ipotizzato di recuperare e ampliare l’attuale struttura mediante la cessione dell’attigua proprietà di via Sempione, che attualmente ospita il comando della Polizia locale. Non saremo noi a decidere il futuro della struttura, ma ci auguriamo che, anche tramite la sollecitazione da parte di Regione Lombardia, il Ministero arrivi al più presto a prendere una decisione insieme al territorio, indispensabile per garantire la salute e il benessere dei detenuti, nel rispetto della dignità umana". Cremona "Per quanto riguarda il carcere di Cremona - spiega il presidente Fanetti - sono state evidenziate, a seguito delle audizioni in Regione Lombardia e del sopralluogo della Commissione nella casa circondariale, forti criticità strutturali di alcuni reparti, determinate da infiltrazioni idriche, in particolare nei padiglioni E e F e nell’edificio che ospita la Polizia penitenziaria. Sappiamo che per quanto riguarda i padiglioni sono già stati appaltati i lavori per il loro rifacimento, ma è necessario che la situazione si sblocchi al più presto anche per la sistemazione della sezione dell’isolamento e della caserma della polizia penitenziaria". "Attraverso l’approvazione della risoluzione, che nelle prossime settimane approderà in Aula per la votazione da parte del Consiglio regionale, auspichiamo che possano essere al più presto recuperati fondi per affrontare l’emergenza e - prosegue il presidente - garantire le condizioni minime richieste in materia di sanità e igiene, non solo per i detenuti, ma anche per la polizia penitenziaria". "Infine - conclude Fanetti, la ristrutturazione dei padiglioni permetterebbe di avere a disposizione delle idonee celle per circa 50 nuovi detenuti". Milano: detenuto "incompatibile" col carcere si suicida, famiglia risarcita con 529mila € di Peppe Rinaldi Libero, 27 giugno 2014 Lui si uccide in galera, la psicologa incapace di valutarne la propensione al suicidio viene condannata, ma a pagare il risarcimento ci penseremo tutti noi. Per il "tramite del ministro della Giustizia pro tempore", recita l’algida formula nella sentenza del tribunale di Milano scritta dal giudice Fabio Roia in seduta monocratica l’8 aprile, di cui si conoscono ora le motivazioni. Otto mesi per la psicologa e mezzo milione di euro come provvisionale immediatamente esecutiva in attesa delle determinazioni del giudice civile: precisamente 529mila euro, obbligati solidali l’operatrice penitenziaria e il ministro. Motivazioni interessanti, volendo, perché in 46 pagine incrociano diritti e doveri nella dinamica di più amministrazioni pubbliche concorrenti al regime detentivo di un soggetto debole e suscettibile, pertanto, di maggior tutela. La storia è tragica, come la stragrande maggioranza delle storie di galera italiane, discariche pubbliche imbottite di umanità varia. Luca Campanale era un ragazzo di 28 anni, milanese, che a 17 subì un trauma cranico per un incidente motociclistico. Da quel giorno la testa ha iniziato a seguire strane traiettorie. Succede. Poi la droga, l’erba, ma soprattutto crack e cocaina completavano un quadro già molto border-line. Non lo dice Libero, lo scrivono decine di rapporti medico-sanitari, lo sancisce il giudice in sentenza. Luca aveva bisogno di soldi, ne chiedeva sempre in famiglia, era fuori di testa, chi gli voleva bene sprofondava nel buio giorno per giorno accanto a lui. Una sera del 2008 mette a segno una rapina alla stazione centrale di Milano, lo beccano e lo rinchiudono, viene condannato a 2 anni. Poi un altro magistrato ne chiede il processo per un fatto analogo e pure qui la pena è di 2 anni. Tempo interminabile per chiunque, figuriamoci per un soggetto psicotico, con manie persecutorie, logorroico, con ridotte capacità relazionali, spiccata tendenza autolesionistica e molto altro di quanto si legge in relazioni, perizie e rapporti vari. Parte una via crucis che sfocerà il 12 agosto 2009 in una corda al collo nel bagno di una cella di San Vittore: proprio il carcere dove non voleva tornare, era a Pavia, le autorità lo gestivano alla meglio - diciamo - ma ora si tagliava le vene, ora si infilava una penna nel collo, ora era calmo, ora no, ora era convinto che i genitori fossero morti, ora si lacerava le carni, ora rendeva la vita impossibile a sé e ai "concellini" come il giudice chiama i compagni di cella. Si poteva evitare, c’era qualcuno che poteva o doveva farlo? Per il giudice, che ha accolto le tesi della procura (inizialmente l’ipotesi era di morte come conseguenza di abbandono di incapace, riqualificata dalla Corte d’Assise in cooperazione colposa in omicidio colposo) di sicuro sì: la psicologa che visitava Luca sottovalutò "anche grossolanamente" scrive Roia, il grado del rischio, cioè fallì la mission centrale. La psichiatra coimputata è stata assolta. Ma il maxi risarcimento riconosciuto ai due fratelli di Luca, alla madre e al padre è importante perché viene riconosciuta la responsabilità della pubblica amministrazione per le condotte del suo personale, senza se e senza ma. Personale su cui ha l’obbligo di vigilanza oltre a quello di provvedere alla corretta formazione professionale. Per ora, sganciare mezzo milione di euro: poi si vedrà. Sassari: caso Erittu; una strana morte, due sentenze opposte e… nessun contrasto di Daniela Scano La Nuova Sardegna, 27 giugno 2014 Il giudice Franco Pilo interpreta il caso Erittu con i codici. "Ecco perché bisogna aspettare per dire la parola fine". Una volta, a un avvocato petulante che gli ricordava il clamore mediatico scatenato da un processo che stava celebrando, rispose secco: "I giudici non leggono i giornali". Un paradosso, per far capire che in camera di consiglio devono entrare solo le carte processuali