Carcere e affetti: basterebbe così poco… Il Mattino di Padova, 23 giugno 2014 Due testimonianze di donne recluse, e due richieste davvero minime: la prima, poter ottenere con più facilità l’autorizzazione a fare colloqui con "terze persone", che significa amici, ex colleghi di lavoro, persone care però non legate da un vincolo famigliare; la seconda, per chi invece non può fare tutte le ore di colloquio consentite, poterle trasformare in telefonate. Sono davvero poca cosa, queste richieste, però renderebbero un po’ più umane le carceri, perché quello che si vede oggi, nelle condizioni di sovraffollamento ancora pesantissime, e soprattutto nella noia delle giornate passate spesso a non far niente, è che un po’ di affetti in più, un po’ di possibilità di vedere e sentire più spesso le persone care, tutto questo aumenterebbe la dignità e la responsabilità delle persone recluse. Colloqui sì… colloqui no Siamo detenute, siamo recluse, scontiamo una condanna, ognuna con la propria storia. Ma, prima di tutto e soprattutto, siamo persone, ragazze, donne, madri, nonne, zie. La nostra pena è l’imposizione di essere chiuse in una struttura carceraria, ma c’è anche una pena "nascosta", ci sono tutte le persone a noi care, quelle che soffrono la nostra condizione, la nostra assenza, la forzata lontananza, e che in pratica sono state condannate con noi e più di noi. Condividono con noi la mancanza del bene più prezioso nella vita di ogni essere umano, cioè l’amore, l’affetto che in qualche modo ci è negato dal carcere, ma che cerca di resistere e sopravvivere alle privazioni della galera. In galera ci stanno persone doppiamente penalizzate, perché, qualunque sia la ragione che ha determinato la nostra condanna e quindi la carcerazione, si aggiunge lo strazio per l’allontanamento dai propri compagni e dai figli, quei figli che spesso hanno una forte resistenza, a volte un rifiuto a varcare i portoni di una struttura detentiva, per timore, imbarazzo, vergogna, e per l’umiliazione delle perquisizioni. Anche questa realtà dei controlli che devono subire sfiora l’offesa verso chi entra per incontrare il proprio caro, amico, parente. Noi, donne recluse, siamo "abituate" alle perquisizioni corporali, ma i nostri cari no, i nostri cari le subiscono come una ingiustizia, come se il reato l’avessero commesso anche loro. I giorni dentro la galera trascorrono lenti e uguali, nell’attesa che arrivi quello destinato ai colloqui, che diventa un momento speciale, illumina la giornata e la rende diversa, emozionante, la riempie di uno stato d’animo colmo di gioia. Eppure, anche se questi sono umani, normali sentimenti, anche se l’Ordinamento penitenziario sottolinea l’importanza di coltivare gli affetti, per tante donne recluse, (ma lo stesso accade, ovviamente, anche nelle sezioni maschili), l’opportunità di vedere, toccare, e guardare negli occhi, chiacchierare con un amico o con un’amica, spesso non è concessa. Noi compiliamo il modulo apposito per fare colloquio con una "terza persona", dove si indicano le generalità della persona in oggetto, ma la risposta è spesso un diniego. Bisogna essere conviventi, o coniugati, non è sufficiente che una persona esibisca i propri documenti all’ingresso del carcere, e mostri le proprie generalità, come succede per esempio in Francia, dove chiunque può andare a trovare una persona detenuta, no, da noi è tutto più complicato. Eppure nel cuore c’è unicamente il desiderio di incontrare chi amiamo anche solo per un’ora, e si vorrebbe raccontarsi, e, tenendosi per mano, rafforzare la bellezza del sentimento, coltivarlo nonostante la lontananza, creare una situazione che appaghi entrambi, nel dare, e ricevere affetto, nonostante la carcerazione. Per noi donne, e anche per i nostri compagni, il colloquio fa sempre bene al cuore, i colloqui sono un momento magico, con il cuore che batte a ritmi accelerati, e gli occhi che brillano, ma il mancato permesso di effettuarli ferisce i sentimenti: perché qui dentro stiamo comunque soffrendo, e vedere chi si ama ci darebbe una forza enorme. Lasciateci respirare il sentimento che nasce dal cuore, nulla può sostituirlo, e per noi, donne recluse, è un patimento costante dover accettare un secco, inesorabile "no". Ma quale danno si rischia, accettando di far entrare una persona a colloquio? Cristina Vorrei barattare un’ora di colloquio con una telefonata in più Mercoledì ho fatto il colloquio con mio figlio, ma era più di un mese che non lo vedevo e non lo sentivo. Per questo, per riuscire a comunicare con lui un po’ più spesso, ho fatto la richiesta se posso dividere le due telefonate al mese, di dieci minuti l’una, che mi sono concesse in quattro da cinque minuti, perché così potrei chiamare più spesso mia madre e mio figlio. Le assistenti sociali sarebbero favorevoli a questa cosa perché spezza un po’ l’ansia e l’attesa per quell’unico incontro mensile, ma qui in carcere mi hanno detto che non si può fare, che devo gestire le due telefonate al mese e basta. È un po’ drammatica questa cosa perché se dovesse per esempio capitare, come è successo un po’ di tempo fa, che mia madre non stia molto bene, io mi ritroverei a poterle parlare, e avere notizie sulla sua salute, una volta al mese, per non rubare a mio figlio la seconda telefonata che posso fare. Ma possibile che sia così difficile arrivare finalmente a poter decidere un frazionamento delle telefonate e una "autogestione" da parte nostra? Io dico la verità, che ho provato per caso a fare una telefonata cinque minuti oggi e cinque minuti li ho fatti dopo tre o quattro giorni, ma alla fine la situazione