Giustizia: bisogna riformare il processo, la magistratura e il codice di Valerio Spigarelli Il Garantista, 25 giugno 2014 La riforma della Giustizia, quella vera, si fa intervenendo sulla Costituzione, sull’ordinamento giudiziario, e sui codici. Chi propone interventi random, sulla prescrizione, piuttosto che introducendo l’auto riciclaggio o riformando il falso in bilancio, parla d’altro, certamente non di una riforma strutturale. Per inquadrare il tema bisogna partire dai nodi del problema giustizia, individuando i punti di crisi, e da questi muovere per determinare le soluzioni. Il problema centrale è quello del ruolo della giurisdizione e della posizione del giudice nell’ordinamento giudiziario. Oggi la giurisdizione è sbilanciata verso la pretesa punitiva ed il giudice, che pure secondo la Costituzione dovrebbe essere terzo, cioè equidistante tra accusa e difesa - meglio dai valori sottostanti che queste posizioni rappresentano - non possiede questa caratteristica. La comune appartenenza ad un unica carriera, l’interscambiabilità delle funzioni, la condivisione del medesimo organo di governo autonomo e di disciplina, vanificano la terzietà e portano ad intendere la funzione giudiziaria come un unicum, che comprende le due sotto funzioni di accusa e di giudizio. Questa idea legittima la mancanza di ima delle caratteristiche proprie del giudice terzo, ovvero la sua indifferenza verso l’esito del processo, ed apre la strada ad un modello di giudice, quello che siamo abituati ad avere, che fatalmente si fa carico non solo della giustezza della decisione sul caso singolo, ma anche del fenomeno criminale sottostante. Che sia la corruzione, la violenza sessuale, la criminalità organizzata od altro, il giudice è portato ad affrontare (e risolvere) non solo la vicenda giudiziaria, come dovrebbe, ma anche ciò che ne è alla base, poiché sente, come facente parte della propria compito, anche il contrasto a questi fenomeni. Se non si incide su questo nodo qualsiasi altro intervento, ad esempio sulla custodia cautelare, o le intercettazioni, finisce per essere vanificato dalle prassi giudiziarie. Perciò bisogna aprire una stagione costituente in cui il dibattito verta sul modello di giurisdizione. I penalisti propongono una giurisdizione forte, cioè terza, con due organi di governo autonomo distinti per giudici e pm, una Alta Corte di disciplina autonoma, una riforma dell’accesso in magistratura con ingresso laterale di esperti di materie giuridiche (come accademici e avvocati di provata competenza) e non solo per concorso. Poi occorre anche rimeditare il principio di obbligatorietà dell’azione penale, oggi utilizzato selettivamente, e senza alcun controllo democratico, dalla magistratura secondo criteri di "opportunità" che, analizzati senza pregiudizi, si dimostrano vere e proprie scelte di politica criminale. Con questi interventi si porrà fine alla deriva dell’azione penale verso forme di controllo etico, il cui massimo esempio è il "processo senza reato" riguardante la così detta trattativa Stato Mafia, ed anche la sovraesposizione di una parte della magistratura portata fatalmente a rivendicare, nei confronti del potere legislativo e di quello esecutivo, una primazia morale che si trasforma poi in una discesa in campo effettuata senza soluzione di continuità che getta un ombra sulla imparzialità della funzione giudiziaria. Pertanto è necessario stabilire limiti temporali al passaggio in politica dei magistrati. Doverosa è la riforma della legge sulla responsabilità civile dei magistrati: una magistratura moderna deve essere responsabile degli errori professionali e, senza abbattere il tabù della responsabilità diretta, ciò può avvenire eliminando il filtro alle azioni e riformando la clausola di salvaguardia con l’inclusione, nei casi gravi ed inescusabili, anche dell’erronea applicazione della legge. Adottato un modello di giurisdizione le scelte sui codici sono conseguenti. Il processo accusatorio va rinforzato, eliminando alcune procedure defatiganti, come talune doppie notifiche imputato/difensore, ma anche accentuando il controllo del giudice. Dunque verifica giurisdizionale sui tempi di iscrizione nel registro degli indagati, custodia cautelare in carcere solo per reati di una certa gravità, divieto di appello del pm contro le sentenze di assoluzione, rimodulazione del processo di appello, riduzione dei casi di ricorso per Cassazione, esclusione del ricorso personale dell’imputato. Dei tempi del processo, tema che include la prescrizione ma non solo, si deve parlare, ma partendo dai dati veri, che dicono che la prescrizione dal 2006 è calata del 50% e che matura spessissimo nel corso delle indagini preliminari, quando le garanzie non c’entrano nulla. Quanto invece al diritto penale sostanziale, riforma del sistema delle pene, con l’introduzione di pene non carcerarie ma efficaci, e soprattutto codificazione a livello costituzionale della "riserva di codice", unica medicina in grado di temperare la naturale predisposizione del sistema politico ad inseguire, con lo strumento demagogico del diritto penale, ogni problema che si presenta nella società; ciò in nome di emergenze talvolta vere e più spesso strumentalizzate a dispetto degli stessi dati criminologici, un esempio su tutti l’omicidio stradale. Inutile dire che la politica dovrebbe anche evitare di fare harakiri ad ogni frinir di demagogia, come succede in questi giorni a proposito dell’immunità parlamentare, e magari ricordarsi che amnistia ed indulto sono strumenti di politica giudiziaria, da Togliatti in poi, che andrebbero adottati, con coraggio, per rimediare a quel "carcere disumano" cui costringiamo i nostri detenuti. Giustizia: Santacroce (Cassazione); riforma radicale? rischia di essere fragile Agi, 25 giugno 2014 "Non so cosa si nasconda dietro la riforma della giustizia sbandierata. Non ho niente contro chi propone cambiamenti radicali con velocità e determinazione. Per certi versi questa è una richiesta della società ma rischia di essere fragile se non sostenuta". Lo ha detto il presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, intervenendo oggi a Roma a un convegno dal titolo "Giustizia, una risorsa per lo sviluppo". "Sulla riforma della giustizia - ha spiegato Santacroce - spesso sia la maggioranza che l’opposizione hanno ricette di comodo che non servono a far migliorare la giustizia dimenticando che le riforme devono essere concepite spostandosi al di sopra della mischia". Giustizia: sovraffollamento e deportazioni di massa, che vergogna questi metodi dii Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 25 giugno 2014 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana ha inventato un nuovo istituto, per la verità assai discutibile, il trasferimento di massa di detenuti in Sardegna, dove le carceri sono semi vuote, "per motivi umanitari". La notizia era già venuta fuori il 5 giugno mentre si aspettava il verdetto del Consiglio d’Europa sulle carceri italiane e mentre il ministro Orlando faceva la spola tra Strasburgo e Bruxelles andando a confondere le idee a giudici europei e a membri del Consiglio con numeri a casaccio. Oggi però uno dei malcapitati, Catello Cioffi, trasferito in fretta e furia dal carcere di Viterbo a quello di Oristano di modo da alzare la media dei metri quadrati a testa di quello sovraffollato a discapito di quello semivuoto, ha fatto conoscere la propria Odissea, attraverso la moglie intervistata da "Il Garantista", a tutti gli italiani che la vorranno leggere. Il detenuto è in carcere da quasi 16 anni per reati di camorra e teoricamente dovrebbe farsene altri sei o sette. Solo che mentre era a Viterbo aveva maturato ormai, grazie alla buona condotta, il diritto alla semilibertà. Peccato che adesso con questo trasferimento, che ha costi insostenibili per la moglie e le due figlie che da Viterbo a Oristano certo non possono venire a trovarlo neanche una volta al mese, lui abbia anche perso la possibilità di usufruire di questi premi perché la regola del trasferimento è un po’ come il gioco dell’oca, ogni volta riparti da capo. Naturalmente i familiari di Catello hanno trovato udienza presso i Radicali italiani che hanno preso a cuore la sua storia. Ma non sarà questo a ridargli i suoi familiari. Come lui ce ne sono 700 in Italia. Giustizia: Antigone; la tortura per il Papa è "peccato mortale", ma in Italia non è reato Ansa, 25 giugno 2014 Papa Francesco, all’Angelus di domenica, ha definito la tortura "un peccato mortale, un peccato molto grave", ma in Italia la tortura non è ancora un reato. "L’Italia ha da molti anni più di un obbligo internazionale, quindi giuridico e non solo morale, di introdurre questo reato nel proprio codice penale, ma fino ad ora non lo ha fatto", commenta alla Radio Vaticana Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulla detenzione dell’associazione Antigone. "La conseguenza di ciò è che condotte che vanno definite come tortura sono in realtà punite con pene lievi che, oltretutto, spesso cadono in prescrizione a fronte