Giustizia: spedito in Sardegna come un pacco postale di Daniel Rustici Il Garantista, 24 giugno 2014 Ottocento detenuti trasferiti per motivi "umanitari". L’Italia per non incorrere nelle sanzioni europee usa una misura che rende ancora peggiore la vita delle persone. lontani dalla famiglia, dagli affetti, senza nessun diritto alla sessualità. Ci incontriamo alla sede del partito Radicale di lunedì, il giorno libero di Maria. È vestita elegante, tailleur e pantaloni neri, ma le mani sono quelle di una lavoratrice: quattordici ore al giorno per sei giorni alla settimana come lavapiatti in un ristorante. Lo stipendio non le basta per organizzare un viaggio con le due figlie ad Oristano, dove suo marito è stato trasferito dopo un periodo di detenzione nel carcere di Viterbo. È arrabbiata Maria per questo improvviso cambio di istituto penitenziario; l’ennesimo per Catello Cioffi che nella sua odissea giudiziaria, trenta anni (ventitré con l’indulto) da scontare per vari reati legati al suo passato nella camorra, ha cambiato molte carceri tra cui quelle di Regina Coeli, Rebibbia, Nuoro e Poggioreale. Questa volta però al danno si aggiunge la beffa: il trasferimento avvenuto il ventinove maggio scorso (un provvedimento che ha riguardato anche altri 800 detenuti sparsi in giro per l’Italia) è stato giustificato dalle autorità come una risposta umanitaria alla messa in stato di accusa da parte dell’Europa per le nostre galere sovraffollate. Verrebbe da dire: una pezza peggiore del buco. Cioffi infatti a Viterbo stava iniziando un graduale percorso di reinserimento, la buona condotta e il pentimento lasciavano presagire la possibilità di accedere a uno stato di semilibertà; c’erano stati segnali in questo senso e Maria e le figlie, una di 19 anni l’altra una minore di 12, stavano davvero sperando di poter riabbracciare l’uomo di casa dopo diciassette anni di contatti filtrati dall’angustia degli spazi carcerari. Con il trasferimento in Sardegna questa prospettiva si fa molto più effimera: oltre ad allontanare di molti chilometri Cioffi dalla sua famiglia, il "cambio di residenza" ha anche l’effetto di cancellare con un colpo di spugna tutto il percorso di riabilitazione che lo aveva portato a un passo dall’agognata (semi) libertà. Maria però non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha già presentato un esposto all’ufficio del garante dei detenuti della regione Lazio: "Ciò che mi dà la forza di andare avanti è l’amore". Un amore che cerca di farsi largo tra la penuria di libertà e tempi per gli affetti che concedono le patrie galere dove Catello e Maria nel 2001 hanno concepito la loro secondogenita, durante un colloquio settimanale. "Non ce l’hanno mai perdonato", mi dice. Non appena fu evidente lo stato di gravidanza della moglie Cioffi fu trasferito da Rebibbia a Nuoro: "Non può essere una casualità". È ancora un tabù il diritto alla sessualità e all’affettività per i carcerati. Ed è un tema su cui Maria Contaldo si è spesa in prima persona fondando un’associazione assieme ad altre donne i cui mariti, come il suo, sono rinchiusi in una cella. Oggi però la battaglia che Maria sente come più impellente è quella per far tornare suo marito a Viterbo o comunque in un carcere più vicino a Roma dove vive con le figlie. Affianco a lei in questa lotta ci sono l’associazione Antigone, il partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino. Nonostante la drammaticità di questa situazione di lontananza forzata Maria, oltre alla determinazione, non perde nemmeno l’ironia. Parlando del periodo di latitanza su e giù per l’Italia prima dell’arresto del marito scherzando dice: "Almeno non possiamo dire di non avere fatto un viaggio di nozze avventuroso". Giustizia: Spigarelli "basta con gli arresti-spettacolo, spesso poi arrivano le assoluzioni" intervista a cura di Marco Ventura Il Messaggero, 24 giugno 2014 Il fermo no, l’arresto sì. E Massimo Giuseppe Bossetti resta in carcere. È normale? "Non succede spesso ma è nell’ordine delle cose", dice Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali. "L’automatismo tra la gravità del reato e la necessità del fermo non era sostenibile in quel modo, mentre per il Gip sussistevano gli elementi della custodia cautelare. Piuttosto, i fermi spesso vengono disposti in modo un po’ strumentale dalle Procure, che prima indagano per una vita e poi chiedono una misura "pre-cautelare". Più logica sarebbe allora la richiesta di custodia cautelare, dando al gip più tempo per valutare. Il gip Maccora è un magistrato di prima qualità, ma in un paese normale anche processi per fatti gravi, se non vi sono prove di un’immediata pericolosità, dovrebbero svolgersi con l’imputato a piede libero, in tempi rapidi". La saliva di Bossetti è stata raccolta col pretesto dell’etilometro... "Sarebbe stato più corretto un accertamento tecnico preventivo, col quale Bossetti avrebbe avuto diritto a un’informazione di garanzia. Ricorda il "corvo"? Le impronte digitali furono prese al bar, da un bicchiere. Per non scoprire le carte". Tutti questi annunci e conferenze stampa come li giudica? "Una spettacolarizzazione della giustizia a cui ormai siamo abituati. Noi avvocati siamo contrari a queste forme di informazione unilaterale degli investigatori o delle Procure. A decine di conferenze stampa trionfalistiche è seguita nel tempo l’assoluzione degli imputati, da Scaglia a Tortora e a Serena Grandi. Andrebbero pure evitate le sfilate di individui in ceppi davanti a questure e caserme". Basta una prova del Dna ben fatta per condannare qualcuno? "La ricerca scientifica dimostra che ciò che riteniamo sicuro, qualche anno dopo viene revocato in dubbio. Quindi andrei cauto nell’idolatrare la prova del Dna. Il 99.9 per cento su un milione fa tre. In una città di un milione di persone sarebbero tre a poter, essere accusati dello stesso delitto. Servono altre prove. Una che tiene banco sempre di più ma è imprecisa, è quella dei telefonini. Se la cella della vittima è la stessa della casa del sospettato, non provi nulla". E il non ricordare dove si stava? "Un alibi falso è una prova. Ma io non ricorderei dove stavo cinque anni fa. Se non ho la prova della mia innocenza, non per questo devo essere condannato. È l’accusa a dover provare che sono colpevole. E poi mi ha colpito che si sia arrivati a rastremare gli indagabili con un campionamento di migliaia di persone". Il pm, Letizia Ruggeri, non esclude il giudizio immediato... "Altro paradosso e stortura del sistema da eliminare. L’accusa indaga per anni, pensa d’avere la prova, ti mette in galera, fa il giudizio immediato. Ma che giudizio immediato è dopo tre anni? È solo un modo per privare l’imputato dell’udienza preliminare, cioè di un po’ di garanzie. Mi chiedo: quando sì è cominciato a indagare su questa persona senza iscriverla nel registro degli indagati?". Giustizia: sbagliato gridare subito al colpevole, anche se gli indizi sono molto validi di Mario Chiavano (Professore Emerito dell’Università di Torino) Corriere della Sera, 24 giugno 2014 Cose di più di vent’anni fa. Un uomo dell’alta finanza, già vicino politicamente al presidente francese Giscard d’Estaing, viene trovato ucciso in circostanze misteriose. Chi l’abbia ammazzato non si sa (e non si saprà mai) ma dalle prime indagini, con gravi indizi a carico, salta fuori il nome di un possibile mandante, personaggio noto nel sottobosco dei faccendieri: si chiama Allenet de Ribemont. Lo arrestano. Al telegiornale delle 20 il ministro degli Interni, il capo della polizia e un ufficiale incaricato delle indagini proclamano senza mezzi termini qualcosa come "l’abbiamo preso". Dopo qualche tempo, l’indagato viene prosciolto per mancanza di prove sufficienti. Ricorre allora alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 1995, gli dà ragione - e non per l’arresto (gli indizi a suo carico c’erano) ma per le parole pronunciate in quel telegiornale - e per l’occasione fissa alcuni principi che resteranno come capisaldi anche per gli sviluppi successivi della sua giurisprudenza. Nessun dubbio - dice la Corte - che i mezzi d’informazione ("cane da guardia della democrazia") debbano essere informati e informare sugli sviluppi essenziali di inchieste giudiziarie, anche di quelle più delicate; però soprattutto chi riveste ruoli istituzionali deve farlo con il "riserbo" e la "discrezione" che sono imposti dalla presunzione d’innocenza, quale è garantita dalle Carte internazionali di tutela dei diritti fondamentali delle persone. Già, "riserbo" e "discrezione". Ma... sono cose di più di vent’anni fa. E a quell’epoca non c’erano i social network e il test del Dna non era ancora diventato abituale nei procedimenti penali. O, forse, anche oggi vale la pena porsi qualche domanda, dopo che un uomo, prima di aver avuto qualsiasi possibilità di difendersi, è stato esposto (e non solo lui) al massacro dei media con una semiufficiale etichetta di "assassino", subito appiccicatagli addosso? Giustizia: Caso Yara; minacce a Bossetti nel carcere di Bergamo "infame… pagherai" di Paolo Berizzi La Repubblica, 24 giugno 2014 Ha paura adesso Massimo Giuseppe Bossetti. Teme per la propria incolumità e per quella dei suoi familiari: in particolare di sua madre, Ester Arzuffi, la donna che, secondo le indagini, potrebbe avere custodito più di un segreto sul conto del figlio, rendendo oltremodo difficile il lavoro degli investigatori impegnati a fare luce sulle responsabilità di cui è accusato. Nella cella del "Gleno" dove è ancora rinchiuso in regime di isolamento, al presunto assassino di Yara Gambirasio nelle ultime ore sono arrivati messaggi minacciosi da parte di altri detenuti. "Infame". "Bastardo". "La pagherai". "Ammazzati". E via con altri insulti di questo tenore. Lo ha confidato lo stesso Bossetti a don Fausto Resmini, il cappellano del carcere che da un paio di giorni, senza clamori, con le cautele richieste da un caso che il sacerdote definisce "delicatissimo", sta costruendo "un difficile percorso di sostegno umano". L’accordo preso dal cappellano (affiancato al "Gleno" da don Giambattista Mazzucchetti) con il direttore del