è venuta fuori e io non sapevo neanche di aver infranto il regolamento, che parla di una telefonata a settimana, o due al mese per chi ha certi tipi di reati. Da quel momento non ho più potuto fare le telefonate frazionate, e non ho più sentito mio figlio. Io frazionavo le telefonate perché non tutti i sabati riuscivo a trovare mio figlio a casa di mia madre, dove sono autorizzata a chiamare. Mio figlio di solito va a casa della nonna ogni tre settimane, però può capitare che vada ogni quattro e può capitare che neanche mia madre lo sappia prima e non riesca in nessun modo ad avvertirmi. E allora io telefonavo ogni sabato e se riuscivo a trovarlo bene e parlavo quei due tre minuti, se non lo trovavo pazienza, era tutto rimandato alla settimana successiva. Però così, se non posso dividere le due telefonate, mi stanno togliendo l’opportunità di sentire in modo umano mio figlio. Mio figlio aveva sei anni quando sono entrata in carcere, sono già passati otto lunghissimi anni, lui vive in una casa famiglia e io lo vedo con regolarità una volta al mese, viene qui accompagnato dall’assistente sociale e riusciamo anche a pranzare insieme. I colloqui sono una risorsa molto, molto importante per le persone che si amano, è quel contatto fisico che ti dà la forza per arrivare senza abbatterti, senza scoraggiarti alla prossima settimana, per arrivare ai prossimi quindici giorni, quindi credo che sia una cosa fondamentale. Io sono arrivata addirittura a chiedere di barattare un’ora di colloquio per una telefonata in più, perché le quattro ore di colloquio al mese non riesco a farle, a me non viene a trovarmi nessuno, mia madre viene una volta ogni tre/quattro mesi quando può. È brutto perdere anche quelle ore di colloquio, un’ora di colloquio persa perché i parenti non possono venire, perché vivono lontano o non hanno i soldi per pagarsi il viaggio e le tante spese, questa è una ulteriore sofferenza. Quelle ore dovrebbero essere "barattate" con telefonate, una persona che fa pochi colloqui dovrebbe per lo meno poter sostituire con le telefonate i mancati colloqui. Antonella Giustizia: countdown riforma; snellire civile, sul penale arrivano misure per elezioni Csm Ansa, 23 giugno 2014 Settimana chiave, quella che si apre domani, per la riforma della giustizia, che approderà in Consiglio dei ministri il 30 giugno, esattamente sette giorni dopo, nello stesso giorno in cui partirà il processo civile telematico. Uno dei contenuti del pacchetto in cui il guardasigilli Andrea Orlando fa maggiore affidamento è quello sul civile, nella convinzione che troppo a lungo si sia discusso, anche polemicamente, sulle norme penali, dimenticando che è l’arretrato civile una delle vere emergenze. Il fardello è pesante: 5 milioni di procedimenti e tempi lunghissimi di risoluzione delle cause, con conseguenze anche sull’economia. Per questo il governo intende agire, su questo specifico punto, per decreto, assicurando una via più rapida al testo. Il provvedimento mira a favorire il ricorso alla via stragiudiziale, col potenziamento di procedure arbitrali, istituendo camere arbitrali presso i Consigli degli ordini degli avvocati, e con la procedura di negoziazione assistita da un avvocato mutuata dal sistema francese. Al decreto si accompagnerà un ddl o una delega per semplificare il rito ordinario, per esempio limitando la discussione in appello ai motivi di impugnazione; e per valorizzare il tribunale delle imprese e quello della famiglia. Sul penale via Arenula ha predisposto da tempo un disegno di legge, che ora verrà ulteriormente integrato. Il testo originario già prevedeva pene più severe per l’associazione mafiosa (da 10 a 15 anni) e l’introduzione del reato di auto-riciclaggio, che punirà con il carcere fino a 6 anni chi, con finalità imprenditoriali o finanziarie sostituisce o trasferisce denaro o altri beni ricavati commettendo un altro reato. Ora verrà inserito anche il falso in bilancio con pene fino a 5 anni e si interverrà sulla prescrizione. Inoltre fonti sia del ministero sia del Csm confermano l’intenzione del governo di intervenire anche sui criteri di elezione dei membri togati del Csm per limitare il peso delle correnti. Orlando ha dichiarato più volte che la materia va rivista. L’ipotesi di introdurre forme di sorteggio non è considerata valida anche per profili di incostituzionalità. Si pensa invece a un sistema che consenta una sorta di voto disgiunto con la possibilità di esprimere preferenze per candidati di liste diverse. Verranno inoltre rafforzati i poteri del Consiglio di presidenza. Una serie di misure che, se passerà, non avrà comunque effetti sulle elezioni che si terranno il prossimo luglio, ma solo a partire da quelle del 2018. Giustizia: riforma subito... il caso Yara insegna di Marco Taradash Il Garantista, 23 giugno 2014 Anche questo dovevamo vedere: un pubblico ministero, parte d’accusa, che, pur forte delle sue scoperte e delle sue certezze, invita a non esprimere giudizi avventati, e un giudice terzo, un Gip, che bolla l’imputato, giuridicamente presunto non colpevole, come persona dotata di "tale ferocia" da rendere "estremamente probabile la reiterazione di reati della stessa indole". Così inserendo nell’ordinanza con cui dispone la custodia cautelare per Giuseppe Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, una anticipatrice sentenza definitiva. Dopo di che uno può chiedersi a cosa servano un processo, una difesa legale, e soprattutto, in prospettiva, una riforma dell’ordinamento giudiziario che contempli la separazione delle carriere insieme alla creazione di Csm separati per giudici