delle difficoltà dei processi che le riguardano e dunque non si traducono in nessuna condanna", aggiunge. "È un fatto grave - osserva Scandurra, perché non sono molti i paesi nel mondo in cui la tortura non è un reato. Ed è una circostanza che non esprime appieno la contrarietà del Paese a questa pratica. Generiche dichiarazioni d’intenti hanno poco valore se poi nel codice penale non è previsto questo reato e comportamenti che configurano la tortura non sono perseguiti e sanzionati come meritano". "Recentemente - spiega ancora il rappresentante dell’associazione Antigone - il giudice che ha seguito un episodio di maltrattamenti da parte di agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti, nel carcere di Asti, è giunto al proscioglimento degli imputati affermando che quelle condotte si configuravano come tortura, ma non esistendo in Italia questo reato non era possibile procedere. La mancanza del reato di tortura provoca quindi impunità di fronte a uno dei comportamenti ritenuti unanimemente tra i più odiosi e inaccettabili". Giustizia: M5S; sul piano-carceri ci volevano querelare ora scoprono che avevamo ragione www.beppegrillo.it, 25 giugno 2014 Quando il Governo Letta ci ha presentato il primo decreto svuota-carceri avevamo fatto subito presente i problemi della struttura commissariale: ogni volta che ci sono deroghe al codice degli appalti si annidano i germi della corruzione. Ad agosto 2013 avevamo presentato una proposta di piano carceri che costava la metà rispetto al piano carceri governativo. Ovviamente la maggioranza l’ha bocciato. Abbiamo continuato ad esplicitare, durante tutte le audizioni, i nostri dubbi sull’utilizzo della struttura commissariale, in deroga agli appalti delle carceri. A gennaio 2014, il capogruppo di commissione Giustizia Andrea Colletti, denunciava direttamente alla Cancellieri (allora Ministro della Giustizia) la delega in bianco ad un Commissario Straordinario per il Piano Carceri, Angelo Sinesio, che poteva agire liberamente e senza adeguata trasparenza, anche tramite la segretazione delle procedure di affidamento. La Cancellieri aveva minacciato la querela per aver messo in dubbio l’affidabilità del Commissario straordinario per il Piano Carceri, che - a suo dire - veniva svolta nel pieno rispetto delle regole ed in modo assolutamente trasparente. Per dover di cronaca: Sinesio era il vice della Cancellieri prefetto, quando era a Catania. Di poi è stato capo della segreteria tecnica al Viminale quando la Cancellieri era ministro dell’Interno, ed è stato nominato commissario del piano carceri nel dicembre 2012, quando Cancellieri era ministro della Giustizia. Diciamo una collaborazione lunga e proficua tra Cancellieri e Sinesio. Per la Cancellieri, Sinesio era l’uomo giusto per risolvere i problemi della giustizia, da sempre. Com’è andata a finire? Oggi Angelo Sinesio è indagato dalla Procura di Roma per falso, abuso d’ufficio e diffamazione. Secondo gli inquirenti avrebbe tenuto nascosti alcuni atti anticipando le gare di appalto, impedendo di fatto ad alcune ditte di prendervi parte. Con Sinesio sono indagati anche una serie di imprenditori e funzionari pubblici. Tra questi Sergio Minotti, 50 anni, direttore dei lavori per il nuovo padiglione del carcere di Voghera, che secondo l’accusa avrebbe agito, in concorso insieme con la funzionaria del Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria), Raffaella Melchionna. Entrambi sono accusati di corruzione. Secondo l’accusa "per lo svolgimento delle loro funzioni di controllo nell’esecuzione dei lavori, in violazione dei doveri di imparzialità della pubblica amministrazione, gli indagati ricevevano dalla ditta aggiudicataria dei lavori "Devi Impianti", riconducibile a Gino Pino e Davide Pino, utilità consistenti" per attribuire "contratti di forniture alla "Me.Ta Costruzioni", della quale è amministratore e socio unico Marco Melchionna, padre di Raffaella, e responsabile tecnico Antonio Melchionna, fratello della stessa e figlio di Marco Melchionna". La politica dovrebbe contrastare la corruzione, anziché facilitarla. Avevamo fatto notare da subito i problemi, non ci hanno voluto ascoltare. Oggi ne paghiamo tutti le conseguenze. Giustizia: carcere e trattamenti disumani… se il "torturato" è Provenzano allora si può? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 25 giugno 2014 Poche righe di agenzia: l’Ansa riferisce che i legali di Bernardo Provenzano, Rosalba Di Gragorio e Maria Brucale, hanno "reiterato la richiesta di revoca del 41 bis per il loro assistito davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del carcere duro. Di Gregorio e Brucale hanno ribadito le gravissime condizioni di salute del boss, e depositato la decisione del giudice tutelare di Milano che ha nominato il figlio di Provenzano, Angelo, "amministratore di sostegno del padre". Per i legali, questo atto ne certifica l’incapacità. La Procura generale, facendo riferimento ad alcune relazioni del Dap, ha invece sostenuto che il detenuto ha dei momenti, seppur rari, di lucidità. Il giudice si è riservato di decidere". Di questa vicenda si è occupato solo "il Garantista" di Piero Sansonetti, e tra le forze politiche, i radicali. Tutti gli altri preferiscono ignorarla, far finta di nulla. E invece se di qualcuno bisogna occuparsi e preoccuparsi, è proprio di Provenzano. Già due anni fa i radicali, con Rita Bernardini e Alessandro Gerardi, nel corso di una visita ispettiva nel carcere di Parma, trovarono Provenzano gravemente debilitato e sofferente dal punto di vista fisico, e denunciarono come avesse irrimediabilmente perso il lume della ragione, incapace perfino di articolare anche una semplice frase di senso compiuto, e inascoltati pubblicamente chiesero come fosse possibile sottoporre a un regime detentivo così duro una persona anziana ridotta in quelle condizioni. Nel maggio del 2013 la trasmissione "Servizio pubblico" ha mandato in onda immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza cinque mesi prima: mostravano il boss irriconoscibile, rispetto alle solite immagini diffuse e note, con un berretto di lana in testa, e incapace di comprendere quanto la moglie e il figlio gli dicevano, mentre lo visitavano in carcere. Nella passata legislatura, quando alla Camera c’era anche una pattuglia di parlamentari radicali, si cercò di fare luce sui molti punti oscuri che contraddistinguevano (e contraddistinguono ancora) la detenzione di Provenzano. Vennero presentate numerose interrogazioni, tutte rimaste senza risposta. Quelle "domande", quelle questioni, a due anni di distanza, sono ancora di urgente e drammatica attualità. Sul caso dell’ex boss di Corleone ancora non si è fatta la necessaria chiarezza: una quantità di detenuti continuano a essere sottoposti alle inumane misure previste dal 41 bis, misure che le convenzioni internazionali definiscono "tortura", e che spesso, come nel caso di Provenzano, si trasformano in atti di vera e propria bestialità. Giustizia: Garante Privacy Soro; una "barbarie" audio interrogatorio Scajola su tutti i Tg Italpress, 25 giugno 2014 "Ho ascoltato su tutti i telegiornali l’interrogatorio di Claudio Scajola e ho solo un aggettivo per descrivere quel minuto di televisione: una barbarie. Mettere in onda di un detenuto in quel momento di assoluta fragilità ha fatto sprofondare il livello di giornalismo". Lo dice all’Avvenire Antonello Soro, Garante Privacy: "A che serviva dare alla stampa l’audio di quell’interrogatorio? Cosa aggiungeva alla qualità e all’essenzialità dell’informazione? Non bastava la sintesi di quello che Scajola aveva detto? La verità è che sono cresciute forme distorsive di giornalismo, che assecondano e incoraggiano le curiosità morbose dei lettori, senza riflettere su quanto si possa danneggiare, in modo irreparabile, la dignità di una persona e pregiudicare per sempre la sua vita di relazione". Soro chiede una svolta in tempi rapidi. "L’ordine dei giornalisti poteva decidere di aggiornare un codice deontologico vecchio di 16 anni. Poteva farlo muovendosi autonomamente ma fino ad ora non l’ha fatto e ha fatto male. E questa indisponibilità può aprire le porte a un intervento del legislatore: se non si esercita l’autodisciplina prima o poi arriva una norma più rigida". E aggiunge: "L’idea del bavaglio è estranea alla mia cultura. Chi informa i cittadini svolge un compito insostituibile, esercita doverosamente i diritti fissati dall’articolo 21 della Costituzione. Ma il giornalismo da trascrizione non mi piace. Può fare male, può sfregiare la vita di tante persone. E allora insisto chiedendo un di più di riflessione e di responsabilità: ci sono persone che finiscono intercettate in vicende che non c’entrano nulla con la loro vita e che parlano di cose irrilevanti ai fini dell’inchiesta. Non va bene. Insisto, non va bene. E poi anche un indagato ha diritto al rispetto della propria dignità". Giustizia: Strasburgo multa Italia; 15mila € di danni a veronese picchiato da carabinieri Ansa, 25 giugno 2014 Dimitri Alberti, cittadino