e non l’emozione popolare. Franco Pilo, storico presidente della sezione penale del tribunale sassarese, è in pensione da sette anni ma non ha cambiato opinione. "La mia era una battuta - spiega - per dire che il giudice deve sempre sottrarsi alla pubblica opinione, che non può in alcun modo influenzare le sue decisioni. E questo discorso vale a maggior ragione per i giudici popolari". Abbiamo chiesto a Franco Pilo di interpretare, da addetto ai lavori, lo strano caso del processo per la morte di Marco Erittu. Una vicenda che a suo tempo suscitò clamore mediatico e che ora sta facendo discutere. Due sentenze raccontano verità antitetiche sulla morte, avvenuta il 17 novembre del 2007, del detenuto sassarese nella sua cella di San Sebastiano. La sua fine venne inizialmente archiviata come suicidio, ma anni dopo Giuseppe Bigella raccontò ai magistrati della Dda che quella sera nella casa circondariale si erano incrociati due grandi misteri degli ultimi decenni: il sequestro-omicidio del farmacista di Orune Paoletto Ruiu, la sparizione del ventenne di Ossi Giuseppe Sechi. Un lobo dell’orecchio di Sechi era stato recapitato alla famiglia di Ruiu. Prima ancora dell’esame del Dna, a svelare il macabro e crudele inganno fu il fatto che entrambi i padiglioni auricolari arrivati alla famiglia Ruiu erano dello stesso lato. Marco Erittu raccontava in giro, da anni, di conoscere i retroscena di quelle brutte storie. "L’ho ucciso io - rivelò Bigella - su ordine di Pino Vandi che era coinvolto nell’omicidio Sechi. Con me c’era Nicolino Pinna e l’agente Mario Sanna ci aprì la cella". Il gup di Cagliari ha condannato Bigella a 14 anni, mentre la corte d’assise di Sassari non ha creduto al sedicente pentito e nei giorni scorsi ha assolto tutti gli imputati che l’uomo chiamava in correità. Insomma, nella sentenza cagliaritana Marco Erittu è stato ucciso, in quella sassarese si è suicidato oppure ha trovato la morte mentre compiva l’ennesimo gesto dimostrativo. Il presidente Pilo non trova niente di strano in due verdetti inconciliabili. "Non c’è alcun contrasto - spiega - perché una sentenza è passata in giudicato e l’altra no, quindi potrebbe essere confermata oppure riformata". Però è singolare che l’omicidio da una parte venga considerato un fatto acclarato e dall’altra sentenza non esista. "Non c’è ancora contraddizione - insiste il giudice -. Per capire meglio bisogna aspettare le motivazioni dell’assise. Fatta questa premessa, a Cagliari non c’era evidentemente alcuna ragione perché il giudice dovesse mettere in dubbio le parole dell’imputato. Il racconto di Bigella era verosimile e ha retto al controllo che di certo è stato fatto". "Del resto - prosegue l’ex presidente della sezione penale, dopo avere escluso un caso di mitomania, per quale ragione il gup avrebbe dovuto dubitare davanti a un imputato che si autoaccusava di un omicidio? Inoltre non bisogna dimenticare il fatto che il gup di Cagliari era chiamato a valutare la sola posizione processuale di Giuseppe Bigella. Non era suo compito verificare le chiamate in correità fatte dall’imputato, cosa che è stata invece fatta a Sassari". La corte d’assise presieduta dal giudice Pietro Fanile è rimasta fuori dalla cella numero 3 dove morì Marco Erittu. I giudici si sono fermati prima, hanno soppesato le parole del sedicente pentito e dopo avere cercato i riscontri le hanno evidentemente trovate niente altro che parole non supportate (o non del tutto) dalle altre prove. Il giudice cagliaritano che ha condannato Giuseppe Bigella a 14 anni di reclusione, invece, in quella cella è "entrato" e ha creduto al reo confesso. Con la formula "il fatto non sussiste", la corte d’assise sembra escludere che quel delitto sia stato commesso... "Se anche fosse, e ripeto bisogna aspettare le motivazioni della sentenza - risponde il giudice, non sappiamo se la corte d’assise ha ragione. E non lo sapremo fino a quando il processo non sarà definito. Ecco perché secondo me enfatizzare una sentenza è sempre un errore: questa nei successivi gradi di giudizio può essere confermata o riformata in mille modi. Non sarà questo il caso, ma potrebbe accadere. Quindi bisogna aspettare". Concetto difficile da comprendere, in una società che consuma le storie con la rapidità di un clic al computer e di un titolo di giornale. La verità processuale invece si forma e si disfa con anni di dibattimenti e di udienze e di giudici che cambiano il corso dei destini degli imputati. I tempi della giustizia, le sue parole, le sue molteplici e a volte contradditorie verità, seguono percorsi differenti da quelli della vita "normale". Nei tribunali Marco Erittu è morto in due modi diversi, entrambi drammatici. E Bigella dovrà assistere per anni tutte le altre tappe del processo agli uomini che ha accusato. Assassino fino a prova contraria. Parma: i Sindacati; 160 agenti in meno e 220 detenuti in più, sicurezza minima è chimera www.poliziapenitenziaria.it, 27 giugno 2014 "In questi ultimi tempi presso gli Istituti Penitenziari di Parma si stanno registrando condizioni di lavoro mai viste prima, nella storia dell’istituto". È la denuncia dei sindacati di categoria di Parma attraverso una lunga lettera. "A fronte di una pianta organica pari a 479 unità ne risultano assegnate 405 di cui in servizio effettivo soltanto 319 poiché 86 unità sono distaccate per motivi diversi e sparse per varie sedi regionali, extraregionali e romane. Da quanto sopra e da ciò che si andrà adesso ad illustrare, emerge un grave disinteresse degli Uffici Superiori, che a poco più di un anno dalla cruenta evasione che ha reso il Carcere di Parma famoso in tutta Italia, non hanno fatto nulla per porre rimedio al passato e per scongiurate