e pubblici accusatori e alla sostituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale con una meno discrezionale selezione di priorità. Visto che nessuno o quasi si è stupito dell’argomentazione del giudice di Bergamo, è da supporre che questa sia la prassi, il costume e la regola nelle fasi preliminari di un processo. Dopotutto non è forse questa l’indole italiana, tutta luce o tutta tenebra? Abbiamo sotto gli occhi l’esempio della nazionale di calcio: dopo la vittoria sull’Inghilterra già popolo e giornalisti si interrogavano sugli esperimenti da fare in vista della fase finale ed eccoci oggi tutti qui a boccheggiare sull’ultima spiaggia. Ma, nonostante il tifo accechi, tutti concordano che un rigore negato agli avversari su un campo di calcio ("non era rigore, forse un pochino, è da rivedere" ) abbia un peso diverso da un rigore formale negato a una persona che, armata solo di garanzie scolpite nelle leggi, si trovi come controparte lo Stato. È possibile che la riforma della giustizia, che da anni rulla sulle piste del Parlamento, riesca oggi a sollevarsi da terra? Difficile, nonostante che da qualche tempo non ne sia più Berlusconi il fulcro e il motore (immobile e immobilizzante). E a dispetto del fatto che i casi di conflitto e di polemica si moltiplichino: dall’emendamento che ha evocato il ritorno (fantasmatico) della responsabilità diretta dei magistrati dopo il referendum (v.s.) del 1987, fino allo scontro fra il capo della Procura di Milano e un suo aggiunto, risolto a quanto pare da un intervento d’autorità del Capo dello Stato che avrebbe messo in riga un Csm diversamente orientato. Episodio che, al di là dell’esito, ha rivelato di quale incerto filo siano intessute le stoffe di quello che dovrebbe essere il regno delle certezze procedurali. E allora invece che rassegnarsi allo status quo, agli aggiustamenti progressivi o spesso regressivi, alla maniacale arte di arrangiarsi (vedi il preventivo risarcimento danni offerto ai detenuti per sanare l’offesa alla loro dignità in luogo del ripristino della stessa) uno dovrebbe chiedersi quanto tempo fino ad oggi sia stato perduto, a far data niente di meno che dal dibattito nell’assemblea costituente. Fu Piero Calamandrei, al solito, a chiarire la necessità di scelte che garantissero la terzietà del giudice e un ruolo differenziato del Pm, l’indipendenza ma anche la responsabilità: "Con le norme previste - disse - si avrebbe un corpo di magistrati completamente indipendente, il quale deciderebbe delle nomine, provvederebbe alla designazione ai vari uffici, auto-eserciterebbe la disciplina e delibererebbe delle spese. Con una magistratura così chiusa e appartata, si potrebbero verificare conflitti con il potere legislativo o con quello esecutivo, in quanto la magistratura potrebbe, per esempio, rifiutarsi all’applicazione di una legge o attribuirsi il potere di stabilire criteri generali di interpretazione delle leggi". Se questa a qualcuno sembra una profezia, si muova per favore. Giustizia: indagini, Dna e schedature, la privacy e la riservatezza perdute di Eugenia Tognotti La Nuova Sardegna, 23 giugno 2014 Che fine hanno fatto - viene da chiedersi - la privacy, il diritto alla riservatezza, la presunzione di innocenza, il diritto a "non sapere" nei giorni dominati dalla cronaca nera e dall’arresto del presunto assassino della piccola Yara Gambirasio, individuato dopo lungo, complesso lavoro di raccolta di indagini genetiche nelle placide valli bergamasche? Nessuno sembra essersene dato il minimo pensiero. Non il ministro dell’Interno Alfano che - alla faccia del garantismo e con un’iniziativa senza precedenti nella storia giudiziaria italiana - ha, incautamente, annunciato in un trionfante tweet che "l’assassino" della ragazzina di Brembate era stato assicurato alla giustizia. Né se ne sono preoccupati i tanti magistrati e le forze dell’ordine che hanno diffuso immagini e fatto trapelare un’enorme quantità di dettagli e informazioni, dati in pasto all’opinione pubblica con un accanimento informativo che ha pochi precedenti. E pazienza se a essere coinvolti sono stati minori e individui solo indirettamente implicati nella vicenda giudiziaria, ma di cui sono stati rivelati gli aspetti più intimi tanto da determinare irreparabili danni alla vita familiare e di relazione: i figli del padre biologico, il padre legittimo, la madre, la sorella gemella, i figli piccoli del muratore (non più "ignoto 1", sembrerebbe), incensurato e insospettabile. Non un "mostro" forestiero, un alieno, materializzatosi per incanto maligno nel corpo della comunità di Brembate di Sopra, ma un "uomo nero" che viveva a poca distanza da quella palestra da cui Yara è uscita prima di scomparire nel nulla, a metà di un pomeriggio autunnale qualunque, vestita come tutti i suoi coetanei, piumino, felpa, e quei leggins su cui è rimasta l’impronta genetica del presunto assassino. Bene ha fatto il Garante della privacy a denunciare la leggerezza con cui sono stati dati in pasto all’opinione pubblica dati personali, richiamando i media alla necessità di prestare attenzione alla diffusione di informazioni e particolari "di natura sensibile e addirittura genetica", non giustificata dall’interesse pubblico all’informazione. Ci voleva un caso come questo - destinato a fare epoca - per farci riflettere sulla delicatezza dell’informazione genetica e sull’attenzione da dedicare a dati sensibili come quelli riguardanti il Dna. Le nostre caratteristiche sono scritte nei geni, cioè nel Dna delle cellule che i genitori ci hanno trasmesso. Con i dati di un genoma, si possono conoscere