italiano, è stato picchiato dai carabinieri dopo il suo arresto, ma la magistratura non ha condotto un’inchiesta approfondita per determinare le loro responsabilità. Per questo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la violazione dell’ articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani, che proibisce i trattamenti inumani o degradanti. L’Italia è stata condannata a pagare ad Alberti 15 mila euro per danni morali. Nella sentenza è fatto rilevare che le lesioni riportate da Dimitri Alberti, un cittadino italiano nato nel 1971 e residente a Verona, in seguito al suo arresto avvenuto nel bar Tiffany a Cerea l’11 marzo 2010, non sono compatibili, come sostenuto dalle autorità italiane, con un uso legittimo della forza da parte dei carabinieri. I giudici sottolineano inoltre che le lesioni riportate dall’uomo, la frattura di tre costole e un ematoma al testicolo sinistro, non sono compatibili neanche con la tesi che Alberti se le sia inflitte da solo, come sostenuto dai carabinieri. Secondo i giudici di Strasburgo poi la magistratura non ha condotto "un’inchiesta effettiva" per verificare se la denuncia di maltrattamenti di Alberti fosse corroborata dai fatti. In particolare è sottolineato che i giudici italiani hanno tra l’altro sposato la tesi di un uso appropriato della forza da parte dei responsabili delle forze dell’ordine, concentrandosi su quanto era successo durante l’arresto, invece che su quanto è accaduto dopo, cioè nelle 4 ore tra l’arresto e quando Alberti è arrivato al carcere di Verona, in cui la Corte ritiene siano avvenuti i maltrattamenti. Gonnella (Antigone): basta tentennamenti, si approvi subito il reato di tortura L’Italia condannata nuovamente per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante. La Corte Europea ha condannato il nostro Paese per le violenze subite dal signor Dimitri Alberti nel 2010 a Cerea in provincia di Verona. Le violenze sarebbero state inferte dai Carabinieri. I giudici europei hanno sostenuto che le fratture alle costole e le lesioni ai testicoli non fossero compatibili con il normale uso della forza. Inoltre non vi sarebbe stata un’inchiesta giudiziaria effettiva. Il signor Alberti potrà ora avere un risarcimento di complessivi 19 mila euro. "La decisione della Corte Europea - dichiara Patrizio Gonnella - questa volta riguarda direttamente un caso di dure violenze. Dopo questa sentenza, dopo le parole del papa ci auguriamo che subito, senza tentennamenti che sarebbero colpevoli, si arrivi alla introduzione per legge del delitto di tortura nel codice penale. Inoltre chiediamo che le massime cariche istituzionali si esprimano a riguardo e diano segnali forti e inequivocabili contro gli abusi, la tortura e ogni forma di violenza pubblica". Giustizia: su Napoli ha ragione Berlusconi di Cataldo Intrieri Il Garantista, 25 giugno 2014 Berlusconi non mi è mai piaciuto, lo ritengo un perfetto esempio di tanti guasti della società italiana, trovo fallimentare la sua gestione politica senza una visione del bene comune che non coincidesse con i suoi interessi personali. Detto questo è difficile sottrarmi alla sgradevole sensazione che si stia esercitando ora, nel momento del suo declino, una tipica arte italiana "il calcio del mulo", l’umiliazione del nemico atterrato. Ha riempito le prime pagine dei giornali il battibecco tra Berlusconi e il presidente del Tribunale di Napoli, nel corso dell’esame cui si stava sottoponendo l’ex premier come testimone in un processo a carico di un vecchio amico: Valter Lavitola. Questi è imputato di una tentata estorsione ai danni della società Impregilo. Secondo l’accusa (fonte Corriere della Sera) la società per ottenere una importante commessa a Panama sarebbe stata richiesta di accollarsi l’onere della costruzione di un ospedale sub-appaltata ad una società in cui erano soci occulti Lavitola e il presidente panamense Martinelli. Lavitola avrebbe minacciato, in caso di rifiuto, l’intervento del suo amico Berlusconi. Questi è stato chiamato a deporre sul contenuto di una telefonata da lui fatta all’amministratore delegato di Impregilo per sollecitare l’assegnazione dell’appalto, fungendo da "inconsapevole vettore" dell’estorsione. Dunque Lavitola, secondo i pm, è l’estortore, Berlusconi l’intermediario. Basterebbe tale circostanza per far capire anche a un non esperto di diritto, il "cul de sac" in cui veniva a trovarsi l’ex premier. Poniamo che lui fosse invece stato perfettamente consapevole della presunta estorsione, si sarebbe trovato di fronte ad un bivio senza scampo: dire la verità ed essere a sua volta incriminato per concorso nell’estorsione, oppure negarla ed essere perseguito per il reato di falsa testimonianza. Il codice italiano prevede una complessa e barocca casistica (articolo 197 bis Codice di procedura penale) per regolare le varie ipotesi in cui un imputato di reato connesso possa deporre senza correre il rischio di essere danneggiato dalla sua deposizione. È questa condizione che i suoi legali hanno invocato per consentirgli di poter rispondere assistito da un difensore ed eventualmente avvalersi, per le domande concernenti sue responsabilità, della facoltà di astenersi. Berlusconi è infatti a sua volta, sempre a Napoli, imputato assieme a Lavitola per corruzione di alcuni membri del senato al fine di far cadere il governo Prodi. Un intreccio che in via teorica potrebbe far presupporre un accordo criminoso tra i due protratto nel tempo per commettere più reati. Circostanza, questa, che lo esonererebbe dal deporre come teste. In ogni caso vige nel nostro, come in ogni sistema costituzionale, il diritto di tacere per non autoaccusarsi (nemo tenetur se detegere) e non costituisce infatti testimonianza reticente il rifiuto di rispondere da parte di chi vi sia "costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento alla propria libertà o onore". Orbene questo diritto non è stato riconosciuto a Berlusconi, perché la veste di teste lo ha obbligato a rispondere su domande da cui inequivocabilmente, secondo ciò che riportano le cronache, sarebbe potuta derivare un’incriminazione. Vi è un paradosso in tutto ciò ed un dato di riflessione quasi ironico: proprio una telefonata effettuata in un commissariato dove era trattenuta la giovane Ruby è costata all’ex premier una condanna a sette anni di reclusione perché Berlusconi avrebbe tacitamente forzato la liberazione della sua giovane amica, incutendo timore al funzionario in ragione dalla sua carica. A Napoli, davanti ad una telefonata diversa ma anch’essa sollecitatoria, i pm avrebbero in teoria assunto un atteggiamento garantista, così garantista che forse costerà a un Berlusconi (giustamente) preoccupato di capire dove si andava a parare, anche la libertà. Ora, è vero che nelle aule italiane "funziona così", ma sia concesso, gentile presidente: funziona male. Sicilia: recupero detenuti tossicodipendenti, la Regione firma l’accordo con il Ministero www.blogsicilia.it, 25 giugno 2014 La giunta siciliana esprime il suo apprezzamento per il protocollo di intesa tra Ministero della Giustizia, Regione siciliana e Anci Sicilia sottoscritto il 19 giugno scorso che prevede misure finalizzate al recupero e al reinserimento dei soggetti in esecuzione di pena con problemi legati alla tossicodipendenza. La Regione siciliana attraverso specifici programmi di recupero rivolti alla riabilitazione ed alla risocializzazione di tali soggetti, in accordo con gli Enti locali territorialmente coinvolti, si impegna a definire interventi di potenziamento delle attuali strutture accreditate per programmi residenziali terapeutico riabilitativi o psicologico riabilitativi, idonee ad ospitare soggetti in maniera alternativa alla detenzione o agli arresti domiciliari. Al fine di garantire la massima diffusione sul territorio regionale di misure volte al miglioramento dei percorsi trattamentali, con particolare riguardo al lavoro esterno, anche a titolo gratuito, volontario e di pubblica utilità, la Regione e l’Anci Sicilia si impegnano a promuovere ed incentivare presso i comuni della Sicilia progettualità specifiche. Le parti concordano sulla necessità di concludere specifici accordi finalizzati alla costruzione di programmi propedeutici all’accesso alle misure alternative alla detenzione, che coinvolgano le strutture penitenziarie che ospitano detenuti definitivi potenzialmente in condizione di avere accesso a tali misure. Sassari: caso Erittu; imputati tutti assolti, resta un condannato per un delitto che non c’è di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 25 giugno 2014 Il presunto "mandante" Pino Vandi, il detenuto Nicolino Pinna e l’agente di polizia penitenziaria Marco Sanna sono stati assolti dall’accusa di aver ucciso sette anni fa, nella sua cella nel carcere San Sebastiano a Sassari, Marco Erittu. Secondo la Corte d’assise presieduta da Pietro Fanile, "il fatto non sussiste". La decisione è arrivata ieri sera alle 21,30 dopo dieci ore di camera di consiglio. Sono stati assolti anche gli agenti Gianfranco Faedda e