eventi simili per il futuro. Per quanto concerne l’organico, il numero delle unità continua a diminuire, sempre a causa dei distacchi presso altre sedi o di pensionamenti; ed in occasione delle imminenti assegnazioni del nuovo corso agenti, le intenzioni del Dipartimento, pare, constano un implemento di sole 5 unità a fronte della carenza di ben 160. Per quanto concerne i detenuti, invece si assiste quotidianamente al trasferimento in questa sede di soggetti di elevato spessore criminale, già a capo di organizzazioni mafiose o camorristiche, ovvero di un elevato impatto mediatico come nel caso di un noto ex parlamentare. Tali assegnazioni gravano ancora di più sul lavoro del personale, ormai costretto a turni estenuanti al fine di assicurare livelli minimi di sicurezza che ormai sono solo una chimera. I sistemi di videosorveglianza e sorveglianza in genere, che dopo l’evasione avrebbero dovuto essere ristrutturati in toto, continuano a vacillare ed il personale è costretto a compensare con turni di lavoro massacranti. Oggi a Parma sono costretti 570 detenuti, per una capienza regolamentare che conterrebbe 350 posti. In pratica un sovraffollamento pari al doppio della capienza prevista. Ciò comporta che la stessa organizzazione del lavoro comincia a non essere più sufficiente per rispondere alle deficienze, soprattutto in termini di piantonamenti, ove si è arrivati anche a turni di otto ore (espressamente vietati). Per quanto sopra si chiede ai competenti Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria di ricordarsi dell’esistenza degli II.PP di Parma provvedendo all’assegnazione di unità di Polizia Penitenziaria nonché di valutare la possibilità di trasferire un congruo numero di detenuti proprio per rendere più idonee le condizioni di lavoro, ma anche di civiltà all’interno dei reparti. Trieste: mancano i "braccialetti elettronici", rimane tra le sbarre e non va ai domiciliari di Ferdinando Viola Il Piccolo, 27 giugno 2014 Denuncia dell’Osservatorio Carceri della Camera Penale. È successo nei giorni scorsi a un recluso del Coroneo. Può un detenuto che ha ottenuto gli arresti domiciliari dal Tribunale della Libertà, con l’utilizzo di strumenti di controllo elettronico, rimanere in carcere perchè la Casa circondariale di Trieste è priva di braccialetti? No. Lo dice l’Osservatorio Carceri della Camera penale di Trieste che ha denunciato la vicenda di un detenuto rimasto tra le sbarre cinque giorni in più: doveva uscire il 16 giugno, è andato ai domiciliari invece il 21, quando finalmente è arrivato il famoso braccialetto. "Il provvedimento di scarcerazione - afferma l’avvocatessa Alessandra Devetag, referente dell’Osservatorio - non subordinava in alcun modo l’esecuzione della misura alla disponibilità di braccialetti elettronici, e pertanto alcuna censura può muoversi al provvedimento giurisdizionale. Accade invece che le forze dell’ordine preposte all’esecuzione della misura non la eseguano finché non abbiano disponibilità del braccialetto, traducendosi tale decisione in un indebito e illegittimo protrarsi della carcerazione". "L’utilizzo di tali strumenti - aggiunge la Devetag - ovviamente non inficia l’esecuzione della misura in sé, ma riguarda semplicemente le modalità di controllo successive da parte della polizia giudiziaria consentendo di utilizzare meno personale per tali finalità e di restringere i controlli ai soli indagati imputati privi di braccialetto". Proprio a Trieste, ma anche in altre sedi di carceri, accade che, a causa della scarsità di braccialetti elettronici a disposizione sul territorio nazionale e dell’alto numero di richieste avanzate nei vari Tribunali, non siano facilmente reperibili e nell’attesa di averne uno a disposizione gli arresti domiciliari non vengano eseguiti "con le conseguenze che si possono facilmente immaginare - sottolinea la referente dell’Osservatorio - in ordine a violazione dei diritti dell’indagato imputato e con il protrarsi indebito di restrizioni carcerarie, con buona pace delle numerose condanne inflitte dalla Cedu (la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo) all’Italia per il sovraffollamento carcerario". "Del tutto inaccettabile inoltre - conclude Alessandra Devetag - appare il protrarsi della carcerazione per motivi meramente organizzativi e tecnici, soprattutto in quanto l’utilizzo di strumenti di controllo, ulteriore restrizione della libertà personale poiché si aggiunge alla misura cautelare, agevola l’esecuzione della misura consentendo minor impiego di forza pubblica e risparmio economico, rispondendo quindi a un’esigenza di bilancio e di organizzazione della macchina giustizia. Inaccettabile che incagli organizzativi di tal fatta vengano fatti scontare, ancora una volta, ai cittadini". Oggi il sovraffollamento della Casa circondariale di via Coroneo raggiunge le 80 unità e sebbene la situazione sia relativamente tranquilla rispetto ad altre carceri, rimanere una settimana in più comporta non pochi problemi per il detenuto. "Dal carcere di Trieste mandati agli arresti domiciliari - afferma la dirigente Anna Bonuomo - ci sono tre detenuti, uno a Opicina, un altro a Reggio Emilia e il terzo nel Veneto. Non c’è nessuno oggi in attesa di braccialetti. Ma per l’impiego di questi c’è una procedura lunga più o meno 24 ore e che richiede l’intervento delle forze dell’ordine e della Telecom". Firenze: dall’Ikea bar e giochi per il carcere di Sollicciano, tutto pronto entro l’estate di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 27 giugno 2014 Caffè per i familiari, scivoli per i figli: così cambierà lo spazio-incontri. Un bar e un’area giochi firmati Ikea nel Giardino degli Incontri di Sollicciano. Partiranno lunedì