carcere Antonino Porcino, prevede, soprattutto nelle prime tappe, che i contatti tra Bossetti e il religioso siano tutelati da un dovuto riserbo. Anche per non "inquinare" il progressivo inserimento del detenuto nel circuito del carcere. Quello che trapela, per ora, sono le preoccupazioni del muratore accusato di avere ucciso e abbandonato Yara nel campo di Chignolo d’Isola. "Ho paura. Gli altri detenuti sono ormai convinti che sia io l’assassino, il responsabile di questa atrocità. E mi hanno minacciato. Temo per me e per i miei familiari. Soprattutto per mia madre". Così ha risposto Bossetti a chi gli ha chiesto come si sentisse dopo il malore - una tachicardia da stress - che lo ha colto l’altro giorno in cella. E che forse ha avuto tra le sue cause, oltre all’arresto, anche le "ambasciate" giunte a voce da altri reclusi fino allo spazio occupato dal quarantaquattrenne di Mapello. Come anticipato giovedì scorso da "Repubblica" (che ha dato conto delle sue dichiarazioni in carcere e dei colloqui con lo psicologo), e come poi riferito in udienza al gip Ezia Maccora, Bossetti continua a dichiararsi innocente. Tira in ballo i suoi figli, tre, uno di 13 anni, per dire che "non potevo uccidere Yara", e che "se fossi io il colpevole mi sarei già ucciso". Ma tant’è, per i detenuti del "Gleno", e non solo per loro, il colpevole è lui: e lui "deve pagare". Le violenze sui minori nel codice non scritto dei carcerati sono considerate un reato infame, inaccettabile. Che "macchia" l’accusato ancora prima del verdetto della giustizia. Da qui le minacce a Bossetti. La cella del presunto killer di Brembate confina con l’infermeria a piano terra, lui è in regime di isolamento ma non è distante dalle celle occupate da altri detenuti: uno su tutti Isaia Schena, il killer dell’assassina romena Madalina Palade. Una sezione che Gino Gelmi, vice presidente dell’associazione Carcere e territorio, conosce bene. "Al di là della vicenda giudiziaria, che non mi compete, va fatta una riflessione su un aspetto che ritengo fondamentale - dice. La necessità di tutelare i diritti delle persone, in particolare di quelle che ruotano intorno alla vita del detenuto Bossetti, e parlo soprattutto dei minori coinvolti". Giustizia: caso Dell’Utri; dopo appello ex senatore 15 libri per lui nel carcere di Parma Adnkronos, 24 giugno 2014 A buon fine l’appello per i libri di Marcello Dell’Utri. L’ex senatore del Pdl, recluso nel carcere di Parma -dove dovrà scontare una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa- ha chiesto di poter avere in cella più volumi da leggere, coltivando anche dietro le sbarre la passione di una vita. A Dell’Utri non sono stati dati solo 2 libri ma 15 volumi, più un vocabolario. Se non fossero sufficienti può fare istanza di ricambio", assicura all’Adnkronos Anna Albano, direttrice degli Istituti penitenziari di Parma. Nessuna indiscrezione sui titoli chiesti in lettura dall’ex senatore azzurro, ma Albano smorza le polemiche dei giorni scorsi riguardo alle limitazioni dei libri per Dell’Utri nel carcere di via Burla: "Non pensiamo proprio che nasconda lime nei libri - osserva sorridendo - è un bibliofilo e li userà per leggere. Comprendiamo il disagio di chi inizia una carcerazione, le sue esigenze verranno raccolte e, nel giusto contemperamento delle regole, cercheremo di darvi seguito". "In un istituto penitenziario - ricorda Albano - ci sono limitazioni riguardo agli oggetti che una persona può detenere, anche per ragioni di sicurezza e per i controlli previsti. Il diritto allo studio e alla coltivazione della lettura è tenuto in grande considerazione dall’Amministrazione penitenziaria, le limitazioni sono derogabili in funzione delle esigenze particolari che ciascuna persona può esprimere e rappresentare". Dell’Utri avrebbe anche manifestato il desiderio di occuparsi della biblioteca del penitenziario, ma "in questo momento un ruolo di questo genere è da escludere - spiega ancora la direttrice del carcere di Parma - Dell’Utri è nel centro diagnostico terapeutico, una sezione dove prevale l’esigenza di cura". "Il detenuto appartiene comunque al circuito alta sicurezza", spiega ancora Albano. Insomma, "saranno valutazioni da fare in seguito". "Lui vive con i libri, lo fanno stare più sereno", spiega all’Adnkronos Giuseppe Di Peri, uno dei legali dell’ex senatore del Pdl, che mercoledì andrà a trovarlo nel carcere di Parma. "L’afflizione della carcerazione - aggiunge - si può attenuare permettendogli di leggerne un numero superiore. Ha chiesto alla biblioteca del carcere alcuni volumi, e altri gli verranno inviati da familiari e amici. Bisognerà vedere quanti ne potrà tenere in cella". "A Beirut -conclude il legale- si era portato tanti libri che gli sono stati sequestrati. Contiamo di ottenere il dissequestro dei volumi nei prossimi giorni in modo da farglieli pervenire, nel numero consentito". Lettere: carceri a centri d’accoglienza incubatori di mali gravi e costosi di Paolo Cornaglia Ferraris La Repubblica, 24 giugno 2014 La salute dei carcerati è precaria per ragioni igieniche; simili problemi esistono nei centri di accoglienza (si fa per dire). Il caldo poi rende tutto molto più pericoloso. Le malattie si trasmettono facilmente e alcune sono molto costose da trattare (epatite C); non c’è medico che possa arginarle in contesti privi di decenza sanitaria. Aziende e imprese private pagano multe salate per molto meno. Perché lo Stato non multa se stesso? Darebbe un buon esempio, ma visto che tanto pagheremmo sempre noi, è più proficuo sospendere dallo stipendio chi non lavora come dovrebbe. Per primi gli onorevoli che se ne fregano dell’etica, del buon senso (un euro speso oggi ne farebbe risparmiare migliaia domani) e d’ogni appello papale o presidenziale. Lo spinello sia monopolio di Stato, come alcool e tabacco (più tossici); un grande affare tolto di mano ai delinquenti. E Giovanardi? Ci pensi Renzi a rottamare lui e la sua legge. camici. Emilia Romagna: la Garante; i detenuti sono in calo, ma criticità a Parma e Piacenza Ansa, 24 giugno 2014 In Emilia-Romagna "la diminuzione del sovraffollamento carcerario prosegue, in linea con il resto d’Italia, grazie all’importante cambiamento normativo in corso a livello nazionale", ma nel "lento processo di normalizzazione della vita in carcere" permangono "numerose criticità", in particolare "Parma e Piacenza, vere e proprie criticità tra le criticità". Così Desi Bruno, Garante regionale dei detenuti, ha anticipato alla commissione Salute e politiche sociali della Regione, presieduta da Monica Donini, la relazione 2013 attesa in Assemblea legislativa prima della pausa estiva. "È stato raggiunto - ha precisato - il risultato minimo dei tre metri quadrati per detenuto che ci era stato richiesto dall’Unione europea, ma gli obiettivi della cosiddetta sentenza Torreggiani sono ben più ampi, e riguardano anche la differenziazione degli spazi detentivi e l’umanizzazione della pena, che passa soprattutto dalla possibilità di poter occupare il proprio tempo". Il primo intervento necessario è "rivedere gli investimenti in edilizia penitenziaria, a partire dai nuovi padiglioni di Bologna e Ferrara: se venissero costruiti oggi finirebbero per essere inutili nel giro di pochi anni, data la carenza cronica di personale di polizia e civile. Tutto ciò avviene mentre si spende poco, molto poco, per la messa a norma degli istituti già presenti, che sono fatiscenti e presentano problemi strutturali insuperabili". In Emilia le situazioni più difficili: "A Piacenza semplicemente non c’è niente, nessuna iniziativa che riguardi formazione o lavoro, aumentando il rischio di recidiva in maniera significativa, specialmente per categorie come i responsabili di crimini sessuali". Anche a Parma, "il problema è enorme, con diversi detenuti sottoposti al regime di carcere duro 41bis e oltre 80 ergastolani senza che sia mai stato sviluppato un percorso adeguato, questa è una ipoteca pesante sulla vivibilità della struttura". L’Emilia-Romagna comunque non è stata toccata in modo significativo dalle recenti modifiche in materia di stupefacenti "perché non abbiamo molti detenuti in carcere per reato di piccolo spaccio, semmai sono molti i tossicodipendenti che hanno compiuto crimini come rapine o furti per i loro problemi di tossicodipendenza, e al momento sono troppo pochi i trattamenti ad hoc, con la conseguenza di una recidiva quasi sicura". Andrea Pollastri (Fi-Pdl) ha sollecitato più iniziative scolastiche, di formazione e per l’occupazione dei detenuti a Piacenza. Franco Grillini (LibDem) ha chiesto di "rafforzare l’assistenza psicologica" perché "oltre 40 casi di suicidio sono davvero troppi". L’Avvocato di strada Antonio Mumolo (Pd) ha proposto "un gruppo in Regione per risolvere il problema del lavoro durante e dopo il carcere, che è la difficoltà più grande per i detenuti e la principale causa di recidività". Liana Barbati (Idv) ha chiesto chiarimenti sulla sanità penitenziaria. Puglia: Cosp; resta sovraffollamento carceri e ancora nessun incremento di personale www.leccenews24.it, 24 giugno 2014 La cronaca nera torna a parlare dei tentativi di suicidio nelle carceri pugliesi. A segnalare con un comunicato stampa l’ultimo episodio - accaduto stanotte nella Casa circondariale di Taranto, poco prima delle 2.00 - è stata la Segreteria Generale del Cosp (Coordinamento Sindacale Penitenziario). Più precisamente, a tentare l’insano gesto pare sia stato un detenuto tarantino. Avrebbe provato ad impiccarsi. Fortuna che l’intervento degli agenti abbia avuto una tempestività tale da salvare la vita all’uomo. Un fatto che "segue da poco quello del 16 scorso nel Penitenziario di Lecce" - si legge nella nota pervenutaci in redazione. Quello di Taranto è un Istituto che ospiterebbe circa 600 detenuti contro una capienza regolamentare di 340 persone, una nuova struttura in costruzione per 200 posti letto, ma mancano 80 unità di polizia penitenziaria; attualmente sarebbero 270 unità, ma nei servizi sono 170, oltre alle 50 unità NOT (Servizi Sicurezze e Scorte). C’è da interrogarsi. In Puglia, dall’inizio del 2014, corrispondono