le caratteristiche biologiche di una persona, ricostruire genealogie - come si è visto in questo caso - stabilire relazioni familiari, origine etnica, condizioni mediche e predisposizione genetica alla malattia. Per questo è da considerare con qualche preoccupazione la possibilità di una schedatura genetica di ogni cittadino del Belpaese che sta avanzando da più parti. Al momento, in base alle regole stabilite dall’Unione Europea con il cosiddetto Trattato di Prum, contro il terrorismo, la criminalità e la migrazione illegale, esiste nel nostro Paese, anche se non è ancora operativo, l’Archivio nazionale dei Dna, di competenza del ministero dell’Interno che (a quanto pare) raccoglierà e schederà dall’anno prossimo come un unico grande raccoglitore i profili genetici di tutti i soggetti detenuti, imputati o indagati, oltre ai Dna prelevati sui luoghi dei delitti e su cadaveri non identificati. L’accesso sarà riservato esclusivamente alle forze di polizia e delle autorità giudiziarie. Diverso sarebbe il discorso nel caso di una schedatura genetica generalizzata che creerebbe enormi problemi di natura etica. A chi sarebbe concesso l’accesso ai dati che legano l’identità degli individui all’identikit sanitario, all’intera storia familiare. Con la genetica c’è poco da scherzare. Abbiamo visto in questo caso quanto sia incombente e forte la minaccia alla privacy: la società ha la responsabilità di chiedere ogni garanzia che la segretezza delle informazioni codificate nel Dna degli individui sia convenientemente tutelata. Giustizia: caso Yara; Bossetti in cella non chiede nulla "voglio solo vedere i miei figli…" di Andrea Galli Corriere della Sera, 23 giugno 2014 Il detenuto ha accusato una lieve tachicardia. L’allarme è rientrato dopo le prime cure. Lui tiene in ordine la cella, pulisce con grande cura, saluta e sorride a tutti gli agenti. Se ne sta preferibilmente in piedi, dentro una maglietta troppo larga e non sua, con le maniche tagliate all’altezza delle ascelle; poi indossa gli stessi pantaloni dell’arresto e calza un paio di ciabatte; ha le mani unite e le braccia poggiate sulla porta di sbarre della cella come se fosse affacciato dal balcone di casa. "Voglio tornare dai miei figli. Io sono proprio la persona sbagliata". Il detenuto Massimo Giuseppe Bossetti a destra vede il doppio cancello d’ingresso del reparto d’isolamento, sulla sinistra intravede l’angolo di un’altra cella, mentre davanti ha soltanto il muro. Quando si volta e rapidamente inquadra i suoi due metri per tre, può osservare, sotto la piccola finestra, il letto di legno stretto e lungo che sempre provvede a rifare, la credenza fissata alla parete color marrone chiaro e ancora vuota, il pavimento subito liberato dalle briciole del pranzo servito in un piatto di plastica rimasto sul tavolino. Non ci sono giornali, fotografie, lettere, volumi di codice penale, libri di svago della ricca biblioteca del carcere; non ci sono piccoli giocattoli donati dai suoi bambini; non ci sono scarpe e vestiti in più. Lui non ha chiesto nulla. Forse Bossetti non vuol lasciare tracce né prendere possesso del suo nuovo spazio. Ridice, ormai con stanchezza, che è innocente. Conta i minuti che mancano all’incontro con la moglie Marita, se mai ce ne sarà uno. Eccole, le giornate del presunto assassino nel carcere di Bergamo, in via Monte Gleno, un buon carcere secondo tutti gli ultimi report ; trecento i detenuti ospitati, una recente ristrutturazione che ha risolto noie di umidità e acqua fredda nelle docce. Manca la doccia nella cella di Bossetti ma lui non ha protestato. Infatti tace, dunque figurarsi se ha sbraitato e attirato attenzioni supplementari. Per ora non ci sarebbero state note negative da parte delle guardie penitenziarie e da medici e psicologi che hanno incontrato il presunto assassino. Nelle ultime ore ci sarebbe stato un lavoro supplementare per i dottori, a causa di una tachicardia del detenuto, il quale per una manciata di secondi si è spaventato e ha chiesto aiuto. Allarme presto rientrato. Nessun ricorso al personale del 118 anche perché il carcere dispone di un presidio interno. Eccezion fatta per l’episodio sanitario, fonti dell’istituto confermano la generale tenuta di Bossetti. Ha rimodulato sul carcere la regolarità che aveva fuori, con giornate da passista, identici orari, identiche tratte, identiche abitudini, come confermato dalle decine di persone sentite in questi giorni dal Corriere a Mapello tra parenti, vicini e compaesani. Era una geografia ridotta: casa, cantiere, parrocchia di via Botta. Nessuna uscita infrasettimanale, magari per una pizza con amici; nessun hobby, vizio, segreto. E in carcere Bossetti dorme il giusto, si alza tra le sei e le sette, fa colazione, si concede qualche rapido esercizio fisico, si siede sul letto, sorride alle guardie penitenziarie che passano per sorvegliare il reparto. È un sorriso, questa la definizione, "sereno": non un ghigno diabolico, non una smorfia forzata. Bossetti ripete: "Io non ho ucciso nessuno". Ieri, per la prima volta da anni, ha dovuto saltare la messa della domenica. Il cappellano del carcere non rivela se il detenuto abbia chiesto di poter pregare insieme. Le disposizioni della direzione dell’istituto, spiega il cappellano, sono rigide: la situazione è delicata, meglio non raccontare niente. Così per ascoltare la voce d’un sacerdote dobbiamo andare da don Corinno Scotti, il parroco di Brembate di Sopra, il paese della famiglia Gambirasio. C’era attesa per l’omelia di don Scotti, un tipo pratico e tenero. Lui, uscendo dall’interpretazione delle Sacre letture, s’è