i lavori per dare un nuovo volto allo spazio del carcere dedicato ai colloqui tra detenuti e familiari. Non più luogo freddo dove reclusi e parenti si parlano attraverso un vetro, bensì spazio vitale dove gli incontri potranno essere accompagnati da un caffè o da un aperitivo. La nuova struttura dovrebbe essere pronta entro l’estate (prevista l’inaugurazione con le autorità) e sarà allestita gratuitamente dell’azienda di mobilia svedese, che porterà a Sollicciano tavoli, banconi, sedie, scaffali, divani, tappeti e giochi con l’intento di umanizzare un importante pezzo di carcere, complessivamente 3mila metri quadrati tra la parte al coperto e quella esterna. Un’operazione voluta dalla direzione dell’istituto penitenziario e dalla fondazione Michelucci, ideatrice del Giardino degli Incontri, dove già negli ultimi anni si sono tenuti i colloqui tra detenuti e familiari, una media di circa 500 incontri ogni settimana. Adesso questo luogo, progettato dall’architetto pistoiese Giovanni Michelucci, diventerà ancora più confortevole grazie alla nascita di un punto ristoro che dovrebbe essere gestito da due reclusi attraverso una cooperativa sociale. E poi l’area giochi per bambini, dove i figli dei visitatori potranno divertirsi in autonomia. Un’area, anche quest’ultima, che potrebbe essere gestita da una delle donne detenute a Sollicciano. "È un progetto straordinario - spiega Corrado Marcetti della fondazione Michelucci - Familiari e detenuti si incontreranno in un luogo che per qualche minuto li farà sentire liberi, lontano dal duro ambiente carcerario. Potranno offrire un caffè alla moglie e una bibita ai loro figli, gustandoli seduti nell’area adibita con sedie e tavolini come fossero in un qualsiasi altro locale". Un progetto unico in tutta Italia, accolto con grande entusiasmo anche dalla direzione dell’istituto penitenziario: "Siamo grati a Ikea per la grande sensibilità - dice Gianfranco Politi, educatore di Sollicciano che ha curato il progetto. È un’iniziativa che valorizza l’affettività dentro il carcere, avvicinando Sollicciano ai modelli penitenziari d’eccellenza come quelli nord europei, dove i reclusi possano addirittura trascorrere momenti di intimità con i propri partner". Un importante passo in avanti verso l’umanizzazione del carcere, confermata anche dallo spettacolo che si terrà stasera e domani sera a Sollicciano, quando un gruppo di detenuti-attori della Compagnia di Sollicciano metterà in scena al teatro dell’istituto uno spettacolo su Pinocchio aperto alla cittadinanza. Verona: progetto "Orme oltre le mura", in carcere gli animali diventano… "educatori" di Lorenza Costantino L’Arena, 27 giugno 2014 Parte a Monitorio un progetto con Ulss 20, Forestale e l’Istituto Zooprofilattico. I detenuti si prenderanno cura dei cani abbandonati o di esemplari commercializzati illegalmente Quando l’educatore è un amico a quattro zampe. La casa circondariale di Montorio ha deciso di incrementare le esperienze di pet therapy per i detenuti. Parlare di "terapia" è però riduttivo. Attraverso il rapporto con gli animali, per la maggior parte cani, ma anche pappagalli e tartarughe sequestrati al commercio illegale, s’intende promuovere una "rieducazione affettiva" dei carcerati, abituandoli nuovamente a prendersi cura di qualcuno. E questo, forse, potrebbe anche trasformarsi in un lavoro, scontata la pena. E si pensa di creare in carcere tre rifugi fissi per animali. lutto parte dall’innovativa collaborazione fra la Casa circondariale di Montorio, l’Ulss 20, il Corpo forestale dello Stato, e l’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie. Il progetto si intitola "Orme oltre le mura" ed è stato già testato per un anno prima di entrare, d’orain avanti, nella sua applicazione piena e amplificata. I cani arriveranno in carcere dal canile sanitario dell’Ulss 20. Saranno scelte le bestiole che, oltre a una necessaria docilità, sono caratterizzate da età avanzata e da un basso indice di adottabilità. In questo modo, il beneficio sarà duplice: per i detenuti, che si occuperanno della gestione degli animali e che apprenderanno le basi dell’educazione cinofila, e per i cani, ciascuno dei quali avrà finalmente una persona tutta per sé per giocare, essere curato e nutrito. Maria Giuseppina Bonavina, direttore generale dell’Ulss 20, affiancata da Fabrizio Cestaro, direttore del Servizio veterinario, spiega: "L’impiego di animali da compagnia nelle nostre strutture, come nella casa di riposo di Tregnago e nella sala d’attesa dell’Oncologia di San Bonifacio, sta dando ottimi risultati sullo stato emotivo degli assistiti, con la riduzione di ansia e depressione, delle loro conseguenze psicosomatiche e quindi della somministrazione di ansiolitici. Si è pensato che gli stessi effetti potessero andare a beneficio dei detenuti, combattendo con la pet therapy il senso di solitudine e gli episodi di violenza e di autolesionismo". Annuisce Maria Grazia Bregoli, direttore del carcere di Montorio: "Il progetto ci entusiasma, perché risponde all’articolo 27 della Costituzione, in cui c’è scritto che la pena detentiva deve tendere alla rieducazione del carcerato. Il cane crea con chi si prende cura di lui una relazione spontanea e immediata. Faremo attenzione, naturalmente, che gli animali siano trattati con ogni riguardo. Nell’iniziativa saranno coinvolti detenuti fra i 18 e i 25 anni alla prima esperienza carceraria, e le donne. Ma non escluderemo chi ci dimostrerà di voler partecipare". Igino Aldrighetto, direttore generale dell’Istituto zooprofilattico, precisa che "il progetto persegue un miglioramento effettivo nella qualità di vita in carcere. Il nostro compito sarà mediare il rapporto fra animale e