a 45 i casi di tentativi di suicidio, mentre salgono a 3 quelli concretizzatisi. E tutto ciò davanti ad una "ridotta sorveglianza sulle mura perimetrali di cinta delle carceri pugliesi, con servizi di vigilanza consistenti in pattuglia di polizia esterna automontata da solo due poliziotti". Ridotto anche il personale nelle ore pomeridiane, serali e notturne; ridotte le risorse economiche. "Che altro devono ridurre alle Forze di Polizia nonostante difendano la sicurezza del paese e delle carceri Italiane?" - chiede a voce alta il Cosp. Non caso, 3.660 ospiti contro una regolamentare capienza di 2.450 posti letto indica una chiara situazione di difficoltà. E per il Sindacato la preoccupazione aumenta, considerando che i reparti a maggiore vigilanza mancano dei servizi igienici, tipo docce nelle celle; addirittura - si evince sempre dal comunicato - pur di lavarsi, i reclusi si spostano da una sezione all’altra. Nel Penitenziario di Foggia, sembra che 200 detenuti vengano spostati in altri reparti di pari numero pur di fare una doccia. A ciò va aggiunto il fatto che in alcune strutture manchi la Vigilanza Video, o comunque i sistemi di sicurezza interni antintrusione o anti scavalcamento. Ma c’è di più. "Ai Baschi Azzurri di Taranto, Lecce, Bari e Foggia, vengono imposti turni su tre quadranti lavorativi su otto ore, invece che su quattro quadranti da sei ore a turno con più servizi e reparti detentivi da vigilare". Sugli organici inoltre, il Sindacato "ha inoltrato una missiva all’attenzione dell’attuale Vertice reggente Dap Pagano, a Roma, dove si lamenta che dalle assegnazioni di 200 neo agenti in uscita dal 160esimo corso di formazione, le regioni Puglia e Basilicata sono state escluse discutibilmente dall’incremento". Piove sul bagnato. "In queste ore ventola l’ipotesi di un accorpamento di 20 Prap su solo cinque nuovi Ispettorati Distrettuali dell’Amministrazione Penitenziaria, tra cui il Prap della Puglia potrebbe essere accorpata unitamente ad altre Regioni alla Campania". Non usa mezzi termini il Cosp, definendo questa eventualità "Una sconfitta di attenzione già penalizzante dalle risorse che la Puglia certamente non merita". A ciò si aggiunge una situazione di piena emergenza. Dal 16 giugno scorso, infatti, sono iniziati i turni di riposo/ferie per una fetta del 30% del personale in servizio . Pausa che si concluderà 15 settembre 2014. In tal modo, però, persisterà una mancanza di personale nei reparti, determinando accorpamenti maggiori, sovraffollamento detentivo di polizia e, probabilmente, responsabilità per chi questa Estate dovrà fare ancora una volta i conti con sovraffollamento detentivo e mancanza di acqua nelle celle come avvenuto negli scorsi anni. Friuli Venezia Giulia: i Garanti; carceri sovraffollate, ci sono 182 detenuti in esubero di Marco Bisiach Il Piccolo, 24 giugno 2014 Sovraffollamento delle carceri e scarse possibilità di riabilitazione e reinserimento nella società per i detenuti. Sono i principali problemi secondo i tre garanti dei diritti dei detenuti di Gorizia, Udine e Trieste (gli istituti di Pordenone e Tolmezzo ne sono ancora sprovvisti), riuniti ieri in Provincia a Gorizia. L’assessore provinciale Ilaria Cecot e il consigliere Stefano Cosma hanno incontrato don Alberto De Nadai, garante per Gorizia, e i suoi omologhi di Udine e Trieste Maurizio Battistutta e Rosanna Palci, confrontandosi sui problemi che affliggono i cinque istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia. Dove - in base agli ultimi dati aggiornati al 31 maggio scorso - sono detenute in totale 677 persone, a fronte di una capienza massima di 495 posti. Un esubero dunque di 182 unità. Di questi 339 sono gli immigrati, 25 le donne ospitate a Trieste, mentre in stato di semilibertà si trovano 17 detenuti, di cui 12 italiani e 5 immigrati. In regione pare essenziale portare a conclusione il progetto per il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento da 300 posti, che potrebbe essere utilizzato almeno in parte anche per ospitare detenuti con pene superiori ai 5 anni, che oggi vengono invece trasferiti fuori regione, per lo più a Padova. "Ma il nostro auspicio è che si possa lavorare sempre di più alla riabilitazione e al reinserimento dei detenuti - dicono i garanti, e in questo senso serve la possibilità di accedere a pene alternative, e a progetti specifici". Pene alternative e progetti che mancano del tutto a Gorizia, dove il carcere in via di ristrutturazione (i lavori potrebbero essere consegnati a dicembre) può ospitare solo 21 detenuti. "A Trieste sono state attuate convenzioni con Comune e Provincia per dar vita a lavori socialmente utili e borse lavoro per i detenuti - racconta Rosanna Palci, ma ci accorgiamo che questa è un’eccezione, non sempre il territorio è pronto ad accogliere politiche di reinserimento dei detenuti". In tal senso un progetto è quello della Casa di accoglienza di Farra d’Isonzo della Comunità Arcobaleno, che ha chiesto 70mila euro alla Regione per lavori di adeguamento. Qui 4 detenuti possono scontare pene alternative, riflettendo, lavorando e preparandosi a tornare alla vita civile. "Il 70% dei detenuti che non possono seguire percorsi di riabilitazione - sostengono Cosma e Cecot - una volta usciti dal carcere tornano a delinquere". Emilia Romagna: il riciclo di rifiuti elettrici e tessuti dà una seconda chance ai detenuti www.parmadaily.it, 24 giugno 2014 Nelle carceri di Bologna, Forlì e Ferrara i detenuti hanno trattato 2.500 tonnellate di materiali; su 60 persone impiegate solo una è tornata a delinquere. Una seconda opportunità. Ovvero la possibilità di iniziare una seconda vita. Per il materiale elettrico, oppure per stoffe e teli di plastica. Materiali che vengono riciclati e utilizzati per realizzare nuovi prodotti. Ma soprattutto per le persone che lo fanno: detenuti che imparano così un lavoro e iniziano a disegnare un percorso per avere, una volta usciti dal carcere, la possibilità di iniziare davvero una vita diversa. È il "miracolo" che succede ogni giorno grazie a una pattuglia di cooperative sociali. Il caso più eclatante - premiato pochi giorni fa durante la Settimana europea per la riduzione dei rifiuti - è il progetto Raee che grazie alle cooperative Gulliver, It2 e Il Germoglio, recupera materiale elettrico ed elettronico da lavatrici, vecchi pc, piccoli elettrodomestici. Vi lavorano detenuti delle carceri di Bologna, Forlì e Ferrara. Dal 2009 a oggi hanno trattato 2.500 tonnellate di materiali, ma soprattutto su 60 persone impiegate solo una al termine del percorso è tornata a delinquere. Tanti, viceversa, sono rimasti a lavorare in una delle tre cooperative. A Milano la cooperativa Alice realizza grembiuli e cappelli con scarti di tessuti, mentre a Roma la coop sociale Ora d’Aria realizza con 5 detenute borse e cartelle per congressi utilizzando pvc da cartelli pubblicitari e stoffe. A Lecce e a Trani la cooperativa Officina Creativa ha creato i marchi Made in carcere e Second Chance con 20 donne e 15 uomini impegnati nella realizzazione di porta iPad, braccialetti e gadget etnici. A Como invece Impronte di libertà realizza invece abbigliamento per bambini e borse e portafogli, sempre utilizzando materiali di recupero. Una seconda chance. Per le persone, prima ancora che per gli oggetti. Umbria: domani incontro con il Prap, ma Sindacati di Polizia penitenziaria divisi www.umbria24.it, 24 giugno 2014 Al provveditorato regionale si parlerà di numeri e spostamenti, ma Sappe, Cgil Fp e Ugl non ci saranno e accusano: "Comportamento vergognoso". Mercoledì al provveditorato regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si parlerà delle carceri umbre e del personale che ci lavora. Ma Fabrizio Bonino del Sappe, Edoardo Cardinali della Cgil Fp e David Cesari della Ugl, a quell’incontro non ci andranno e sono intenzionati a dare battaglia I tre sindacati ritengono "assolutamente vergognoso che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, tramite il provveditorato regionale, dopo aver clamorosamente sbagliato per difetto la definizione delle piante organiche in Umbria, fissando il numero totale di unità in 1.002, provi ora a ridurre gli organici di alcuni istituti, a beneficio di altri. Questa è guerra tra poveri e per ben sei volte, unitariamente, tutte le organizzazioni sindacali del comparto hanno dichiarato il proprio dissenso e si sono ben guardate dall’apporre la firma su qualsiasi tipo di accordo che non integri quel numero". Ma il fronte mostra qualche crepa, perché, "alcune sigle - dicono Sappe, Cgil Fp e Ugl - hanno deciso di partecipare all’incontro fissato per mercoledì dal provveditore regionale. Non ci sembra assolutamente il modo di fare sindacato questo e ci aspettavamo che combattessero fino alla fine la battaglia che noi abbiamo combattuto e che continueremo a combattere presso il dipartimento centrale, decidendo di non ricevere la carità di nessuno e di non assecondare scelte folli di decurtare personale da una sede per spostarlo in un’altra". Nel 2013, l’ufficio centrale del personale di Roma ha individuato in 1.002 unità tale organico per la Regione Umbria, "non tenendo in alcun conto - spiegano i tre sindacati - che Perugia Capanne non aveva mai avuto una pianta organica per il nuovo istituto e andava ancora avanti con quella del 2001; che si sarebbe dovuto aprire un nuovo padiglione a Terni (con 300 detenuti in più) e che avrebbe dovuto aprire una nuova sezione a Spoleto (con 100 detenuti in più)". Le proteste del personale carcerario si manifestarono subito e "oggi il ministero si è accorto di aver sbagliato e con una scorrettissima manovra, convince il provveditore regionale a riconvocare per la settima volta i sindacati per convincerli ad accettare uno spostamento di organico da Spoleto a Perugia, mantenendo il saldo totale a 1.002 unità. Questo non è accettabile e non lo accettiamo, anche perché avevamo chiesto un incontro al ministero e non ci è stato accordato dall’attuale vice capo del Dap". La diffida Sappe, Cgil Fp e Ugl Si inviano, insomma, una "diffida al provveditorato regionale" e chiedono di "non adottare