lasciato andare a un terreno augurio: "Oso sperare che non sia lui. Siamo in presenza di una persona normalissima, di un papà di tre figli". Naturalmente don Scotti è portatore d’un sentimento comune: del resto non soltanto a Mapello ma con un progressivo coinvolgimento della provincia, crescono i dubbi. E se davvero, alla fine, non fosse lui? Il reparto d’isolamento conta dodici celle. Quella di Bossetti, entrando nel corridoio, è la prima sulla sinistra. Tenendo di fronte la cella, il bagno è nell’immediato angolo sulla sinistra, il letto in fondo e il tavolino, con una sedia, sul lato destro. Non c’è presenza nemmeno delle tradizionali posate di acciaio, casomai il detenuto tenti azioni di autolesionismo. Ma non sarebbe, allo stato, un rischio. Chi ha avuto modo di incontrarlo e poi di comunicarci le sue impressioni, racconta di un uomo che si mantiene lucido, che non ha scatti nei movimenti, che saluta con grande gentilezza, che perfino domanda: "Come va?". Giustizia: il Papa scomunica i mafiosi e denuncia la tortura… un gesto tardivo, ma forte di Ferdinando Camon Libertà, 23 giugno 2014 Il Papa scomunica i mafiosi: non occorre che uccidano, sequestrino, rubino, per essere scomunicati basta che siano mafiosi, dentro o intorno alla mafia. S’intende: mafia, camorra e ‘ndrangheta. Essere mafioso non è compatibile col Vangelo e nemmeno neutrale: è nemico. Era ora che un capo cattolico lo dicesse. Lo dice tardi, ma finalmente lo dice. Dobbiamo però domandarci: la scomunica contro la mafia del Sud, vale anche per la mafia del Nord? La mafia delle tangenti, delle Grandi Opere, dell’Expo, del Mose, delle ricostruzioni post-terremoto, del finanziamento dei partiti, la Mafia industriale, Edilizia, Fiscale, della Pubblica Amministrazione, la Mafia accademica, eccetera? Sarebbe non soltanto bello ma giusto e necessario che così fosse. Sento il discorso del Papa che scomunica la mafia e mi balzano alla mente alcuni ricordi: il boss mafioso che si nascondeva in un covo dentro il quale aveva un altarino privato; un altro boss che dopo aver ucciso un bambino s’inginocchia e prega davanti a un quadro della Madonna di cui è fedele; un altro che va a messa circondato dalla sua squadra di scagnozzi; un altro accusato di molti delitti che muore con funerale religioso e sontuoso. Ma mi vengono in mente anche i boss industrial-manageriali del Nord, accusati di mega-tangenti, che hanno cappelle private. Papa Francesco scomunica i mafiosi. Ma i suoi preti sono insensibili ai regali della mafia? Alle donazioni? Ai favori? S’è mai visto un prete, quando riceve una larga donazione alla vigilia del matrimonio di un boss della mafia, rimandare indietro il denaro con schifo? Abbiamo visto addirittura preti che, quando un boss veniva ricercato dalla polizia, sapevano dov’era il suo nascondiglio, e andavano a trovarlo per, dicevano, "dargli conforto". La scomunica di cui parla il Papa è automatica. Uno è scomunicato per il semplice fatto di essere mafioso. Non occorre che qualcuno lo scomunichi, si scomunica da sé. Ma quanto sarebbe bello se, quando sentiamo le notizie degli scandali dell’Expo, del Mose, della ricostruzione de L’Aquila, dei farmaci col prezzo truccato al fine di rapinare i malati (e se non hanno soldi sufficienti, che muoiano o diventino ciechi), quanto sarebbe bello sentire nei tg e leggere sui giornali: "I responsabili vengono inquisiti… e s’intendono scomunicati". Non ditemi che non servirebbe a niente, e che la Chiesa Cattolica conta poco. Non è vero. I mafiosi di tutte le zone, Nord e Sud, son gente che va in Chiesa. E la notizia della loro scomunica è sulle prime pagine di tutti i giornali. La scomunica abbrutisce non soltanto la loro vita, ma anche quella delle loro famiglie, degli amici, dei clan. Taglia alla radice l’alibi su cui costruiscono una loro dignità morale, per la quale far parte di mafia-camorra-ndrangheta è un modo per difendere la famiglia, gli amici, la società dentro cui vivono, "l’onorata società". Per cui "essere uomini d’onore" è un vanto morale, mentre essere amici dei magistrati, o avere una figlia che sposa un carabiniere, vuol dire "essere infami". Dire ai mafiosi "convertitevi", come faceva Papa Wojtyla, era una forma cauta, paurosa, reticente e oserei dire tollerante di affrontare il problema. Dire "la mafia è incompatibile con il Vangelo", come faceva Papa Ratzinger, era una formula generica, non toccava nessuno, nessun mafioso si sentiva personalmente messo in causa. Anche dire "Andrete all’Inferno", come ha fatto papa Francesco a marzo, è poco: chi ha un Dio privato, o una cappella privata, o una Madonna personale, o un prete amico che l’assolve, si sente al sicuro anche dall’Inferno, nessuna condanna lo può toccare. Questa sicurezza agisce nella doppia direzione: se loro sono a posto, noi non siamo a posto. Donando soldi alla Chiesa, il boss della Magliana aveva ottenuto di esser sepolto nella basilica di Sant’Apollinare a Roma: i cristiani che entravano lì erano suoi ospiti. Grande svolta quella di papa Francesco, che scomunica le mafie del Sud. Più grande sarebbe se includesse anche le mafie del Nord. Tutte le mafie. "La tortura è peccato mortale" La tortura "è un peccato mortale, è un peccato molto grave". Il giorno dopo la scomunica ai mafiosi, lanciata con fermezza durante il suo viaggio in Calabria, il Papa torna ad alzare la voce. Questa volta è per chi pratica la tortura. "Il 26 giugno prossimo - ha ricordato ieri all’Angelus - ricorrerà la Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura. In questa circostanza ribadisco la ferma condanna di ogni forma di tortura". Ma