detenuto, garantendo il benessere di entrambi". Conclude Paolo Colombo, comandante provinciale del Corpo forestale: "Ci capita spesso di sequestrare animali protetti commerciati illegalmente. Inserendoli in questa iniziativa saranno trattati al meglio" Pescara: scuola e detenuti, al carcere di San Donato il primo della classe è un tunisino di Valentina Di Francesco Il Centro, 27 giugno 2014 Arrivato a conclusione il corso per le idoneità alla classe terza di sistemi informativi aziendali dell’Istituto tecnico Aterno-Manthoné di Pescara nell’istituto di pena. Le pagelle arrivano anche tra i detenuti dell’istituto di pena "San Donato". Nell’istituto di pena pescarese è arrivato a conclusione il corso (per le idoneità alla classe terza) di Sistemi informativi aziendali dell’Istituto tecnico Aterno-Manthoné di Pescara. E il "primo della classe" è stato un detenuto tunisino. Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali ed inalienabili della persona, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu. La cooperativa sociale Sirio nasce come primo strumento concreto per far vivere ai detenuti delle opportunità di formazione e di lavoro. Riallaciandosi a questo progetto sociale l’Aterno-Manthonè ha istituito per l’anno scolastico 2013/2014 un corso di studi per i detenuti dell’istituto di pena San Donato. A conclusione del corso sono state consegnate le pagelle ai detenuti, il "primo della classe", Abdelmajid Jannane, con la media del 9.78, mostra fiero il risultato conseguito. Alla consegna erano presenti il sindaco di Pescara, Marco Alessandrini, con il direttore della casa circondariale Franco Pettinelli e il dirigente scolastico dell’istituto Aterno-Manthon Donatella D’Amico, la coordinatrice del corso serale Sirio Marina Di Crescenzo, a fare gli onori di casa. "Il prossimo anno", ha promesso la dirigente scolastica Donatella D’amico, "d’accordo con il direttore ci sarà più informatica e anche un collegamento protetto a Internet". Roma: a Monte Mario torna il mercatino a sostegno delle biblioteche nelle carceri di Maria Romana Barraco www.romatoday.it, 27 giugno 2014 Nuovo appuntamento con l’iniziativa promossa dall’Associazione di promozione sociale "Cerco... piteco": raccolta fondi e sensibilizzazione circa la difficile realtà della detenzione. Il 28 giugno e ogni ultimo sabato del mese. "Un’occasione per leggere, conoscere e.... far evadere". Torna a grande richiesta un nuovo appuntamento a sostegno dell’iniziativa promossa dall’Associazione di promozione sociale Cerco...piteco di Monte Mario: il mercatino del libro per finanziare l’acquisto di libri e volumi per le biblioteche all’interno delle carceri. Un progetto che il virtuoso circolo culturale porta avanti ormai da tempo, organizzando eventi e iniziative tese non solo alla raccolta fondi per la causa ma anche e soprattutto alla sensibilizzazione del territorio sul tema della difficile realtà della detenzione minorile. E sono tante le attività nelle quali i volontari dell’associazione (rigorosamente senza fine di lucro) si impegnano in questo senso, come ad esempio la gestione di un servizio di front office per la fruizione del patrimonio librario della biblioteca dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, oppure l’organizzazione di attività ludico-culturali per i giovani detenuti. Dopo il grande successo dell’ultima data, il mercatino torna sabato 28 giugno, sempre nella sede del circolo in via Marchesini 8 (zona Monte Mario) con l’impegno e la tenacia di un appuntamento a cadenza periodica. Questo sabato, così come ogni ultimo sabato del mese, dalle ore 10:00 alle 20:00 sarà quindi possibile donare i propri libri oppure comprare quelli in esposizione, contribuendo così in entrambe i casi a sostenere il virtuoso e originale progetto: tutti gli introiti saranno destinati all’allestimento delle biblioteche all’interno delle carceri. Firenze: Pinocchio raccontato dal carcere, con la Compagnia teatrale di Sollicciano Il Tirreno, 27 giugno 2014 Continua il percorso della Compagnia del carcere di Sollicciano di Scandicci formata da attori detenuti coordinati da Elisa Taddei. La nuova produzione debutta stasera (replica domani sempre alle 20,30) nel nome di "Pinocchio" (sottotitolo "Scena padre") e riprende, debitamente aggiornato e riveduto, lo spettacolo che dieci anni fa inaugurò questa ulteriore esperienza sostenuta dalla Regione nell’ambito del progetto "Teatro e carcere". Il lavoro verte attorno al tema attuale di questi tempi del rapporto fra genitori (anziani) e figli (adulti). "La nostra compagnia - spiega la regista - costituita da attori di età diversa si prestava a questo progetto: si sono così formati due gruppi, i Geppetti e i Pinocchi, che via via si sono avvicendati nel dare corpo e voce in una sorta di contrappunto non tanto ai personaggi collodiani, quanto appunto a due generazioni, quella dei padri e quella dei figli". Anche quest’anno hanno dato il loro contributo gli studenti disabili del Liceo artistico di Firenze, collaborando alla realizzazione dei costumi. Sponsorizzata dalla Fondazione Carlo Marchi la Compagnia di Sollicciano ha collezionato fino ad oggi 14 spettacoli, ai quali hanno partecipato più di 250 detenuti tra attori, scenografi, assistenti al suono e alle luci. Terni: detenuto nigeriano aggredisce e ferisce 4 agenti della Polizia penitenziaria www.terninrete.it, 27 giugno 2014 Momenti di tensione, ieri mattina, nel carcere di vocabolo Sabbione di Terni. Un detenuto nigeriano, durante una notifica dell’ufficio matricola nel nuovo padiglione del carcere ternano, è andato in escandescenza aggredendo due assistenti capo della Polizia Penitenziaria. È scattato, immediato, l’allarme, sul posto sono