un simile provvedimento", proclamando "lo stato di agitazione del personale" e promettono che organizzeranno "una manifestazione davanti alla sede del Dap". Sassari: processo Erittu; rischiavano l’ergastolo, assolti i 3 accusati di omicidio in carcere La Nuova Sardegna, 24 giugno 2014 Il Pm aveva chiesto la massima pena per Pino Vandi, Nicolino Pinna e Mario Sanna. La corte d’Assise del tribunale Sassari, dopo 10 ore di camera di consiglio, ha assolto tutti perché il fatto non sussiste. Sono stati tutti assolti perché il fatto non sussiste il presunto "mandante" Pino Vandi, il detenuto Nicolino Pinna e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, accusati di essere legati, con ruoli diversi, al presunto omicidio del detenuto Marco Erittu, avvenuto il 18 novembre del 2007. Questa la sentenza della corte d’Assise di Sassari emessa alle 21,25 dopo 10 ore di camera di consiglio. Il Pm Giovanni Porcheddu aveva chiesto l’ergastolo per i tre imputati per concorso in omicidio. Si chiude così in primo grado uno dei casi giudiziari più complessi e controversi degli ultimi anni. Ad accusare i tre e ad autoaccusarsi del delitto era stato il pentito Giuseppe Bigella, al quale la corte d’Assise, presieduta dal giudice Pietro Fanile, non ha creduto. Bigella, già condannato per l’omicidio e la rapina ai danni di una gioielliera di Porto Torres, sta scontando la pena anche per delitto di cui sostiene di essere responsabile. Nel processo erano entrati anche altri due agenti di polizia penitenziaria: Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda, entrambi accusati di favoreggiamento perché secondo la Procura avrebbero contribuito a inquinare la cella di Erittu dopo il rinvenimento del cadavere. Per loro due il Pm ha chiesto una condanna a quattro anni. Oggi sono stati assolti anche loro. Sono passati sette anni dalla morte del detenuto Marco Erittu. Era il 18 novembre del 2007 quando gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Sebastiano lo trovarono senza vita nella sua cella del braccio promiscui. Era in isolamento, in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. Ecco perché la sua morte fu da subito archiviata come suicidio. I gesti di autolesionismo messi in atto dalla vittima erano frequenti e quella striscia di coperta trovata avvolta sul suo collo e legata alla spalliera del letto quasi a voler fungere da cappio, aveva lasciato pochi dubbi agli investigatori. Ma all’improvviso, a distanza di anni, era spuntata un’altra "verità". Quella di Giuseppe Bigella, un portotorrese che decide di collaborare con gli inquirenti confessando di esser stato lui a uccidere Marco Erittu perché così "gli aveva ordinato Pino Vandi" (anche quest’ultimo all’epoca rinchiuso a San Sebastiano). L’obiettivo, stando al racconto del reo confesso, era quello di mettere a tacere per sempre una persona (Erittu) che era a conoscenza di informazioni importanti relative a una connivenza tra criminalità sassarese e barbaricina. Erittu aveva manifestato l’intenzione di parlare con il procuratore della Repubblica e per questo, a detta di Bigella, doveva essere ammazzato. Il pentito chiama in correità non solo Vandi ma anche un altro detenuto, Nicolino Pinna (che lo avrebbe aiutato a simulare il suicidio), e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna (indicato come colui che avrebbe aperto agli assassini la cella della vittima). Per tutti e tre il pubblico ministero Giovanni Porcheddu aveva chiesto l’ergastolo. Ma stasera è arrivata la sentenza di assoluzione. Chieti: l’Ass. Voci di Dentro apre punto ascolto legale gratuito per ex detenuti e stranieri Ansa, 24 giugno 2014 L’associazione "Voci di Dentro Onlus" assisterà gratuitamente ex detenuti e cittadini stranieri. Dal 4 luglio resterà aperto ogni venerdì, dalle 11 alle 13, nella sede in via De Horatiis. A Chieti sono circa cento i detenuti ristretti nella casa circondariale di Madonna del Freddo e in città le presenze straniere crescono sempre più: spesso queste persone, soggetti deboli, non hanno punti di appoggio e sono soggette a maggiori difficoltà nel momento in cui si trovano a dover sbrigare una pratica, richiedere delle informazioni di carattere tecnico o, più sinteticamente, ripartire nella società. L’associazione Onlus Voci di Dentro ha istituito un Punto di ascolto legale dedicato a questo tipo di utenza. Ne fanno parte gli avvocati soci di Voci di dentro: Alessandra Baldassarre, Matilde Giammarco, Mauro Morelli, Alessandra Paolini ed Enrico Raimondi. Il Punto di ascolto legale assisterà gratuitamente ex detenuti e cittadini stranieri e intende essere un servizio di consulenza e aiuto in merito alle problematiche relative agi ex detenuti e agli immigrati (accesso al lavoro, discriminazioni, contratti, ricongiungimenti familiari, ecc.). A partire dal 4 luglio resterà aperto ogni venerdì mattina. Taranto: Sappe; detenuto tenta suicidio, salvato dagli agenti della Polizia penitenziaria Ansa, 24 giugno 2014 Un detenuto di 40 anni circa, in attesa di giudizio per reati contro il patrimonio, ha tentato di uccidersi nel carcere di Taranto ed è stato salvato dagli agenti della Polizia penitenziaria. Ne dà notizia Federico Pilagatti, segretario nazionale del sindacato autonomo di categoria Sappe. Il detenuto tarantino ha utilizzato una corda rudimentale, probabilmente ricavata da un lenzuolo, cercando di impiccarsi alla grata dell’inferriata del bagno. Pilagatti fa presente che il detenuto, "che nei giorni scorsi ha ricevuto un nuovo mandato di arresto", oggi ha avuto un colloquio con i famigliari e "dopo essere rientrato nella propria cella, forse in preda alla depressione, ha messo in atto l’insano gesto". L’uomo avrebbe prima oscurato lo spioncino esterno del bagno che consente agli agenti di poter controllare i detenuti, e poi si sarebbe chiuso nel bagno. Proprio l’oscuramento dello spioncino ha insospettito gli agenti che hanno aperto con una spallata la porta del bagno. I poliziotti hanno tolto il cappio dal collo del detenuto, facendo stendere per terra il detenuto, che è stato rianimato dal personale sanitario del carcere. "Il Sappe - osserva Pilagatti - da tempo sta denunciando il sovraffollamento nel carcere di Taranto mentre i vertici del Dipartimento continuano a giocare sulla "vigilanza dinamica". La situazione potrebbe esplodere con effetti deflagranti se non si pongono i dovuti rimedi". Brescia: la storia di Ahmed, il detenuto "rinchiuso" in serra di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 24 giugno 2014 Lavora e produce verdura per la scuola. C’era un po’ di preoccupazione ma ha lavorato bene e si è integrato. Nel Comune di Zone il primo esperimento lombardo di inserimento lavorativo a tempo pieno di un detenuto, il giovane magrebino è stato "adottato" dal paese. Se la mettessimo sul piano dei soldi non c’è partita: un detenuto in carcere costa oramai 200 euro al giorno mentre se è in esecuzione penale esterna, soprattutto se lavora gratis, è un vantaggio per la comunità. Se più preoccupa l’aspetto rieducativo, la partita è vinta comunque: chi sta in carcere, quando esce, in due casi su tre compie altri reati; chi ha una pena alternativa solo in un caso su cinque. A Zone devono avere pensato anche a questo quando, nel novembre scorso, hanno architettato il primo esperimento lombardo di inserimento lavorativo a tempo pieno di un detenuto, non costretto a rientrare in carcere la sera ma alloggiato in un appartamento di proprietà dell’amministrazione comunale. Marco Antonio Zatti, sindaco di 39 anni appena rieletto e un passato lavorativo come vigile del paese - una garanzia di legalità - sulla questione si è speso molto. In novembre aveva anche fatto un’assemblea per presentare il progetto e, allora, non erano mancati malumori. La scommessa, a distanza di sette mesi, l’ha vinta: "Un po’ di preoccupazione c’era ma Ahmed ha fatto la sua parte, ha lavorato bene e si è fatto accettare dalla comunità". Ahmed è il detenuto in esecuzione penale esterna: ventotto anni, è arrivato in Italia nel febbraio del 2007 su un barcone. Qualche giorno al Sud e poi subito Brescia, dove aveva alcuni amici. In carcere, la prima volta, ci finisce quasi subito per spaccio. Abbassa gli occhi mentre lo racconta: "Mi sono comportato male, non avevo il permesso di soggiorno". L’ultima volta che finisce in carcere ci resta per un anno e tre mesi, poi viene inserito nel progetto di esecuzione penale esterna. "Siamo stati fortunati - spiega il sindaco -, ma bisogna anche dire che la sua posizione è stata ben vagliata prima dal giudice di sorveglianza e dagli assistenti sociali. Un lavoro che non credo abbiano fatto solo per Zone, ma per tutti". Ahmed è stato inserito nel progetto del Comune della serra didattica e sperimentale. I bambini iniziano mettendo i semi nella terra, poi li portano in serra, dove le piantine vengono trapiantate. Pomodori, insalata, patate: prodotti della terra che poi vengono riutilizzati dalla cuoca della mensa scolastica, dati in dono a famiglie di anziani bisognosi o rivenduti la domenica davanti alla chiesa del paese per finanziare le attività della scuola. "L’idea? - chiede il sindaco. Avevamo un numero crescente di richieste di manodopera gratuita o quasi: lavoratori socialmente utili o in mobilità, che hanno perso i punti patente o detenuti e ci è venuta in mente la serra. Il terreno ce l’avevamo già e magari, in questo modo, in un prossimo futuro avremo anche dei prodotti Zone Doc". Ahmed, a detta del sindaco, si impegna molto: lavora in serra, studia il terreno, tratta le piante con cura, quando serve dà una mano anche in altre incombenze. Maria Teresa Porteri, segretario comunale, ci ha messo del suo per dare corpo al progetto. "Ahmed ha iniziato a lavorare a Zone il 10 dicembre e oggi possiamo dire che è stato adottato dalla comunità". Suo è questo aneddoto: "Mezzo paese è oramai schedato: la sera, a casa di Ahmed, ci sono sempre gruppi di persone che giocano a carte e quando la polizia viene a controllare che ci sia, controlla inevitabilmente i documenti di tutti". Veri e propri tornei di briscola, pare, durante i quali il sindaco e Ahmed