il Papa non si limita alla denuncia e chiede alla Chiesa di darsi da fare, di non stare alla finestra: "Invito i cristiani - dice Francesco - a impegnarsi per collaborare alla sua abolizione e sostenere le vittime e i loro familiari". Bergoglio dunque avverte: certe forme di male rischiano di allontanare per sempre da Dio. Lo stesso principio per il quale con chiarezza dalla piana di Sibari ha avvertito che i mafiosi sono "scomunicati". Fuori per sempre dalla Chiesa, se non si convertono. La stessa durezza con la quale per ben due volte, solo in quest’ultima settimana, aveva parlato della corruzione nelle omelie di Santa Marta. Il Papa della tenerezza non risparmia strali quando l’uomo si accanisce con violenza contro un altro uomo. Il peccato mortale, citato ieri da papa Francesco per coloro che torturano le persone, secondo il Catechismo della Chiesa cattolica "distrugge la carità nel cuore dell’uomo", "distoglie l’uomo da Dio" e "se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l’esclusione dal regno di Cristo e la morte eterna dell’inferno". Un monito, dunque, quello del Papa che va ben oltre il richiamo sociale. E Francesco invita anche, nella festa del Corpus Domini, a farsi "pane spezzato" per gli altri, "un dono di vita", grazie al quale si può fare carità, si possono includere gli altri, si può vivere fraternamente. "Non è facile amare chi non ci ama" ammette il Papa. Ma invece è questo l’obiettivo a cui tendere: "Amare come Dio ama, cioè senza misura". Tanti i fedeli presenti in piazza San Pietro per l’Angelus. Tra loro anche un centinaio di persone, riunite in una piccola manifestazione, per ricordare i 31 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ma Francesco, nonostante la richiesta della famiglia alla segreteria di Stato, non l’ha ricordata. "Il silenzio del Papa è stato pesantissimo. Credo che Emanuela meritasse una sua preghiera, un ricordo" dice deluso il fratello Pietro. Papa Francesco aveva incontrato il fratello di Emanuela qualche giorno dopo la sua elezione a pontefice. "Quel giorno disse a me e a mia madre: "Emanuela è in cielo". Ma di questo non c’è prova. Ho mandato tantissime richieste per poter spiegare la vicenda al Papa ma non ho mai avuto risposta". Lettere: sono in carcere da 7 mesi per un reato commesso nel 2000 Il Garantista, 23 giugno 2014 Ho 33 anni e sono in carcere da quasi 7 mesi per un reato commesso nel 2000, ovvero 14 anni fa quando avevo solo 19 anni. Un reato legato alla droga… un errore di gioventù. Ricordo che allora feci un anno di misura cautelare in carcere e poi fui scarcerato per scadenza dei termini e ora dopo 14 anni ecco che la giustizia mi rovina la vita e mi porta in carcere per pagare un reato commesso tanti anni fa quando ero un’altra persona. Sia chiaro io non dico di essere innocente! Dico solo che quel reato, quello sbaglio avrei dovuto pagarlo subito e non ora che mi sono rifatto una vita. Ed infatti, in questi 14 anni, ho messo la testa a posto, ho trovato un regolare lavoro, mi sono sposato e ho avuto due bambini. Insomma facevo una vita normale, fino a quando questa giustizia tardiva mi ha fatto perdere tutto. Ora, a distanza di 14 anni, devo scontare una pena di un anno e sei mesi (di cui sette mesi già passai in carcere) e ti confesso che sono distrutto anche perché non saprò se, una volta libero, riuscirò di nuovo a ricostruirmi una vita. Ma domando: si può chiamare questa giustizia? Infine ci tenevo a dirti che essere ristretti nel carcere San Michele di Alessandria è come smettere di esistere in quanto qui siamo privati di tutto. Pensa infatti che ci fanno vivere come degli animali, costretti a restare chiusi in 2 persone all’interno di una cella di 6 mq e, se si toglie il mobilio, ci restano solo 60 cm a testa per vivere altro che 3 mq. Lettera firmata Calabria: sul tema delle carceri serve un intervento radicale di Antonino Castorina* www.cmnews.it, 23 giugno 2014 L’annuncio fatto dal Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi sulle scadenze tracciate dal governo per rendere concreta la Riforma della Giustizia è un evento storico e nei fatti innovativo per tutte le positive conseguenze che ne possono derivare. La riforma della Giustizia è una riforma attesa e auspicata ma a cui nessuno aveva, prima di oggi, provato a mettere mano per la complessità dei "mondi" che si andranno a toccare. L’inefficienza del sistema giudiziario ha causato in questi anni la perdita di credibilità da parte del nostro paese soprattutto per gli investitori esteri in Italia rendendoci poco competitivi nonostante le grande attrattività culturale e storica che ha il nostro paese. Altra questione spinosa che sta dentro la Riforma complessiva della Giustizia è il tema delle carceri. Servono interventi mirati per metterci al passo con l’Europa ed evitare ulteriori procedure di infrazione dopo le contestazioni della Corte di Giustizia Europea. Il decreto legge approvato in Consiglio dei Ministri che prevede risarcimenti per quei detenuti che in violazione dell’art 3 della Convezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo hanno subito trattamenti disumani, è un ulteriore segnale importante da parte del governo su questo delicato tema. Ritengo sia necessaria su questa questione un intervento radicale che parta dalle misure alternative, ritenute prioritarie e fondamentali per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti. Credo sia importante pensare ad intese anche bilaterali con regioni e stati esteri ,come sia necessaria l’individuazione di strutture detentive esclusive per i 41 bis ,e pensare alla riapertura