intervenuti due colleghi che sono stati a loro volta aggrediti a calci, pugni e morsi. Solo l’intervento degli operatori sanitari , che hanno provveduto a sedare il detenuto, ha riportato la calma. I 4 agenti sono stati giudicati guaribili in 7 giorni. Soltanto pochi giorni fa il sottosegretario , Gianpiero Bocci, visitando il carcere di Terni, non aveva ravvisato lo stato di sovraffollamento della struttura, "sottovalutando i problemi del personale che passano sempre in secondo piano", afferma i sindacati di categoria. Trieste: agente penitenziario aggredito da un detenuto, la denuncia del Cosp Il Piccolo, 27 giugno 2014 Un’agente penitenziario è stato aggredito da un detenuto nel carcere di Trieste, ha dovuto ricorrere alle cure del medico del Pronto soccorso di Cattinara. La denuncia arriva dalla Segreteria generale del Cosp, il Coordinamento sindacale penitenziario. È successo ieri mattina poco dopo le 10. L’agente, che stava svolgendo il suo normale servizio tra le celle, è stato sbattuto violentemente a terra da un detenuto, un triestino condannato per spaccio di droga. Subito soccorso dai colleghi, è stato trasportato al Pronto soccorso dell’ospedale dove è stato trattenuto per alcune ore. Per il Cosp, nella Casa circondariale di via Coroneo "si lavora in situazioni di criticità, con più posti da vigilare, a volte anche 20 o 40 detenuti contemporaneamente, con grave carenza di personale di polizia e con detenuti sempre aperti nel corso della giornata lavorativa. Il risultato poi sono aggressioni e aggrediti". Il detenuto triestino, 38 anni, non è nuovo a episodi del genere. "È una situazione d’ingovernabilità. Il detenuto è stato più volte prima sanzionato e poi, "graziato" forse da chi dovrebbe applicare norme e regolamento" afferma il comunicato del sindacato. "L’episodio di aggressione ai danni della Polizia penitenziaria oggi a Trieste - sottolinea ancora il Cosp - segue di poco altri episodi accaduti in Campania, per non parlare di quelli accaduti in Sardegna e Sicilia, prima in Puglia e Basilicata. Insomma un diario di bordo penitenziario già stabilito giornalmente almeno sul numero delle vittime che il carcere e le sue evoluzioni dinamiche sfornano giorno dopo giorno". Il Coordinamento sindacale denuncia anche la particolare situazione della sede di Trieste: "Deve essere assegnato un direttore titolare. Ora opera un direttore che si dividerebbe tra più istituti, distanti uno dall’altro. Avevamo e abbiamo anche richiesto un avvicendamento nel comando per le situazioni contrattuali e mancato rispetto delle norme di garanzia contrattuale che in questi mesi si sarebbero verificate e puntualmente segnalate dal sindacato. Ma il provveditore regionale sembra tranquillo; ancora più sereno il Dipartimento, tanto chi opera al fronte sono i "baschi azzurri", non certamente chi siede dietro comode scrivanie". Il detenuto era stato trovato con droga Era rientrato dal lavoro esterno. Dura nota dei sindacati. Era stato trovato in possesso di stupefacenti, al rientro del lavoro esterno, il detenuto del carcere di Trieste che mercoledì ha aggredito un agente di polizia penitenziaria. Trasportato al Pronto soccorso è stato trattenuto per alcune ore in osservazione. Sull’episodio denunciato dal Cosp interviene anche l’altro sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe. "Eventi del genere - afferma il segretario nazionale, Donato Capece - sono sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di polizia penitenziaria. Queste aggressioni sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come l’allontanamento del detenuto in un altro carcere. Invece, è sempre lì". "La situazione, a Trieste e nelle carceri italiane - aggiunge Capece - resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli agenti di polizia penitenziaria, come ho denunciato negli ultimi giorni per altri gravi episodi accaduti a Sassari, Teramo, Bollate, Lucca, Porto Azzurro. La cosa assurda e vergognosa è che, in base al decreto legge varato dal Governo pochi giorni fa per pagare l’indennizzo economico ai detenuti, che il responsabile di questa aggressione percepirà pure dei soldi per la sua permanenza in carcere". Il segretario generale del Coordinamento sindacale penitenziario (Cosp), Domenico Mastrulli, oltre ad aver condannato l’episodio in una nota chiede "che nella sede di Trieste venga assegnato un direttore titolare in sostituzione dell’attuale in missione". Immigrazione: Garante dei detenuti del Lazio Marroni visita Cara Castelnuovo di Porto Adnkronos, 27 giugno 2014 Dopo l’appello lanciato in occasione della giornata mondiale del Rifugiato, e dopo le proteste registrate nelle scorse settimane, il Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha visitato il Cara (Centro di Accoglienza per i Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto. Attualmente la struttura ospita 717 cittadini, di cui 632 uomini, 53 donne e 32 bambini. In maggioranza gli ospiti arrivano dalla Nigeria (140), dall’Eritrea (98), dal Mali (97), dal Pakistan (93) e dal Senegal (69). Nel corso del sopralluogo, Marroni ed i suoi collaboratori, hanno visitato i locali della mensa, i servizi della struttura sanitaria e parte dei moduli abitativi. Il Garante ha rilevato, "che dal punto di vista sanitario, ci sono ancora molti aspetti che presentano elementi di criticità e, pertanto, Marroni ha provveduto a contattare il Direttore Generale della Asl Rm F chiedendogli un incontro". In primo luogo il Garante ravvede "la necessita di standardizzare un protocollo sanitario per la presa in carico dello straniero non appena affidato al Cara, e quindi un meccanismo che agevola il lavoro degli operatori ed assicura anche per chi è nel nostro paese per chiedere una protezione umanitaria o l’asilo politico, il principio universale del diritto alla salute". Droghe: un indulto… per non morire di Fini-Giovanardi di Checchino Antonini www.popoff.globalist.it, 27 giugno 2014 Il 38,6% dei detenuti va in carcere per droga, il 40% dei quali per consumo e spaccio di piccolo cabotaggio di sostanze "leggere". 