Giuseppe Soggiu, accusati di favoreggiamento. Il pm aveva chiesto l’ergastolo per i tre accusati di concorso in omicidio. Niente carcere a vita, il fatto non sussiste e gli imputati vanno assolti. Dopo undici ore di camera di consiglio il presidente della corte d’assise di Sassari Pietro Fanile legge la sentenza che assolve in primo grado Giuseppe Vandi, Nicolino Pinna e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna dall’accusa di aver ammazzato il detenuto Marco Erittu, trovato morto nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Per tutti e tre il pubblico ministero Giovanni Porcheddu aveva chiesto la pena dell’ergastolo. E secondo i giudici non sono colpevoli nemmeno gli altri due imputati Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda, accusati di favoreggiamento, nei confronti dei quali la Procura aveva sollecitato una condanna a quattro anni. Alle 21.30, nel palazzo di giustizia di Sassari ci sono lacrime, commozione, abbracci. Le parole che sintetizzano gli stati d’animo vissuti dal 2011 a oggi da avvocati e imputati (due di questi erano agli arresti domiciliari) sono quelle pronunciate dall’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna: "Oggi mi è stata restituita la dignità che mi avevano strappato via ingiustamente tre anni fa". Il processo. La formula ampia che "accompagna" la sentenza di assoluzione ha un significato preciso: per i giudici della corte d’assise Marco Erittu non è stato ucciso. Il racconto fornito dal pentito Giuseppe Bigella (l’ossatura del processo si basava soprattutto sulla sua confessione) non regge, mentre resta in piedi l’ipotesi iniziale: suicidio. Così era stato archiviato nel 2007 il caso del detenuto trovato morto nella cella liscia del braccio promiscui di San Sebastiano. Marco Erittu, secondo le indagini dell’epoca, si era tolto la vita impiccandosi con una striscia di coperta che aveva legato alla spalliera del letto. In precedenza aveva già manifestato l’intenzione di farla finita, aveva messo in atto gesti di autolesionismo e per questo intorno alla sua morte c’era ben poco mistero. O almeno era così fino al 2010, quando Giuseppe Bigella, un detenuto che stava scontando in carcere una condanna a trent’anni per l’omicidio della gioielliera di Porto Torres Fernanda Zirulia, decide di parlare con gli inquirenti e raccontare la sua verità sulla fine di Erittu. La svolta nell’inchiesta. Il pentito dice alla Procura che quel detenuto di San Sebastiano in realtà non si è suicidato. E fa anche di più: si autoaccusa del delitto. "Sono stato io ad ammazzarlo - dirà agli inquirenti - perché ho eseguito un ordine di Pino Vandi. L’ho soffocato con un sacchetto di plastica, mi ha aiutato Nicolino Pinna, che poi ha simulato il suicidio con la striscia di coperta. Ad aprirci la cella è stato l’agente Mario Sanna". Queste, in estrema sintesi, le dichiarazioni che riaprono clamorosamente il caso Erittu e che fanno scendere in campo la Dda di Cagliari. I sequestri di persona. Giuseppe Bigella spiega infatti ai giudici che il detenuto doveva essere ucciso perché aveva deciso di rivelare al procuratore della Repubblica Giuseppe Porqueddu che Pino Vandi era coinvolto nella scomparsa del muratore di Ossi Giuseppe Sechi legata a sua volta al sequestro del farmacista di Orune Paoletto Ruiu (entrambi mai tornati a casa). Per questo Erittu doveva sparire. Il dibattimento. Durante il dibattimento accusa e difesa si sono scontrate su vari elementi. In particolare sull’attendibilità del reo confesso. "Un essere umano tende a non accusarsi - aveva esordito Porcheddu nella sua requisitoria - e invece in questo caso la naturale tensione alla libertà viene invertita. Bigella incolpa se stesso e nella sua confessione c’è una coerenza espositiva dilatata nel tempo". Ma la difesa, invece, ha sempre puntato il dito sulla credibilità del chiamante in correità che anche nell’ambito del delitto Zirulia aveva tentato di accusare il figlio della vittima indicandolo come mandante. L’uomo era stato indagato ma poi la sua posizione era stata archiviata. Secondo i difensori, Bigella avrebbe adattato il suo racconto sul caso Erittu alle informazioni di cui veniva a conoscenza leggendo i giornali del periodo. Articoli che sono stati prodotti in sede dibattimentale. Ma soprattutto ci sono le perizie: quella di Francesco Maria Avato che aveva scartato l’ipotesi del suicidio e quella dell’ingegnere tessile Badiani che aveva escluso che la striscia trovata sul collo della vittima provenisse dalla coperta sequestrata nella cella. Secondo l’accusa la dimostrazione di un inquinamento probatorio, per la difesa la prova che Bigella era un mentitore. Le certezze del pm si basavano anche sulle presunte contraddizioni relative alla posizione del cadavere al momento del ritrovamento. E poi i dubbi sulla lettera nella quale la vittima chiedeva di incontrare il procuratore e che non arrivò mai a destinazione perché qualcuno la fece sparire. Missiva che secondo la difesa andò invece persa per altre ragioni. Ora si attendono le motivazioni della sentenza. Bigella, l’assassino di un delitto che non c’è, di Daniela Scano C’è un sedicente assassino reo confesso che sta scontando, e che continuerà a scontare indefinitamente, la sua pena per un delitto che secondo una corte d’assise non è mai stato commesso. C’è un assassino ma non c’è il crimine. O meglio, il crimine è stato commesso secondo il giudice che ha condannato l’imputato e invece "non sussiste", non esiste, secondo altri giudici togati e popolari che hanno processato i presunti complici del sedicente omicida. Due sentenze raccontano verità antitetiche sulla drammatica fine di Marco Erittu, trovato morto nella cella numero 3 del carcere di San Sebastiano la sera del 18 novembre 2007. E fino a quando non ci sarà una terza sentenza, che sceglierà una o l’altra ipotesi, Giuseppe Bigella continuerà a scontare la sua pena inflittagli con una sentenza passata in giudicato. Bisogna partire da questo apparente paradosso per comprendere la complessità della vicenda giudiziaria che alle 21.25 di lunedì, dopo dieci ore di camera di consiglio, la corte d’assise di Sassari ha chiuso in primo grado con le assoluzioni piene di Pino Vandi, che il pentito Giuseppe Bigella accusava di essere il mandante del delitto; di Mario Sanna, il poliziotto penitenziario che secondo Bigella avrebbe aperto la porta della cella per consentire l’esecuzione della sentenza capitale; di Nicolino Pinna, che sempre Bigella aveva accusato di averlo accompagnato a uccidere. Quel delitto, con motivazioni che saranno depositate entro novanta giorni, secondo i giudici della corte d’assise non è mai stato commesso. Il giorno dopo il verdetto sono in tanti a chiedersi cosa accadrà ora a Giuseppe Bigella. L’uomo che con le sue dichiarazioni ai magistrati della Dda di Cagliari aveva mandato in carcere due persone (Pino Vandi e Mario Sanna) e ne aveva fatto incriminare altre tre (Nicolino Pinna, accusato di omicidio ma mai arrestato e due agenti accusati di favoreggiamento) continuerà a scontare la sua pena. Perché ogni processo fa storia a sé, anche quando come in questo caso racconta la stessa storia con un finale diverso e inconciliabile. La sentenza che ha condannato Bigella è passata in giudicato. Il portotorrese (condannato a trent’anni per l’omicidio della gioielliera Fernanda Zirulia) non ha presentato ricorso contro il verdetto emesso dal gip di Cagliari al termine del rito abbreviato. Quindi non è più imputato, ma condannato in via definitiva. Questa sua condizione non potrà cambiare senza una revisione del processo che però, anche se lo volesse, non potrà essere chiesta da Giuseppe Bigella. Non subito. Ogni processo fa vita a sè ed è fatto di tappe. Quello che si è concluso lunedì a Sassari, con l’assoluzione di tutti gli imputati, è solo il primo grado di un procedimento quasi certamente destinato a proseguire in corte d’assise d’appello. Il pubblico ministero Giovanni Porcheddu, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo dei presunti complici di Giuseppe Bigella, non lo ha ancora annunciato ma quasi certamente presenterà appello contro il verdetto di primo grado. Gli avvocati difensori si preparano ad affilare le armi e, se ci sarà, questa seconda sentenza potrebbe confermare o riformare il verdetto emesso dai giudici della corte d’assise. In altre parole, gli imputati potrebbero essere assolti per la seconda volta ma potrebbero anche essere condannati. In questo caso ci sarà certamente un processo davanti alla Corte di Cassazione ed è solo in questo momento, e solo se i giudici della Suprema Corte confermeranno la sentenza di assoluzione, che la storia giudiziaria di Giuseppe Bigella potrà incrociare di nuovo quella delle persone che ha mandato in carcere con l’accusa di omicidio. Perché in questo caso ci sarebbero due sentenze, entrambe passate in giudicato, che cristallizzano due verità antitetiche: una la colpevolezza, l’altra l’innocenza di Giuseppe Bigella. E in questo caso dovrebbe essere lui, sempre che lo vorrà, a chiedere