di strutture come Pianosa o l’Asinara, chiuse negli anni 90; serve complessivamente un innovazione tecnologica della Giustizia riformando radicalmente tutto il sistema. *Responsabile Legalità Segreteria Nazionale Giovani Democratici Sassari: al processo per la morte in carcere di Marco Erittu oggi è il giorno della sentenza di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 23 giugno 2014 Dopo l’ultima replica dell’avvocato Rovelli che difende uno degli imputati, i giudici della corte d’assise si ritireranno in camera di consiglio. Sono passati sette anni dalla morte del detenuto Marco Erittu. Era il 18novembre del 2007 quando gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Sebastiano lo trovarono senza vita nella sua cella del braccio promiscui. Era in isolamento, in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. Ecco perché la sua morte fu da subito archiviata come suicidio. I gesti di autolesionismo messi in atto dalla vittima erano frequenti e quella striscia di coperta trovata avvolta sul suo collo e legata alla spalliera del letto quasi a voler fungere da cappio, aveva lasciato pochi dubbi agli investigatori. Ma all’improvviso, a distanza di anni, era spuntata un’altra verità. Quella di Giuseppe Bigella, un portotorrese che decide di collaborare con gli inquirenti confessando di esser stato lui a uccidere Marco Erittu perché così gli aveva ordinato Pino Vandi (anche quest’ultimo all’epoca rinchiuso a San Sebastiano). L’obiettivo, stando al racconto del reo confesso, era quello di mettere a tacere per sempre una persona (Erittu) che era a conoscenza di informazioni importanti relative a una connivenza tra criminalità sassarese e barbaricina. E Pino Vandi sarebbe stato un personaggio chiave perché coinvolto insieme ad altri nella sparizione di Giuseppe Sechi (muratore di Ossi di cui si sono perse le tracce nel 1995) legata a sua volta al sequestro di Paoletto Ruiu, farmacista di Orune scomparso nel 1994 e mai tornato a casa. Erittu aveva manifestato l’intenzione di parlare con il procuratore della Repubblica e per questo, a detta di Bigella, doveva essere ammazzato. Il pentito chiama in correità non solo Vandi ma anche un altro detenuto, Nicolino Pinna (che lo avrebbe aiutato a simulare il suicidio), e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna (indicato come colui che avrebbe aperto agli assassini la cella della vittima). Per tutti e tre il pubblico ministero Giovanni Porcheddu ha chiesto l’ergastolo. Nel processo sono entrati anche altri due agenti di polizia penitenziaria: Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda, entrambi accusati di favoreggiamento perché secondo la Procura avrebbero contribuito a inquinare la cella di Erittu dopo il rinvenimento del cadavere. Per loro due il pm ha chiesto una condanna a quattro anni. Oggi il verdetto. La Spezia: il manager Roberto Meneguzzo tenta il suicidio in carcere, ora è ai domiciliari Ansa, 23 giugno 2014 Ha tentato il suicidio in carcere Roberto Meneguzzo l’ad di Palladio Finanziaria arrestato lo scorso 4 giungo nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Un gesto sventato che tuttavia ha portato ieri il gip Alberto Scaramuzza, su parere positivo della Procura di Venezia, ad accogliere la richiesta di scarcerazione avanzata dal difensore di Meneguzzo posto ora ai domiciliari. Il manager, 58 anni, come indica il Corriere del Veneto, aveva tentato di soffocarsi la notte tra il 18 e il 19 giugno nella sua cella di isolamento del carcere di La Spezia. Il finanziere vicentino vicepresidente e amministratore delegato di Palladio Finanziaria, holding crocevia nel Nordest, secondo l’ordinanza di arresto, "a conoscenza dell’illecita finalità perseguita" da Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, "lo metteva in contatto" con Marco Milanese. In qualita’ di "consigliere politico" dell’allora ministro Giulio Tremonti, Mazzacurati consegnò a Milanese 500 mila euro "personalmente", "al fine di influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose e in particolare nel far inserire tra gli stanziamenti inclusi nella delibera Cipe n. 31/2010 e nei decreti collegati anche la somma relativa ai lavori gestiti dal Consorzio Venezia Nuova, inizialmente esclusa dal ministro, in violazione evidente dei principi di imparzialita’ e indipendenza". Meneguzzo poi, secondo l’ordinanza, ha fatto da tramite con Milanese per Mazzacurati in un’altra occasione, per arrivare al generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante. I reati contestati a Meneguzzo, con Mazzacurati, Milanese, Spaziante e altri, sono quelli di corruzione e rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio. Velletri (Rm): carcere, manifestazione del Sindacato Sippe e ispezione a sorpresa del M5S Comunicato stampa, 23 giugno 2014 Il Sindacato di Polizia Penitenziaria (Si.P.Pe) ha manifestato nell’area antistante il penitenziario di Velletri per denunciare ed esporre in maniera eclatante le tragiche condizioni di sovraffollamento e degrado della struttura nonché la carenza del personale. All’evento, oltre la partecipazione attiva dei Grillini Apriliani, è intervenuto anche il capo gruppo al Consiglio Regionale del Lazio del M5S, Silvana De Nicolò, che ha anche effettuato un’ispezione a sorpresa all’interno del carcere, accertando personalmente le situazioni di disagio più volte denunciate dal Si.P.Pe. e confermate dalla stessa direzione al consigliere. Silvana De Nicolò, nell’ambito delle sue competenze, chiederà al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) tutti gli atti relativi all’assegnazione dei