fanno coppia fissa. "Dobbiamo un po’ migliorare - affermano sindaco e detenuto - ma abbiamo cambiato i segni e siamo fiduciosi". Grande ruolo di facilitatore del progetto l’ha avuto Carlo Alberto Romano, docente in Criminologia in Statale, e presidente dell’associazione Carcere & Territorio: "Il nostro principio è semplice: per risolvere i problemi del carcere bisogna farvi entrare il meno possibile le persone". La prigione solo per i casi limite e i più gravi, le alternative alla pena detentiva per il resto. È la giustizia riparativa: fai un torto alla comunità, la ripaghi svolgendo un’attività di utilità sociale. "Brescia è la provincia con il maggior numero di sperimentazioni in corso - sottolinea Romano. Rispetto a pochi anni fa abbiamo fatto molti passi in vanti e ora, con la legge appena approvata (la 67/2014, ndr) si è aperto anche alla messa alla prova per gli adulti". Il futuro di Ahmed? "All’inizio avevo paura della reazione della gente - afferma -, ma ora sto bene e quando ad agosto dovrei finire mi piacerebbe restare". Teramo: rissa tra detenuti in carcere, uno finisce in infermeria con il naso rotto Il Centro, 24 giugno 2014 Ancora una rissa tra detenuti nel carcere di Castrogno. È avvenuto ieri mattina nel reparto comuni del penitenziario teramano quando, durante il periodo in cui è prevista l’attività di socializzazione, cinque reclusi si sono colpiti con calci e pugni. Uno è finito nell’infermeria del carcere per la rottura del setto nasale, mentre per gli altri quattro non è stato necessario nessun intervento. Da una prima ricostruzione fatta è ipotizzabile che a innescare il tutto sia stato un precedente diverbio tra due dei cinque coinvolti, che sono tutti detenuti campani. La rissa è stata sedata dall’intervento degli agenti Sassari: Osapp; poliziotto aggredito da un detenuto… intervenga il ministro ella giustizia Adnkronos, 24 giugno 2014 Giorni di fuoco nel carcere di Sassari Bancali per la Polizia Penitenziaria, col Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp - Domenico Nicotra - che ha chiesto l’intervento diretto del Ministro della Giustizia per l’insostenibile situazione che si è venuta a creare nel carcere sardo. Sabato scorso l’ordine e la sicurezza del carcere è stata messa a dura prova da diversi detenuti che utilizzando un tavolo da ping pong come ariete hanno cercato di crearsi un varco nello sbarramento dei Poliziotti Penitenziari. Ieri mattina (lunedì) invece c’è stata l’aggressione di un agente, che trasportato presso il vicino pronto soccorso, è stato curato inizialmente con 15 punti di sutura in testa oltre che medicato per tutte le escoriazioni riportate. Si presume che vi sia anche una frattura alla mano mentre si aspetta l’esito della tac per valutare e quantificare tutti i danni subiti a seguito dell’aggressione. "È arrivato il momento di assumere provvedimenti concreti per la Polizia Penitenziaria e pensare un po’ meno ai detenuti, perché diversamente nelle patrie galere il clima diventerà rovente" continua Nicotra. "Questa situazione è senza dubbio la conseguenza delle scelte fatte dall’Amministrazione Penitenziaria e dalla Politica che con il ricorso alla vigilanza dinamica e la prossima chiusura degli Opg sta generando delle carceri simili alle "pentole a pressione" la cui esplosione non potrà non mietere vittime". Napoli: detenute in passerella a Pozzuoli, domani la sfilata nel penitenziario femminile Adnkronos, 24 giugno 2014 Detenute in passerella e sfilata di moda nel carcere femminile di Pozzuoli (Napoli). Ad organizzarla è stata la commissione Pari Opportunità, in collaborazione con l’assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Pozzuoli. L’evento, che si terrà mercoledì 25 giugno alle ore 15, vedrà sfilare come modelle sedici detenute, selezionate, che si alterneranno in passerella con otto modelle dell’Accademia della Moda "P&P" di Anna Paparone. Saranno presenti, tra gli altri, la direttrice della casa circondariale Stella Scialpi, l’assessore provinciale alle Pari Opportunità Giovanna del Giudice e l’assessore alle Pari Opportunità del Comune di Pozzuoli Teresa Stellato. Le modelle sfileranno con i capi dello stilista internazionale "Impero Couture" di Napoli. Per prepararsi all’evento, le detenute hanno effettuato per alcune settimane un corso di portamento e di "bon ton" all’interno dello stesso carcere. La sfilata, che ha esclusivamente finalità sociali, si propone da un lato di offrire alle detenute un momento di svago e di aggregazione, e dall’altro di avvicinarle al mondo della moda. Roma: disabile finisce carcere, è accusato di aver "sequestrato" la badante per un anno Tm News, 24 giugno 2014 È stato condotto in carcere, a Velletri, dopo l’udienza di convalida, il 54enne di Marino, affetto da una disabilità motoria, arrestato dai carabinieri della stazione di Marino lo scorso 20 giugno dopo l’ennesimo episodio di violenza nei confronti di una donna romena di 42 anni, che aveva assunto come badante. Emigrata dalla Romania, dove ha lasciato un figlio di 10 anni, la donna, circa un anno fa, ha deciso di accettare la proposta di lavoro dell’uomo di Marino, allettata, oltre che dai 900 euro di compenso mensile, anche dall’offerta di vitto alloggio. Ovviamente la donna non poteva immaginare il calvario che l’aspettava: l’uomo si è rivelato da subito prepotente e violento, negandole giorni di riposo e costringendola a subire insulti di ogni tipo che si tramutavano anche in schiaffi quando riteneva che commettesse il benché minimo errore nel disbrigo delle faccende domestiche. Da ultimo era arrivato addirittura a negarle il permesso di uscire di casa, pretendendo che tutte le attenzioni della donna fossero rivolte ad esaudire i suoi bisogni. Un crescendo di angherie e soprusi insomma che la donna era costretta ad accettare per non perdere quel lavoro unica fonte di sostentamento per lei e per la sua famiglia in Romania. Venerdì scorso l’ultimo episodio che ha convinto la vittima a denunciare ai Carabinieri il suo aguzzino: la donna, approfittando della momentanea assenza del suo datore di lavoro, aveva trascorso la serata fuori, ma al rientro si era vista negata la possibilità di rincasare dall’uomo che per punizione l’ha costretta a trascorrere tutta la notte in giardino. I militari, raccolta la denuncia e ricostruita la vicenda anche sulla base delle dichiarazioni di alcuni testimoni, si sono presentati a casa dell’uomo che, pur di sfuggire all’arresto, tentava, fortunatamente senza riuscirci, di investirli con la sua automobile. Al termine dell’udienza di convalida, tenutasi presso il Tribunale di Velletri, con le accuse di maltrattamenti in famiglia, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, per l’uomo è stata disposta la custodia cautelare in carcere. Cinema: "Sbarre", il documentario-verità su Sollicciano arriva a Capodarco Film Festival Ansa, 24 giugno 2014 È una lenta discesa dentro la sofferenza umana, che riguarda i detenuti ma anche le guardie penitenziarie, dentro il carcere fiorentino di Sollicciano nel documentario "Sbarre", lungometraggio, inedito e realizzato dagli studenti del Centro sperimentale di cinematografia con la supervisione del regista Daniele Segre che verrà proiettato domani nel corso della quarta serata del Capodarco Corto Film Festival. All’appuntamento saranno presenti il regista Daniele Segre e Stefano Rulli, uno dei più importanti sceneggiatori italiani (La piovra, Mery per sempre, La meglio gioventù, Romanzo criminale), quattro volte vincitore del David di Donatello. Alla proiezione assisterà anche la direttrice del carcere di Fermo Eleonora Consoli. Il documentario è stato girato con la tecnica dell’intervista multipla. I detenuti appaiono allo spettatore senza alcun artificio estetico e senza che si sappia che tipo di storia hanno alle spalle. "Abbiamo voluto rappresentarli solo come persone - spiega Segre - senza nessuna volontà di mistificare la realtà, perché quello che intendevamo realizzare era un viaggio di verità e condivisione". Droghe: giovedì verrà presentato il dossier "V Libro Bianco" sulla legge Fini-Giovanardi Asca, 24 giugno 2014 Una fotografia dei risultati della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. È quella scattata dal Fini-Giovanardi V Libro Bianco che verrà presentato mercoledì 25 giugno presso la sala del Senato di Santa Maria in Aquiro, in piazza Capranica a Roma. Uno studio che fornirà i dati sulle conseguenze penali della legge, sulle sanzioni amministrative e sull’impatto della normativa sul sovraffollamento nelle carceri. Il dossier verrà presentato da una serie di sigle quali La Società della Ragione Onlus, Forum Droghe, Antigone, Cnca e con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lila, Magistratura Democratica, Unione delle Camere Penali Italiane. Mondo: sui giornalisti in carcere il silenzio è globale… di Marco Bardazzi La Stampa, 24 giugno 2014 "Terrorista". È diventata un’etichetta, facile da usare nel mondo post-11 settembre, difficile da togliersi di dosso per chi la subisce, devastante nelle conseguenze giudiziarie che si porta dietro. Ci sono governi che la usano sempre più spesso per liberarsi di un ostacolo fastidioso, una complicazione ritenuta inutile da ogni potere: la libertà di stampa. E ci sono altri governi, quelli dei Paesi che si definiscono democratici, che sembrano assuefatti all’abuso di quell’etichetta e non sanno più alzare la voce. Sta accadendo in queste ore con l’Egitto, un Paese ormai lontano dalle speranze (e illusioni) della Primavera araba. Ieri una corte del Cairo ha condannato tre giornalisti di Al Jazeera a pene tra i 7 e i 10 anni per accuse previste dalla legge antiterrorismo. Cosa hanno fatto Peter Greste, ex giornalista della Bbc, Mohamed Fadel Fahmy, capo dell’ufficio del Cairo dell’emittente del Qatar ed ex reporter della Cnn, e Baher Mohamed, un "producer" egiziano? A detta dei giudici, hanno diffuso "notizie false" e favorito un’organizzazione terrorista, i Fratelli Musulmani. A detta degli osservatori indipendenti di tutto il mondo, stavano semplicemente facendo il loro lavoro, quando il 29 dicembre scorso