la revisione del processo per ottenere l’assoluzione. Fino ad allora il portotorrese, per il tribunale di sorveglianza e per l’amministrazione penitenziaria, resterà l’uomo che ha assassinato in carcere un compagno di detenzione che secondo i giudici della corte d’assise si è procurato la morte. Perché, anche senza aspettare le motivazioni della sentenza, solo questo può voler dire un verdetto di assoluzione "perché il fatto non sussiste". Marco Erittu è morto, e questa è l’unica drammatica certezza. Il detenuto sassarese che diceva di sapere le oscure verità sui misteri del sequestro omicidio di Paoletto Ruiu e del giovane di Ossi Giuseppe Sechi, morendo ha lasciato ai giudici un caso altrettanto intricato da risolvere. Ora il mistero è lui. L’agente Sanna: ho riavuto la mia dignità Maglietta bianca e jeans, trema quando i giudici entrano nell’aula con la sentenza in mano. Sono pochi attimi e poi ecco il pianto liberatorio. Solo allora il viso di Mario Sanna riprende colore dopo il pallore che lo ha accompagnato per tre anni. Gli avvocati Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu - che lo hanno difeso in questo processo - lo stringono forte e le lacrime scendono anche sui loro volti. Poi la telefonata alla moglie: "È finito, l’incubo è finito". Dall’altra parte del cellulare si sentono grida di gioia. E poi il pianto a singhiozzo continua, gli abbracci con i colleghi che hanno voluto stargli vicino nel momento della sentenza. Ma soprattutto quel grande respiro di libertà. Mario Sanna, agente di polizia penitenziaria, ha preso parte a tutte le udienze del processo che lo vedeva imputato di un’accusa pesantissima: concorso in omicidio volontario. Un uomo che ha sofferto moltissimo e che durante una dichiarazione ai giudici della corte aveva chiesto giustizia: "Io e la mia famiglia - aveva detto dal banco dei testimoni - stiamo soffrendo come cani per colpa delle calunnie di un delinquente. Ho dedicato tutta la mia vita all’onestà, al lavoro e allo studio. Sto subendo un’incredibile e cattiva ingiustizia, ho solo fatto del bene nella mia vita, ne ho salvato tanti di detenuti che volevano suicidarsi. E ora le calunnie di un delinquente mi stanno distruggendo. Rivoglio la mia divisa, il mio lavoro, la dignità che mi è stata portata via". Ieri ha riavuto tutto questo: "Ho due figli e una moglie distrutti come me da tutta questa brutta storia, ora potrò nuovamente mettermi la divisa, anche se sono un po’ dimagrito". Ha voglia di sorridere, stringe le mani a tutti, compreso il collega Giuseppe Soggiu, imputato di favoreggiamento (difeso dagli avvocati Gabriele Satta e Gerolamo Pala) e assolto anche lui. Così come l’altro agente di polizia penitenziaria Gianfranco Faedda (assistito da Giulio Fais) che ieri non era presente in aula. Quel terribile peso che per anni ha annientato le loro vite è svanito nel giro di pochi secondi. Tutti ieri sono tornati a casa da uomini liberi. Compreso Pino Vandi, l’uomo indicato da Bigella come mandante del delitto, circondato in aula dai suoi familiari e dagli avvocati Patrizio Rovelli e Pasqualino Federici (nel collegio difensivo c’era anche Elias Vacca). Sappe: buona notizia assoluzione agenti L’omicidio di Marco Erittu, avvenuta nel carcere di San Sebastiano a Sassari il 18 novembre 2007 per mano di altri due detenuti, non vide in alcun modo il coinvolgimento di Agenti di Polizia Penitenziaria. Lo conferma la sentenza emessa dalla Corte di Assise del Tribunale di Sassari che ha "assolto perché il fatto non sussiste" cinque Agenti accusati di concorso in omicidio e favoreggiamo. Commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: "L’assoluzione dei 5 colleghi della Polizia Penitenziaria di Sassari accusati ingiustamente di gravissime accuse è una buona notizia. Solamente loro e le loro famiglie possono sapere quali momenti terribili hanno vissuto per accuse che oggi i giudici hanno escluso in maniera netta e inequivocabile. Cosa faranno e diranno ora tutti quelli che per settimane e mesi hanno accusato e linciato moralmente i Baschi Azzurri di Sassari? Bisogna restituire dignità e onorabilità ai poliziotti penitenziari, tutti, al centro per mesi di accuse agghiaccianti ma senza alcuna prova. Ora si parli degli oltre 17mila detenuti salvati dal suicidio in carcere dai Baschi Azzurri negli ultimi vent’anni". Prosegue, Capece: "La Polizia penitenziaria, a Sassari come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere. L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci "chiaro", perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Del carcere e dei Baschi Azzurri viene spesso diffusa un’immagine distorta, che trasmette all’opinione pubblica un’informazione parziale, non oggettiva e condizionata da pregiudizi. E ora sarebbe il caso che chi ha accusato ingiustamente i poliziotti del carcere di Sassari chiedesse quantomeno scusa per avere offeso l’onorabilità del Corpo". Bari: detenuto tenta suicidio in cella, salvato dalla polizia penitenziaria www.baritoday.it, 25 giugno 2014 L’episodio nel pomeriggio nel carcere di Bari: a diffondere la notizia è il Cosp (coordinamento sindacale penitenziario), che torna a lanciare l’allarme per la carenza di personale e per il sovraffollamento delle carceri pugliesi. Un detenuto ha tentato di togliersi la vita questo pomeriggio nel carcere di Bari. L’uomo, un cittadino tunisino di 38 anni, in carcere in attesa di giudizio, ha cercato di impiccarsi in cella: a salvarlo sono stati gli agenti di Polizia penitenziaria. A diffondere la notizia è il Cosp (coordinamento sindacale penitenziario), che torna a lanciare l’allarme sulla situazione di emergenza che caratterizza le carceri pugliesi: sovraffollamento, strutture spesso fatiscenti, carenza di personale. "La Puglia - scrive il Cosp in una nota - mantiene 3.600 detenuti contro 2.450 posti letto, ma rimane anche sofferente come personale di polizia di circa 600 unità, attualmente sono 2.448 i poliziotti in servizio nelle 10 carceri pugliesi". Con l’episodio di questo pomeriggio, salgono a 47 i tentativi di suicidio registrati nei penitenziari della Regione da gennaio ad oggi, e tre i detenuti che si sono tolti la vita. "Siamo preoccupati - prosegue la nota del Cosp - per l’avvio della stagione calda come siamo preoccupati che già vengono segnalate situazione di estremo disagio nelle carceri sia per detenuti che per agenti, carenza di attenzione sanitaria, carente approvvigionamento acqua potabile per docce. Auspichiamo- maggiore attenzione di chi è deputato alla soluzione dei problemi detentivi per agenti e personale dipendenti oltre che per la popolazione detenuta". "Sulla situazione sanitaria e di sicurezza sui luoghi di lavoro nelle carceri come sull’impiego del Medico del Lavoro nelle postazioni citate, - conclude il comunicato - il Cosp ha inoltrato una missiva al Direttore Sanitario Asl territoriale affinché predispongano piani di interventi a favore degli operatori della Sicurezza ed a tutela della propria salute". Gorizia: delineato un progetto contro il sovraffollamento di Emanuela Masseria Messaggero Veneto, 25 giugno 2014 Partendo da un quadro aggiornato sulle difficili condizioni delle carceri regionali ieri la Provincia di Gorizia ha lanciato un’iniziativa che dovrebbe concretizzarsi entro l’autunno. L’obiettivo? Garantire percorsi di riabilitazione alternativi alla detenzione per far fronte al sovraffollamento. Il progetto prenderà forma con il sostegno dei garanti dei diritti dei detenuti nominati in regione (don Alberto De Nadai per Gorizia, Maurizio Battistutta per l’area comunale di Udine, Rosanna Palci per Trieste), che ieri erano presenti all’incontro nella sede dell’ente. In sostanza si tratterebbe di un primo intervento di ricognizione al fine di produrre sul territorio modalità diverse per far scontare le pene fino ai 5 anni, visto il richiamo della Corte europea che ha definito come "disumane" le condizioni delle carceri. "Entro un anno - ha detto l’assessore al Welfare Ilaria Cecot, tutto il Paese dovrà adeguarsi". In parte è già stato fatto, con una riduzione dei detenuti. Venendo ai dati regionali, al 31 maggio 2014 in Friuli c’erano 677 reclusi, rispetto ai 495 posti regolamentari. Tra questi 339 immigrati, 25 donne, 12 italiani e 5 immigrati in regime di in semilibertà. A Gorizia ci sono 21 persone, "mentre 74 detenuti, nel 2014, sono stati trasferiti fuori regione a causa della ristrutturazione dello stabile che doveva finire in maggio ma che invece verrà ultimata a dicembre", ha sottolineato don Alberto. Complessivamente in Italia si è passati da 60 mila a 48 mila carcerati dopo il primo richiamo europeo. Il consigliere provinciale Stefano Cosma ha ricordato che "solo il 20% dei detenuti è recidivo dopo aver usufruito di pene alternative". Quindi a settembre la Provincia e i garanti cercheranno di avviare questo primo incontro tra magistratura, case circondariali, camere penali e amministratori comunali non solo per sensibilizzare ma anche per istituire nuovi percorsi sostenibili. Trento: digitalizzazione archivi con il lavoro di persone in esecuzione penale e ex detenuti Ansa, 25 giugno 2014 Su proposta dell’assessore alla salute e solidarietà sociale, Donata Borgonovo Re, la Giunta provinciale di Trento ha deciso di attuare l’accordo per la creazione in Trentino di un distretto dell’economia solidale per persone in esecuzione penale e per ex detenuti. Con.solida individuerà una cooperativa sociale a cui affidare la digitalizzazione dell’archivio cartaceo dell’Agenzia provinciale per l’assistenza e la previdenza integrativa (Apapi), ha detto l’assessore Borgonovo Re. L’archivio comprende la documentazione relativa alle domande per l’assegno regionale al nucleo familiare, il contributo per le famiglie numerose ed il contributo a sostegno del potere di acquisto delle famiglie. Sassari: Sdr; solidarietà per l’agente della Polizia penitenziaria ferito da un detenuto Comunicato stampa, 25 giugno 2014 "Gli agenti della Polizia penitenziaria sono il principale punto di riferimento dei detenuti che riversano su di loro attese, speranze e disillusioni. Ecco perché sono particolarmente esposti anche a gesti ingiustificabili di violenza. Nell’esprimere solidarietà all’Agente Polpen, vogliamo richiamare il significativo peso delle professionalità del Corpo". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al grave episodio verificatosi nel carcere di Sassari-Bancali dove un detenuto ha aggredito ferendolo un Agente. "La Polizia Penitenziaria ha un compito particolarmente gravoso e delicato - sottolinea - perché è quella che trascorre la maggior parte del tempo nelle sezioni detentive a stretto contatto quindi con le problematiche personali, familiari e umane dei ristretti. È necessaria quindi un’adeguata formazione ma è indispensabile anche disporre di un numero di persone in modo da poter organizzare turni di servizio ottimali. L’estate inoltre è il periodo più critico per chi vive nei penitenziari e accade spesso che i responsabili della sicurezza debbano svolgere non solo compiti di sorveglianza, peraltro molto stressanti ". "Sugli Agenti però non possono ricadere tutte le responsabilità. L’attivazione dei nuovi Villaggi Penitenziari, con l’arrivo di detenuti da altre realtà del Paese, moltiplica le problematiche e favorisce le tensioni. Il Ministero deve farsi carico di garantire al loro fianco anche un numero significativo di operatori culturali, specialmente Educatori. La vera sicurezza - conclude la presidente di Sdr - si realizza mettendo insieme professionalità diverse che operano costantemente per il recupero dei cittadini privati della libertà". Napoli: Osapp; agente aggredito e ferito a Poggioreale, calci e pugni da tre detenuti Ansa, 25 giugno 2014 Un agente della polizia Penitenziaria in servizio nel carcere napoletano di Poggioreale è stato aggredito ieri nel reparto Livorno da tre detenuti al termine dell’ora d’aria. A rendere noto l’episodio è Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). La guardia è stata immobilizzata, colpita al viso con una cintura avvolta nella mano e poi presa a calci e pugni provocandole, come si evince dal referto medico, "una frattura all’avambraccio destro, trauma cranico e cervicale, contusioni ed escoriazioni al viso, stato confusionale mentale, lesione agli impianti odontoiatrici, causati da trauma facciale". "E’ stata un’aggressione gratuita e senza alcuna motivazione, - dice in una nota Montesano - che evidenzia ancora una volta azioni di vera ed inspiegabile inaudita violenza nei confronti di coloro che rappresentano lo Stato". Montesano invita il Garante dei Detenuti e la Commissione Europea "a verificare le condizioni lavorative della polizia penitenziaria in quello che e l’istituto di Napoli Poggioreale e non solo". "Credo - afferma il segretario - che lo stato di cose sia solo propedeutico al ritorno degli anni 80-90 dove l’istituto partenopeo e stato scenario di una lunga serie di vili attentati causanti morte per numerosi colleghi". Il segretario dell’Osapp inviata il presidente del Consiglio dei ministri Renzi e il ministro Orlando ad assumere "immediate iniziative per rendere maggiormente agibile il lavoro delle donne e uomini Polizia Penitenziaria. Noi, come sindacato, lo faremo e proprio nel periodo estivo quando cominceranno le passerelle politiche noi manifesteremo le più concrete forme di motivato dissenso e la rigida applicazione delle leggi dello Stato". Viterbo: controllo della Polizia penitenziaria, un etto di hashish trovato a Mammagialla www.viterbonews24.it, 25 giugno 2014 Un etto di hashish già suddivisa in dosi per essere venduta nascosta in un frigorifero del carcere di Mammagialla. Sono stati gli agenti della polizia penitenziaria a trovare la droga ieri mattina, nel corso di uno dei controlli che periodicamente vengono eseguiti all’interno del penitenziario. Nel particolare, le dosi erano conservate in uno dei frigoriferi che si trovano nella sala dedicata alla socializzazione dei detenuti. Ora è stata aperta un’indagine per far luce sull’episodio e per risalire a chi abbia fatto entrare la droga in carcere che, presumibilmente, doveva essere venduta agli altri detenuti. Non è la prima volta che nel carcere di Mammagialla vengono trovate sostanze stupefacenti, ecco perché già da tempo, gli agenti hanno intensificato i controlli. Modena: Cgil; alla Casa circondariale Sant’Anna in arrivo 2 agenti per vigilare detenute Ansa, 25 giugno 2014 Arriva una "una prima risposta alle richieste del sindacato sulle carenze dell’organico del personale addetto alla vigilanza delle detenute" nella casa circondariale e ‘Sant’Annà di Modena. È quanto scrive, in una nota la Fp-Cgil modenese secondo cui sono in arrivo due agenti per la vigilanza delle detenute. "Dopo le azioni di protesta organizzate dal sindacato Fp-Cgil di Modena, la carenza di organico del personale addetto alla vigilanza delle detenute presso la casa circondariale di Sant’Anna, sta iniziando a trovare una soluzione", si legge. "Abbiamo appreso - afferma Vincenzo Santoro del sindacato modenese che a breve verrà assegnato al carcere di "Sant’Anna" un primo nucleo di due agenti: ovviamente non rappresenta la risoluzione del problema, ma certamente sarà una prima risposta alle richieste del sindacato e delle lavoratrici". Per questo, prosegue la nota, il 30 giugno il Prefetto di Modena ha convocato i rappresentanti della Cgil per un incontro nel corso del quale verranno rappresentate le problematiche esistenti al "Sant’Anna". Fasano (Br): detenuti per tenere pulita la città? l’Amministrazione ci sta pensando www.osservatoriooggi.it, 25 giugno 2014 L’iniziativa, già in atto in altre città italiane, è stata presa dal Sindaco facente funzione Moncalvo e dall’assessore ai servizi sociali Martucci. Detenuti per pulire o compiere altri lavori utili alla comunità. È l’idea che sta perseguendo l’Amministrazione comunale di Fasano sulla scia di quanto sta accadendo in altre città italiane. Sono stati il sindaco facente funzione Gianleo Moncalvo e l’assessore ai servizi sociali Vito Martucci ad avere avuto l’idea che ora è al vaglio dei dirigenti per tastarne la fattibilità. I due amministratori hanno letto che in alcune città italiane , previ accordi tra amministrazioni e direttori di istituti di pena, alcuni detenuti vengono utilizzati per scopi prettamente sociali. Del resto i Comuni sono costretti ormai ai salti mortali per far quadrare i bilanci mentre i direttori delle carceri, con queste iniziative, tentano di contribuire al reinserimento dei detenuti anche perché è statisticamente provato che quando questi ultimi lavorano non cadono più nella tentazione di delinquere. In attesa di piani per nuove carceri si può incominciare comunque a lavorare su progetti in grado di aiutare chi ha sbagliato a non ricadere nell’errore, insegnando loro un lavoro. Facendo un esempio a Massa il direttore del carcere, il sindaco e il presidente dell’azienda che raccoglie i rifiuti, si sono messi attorno a un tavolo e concordato che i servizi utili fanno bene a tutti. Così i detenuti sono stati dotati di scope e paletta, senza però che tolgano il lavoro a nessuno. Infatti si occupano di attività che, comunque, l’azienda non eseguirebbe come la pulizia di caditoie e tombini, manutenzione dei cigli stradali, e garantiscono un servizio in più per la cura del territorio. In altre realtà puliscono boschi, cimiteri e zone degradate. L’Anci, l’associazione dei Comuni, e il dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia hanno firmato un protocollo per favorire queste iniziative. Anche il ministro dell’Ambiente e quello della Giustizia hanno sottoscritto nei giorni scorsi un accordo che prevede che i detenuti potranno essere inseriti nei parchi nazionali per attività di pulizia e conservazione dell’ambiente. Si tratta di passare dalle buone intenzioni ai fatti. Ed è quello che hanno pensato di fare Moncalvo e Martucci. Non è dato sapere, in quanto l’idea del progetto è in fase embrionale, per quali eventuali lavori verrebbero utilizzati i detenuti ma i fini di