7 su sei detenuti sono stranieri e troppo spesso le forze dell’ordine scelgono di contestare la generica violazione dell’art.73 (pur in presenza di piccoli quantitativi di droga), poiché per tale ipotesi è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Intanto, il traffico di hashish e marijuana, grazie alla Fini-Giovanardi è la prima voce di entrata per le narcomafie. Anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittima l’equiparazione tra droghe pesanti e leggere, "la strage continua", hanno detto Stefano Anastasia e Franco Corleone, autori del "Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi" de La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone e Cnca, "una valutazione finale sui risultati dell’inasprimento introdotto nel 2006 dall’allora governo Berlusconi", che continua ad avere effetti sul sistema penale anche dopo la dichiarazione di incostituzionalità. La strage continua con "la criminalizzazione dei consumatori (solo attenuata dal ritorno a pene più miti per la detenzione di droghe leggere)" e "la scandalosa detenzione di condannati a pene giudicate illegittime dalla Corte costituzionale e che meriterebbero, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, di vedersi rideterminata la pena dal giudice dell’esecuzione". Si sarebbe dovuto intervenire per decreto "o addirittura approvare un indulto ad hoc, e invece i singoli detenuti sono stati lasciati a se stessi, con il risultato che o gli uffici giudiziari saranno intasati dal ricalcolo delle pene o molte persone finiranno di scontare in carcere la loro pena ingiusta". Dopo la sentenze della Consulta e il ritorno alla Jervolino-Vassalli, è la richiesta che emerge dal dossier, "serve una compiuta depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo" e "una regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis", infine "il rilancio dei servizi per le dipendenze". Il quinto Libro bianco sugli effetti della Fini Giovanardi prende atto, anche quest’anno, degli effetti nefasti e illegittimi della legge firmata non solo dal grottesco e crudele politico modenese (tornino alla mente i suoi attacchi alle famiglie Cucchi e Aldrovandi) ma anche dall’ex leader della destra cosiddetta per bene che si appresta a tornare in campo senza che nessuno connetta il suo nome a una delle barbarie peggiori dell’Italia contemporanea. Lo stesso tipo di amnesia che colpisce i commentatori sul legame tra Napolitano e la barbarie dei luoghi di contenzione per migranti. Le due leggi, peggiorate ulteriormente dalla Bossi-Fini, naturalmente sono estremamente correlate. Appena presentato a Roma, in una sala del Senato, il V° Libro Bianco (promosso da La Società della Ragione Onlus, Forum Droghe, Antigone, Cnca e con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lila, Magistratura Democratica, Unione Camere Penali Italiane) segnala che nel 2013, su un totale di 59.390 ingressi negli istituti penitenziari, il 30,56% era per violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/90 (che punisce chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope) mentre quasi il 40% delle presenze in carcere sono dovute direttamente alla legge sulle droghe. Da 14.640 detenuti per spaccio si è passato a 23.346 dopo la legge che sembra cucita a misura di ‘ndrine. Nonostante i ripetuti proclami gli affidamenti terapeutici dei tossicodipendenti restano al di sotto del dato precedente all’approvazione della legge, ed oggi avvengono perlopiù dopo un periodo di detenzione. Ma buona parte delle pene sono illegittime come stabilito dalla Corte costituzionale (con la sentenza della Corte Costituzionale del 12 febbraio 2014, si è tornati alla legge del 1990, con le modifiche introdotte nel 1993 dal referendum popolare e quelle del decreto Lorenzin). Ma, in assenza di un intervento legislativo i Tribunali, che rischiano il collasso, sono costretti a esaminare una alla volta le richiesta di ricalcolo da parte dei singoli detenuti. La cannabis continua ad essere una delle ossessione degli apparati repressivi: il 78,56% delle segnalazioni delle forze dell’ordine alle Prefetture per uso personale di sostanze stupefacenti nel 2012 - ultimo dato disaggregato disponibile - riguardano la cannabis: sono 28.095 segnalazioni su 35.762. Le 15.347 denunce per possesso di fumo, erba o piantine sono il 45,37% del totale, il 35,24% rispetto al 2005. Secondo i curatori del volume aumentano le sanzioni amministrative (sono raddoppiate dal 2006) e crollano i programmi terapeutici (da 6713 nel 2006 si passa a 214 nel 2013). Nel testo vengono proposti inoltre approfondimenti sul ruolo dei servizi pubblici e privati, sul consumo giovanile, sul controllo dei lavoratori e sui controlli alla guida. Il documento contiene poi un’analisi sull’attendibilità dei dati del Dipartimento Antidroga in merito ai consumi di sostanze e sulla "variabilità" dei livelli di Thc presente nelle piante di cannabis. In assenza di fonti ufficiali, viene proposta una puntuale ricostruzione della normativa penale vigente del testo unico sulle sostanze stupefacenti. Per i promotori, in uno scenario internazionale profondamente mutato sulle politiche sulle droghe (con Uruguay, Colorado e Washington in testa), e dopo la sentenza della Corte Costituzionale è necessario un radicale mutamento di rotta nel nostro Paese che distingua nettamente