sono stati prelevati dalle camere d’albergo e sbattuti in una prigione dove rischiano di restare per un decennio. Niente di molto diverso dalla sorte toccata al giornalista etiope Eskinder Nega, condannato a 18 anni per "terrorismo" da un governo che non tollerava le sue inchieste scomode. Come lui e come i tre reporter di Al Jazeera, oltre la metà dei 211 giornalisti finiti in cella nel 2013 (dati del Committee to Protect Journalists) risultano essere stati accusati di aver messo "in pericolo" lo Stato. Di qui l’etichetta infamante: "Terroristi". Che cosa sta facendo la comunità internazionale di fronte a questo attacco alla libertà di stampa globale (e quindi alla democrazia e al diritto di ciascuno di noi a essere informati)? Poco o niente. I giornalisti in carcere non indignano, non scaldano, non mobilitano le cancellerie. Soprattutto, sono scomodi. John Kerry, il segretario di Stato americano, un giorno prima del verdetto del Cairo aveva incontrato il presidente egiziano el Sisi per perorare la causa dei tre di Al Jazeera. Gli Usa si aspettavano un gesto di buona volontà da un governo a cui hanno appena riaperto una ricca linea di credito. Invece, in meno di 24 ore è arrivata una sentenza che è uno schiaffo in faccia all’intromissione di Washington. Kerry si è indignato, l’ha definita una decisione "spaventosa", ha chiesto la grazia, ma in pratica ha incassato un’evidente umiliazione. La Casa Bianca ha tuonato un po’, ma senza troppa enfasi. La Gran Bretagna ha convocato l’ambasciatore egiziano per spiegazioni, l’Australia si è detta sconvolta, l’Onu ha protestato. Ma la sensazione è che a dominare sia la "realpolitik" del momento, la necessità di non disturbare troppo Russia, Cina, i Paesi arabi e tutti i luoghi dove viene violata la libertà di stampa, perché in gioco ci sono altri interessi. C’è anche aria di rassegnazione, come se fossero evaporate tutte le speranze che Usa ed Europa avevano riposto in un futuro democratico per le "primavere". Manon si può sacrificare una libertà per quieto vivere diplomatico. È ora di affermare con chiarezza che il giornalismo non è terrorismo e che la libertà di stampa non si baratta con niente. Sarebbe bello che fosse proprio il governo italiano a segnare l’inversione di tendenza. Il caso di Peter, Mohamed e Baher è lì, davanti agli occhi di tutti: basta avere il coraggio di alzare la voce. Iraq: jihadisti dell’Isis uccidono 70 detenuti in attacco a convoglio a sud di Baghdad Agi, 24 giugno 2014 Almeno 70 detenuti iracheni sono rimasti uccisi in un attacco di miliziani al convoglio che li trasportava a sud di Baghdad. Lo hanno reso noto fonti della sicurezza, aggiornando un precedente bilancio di 34 morti. L’agguato è avvenuto a sud di Hilla, il capoluogo della provincia di Babel e nella sparatoria sono rimasti uccisi anche un poliziotto e otto miliziani sunniti. I detenuti erano stati prelevati dal carcere di Qauat al Akrab, nella provincia di Babel, in cui sono rinchiusi per lo più terroristi, per essere trasferiti nel penitenziario di Al Qasem. L’agguato, probabilmente ad opera di miliziani sunniti, è scattato quando il convoglio stava transitando a sud di Hilla, il capoluogo provinciale. L’attacco è coinciso con l’arrivo a Baghdad del segretario di Stato americano, John Kerry, in una visita per esortare i leader politici iracheni all’unità di fronte all’avanzata dei miliziani jihadisti dell’Isis. È la seconda volta in pochi giorni che un tentativo di liberare detenuti si risolve in una strage. La scorsa settimana erano morti 44 detenuti nell’assalto dei miliziani sunniti a una prigione di Baquba. Secondo il governo sono stati uccisi dal fuoco dei miliziani venuti a liberarli mentre altre fonti hanno riferito che sono stati uccisi dalle guardie del penitenziario mentre tentavano di evadere. Libia: Human Rights Watch denuncia "l’orrore nelle carceri non ha fine…" di Carlo Ciavoni La Repubblica, 24 giugno 2014 Human Rights Watch (Hrw) ha visitato nove dei centri dove vengono trattenuti, in condizioni a dir poco disumane e sottoposti a violenze di ogni sorta. "Ho visto appendere quattro o cinque persone a testa in giù ad un albero fuori dalla porta principale e li ho visti percuoterli e frustarli sui piedi e sulla pancia". Mentre c’è attesa delle scelte che potrà compiere il neo-premier Ahmed Omar Maiteeq, il paese è di fatto preda di un vero e proprio pandemonio politico. Il volume d’affari più cospicuo è quello del traffico di esseri umani. Quello della benzina è passato in secondo piano. Era meno rischioso, è vero, ma non c’è dubbio che "commerciare" con esseri umani disperati conviene assai di più. Soprattutto perché a voler partire dalla Libia sono davvero in tanti. Si contano a migliaia a Tripoli, così come a Bengasi, a Misurata, o a Zwara, considerato ormai il centro nevralgico degli "affari" che si fanno con i migranti e i profughi in Libia. A Fashloum, oppure a Gourjiy - due quartieri della capitale - centinaia di uomini provenienti dall’Africa "profonda" aspettano di partire. Sono richiedenti asilo siriani, somali, eritrei, sudanesi, che nell’attesa del "passaggio" verso l’Europa cercano di sopravvivere proponendosi come lavoratori occasionali. E c’è solo da immaginare con quali compensi e quali garanzie. Le visite di HRW ai centri di detenzione. Intanto, Human Rights Watch (Hrw) ha visitato nove dei centri dove vengono trattenuti, in condizioni a dir poco disumane e sottoposti a violenze di ogni sorta, i migranti che comunque in Libia non vengono distinti fra quelli, cosiddetti "economici", ovvero in cerca di lavoro, e quelli che invece fuggono dai loro paesi per ragioni umanitarie: guerre, discriminazioni, assenza di diritti fondamentali. I funzionari di HRW hanno così parlato con 138 detenuti dei problemi nel corso della loro detenzione. In otto dei centri - Burshada e al-Hamra, vicino Gharayan; al-Khums, a cento chilometri a est di Tripoli; Zliten, e Tomena, vicino Misurata; abu-Saleem e Tuweisha a Tripoli; e Soroman, 60 chilometri a ovest di Tripoli - i detenuti hanno parlato di gravi violenze da parte delle guardie carcerarie. Alcuni colloqui sono stati condotti in gruppo, altri in privato e confidenzialmente. Chiusi 24 ore nei container. Tra le strutture utilizzate per detenere i migranti vi sono container da nave, ex-centri veterinari e uffici governativi non utilizzati e non sono adibiti ad ospitare detenuti neanche per un breve periodo. Dozzine di detenuti hanno detto a Human Rights Watch di aver passato mesi confinati 24 ore al giorno all’interno di stanze e container. Botte e scariche elettriche. Guardie penitenziarie dei centri di detenzione per migranti sotto il controllo del governo libico hanno torturato, o usato violenza in altra maniera, su migranti e richiedenti asilo, con flagellazioni, pestaggi e scariche elettriche. Lo continua denunciare oggi Human Rights Watch (Hrw) che ha dunque rilasciato le conclusioni preliminari delle sue indagini nel Paese, dell’aprile 2014, le quali comprendono interviste a 138 detenuti, quasi cento dei quali hanno riferito di torture e altre violenze. Le presunte violenze, il sovraffollamento massiccio, le condizioni igieniche precarie, e la mancanza di accesso a cure mediche adeguate in otto dei nove centri che Human Rights Watch ha visitato costituiscono un’infrazione degli obblighi della Libia a non compiere torture o trattare persone in modo crudele, inumano o degradante. Le "perquisizioni" di agenti maschi sulle donne detenute. "I detenuti ci hanno descritto come agenti maschi hanno perquisito donne e ragazze togliendo loro gli abiti e assaltando uomini e ragazzi" riferisce Gerry Simpson, ricercatore esperto sui rifugiati a Human Rights Watch. "La situazione politica in Libia può essere dura, ma il governo non ha scuse rispetto alle torture o ad altre deplorevoli violenze da parte degli agenti carcerari in questi centri di detenzione". La guardia costiera libica, che riceve aiuti dall’Unione Europea (Ue) e dall’Italia, intercetta o porta in salvo centinaia di migranti e richiedenti asilo ogni settimana mentre questi cercano di raggiungere l’Italia in barche di trafficanti, e li detiene in attesa di deportazione, insieme a migliaia di individui arrestati in Libia per essere entrati nel Paese senza permesso o per esservi rimasti senza valido permesso di soggiorno. Alcune testimonianze Eritreo di 33 anni. Centro di migrazione al-Hamra, dove i detenuti vengono tenuti nei container navali. A Novembre 2013, alcuni hanno provato a scappare. Li hanno presi - racconta - hanno poi punito tutti i detenuti in uno dei container. L’ho visto succedere con i miei occhi. Li hanno tirati fuori, gli hanno tolto le camicie, gli hanno tirato acqua addosso e poi li hanno frustati con della gomma sulla schiena e sulla testa per circa mezz’ora. Stavano tutti vomitando per la sofferenza. Altre volte le guardie dicono che spareranno alla gente se non mette i piedi attraverso le barre davanti al container. Poi li picchiano. Somalo di 27 anni. Da quando sono arrivato qui nel 2014, le guardie mi hanno aggredito due volte. Mi hanno frustato con un filo di metallo e picchiato e preso a pugni su tutto il corpo. Le ho anche viste appendere quattro o cinque persone a testa in giù ad un albero fuori dalla porta principale e poi percuoterli e frustarli sui piedi e la pancia. E una settimana fa [metà aprile 2014], li ho visti aggredire un uomo egiziano che era stato qui per tre mesi ed era malato di mente. Lo hanno preso a calci in testa e gli hanno rotto un dente. Ragazza eritrea di 21 anni. Centro di detenzione per migranti di Soroman. Sono qui dal febbraio scorso. Quando alle guardie non piace quello che fa qualcuno entrano racconta - urlano e lo picchiano con bastoni. Quando sono arrivata qui, le guardie hanno messo tutte noi 23 donne in una stanza, ci hanno detto di toglierci i vestiti e ci hanno infilato le dita nella vagina. Quei 12 milioni che UE e Italia regalano alla Libia. Sia l’Ue che l’Italia sostengono anche i centri di detenzione libici attraverso la riabilitazione di alcuni centri e il finanziamento di organizzazioni internazionali e