reinserimento sociale e lavorativo da perseguire sono già di per se un valido motivo. Avellino: la Provincia promuove convegno al Borbonico sul tema dei diritti dei detenuti www.irpiniaoggi.it, 25 giugno 2014 È in programma oggi, 25 giugno, alle ore 16,00 presso il complesso culturale dell’ex carcere Borbonico, il convegno sul tema "La salute mentale nel regime carcerario. La situazione e le prospettive". L’iniziativa è stata promossa dalla Provincia di Avellino, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Avellino, dalla Fondazione Brodolini e dall’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali. Il programma prevede i saluti del Commissario Straordinario della Provincia, Raffaele Coppola. A seguire l’introduzione a cura di Carlo Mele, Garante Provinciale dei diritti dei detenuti. Interverranno al dibattito: Raffaele Bracalenti - Presidente Iprs; Don Virgilio Balducchi - Ispettorato Generale dei Cappellani; Rosanna Romano - Direttore Generale delle Politiche sociali Regione Campania; Mario Vasco - Direttore Generale Area Prevenzione e Assistenza Regione Campania; Antonella Barone - Dipartimento Amministrazione penitenziaria -Ministero della Giustizia. Alle 17, 15 ci sarà la tavola rotonda, con Mario Coi della Fondazione Giacomo Brodolini nel ruolo di moderatore. Si parlerà di "Situazione sanità penitenziaria e programmazione regionale" con Adriana Tocco, Garante Regionale. Previste, inoltre, le relazioni su "Analisi quantitativa del fenomeno e confronti nazionali (a cura di Natalia Buzzi); "Il ruolo dell’Assistenza psicoterapeutica in regime carcerario" (a cura di Sergio Florio ASL Avellino); "Il ruolo delle strutture territoriali per l’assistenza psichiatrica" (a cura di Franco Scarpa). "Un terzo dei detenuti italiani soffre di una malattia mentale - spiegano i promotori. Su circa 59mila persone presenti nelle carceri italiane i conti sono presto fatti. Ventimila è un numero calcolato per difetto: psicosi, depressione, disturbi bipolari e di ansia sono la norma nel 40% dei casi, a cui vanno aggiunti poi i disturbi di personalità borderline e antisociale. Persone a volte già malate, altre che si ammalano durante la detenzione complici il sovraffollamento, il contesto, la popolazione straniera di difficilissima gestione. In questa situazione i cosiddetti detenuti sani finiscono per trovarsi in un inferno aggiuntivo che, nella peggiore delle ipotesi, può portare anche al suicidio. In Italia, quelli compiuti in carcere hanno numeri nove volte superiori rispetto alla popolazione generale con tassi aumentati negli ultimi anni di circa il 300%". Aversa (Ce): il cantante Tommy Riccio terrà un concerto al teatro dell’Opg www.pupia.tv, 25 giugno 2014 L’appuntamento, in programma per lunedì 30 giugno, a partire dalle ore 18, si inserisce in un più ampio e articolato programma di iniziative portato avanti da un gruppo di soggetti sociali con l’intento di alleviare la delicatissima condizione di detenzione dei reclusi all’interno di una struttura di cui spesso ci si interroga sul suo senso e sulla sua funzione nella moderna società. Da alcuni anni a più riprese si organizzano concerti, incontri, serate teatrali e spettacoli vari. Solo qualche giorno fa è stata inaugurata a Gricignano di Aversa "Arte che riscatta": seconda mostra di pittura e manufatti realizzati dagli ospiti dell’Opg che ha registrato una notevole partecipazione di visitatori e grazie ai proventi incassati dalla vendita degli oggetti, sono stati acquistati indumenti intimi per quei reclusi dimenticati dalla società e dai familiari. Così come per i precedenti eventi, anche il concerto di Tommy Riccio è promosso grazie alla proficua intesa tra l’associazione Casmu, presieduta da Mario Guida; la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, rappresentata dal direttore Elpidio Iorio; l’associazione "Noi Polizia" presieduta da Gennaro Sannino; i vertici dell’Opg aversano, ovvero la direttrice Elisabetta Palmieri, il comandante commissario Luigi Mosca, il capo area segreteria Gemma Pirolli, il capo area pedagogica Angelo Russo. La serata si avvale anche del patrocinio dei comuni di Aversa e Carinaro, rappresentati rispettivamente dal sindaco Giuseppe Sagliocco e dall’assessore alla cultura Nicla Virgilio; e dal neo sindaco Annamaria Dell’Aprovitola. Il programma della serata, che sarà presentata dalla brava Ida Piccolo, prima del concerto di Tommy Riccio, prevede l’esibizione di Patty De Martino e Paola Ferri. Antonio Belardo coordinerà i service tecnici di audio e luci, gli addobbi floreali saranno invece curati da Nicola Perfetto. Seguirà alla fine un buffet di prodotti tipici della tradizione enogastronomica locale gratuitamente offerto dai fratelli Corvino titolari della pizzeria "Bakery e pizze" sita ad Aversa in via Fermi. Droghe: il Libro Bianco per cambiare di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 25 giugno 2014 Mercoledì 25 giugno alle ore 11 a Roma (Sala del Senato Santa Maria in Aquiro, Piazza Capranica 72) il Cartello che ha promosso il Manifesto di Genova, presenta la quinta edizione del Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi. Promosso da La Società della Ragione, Antigone, Cnca, Forum Droghe il rapporto, anticipa e nei fatti sostituisce la relazione governativa probabilmente congelata in attesa del nuovo Capo Dipartimento Antidroga, e vorrebbe essere l’ultimo che mette in fila i danni di una legge sulle droghe che ha fatto della propaganda e della repressione la sua bandiera. La Fini-Giovanardi, cancellata dalla Corte Costituzionale dopo una battaglia tenacemente condotta dalle associazioni, rimane come un’ombra nera sul nostro sistema giuridico. Lo abbiamo visto con la genesi del decreto Lorenzin che, ipotizzando addirittura la riproposizione delle norme cassate, ha buttato alle ortiche la grande chance riformatrice messa in campo dalle novità politiche internazionali (Uruguay, Colorado e Washington) e dalla sentenza della Corte. Come la muffa sui muri la Fini-Giovanardi è addirittura rispuntata in Gazzetta Ufficiale, con un grottesco refuso riconosciuto dal Governo. Il peggio di quella legge però non c’è più. Dopo 8 anni il Libro Bianco ricostruisce il calvario attraverso cui siamo passati. Oltre agli abituali contributi sulla repressione penale e amministrativa dell’uso e della detenzione di sostanze, che confermano ancora una volta come la legge sia stata una fonte di criminalizzazione, di stigmatizzazione e di discriminazione di centinaia di migliaia di giovani e consumatori, vengono proposti approfondimenti sul ruolo dei servizi pubblici e privati, sul consumo giovanile, sui test ai lavoratori e sui controlli alla guida. Non manca in appendice un trittico critico sui principali cavalli di battaglia del braccio destro di Giovanardi al Dipartimento antidroga, dalla composizione delle sostanze alla diffusione dei consumi. In chiusura, in assenza di fonti ufficiali, viene proposta una puntuale ricostruzione della normativa penale vigente del testo unico sulle sostanze stupefacenti. È bene però ricordare che la strage continua: con la criminalizzazione dei consumatori (solo attenuata da pene più miti per la detenzione di droghe leggere) e con la detenzione scandalosa di condannati a pene illegittime. Alcune migliaia di detenuti, secondo la giurisprudenza della Cassazione, meriterebbero di vedersi rideterminata la pena, ma sono abbandonati a se stessi dal cinismo e dall’inazione di Governo e Parlamento. Basterebbe un decreto o un indulto ad hoc: invece si preferisce intasare gli uffici giudiziari con le singole richieste di ricalcolo delle pene o - peggio - far scontare alle persone pene ingiuste. Come detto è cambiato lo scenario entro cui ci muoviamo. Serve allora un radicale mutamento delle politiche sulle droghe nel nostro Paese che distingua nettamente le politiche sociali e sanitarie da quelle penali. Serve una compiuta depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo. Serve poi una regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della libera coltivazione a uso personale. Serve il rilancio dei servizi per le dipendenze e delle politiche di "riduzione del danno". Serve il superamento del fallimentare modello autocratico del Dipartimento Antidroga, con una gestione partecipata che abbia come primo obiettivo la convocazione entro l’anno della Conferenza nazionale prevista dalla legge e cancellata da troppi anni. Medio Oriente: dopo 63 giorni 80 detenuti palestinesi sospendono lo sciopero della fame La Presse, 25 giugno 2014 Ottanta detenuti palestinesi hanno terminato il loro sciopero della fame dopo 63 giorni, dopo aver raggiunto un accordo con Israele. Lo ha reso noto il ministro degli Affari detentivi Shawqi Al-Aissa, affermando che lo sciopero della fame è finito oggi. Il ministro non ha aggiunto dettagli sull’accordo raggiunto con l’Autorità israeliana per le carceri. La protesta era cominciata il 24 aprile. Dal 2012, prigionieri palestinesi hanno dato vita a una serie di scioperi della fame, a volte in forma individuale e a