le politiche sociali e sanitarie da quelle penali. Si torna a chiedere una compiuta depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo, una regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della libera coltivazione a uso personale, il rilancio dei servizi per le dipendenze e delle politiche di "riduzione del danno". Serve anche il superamento del fallimentare modello autocratico del Dipartimento Antidroga, con una cabina di regia che veda coinvolti istituzioni, privato sociale e consumatori e che convochi entro l’anno la Conferenza nazionale prevista dal testo unico e dimenticata da troppi anni. Il V Libro Bianco, dopo la nota sentenza della Corte costituzionale offre una valutazione finale sui risultati dell’inasprimento repressivo introdotto nel 2006 dall’allora governo Berlusconi senza un vero dibattito in parlamento e tanto meno nella società. La Fini-Giovanardi fu un cookie inserito dal governo nel decreto urgente per le Olimpiadi invernali di Torino. Gli effetti "carcerogeni" della legge: il 30% entra in carcere per reati di droga, era il 28% prima della legge e avrebbe avuto un picco del 32,4% nel 2012. Il dato di quattro detenuti su dieci imprigionati per droga riassume in sé le cause del sovraffollamento. E il 23,7% è composto di tossicodipendenti. Il 45% delle 33.676 denunce è per cannabinoidi mentre scende il dato di quelle per cocaina, eroina e droghe sintetiche. Da qui un sistema giustizia ingorgato per via di una repressione che punta al ribasso ed è quantomeno "strabica". A voler leggere, ad esempio, i dati sugli incidenti stradali, si evince che i morti collegati all’uso di sostanze sono stati 144, i feriti 9567 su un totale di 4mila vittime e 300mila feriti accaduti sulla strada. È il fallimento delle politiche di controllo adottate a discapito di seri programmi di crescita della consapevolezza. Anche la retorica sul controllo dei lavoratori a rischio si rivela solo un aumento dei costi per le aziende, calcolato - su una media di 50 euro a test di primo livello, intorno a i 5 milioni di euro bruciati sull’altare dell’ossessione proibizionista per trovare il classico ago nel pagliaio. Solo lo 0,23% degli 88mila lavoratori controllati nel 2012 è risultato positivo e oltre il 60% risultava consumatore sporadico di cannabis. Non è una battaglia per la sicurezza ma una guerra agli stili di vita. E un enorme regalo alle narcomafie. Cina: Amnesty International denuncia il lavoro forzato nelle carceri… e nelle fabbriche Paolo G. Brera La Repubblica, 27 giugno 2014 Una storia "molto difficile da verificare", dice Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ma "i messaggi di allarme lasciati negli indumenti da chi li ha prodotti non sono così insoliti". In vestiti venduti nei nostri mercati? "È capitato d’imbattersi in messaggi di operaie cinesi che speravano di trovare un marito per espatriare, ma si trova di tutto. Verificarne l’autenticità è difficile, soprattutto se il ritrovamento avviene dopo anni come in questo caso. Detto questo, che i lavoratori in molti paesi dell’Asia, di America latina e Africa siano forzati in schiavitù è assolutamente vero. Nei "sudatoi", luoghi di lavoro molto malsani e precari, centinaia di persone, spesso bambini, vengono sfruttate per produzioni di massa con orari estremi e retribuzioni irrisorie". Persino in carcere? "In diversi paesi è consentito a industrie esterne realizzare produzioni nelle carceri: l’impresa ottiene costi molto bassi, e i detenuti sperano di procurarsi qualche spicciolo. Ma somiglia ai lavori forzati, e non è verificabile che i soldi arrivino davvero ai detenuti". Succede anche in Cina? "Sappiamo pochissimo delle carceri cinesi, ma gli attivisti dei diritti umani denunciano condizioni molto degradanti. In molti paesi il lavoro forzato si aggiunge alla pena e serve a coprire i costi di detenzione, il lavoro viene estorto e non fornisce retribuzione". Ma non esistono tutele internazionali? "Dagli anni 40 esistono standard, ma non sono vincolanti". Non possiamo sapere se un jeans è stato prodotto in carcere? "Spesso queste produzioni hanno percorsi tortuosi che neutralizzano laverà origine, con appalti e subappalti. In altri casi c’è compiacenza, ma è difficile dimostrarlo". Non possiamo fare nulla? "Casi di schiavitù ci sono anche in Italia: nelle campagne ci sono migranti impiegati in condizioni di lavoro orrende con paghe simboliche, e non riusciamo a fermare il fenomeno". Cina: detenuto uighuro fa sciopero fame… quando smette gli negano il cibo per 10 giorni Ansa, 27 giugno 2014 L’economista uighuro Ilam Tohti ha dato vita ad uno sciopero della fame nella prigione nella quale è detenuto da gennaio nel nordovest della Cina. In seguito, gli è stato negato il cibo per dieci giorni e ora il suo stato di salute è estremamente precario. Lo ha denunciato Li Fangping, l’avvocato che difende Tohti che lo ha visitato ieri. Li ha precisato che l’ intellettuale uighuro, che è stato accusato di "separatismo", ha iniziato la sua protesta il 16 gennaio, chiedendo cibo "halal", cioè cucinato in modo da rispettare le credenze religiose dei musulmani. Tohti, che prima di essere arrestato insegnava all’Università delle minoranze di Pechino, ha promosso con discorsi e scritti il dialogo tra gli uighuri, musulmani e turcofoni, e la maggioranza etnica, i cinesi "han". Lo sciopero si è concluso dopo dieci giorni con un compromesso: la direzione del carcere si è rifiutata di cucinare cibo apposta per Tohti ma ha accettato di fornirgli semplici pasti a base di pane e uova. Dal primo marzo, ha affermato l’ avvocato, la direzione ha smesso di inviargli cibo. Tohti sopravvive bevendo acqua ed è dimagrito di 16 chili, ha aggiunto Li.