non-governative libiche che vi forniscono assistenza. L’Ue e l’Italia hanno stanziato almeno 12 milioni di euro per i centri nei prossimi quattro anni. L’Ue e l’Italia dovrebbero sospendere ogni assistenza ai centri, che sono gestiti dal ministero degli interni, fino a che il ministero acconsenta a un’indagine sugli abusi e a che la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) abbiano verificato indipendentemente che le violenze siano terminate, ha dichiarato Human Rights Watch. Se le violenze terminano, l’Ue e l’Italia dovrebbero anche cercare un accordo con il ministero dell’interno su come utilizzare ulteriori aiuti per portare i centri di detenzione in linea con standard internazionali minimi entro la fine del 2014. Se tale scadenza dovesse risultare non rispettata, tutti gli aiuti ai centri al di sotto degli standard dovrebbero essere sospesi. Arrivi senza precedenti. Le rivelazioni di violenze giungono mentre il numero di migranti e richiedenti asilo che compie il pericoloso attraversamento via mare dalla Libia all’Ue sta per raggiungere il livello record nel 2014. La Marina italiana, dall’ottobre 2013, ha messo in piedi un’operazione di salvataggio su larga scala nota come Mare Nostrum, che ha portato in salvo migliaia di richiedenti asilo e migranti da imbarcazioni inadeguate a prendere il largo. Il 17 giugno, il ministro della Difesa italiano ha detto che al summit dell’Ue del 26 e 27 giugno l’Italia chiederà all’agenzia Ue per la protezione delle frontiere, Frontex, di subentrare nel controllo dell’operazione. Di recente, migranti e richiedenti asilo hanno raggiunto l’Italia dalla Libia ad un ritmo senza precedenti. Nei primi quattro mesi del 2014 circa 42mila persone sono sbarcate in Italia, di cui appena meno di 27mila sono arrivate dalla Libia, secondo Frontex, l’agenzia delle Ue per la protezione delle frontiere. Il numero di arrivi su barconi più alto mai registrato in Italia e a Malta in un anno, il 2011, era di quasi 60mila, secondo Frontex. Le visite e le interviste di Hrw. Che ha vistato 9 dei 19 centri di detenzione gestiti dal Dipartimento alla lotta all’immigrazione clandestina (Dcim) del ministero dell’interno. In otto dei centri, 93 detenuti, tra cui diversi ragazzini anche di appena 14 anni, hanno descritto come le guardie aggrediscano regolarmente loro e altri detenuti. Hanno riportato di essere picchiati dalle guardie con spranghe, bastoni, calci di fucile, e frustati con cavi, tubi, e fruste di gomma fatte con copertoni d’auto e tubi di plastica, talvolta per lunghi periodi sulle piante dei piedi. Hanno anche detto di venire ustionati dalle guardie con sigarette, presi a calci e pugni sul torso e in testa, e di essere sottoposti a scariche elettriche con dei taser. In un centro cinque detenuti hanno detto di essere stati appesi dalle guardie a testa in giù ad un albero e poi frustati. Un controllo solo teorico sulle guardie. Sia uomini che donne hanno riferito che, arrivati al centro, sono stati fatti spogliare e che sono state condotte perquisizioni invasive, anche nelle cavità corporali. Detenuti in quattro centri hanno detto che le guardie hanno minacciato di sparargli o hanno fatto fuoco in aria. Alcuni detenuti hanno anche descritto violenze verbali da parte delle guardie comprese offese razziste, minacce e imprecazioni frequenti. La violenza costante usata dalle guardie che lavorano nei centri di detenzione, che almeno nominalmente sono sotto il controllo del governo, costituisce un’infrazione degli obblighi internazionali della Libia di proteggere da tortura e trattamento crudele, inumano e degradante chiunque si trovi sul proprio territorio. Nessuno è accusato di nulla, nessun processo. Nessuno dei detenuti intervistati da Human Rights Watch ha riferito di essere stato processato o di aver avuto la possibilità di impugnare la decisione di detenzione e deportazione. Una detenzione prolungata senza accesso ad una revisione giudiziale equivale a detenzione arbitraria, proibita dal diritto internazionale. "In un centro dopo l’altro, i detenuti si sono messi in fila per parlare della paura in cui vivono ogni giorno, chiedendosi quando arriverà un nuovo giro di botte o fustigazioni" ha detto Simpson. "Le autorità chiudono un occhio di fronte a queste terribili violenze e hanno creato una cultura di completa impunità per la violenza contro migranti e richiedenti asilo". Il dramma del sovraffollamento. Human Rights Watch ha anche documentato gravi sovraffollamenti nei nove centri visitati e condizioni igieniche scarsissime in otto di essi. In alcuni centri, i ricercatori di Human Rights Watch hanno visto fino a sessanta uomini e ragazzi ammucchiati in spazi minuscoli di appena 30 metri quadri. In altri, centinaia di detenuti straripano dalle stanze verso stretti corridoi, in alcuni casi allagati a causa di servizi igienici intasati, pur di usare ogni spazio disponibile. Niente cure mediche. Detenuti bisognosi di cure mediche hanno detto che le guardie gli rifiutano il trasferimento in ospedali o cliniche o di non ricevere cure adeguate all’interno del centro di detenzione. Alcuni membri del personale dei centri di detenzione hanno detto a Human Rights Watch di non avere mezzi sufficienti per dare ai detenuti, tra cui donne incinte e bambini, cure adeguate, né i mezzi per trasferirli in ospedali per cure specializzate. Perché l’Ue e l’Italia non chiedono conto dei loro soldi? "L’Ue e altri donatori dovrebbero chiarire alle autorità libiche che non continueranno a sostenere centri detentivi dove le guardie abusano di migranti e richiedenti asilo con completa impunità" ha detto Simpson. "I donatori dovrebbero insistere a che gli abusi finiscano e che le condizioni migliorino prima che riprendano gli aiuti". Human Rights Watch pubblicherà un rapporto completo su quanto ha scoperto circa gli abusi e le condizioni dei centri di detenzione. Da chiudere subito Soroman e Tomena. Il Dipartimento per la lotta alla migrazione irregolare del ministero dell’interno libico dovrebbe chiudere immediatamente i centri di detenzione di Soroman e Tomena. Dei nove centri visitati, è lì che i detenuti si misurano con le violenze più gravi e le condizioni peggiori in parte a causa dello stato fatiscente degli edifici e alle loro dimensioni ridotte, oltre al massiccio sovraffollamento. Le autorità dovrebbero trasferire i detenuti che si trovano lì in altri centri di detenzione per migranti, come il centro Abu Saleem - diverso dalla prigione di Abu Saleem - a Tripoli, che ha molto più spazio. Hrw: "Rilasciateli e lasciate lavorare l’Unhcr". In linea con i suoi doveri legali internazionali relativi a tutti i migranti e richiedenti asilo detenuti in Libia, le autorità dovrebbero rimuovere tutti i detenuti dalla Libia senza procrastinare, se hanno riscontrato l’illegalità della loro permanenza all’interno del Paese, o rilasciarli se desiderano chiedere asilo presso l’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr. Il governo dovrebbe annunciare che alle guardie è proibito usare violenza contro i detenuti, impartire loro istruzioni su come condurre le perquisizioni dei detenuti, tra cui l’uso di guardie donne per la perquisizione di detenuti donne, ove possibile, e sospendere e punire coloro che sono stati colti nel commettere violenze. Per i libici migranti economici e sfollati sono la stessa cosa. Quando la Libia detiene stranieri privi di documenti, non fa distinzioni tra coloro in cerca di lavoro in Libia o nell’Ue, e i richiedenti asilo in fuga da persecuzioni e altre violenze nei Paesi di provenienza. La Libia non ha ratificato la Convenzione sui rifugiati del 1951 e non ha una propria legge o procedure che disciplinino l’asilo politico. L’Unhcr in Libia non ha un protocollo d’intesa che governi la sua presenza e la sua azione in Libia. La Libia ha ratificato la Convenzione che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa. La replica delle autorità libiche. Le autorità libiche hanno detto a Hrw che non deportano cittadini eritrei e somali nei loro rispettivi Paesi, alla luce delle diffuse violazioni dei diritti umani in Eritrea e del conflitto in Somalia. Tuttavia, detenuti eritrei e somali che non beneficiano di altre modalità informali di rilascio, languono per mesi - e a volte per più di un anno - in detenzione, secondo alcuni funzionari libici, l’Unhcr e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E registrazioni dei richiedenti asilo sono ferme. Nonostante l’Unhcr registri alcuni richiedenti asilo che vivono nelle aree urbane della Libia, le autorità hanno bloccato tutte le registrazioni di richiedenti asilo detenuti nel giugno 2013, ha riferito l’Unhcr a Human Rights Watch. Le autorità libiche dovrebbero permettere immediatamente all’Unhcr di riprendere la registrazione di chiunque desideri cercare asilo in Libia e di porre fine alla propria automatica e prolungata detenzione di richiedenti asilo. I casi (rari) in cui sarebbe possibile la detenzione. Le linee guida sulla detenzione dell’Unhcr, che si ispirano al diritto internazionale, affermano che le autorità governative dovrebbero detenere i richiedenti asilo solo come "ultima risorsa", come misura strettamente necessaria e proporzionale per ottenere uno scopo legittimamente legale e non dovrebbero detenere richiedenti asilo allo scopo di deportarli. La detenzione è permessa solo brevemente per stabilire l’identità di una persona o per periodi più lunghi se è il solo modo per raggiungere obiettivi più ampi quali proteggere la sicurezza nazionale o la salute pubblica. Medio Oriente: medico turco denuncia; detenuto palestinese picchiato a morte in Israele Adnkronos, 24 giugno 2014 Il rapporto di un medico turco afferma che un detenuto palestinese morto in carcere in Israele era stato picchiato prima del decesso. Il caso, rivelato oggi da Haaretz, è in discussione davanti al tribunale di Petakh Tikva. La vicenda s’inserisce in un clima di rinnovata tensione fra israeliani e palestinesi, con lo sciopero della fame in corso fra i detenuti palestinesi in attesa di giudizio e gli oltre 300 arresti durante l’operazione di ricerca dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania. Il caso in discussione riguarda Arafat Jaradat, 30enne di Hebron, morto il 23 febbraio 2013 nel carcere di Megiddo, cinque giorni dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver ferito un israeliano a colpi di pietra presso l’insediamento di Kiryat Arba. Secondo i servizi dello Shin Bet, l’uomo aveva confessato. Dopo la morte di Jaradat, i compagni di cella hanno accusato lo Shin Bet di averlo torturato a morte. Il governo israeliano ha avviato un’inchiesta ed è stata effettuata un’autopsia. Il patologo israeliano, Yehuda Hiss, ha concluso che le ferite sul corpo erano frutto dei tentativi di rianimazione del detenuto, mentre il collega palestinese Saber al Aloul, anche lui presente all’autopsia, ha parlato di traumi dovuti a torture che hanno causato la morte di Jaradat. I familiari del morto si sono allora rivolti a Sebnem Fincanci, dottoressa turca fra gli autori di una guida Onu per indagare sulle accuse di tortura. Il suo parere, basato solo sulle carte e non su un esame del corpo, è che Jaradat sia stato colpito con un oggetto lungo e pesante prima di morire. Sudan: Meriam è libera, la condanna alla pena capitale è dichiarata incostituzionale L’Unità, 24 giugno 2014 "Meriam è libera e sta tornando a casa". Non nasconde la sua soddisfazione l’avvocato Elshareef Ali nel confermare la liberazione della sua assistita, Meriam Yahya Ibrahim Ishag, la donna cristiana sudanese originariamente condannata a morte da un tribunale di prima istanza del suo Paese in base alla sharia, la legge islamica in vigore in Sudan dal 1983, con l’accusa di adulterio e apostasia. "Siamo molto felici e stiamo andando da lei", ha aggiunto il legale. La "liberazione" è avvenuta grazie alla sentenza della Corte d’appello del Sudan che ha disposto il rilascio di Meriam a pochi giorni dal parere della Commissione diritti umani locali che aveva definito "incostituzionale" il suo arresto. Aveva creato scalpore in tutto il mondo il caso della 27enne Meriam Yehya Ibrahim Ishag (questo il suo nome cristiano), che al momento della condanna era all’ottavo mese di gravidanza, ed è stata rinchiusa nel carcere di Omdurman, vicino alla capitale Karthoum, col suo primo figlio di 20 mesi. La donna è stata condannata a morte a metà maggio dopo essersi rifiutata di rinunciare alla sua fede. Il giudice le aveva inflitto inoltre la condanna a cento frustate per adulterio, per avere sposato un cristiano. A fine maggio Meriam aveva partorito in carcere la sua bambina, Maya, essendole stato negato il permesso di recarsi in ospedale. In favore della sua scarcerazione si erano schierati centinaia di migliaia di cittadini di paesi occidentali, Amnesty International, il dipartimento di Stato Usa e numerosi leader, tra cui il primo ministro britannico David Cameron e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ora grazie anche a questa pressione internazionale e alla presa di posizione di organismi umanitari che hanno giudicato incostituzionale il suo arresto, è arrivato il pronunciamento della Corte d’appello del Sudan. La prima conferma della notizia del rilascio è arrivata a Italians for Darfur da Sudan Change Now l’organismo che aveva segnalato il caso alla Commissione diritti umani del Sudan che si era espressa in modo chiaro contro l’arresto della donna cristiana: "La condanna a morte per apostasia di Meriam in Sudan è incostituzionale: l’articolo 38 della Sudan Transitional Constitution del 2005 prevede la libertà di culto per tutti i cittadini" era stato il suo parere. Grazie a questo pronunciamento si è aperta la strada che avrebbe poi portato all’annullamento della sentenza di primo grado. "La Commissione dopo aver monitorato il caso di Meriam - sottolinea la presidente dell’associazione Italians for Darfur, Antonella Napoli - e sulla base di quanto sancisce la Costituzione sulla libertà di religione, credo e culto, afferma che Abrar Alhadi Mohamed Abdallah (nome arabo di Meriam) avesse il diritto di dichiarare ed esprimere liberamente la sua religione attraverso la pratica, i rituali e le celebrazioni che essa prescrive e che nessuno dovrebbe essere forzato a convertirsi a una fede in cui non crede o alla pratica di rituale o riti che non accetta volentieri". La Commissione, autorità non governativa ma consultiva, ha il compito di far rispettare l’applicazione dei diritti contemplati dalla Costituzione del 2005 e di intervenire sulle segnalazioni delle violazioni dei diritti e della libertà esprimendo la propria opinione e dare indicazioni agli organi dello Stato su qualsiasi materia riguardante i diritti umani. il suo parere ha avuto effetto. Egitto: 7 anni di carcere, una condanna shock per i reporter di Al Jazira L’Unità, 24 giugno 2014 Una sentenza che secondo Amnesty International somiglia piuttosto a una vendetta trasversale, è quella emessa ieri da un tribunale del Cairo contro alcuni giornalisti di Al Jazira, accusati di diffondere notizie false e di complicità con la disciolta organizzazione dei Fratelli Musulmani. Tre di loro sono in carcere già da 177 giorni e dovranno rimanervi per altri 7 anni, mentre undici colleghi sono stati condannati in contumacia a pene che arrivano fino a 10 anni. Del gruppo fanno parte anche due cittadini britannici e un australiano. "Sono stati puniti solo perché alle autorità egiziane non è piaciuto ciò che hanno detto", è il commento di Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Secondo Luther non è stata portata alcuna prova valida contro gli imputati. Per l’organizzazione, che assiste le vittime di violazioni dei diritti umani, il processo è stata "una farsa vendicativa", "una persecuzione di giornalisti nell’ambito della lite in corso fra l’Egitto e il Qatar", lo Stato ove ha sede Al Jazira. Alla sbarra sono comparsi gli egiziani Mohamed Fahmy e Baher Mohamed, assieme all’australiano Peter Greste, tutti arrestati il 29 dicembre scorso mentre svolgevano il loro lavoro documentando la repressione delle proteste anti-governative. Secondo la magistratura locale i tre e gli altri giornalisti scampati all’arresto avrebbero "cercato di dare all’estero l’impressione che il Paese stesse attraversando una guerra civile". Da qui l’accusa di aver collaborato con un’organizzazione terroristica e di aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato. "Terroristi" Adel, fratello di Mohamed Fahmy, era presente in aula alla lettura del verdetto, che ha commentato con profonda amarezza: "Hanno solo distrutto una famiglia. Qua tutto è corrotto". Michael, fratello di Peter Greste, ha dato per telefono la brutta notizia ai genitori che aspettavano con ansia in Australia: "È stato duro informarli di cosa era accaduto. Papà e mamma sono sconvolti. Siamo tutti completamente confusi davanti a una sentenza che per noi sfida ogni regola logica". Un coro di proteste si è levato nel mondo appena la notizia si è diffusa. Fra i primi a manifestare il suo sdegno John Kerry, segretario di Stato Usa, che ha definito "draconiana" e "raggelante" la decisione dei giudici. Inutilmente domenica scorsa Kerry aveva affrontato l’argomento con il massimo leader egiziano Abdul Fattah al-Sisi durante la sua visita al Cairo. Processi iniqui Particolarmente sfortunata e imbarazzante per il capo della diplomazia americana la collocazione temporale della sua apparizione in Egitto, incastonata fra due processi giudicati iniqui dalla grande maggioranza dei governi e delle organizzazioni che tutelano i diritti civili. Alla vigilia del suo arrivo infatti erano stati condannati a morte 183 membri della Fratellanza musulmana. Main questa fase l’alleanza del regime del Cairo è troppo importante per gli Usa, che hanno appena scongelato un terzo del miliardo e mezzo di dollari in aiuti militari bloccati lo scorso ottobre a causa della indiscriminata repressione delle proteste guidate dal partito islamico. Al termine dell’incontro con al Sissi, Kerry aveva dichiarato che "siamo impegnati a lavorare insieme e saremo lieti di assistere al successo dell’Egitto e di collaborarvi". Mustafa Sawaq, direttore di Al Jazira, bolla come "ingiusta" la condanna dei giornalisti. Il suo omologo delle emissioni in lingua inglese della stessa tv, Al Anstey, aggiunge che "non un briciolo di prova è stato addotto per sostenere accuse incredibili e false". I reporter di Al Jazira sono con ogni probabilità i capri espiatori nel contrasto fra i governi del Cairo e di Doha, esploso da quando in Egitto è stato estromesso il presidente Morsi che il Qatar aveva decisamente sostenuto sin da quando era stato eletto nel 2012. La protezione allora accordata a Morsi ha reso molto tesi i rapporti di Doha non solo con il Cairo ma anche come l’Arabia Saudita e gli Emirati. Emirati: scarcerati 969 detenuti in vista del Ramadan Nova, 24 giugno 2014 Le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno scarcerato 969 detenuti presenti nelle carceri del paese arabo, in vista del mese di Ramadan, mese sacro per i musulmani, che inizierà il 28 giugno prossimo. Secondo quanto ha annunciato l’agenzia di stampa emiratina "Wam", lo sceicco Khalifa Bin Zayd Al Nahyan, presidente degli Emirati, ha emanato il decreto di scarcerazione che prevede anche uno stanziamento economico per dare un sussidio a questi detenuti in modo che possano reinserirsi nella vita sociale. Cuba: ancora arresti per i dissidenti, cresce repressione politica Asca, 24 giugno 2014 Prosegue la repressione dei dissidenti a Cuba, dove dallo scorso novembre i detenuti politici è cresciuto da 87 a 102. Lo ha reso noto la Commissione cubana per i diritti umani e la riconciliazione nazionale, precisando che altri 12 detenuti sono stati liberati, ma con la condizionale. In un rapporto inviato alla stampa, l’organizzazione per i diritti umani, illegale ma tollerata a Cuba, ha denunciato le pratiche di repressione del governo di Raul Castro, con la polizia che sequestra e detiene i dissidenti per ore senza motivazione. Le cose tuttavia andavano peggio all’epoca di Fidel Castro: quando ha lasciato la guida del Paese nel 2006 i prigionieri politici dietro le sbarre erano oltre 300.