volte in gruppi più ampi per protestare contro la "detenzione amministrativa", una politica che mantiene alcuni detenuti in custodia per mesi senza accuse. Israele ha difeso la pratica come uno strumento necessario per fermare l’attività dei militanti. Circa 5mila palestinesi sono detenuti in Israele per reati che vanno dal lancio di rocce ad attacchi militanti. Di questi, 190 sono detenuti amministrativi. Medio Oriente: sono più di 250 i palestinesi minorenni detenuti nelle carceri di Israele Aki, 25 giugno 2014 Lo denuncia l’avvocato Hiba Masalha del ministero per gli Affari dei Detenuti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). "Israele sta violando gli accordi internazionali sui diritti dei bambini tenendo in carcere minorenni palestinesi e sta cercando di coprire questi abusi con la storia dei tre ragazzi israeliani scomparsi", ha detto Masalha riferendosi al rapimento avvenuto il 12 giugno di tre giovani israeliani nel sud della Cisgiordania per il quale Israele accusa Hamas. "Prelevare ragazzini palestinesi dalle loro case nel mezzo della notte senza informare i parenti sui motivi del loro arresto equivale a un rapimento", ha aggiunto il legale, denunciando che spesso i giovani palestinesi subiscono violenze in carcere. Tra i casi, l’avvocato cita quello del 16enne Talal Khalid Sayf arrestato il 3 maggio e che ha raccontato di essere stato picchiato dai soldati isrealiani. Picchiato anche il 17enne Islam Mahmoud Haimouni, prelevato dalla sua casa il 18 dicembre scorso, e il 16enne Hassan Sharif Ghawadrah, ricoverato in ospedale dopo 15 giorni di detenzione in isolamento. Secondo il rapporto diffuso lo scorso anno dall’Unicef, Israele è l’unico Paese al mondo che processa i minorenni in tribunali militari e li sottopone a "trattamenti crudeli e disumani". Dopo rapimento ragazzi, militari israeliani hanno arrestato 529 palestinesi Più di 500 palestinesi sono stati arrestati durante le operazioni militari di Tel Aviv, che hanno fatto seguito al rapimento di tre giovani teenager israeliani, avvenuto in Cisgiordania lo scorso 12 giugno. Lo rende noto l’organizzazione dei detenuti palestinesi, secondo la quale gli arrestati sono esattamente 529, di cui 129 di Hebron, 87 di Nablus, 75 di Belen, 52 di Jenin, 49 di Ramallah, 36 di Gerusalemme est, 23 di Tulkarem. Le operazioni militari israeliane - ricordano i palestinesi - hanno anche causato 6 morti e 120 feriti. Egitto: il mondo si mobilita per i reporter di Al Jazira in carcere, ma Sisi rifiuta la grazia Il Messaggero, 25 giugno 2014 Mobilitazione internazionale, ed espressioni di solidarietà anche al Cairo, per i giornalisti della tv satellitare Al Jazira condannati pesantemente in Egitto per presunto "sostegno ai Fratelli musulmani". Ma nonostante le proteste, il presidente e nuovo uomo forte egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha indirettamente respinto al mittente una richiesta di grazia avanzata dagli Stati Uniti. A Londra, .di fronte alla sede della Bbc, centinaia di giornalisti si sono radunati per denunciare l’esito del processo sotto lo slogan "journalism is not a crime". I partecipanti hanno osservato un minuto di silenzio tappandosi la bocca con un nastro adesivo nero per sottolineare come il verdetto del Cairo rappresenti una violazione della libertà d’informazione. Intanto da Doha l’emittente panaraba ha moltiplicato i suoi appelli usando l’hashtag #freeajstaff. E molte altre sono state le manifestazioni di sostegno ai reporter incarcerati diffuse in rete con foto o slogan. A turbare il mondo dei media è anche l’entità delle pene: con la condanna a sette anni inflitta al pluripremiato reporter australiano Peter Greste e all’egiziano-canadese Mohamed Fahmi (ex capo dell’ufficio cariota di Al Jazira) e quella a 10 anni di reclusione al producer locale Baher Mohamed. Accusati di "disinformazione" e "sostegno materiale alla Confraternita" - di nuovo bandita come ‘organizzazione terroristica dal nuovo potere egiziano - i tre sono ora nel carcere di Torà, al Cairo, assieme a quattro fotografi e operatori egiziani. Mentre7 altri 11 reporter imputati (tra cui due britannici e una olandese) sono stati condannati a 10 anni in contumacia. Ma l’allarme e gli appelli non sembrano smuovere Sisi. "Non si compiono ingerenze nelle attività della magistratura, che è indipendente", ha sostenuto oggi il presidente ed ex generale al Cairo durante una cerimonia presso l’accademia militare. Una replica indiretta al coro di critiche internazionali, con Onu, Gran Bretagna e organizzazioni per la difesa dei diritti umani in testa, che aveva spinto Washington a sollecitare un atto di clemenza presidenziale come soluzione della vicenda. "Chiediamo al governo egiziano di concedere la grazia a queste persone", aveva detto apertamente un portavoce della Casa Bianca, in linea con quanto chiesto dall’Australia e da decine di media stranieri presenti al Cairo e uniti in un appello alla scarcerazione. Il presidente americano Barack Obama, se vuole, ha comunque un forte strumento di pressione: il miliardo e mezzo di dollari l’anno in aiuti soprattutto militari che da ottobre sono stati congelati (e solo parzialmente sbloccati questa settimana) proprio in attesa di prove di rispetto dei diritti fondamentali da parte della nuova leadership egiziana. Nel negare la grazia, Sisi non ha del resto nascosto le difficoltà economiche e di bilancio dell’Egitto, su cui insiste da mesi. Marocco: Ong condannano silenzio governo su sorte detenuti marocchini in Iraq Nova, 25 giugno 2014 Le Ong marocchine hanno condannato l’atteggiamento del governo di Rabat nei confronti del dramma dei detenuti marocchini in Iraq, la cui sorte resta un mistero alla luce degli scontri in corso nel nord del paese arabo. Dopo il deterioramento della situazione della sicurezza in Iraq, le Ong marocchine hanno chiesto al governo di Rabat di intervenire per accertarsi della sorte dei detenuti marocchini presenti nelle carceri irachene i quali si teme possano essere vittime della guerra settaria tra sunniti e sciiti in corso in quel paese. In una lettera inviata al governo, le associazioni marocchine per i diritti umani hanno ricordato che "abbiamo avuto notizie di uccisioni indiscriminate di detenuti arabi nelle carceri solo perché sunniti". Sarebbero in tutto dodici i marocchini rinchiusi nelle carceri del governo iracheno. Venezuela: Hrw; gravi abusi in repressione proteste e torture su persone fermate Ansa, 25 giugno 2014 Il gruppo di difesa dei diritti umani Human Rights Watch (Hrw) ha espresso la sua "profonda preoccupazione per la gravissima situazione dei diritti umani in Venezuela, che rappresenta quanto di più allarmante si sia osservato in quel paese da anni": la denuncia è contenuta in un rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc). Secondo Hrw, a partire dallo scorso 12 febbraio - quando si sono intensificate le proteste di piazza contro il governo di Nicolas Maduro, nelle quali sono morte 42 persone e altre centinaia sono rimaste ferite - le forze di sicurezza venezuelane "hanno applicato frequentemente la forza illegittima contro manifestanti disarmati e semplici pedoni". Questi abusi "fanno parte di una pratica sistematica delle forze di sicurezza", si legge nel rapporto, e includono "colpi brutali, uso di armi da fuoco, pallottole di gomma e gas lacrimogeni in modo indiscriminato contro la folla", nonché "spari deliberati e a bruciapelo contro persone disarmate". A questo si aggiungono, sostiene Hrw, azioni contro giornalisti e altre persone che documentavano la repressione, e una tolleranza sistematica riguardo a "bande armate pro-governative che hanno attaccato impunemente i manifestanti, a volte con la collaborazione" delle forze di sicurezza. I detenuti, secondo il gruppo di difesa dei diritti umani, hanno subito "una varietà di abusi gravi" che "in alcuni casi hanno chiaramente costituito torture". Egitto: insultò l’islam su Facebook, cristiano copto condannato a sei anni carcere Aki, 25 giugno 2014 Un copto egiziano è stato condannato a sei anni di carcere per blasfemia. Kerolos Ghattas - riportano i media locali - è stato riconosciuto colpevole da un tribunale di Luxor, nel sud dell’Egitto, per aver pubblicato sulla sua pagina Facebook vignette ritenute offensive per l’Islam. Ghattas, 30 anni, era finito in manette a inizio mese. Il suo arresto aveva scatenato incidenti nel suo villaggio, dove alcuni assalitori avevano lanciato molotov contro negozi di proprietà di cristiani. I legali dell’uomo possono ora ricorrere in appello contro la sentenza. In Egitto i cristiani sono finiti sotto attacco dopo la destituzione dell’ex presidente Mohamed Morsi, salito al potere nel 2012. A seguito dell’intervento delle forze armate che hanno arrestato Morsi, appartenente ai Fratelli Musulmani, sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi contro i cristiani, come confermato anche dalla commissione di esperti incaricata dal Consiglio nazionale per i diritti umani di fare il punto sulla situazione dei copti nel paese.