fondi per la manutenzione del Carcere di Velletri e quelli relativi alle procedure adottate nell’affidamento dei lavori per la costruzione del nuovo padiglione. Il M5S è più volte intervenuto sulla questione relativa alla costruzione di nuovi carceri, già nella seduta di mercoledì 30 aprile, Andrea Colletti, capogruppo della commissione Giustizia M5S, poneva la specifica questione degli appalti nelle carceri direttamente al ministro Orlando. Il consigliere regionale De Nicolò ha comunque fatto sapere che coinvolgerà i deputati del M5S per un intervento parlamentare urgente sul carcere di Velletri che sarà indirizzato al Ministro della Giustizia. Alla data del 30 aprile 2014, secondo i dati ufficiali del Dap, il numero dei detenuti presenti nel carcere di Velletri è di 607, il personale previsto dalla pianta organica è di 179 unità, mentre quello amministrato è costituito da 175 unità maschili. Secondo il Dap, al momento, nel carcere di Velletri ci sarebbe una carenza di solo 4 unità. Questi dati sconcertanti, dichiara Alessandro De Pasquale, Segretario Generale del Si.P.Pe., non tengono conto di circa 29 agenti distaccati in altri istituti e palazzi del potere e di 12 agenti assenti per lunga malattia. I poliziotti penitenziari che di fatto operano nel carcere di Velletri sono quindi in numero inferiore rispetto a quello indicato nella pianta organica, costringendo quindi la Direzione del Carcere a ricorrere alle prestazioni di lavoro straordinario, con grave pregiudizio alle casse dello Stato ma, soprattutto, al benessere psicofisico del personale costretto a lavorare 8 o 9 ore al giorno in un ambiente degradante. Nuoro: Badu e Carros… la "primavera" del carcere di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 23 giugno 2014 Un ergastolano ostativo che lascia la cella e per una sera va fuori, a fare l’attore al teatro Eliseo, caso unico in Italia. Lo stesso ergastolano, Marcello Dell’Anna, dottore in Legge, che fa l’avvocato in carcere, che cura le pratiche di quasi 800 detenuti reclusi in tutta Italia e coordina un progetto tanto audace quanto innovativo, che lo vede nei panni di docente di Diritto penitenziario. Cinquanta avvocati del Foro di Nuoro iscritti al corso, cinque mesi di lezioni e studio dell’ordinamento penitenziario, quattro incontri di alta formazione dentro il carcere di Badu e Carros. Libri, musica, spettacoli, sport, calcio e biliardino, persino un giornale fatto in casa da tre redazioni "interne" di detenuti "comuni", dell’Alta sicurezza e della sezione femminile. Un via vai continuo di volontari e operatori, uno scambio aperto come non mai. "Per Nuoro è un momento magico" sintetizza Gianfranco Oppo, garante comunale dei detenuti. Tanto magico, questo momento, che Badu e Carros sta vivendo la sua primavera, la rinascita conquistata dopo gli anni difficili della lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Un carcere modello, quello barbaricino, che sta catturando le attenzioni non soltanto del ministero della Giustizia ma di tutta Italia. È dall’ex supercarcere nuorese, infatti, che riparte il dibattito per un nuovo sistema penitenziario, a quasi trent’anni dalla legge Gozzini. Una necessità emersa chiaramente nel convegno "La scommessa trattamentale", nei giorni scorsi nella Rotonda di Badu e Carros, a conclusione del progetto "Carcere: diritto penitenziario tra dentro e fuori" promosso dalla Scuola forense di Nuoro, coordinato dall’avvocato Monica Murru e dall’ergastolano ostativo dottor Marcello Dell’Anna, gli stessi che hanno curato le dispense finali e un formulario mai pubblicato prima in Italia. "Nuoro unica in Italia" ribadisce con orgoglio Martino Salis, presidente della Scuola forense. "Spero che questo progetto sia soltanto l’inizio di un lungo cammino" sottolinea guardando negli occhi Roberto Giachetti, vice presidente della Camera dei deputati, a Nuoro per moderare il dibattito. Il dato è storico, visto che è da tempo che "il carcere non si apriva al suo interno", spiega Giampaolo Cassitta, del Dap, provveditorato Sardegna. "Il carcere, come una qualsiasi comunità, deve dare un servizio, deve offrire occasioni - prende parola la direttrice della Casa circondariale di Nuoro Carla Ciavarella. Opzioni suscettibili di scelta per tutti gli ospiti del carcere che devono poter alimentare e nutrire i propri pensieri, interessi culturali, sportivi e ricreativi". Dare un senso alla pena è anche il punto in comune tra i due giudici di sorveglianza presenti all’appuntamento, Adriana Carta e Riccardo De Vito. È quest’ultimo che ha firmato il permesso di uscita per l’ergastolano Dell’Anna. Che ancora emozionato per l’esperienza al fianco degli attori di Rebibbia capitanati da Antonio Turco (anche lui relatore al convegno), parla in camicia e cravatta, davanti agli avvocati e ai suoi colleghi detenuti, un centinaio riuniti per l’occasione. Alcuni di loro ne approfittano per prendere parola davanti a figure istituzionali come il sindaco di Nuoro Sandro Bianchi o il procuratore della Repubblica di Nuoro Andrea Garau. Qualcuno fa i complimenti per l’iniziativa, altri si lamentano. Maria Grazia Calligaris, presidente dell’associazione Socialismo diritti riforme, incassa una valanga di applausi: "Lo Stato - dice - deve recuperare credibilità, non può far lavorare un detenuto per 11 ore e gliene paga soltanto una". "Il carcere è pieno di contraddizioni - aggiunge Alessandro Caria, comandante della polizia penitenziaria di Badu e Carros, la politica, con la P maiuscola, deve ascoltare chi vive il carcere, la polizia e i detenuti". "Dobbiamo puntare su una comunità solidale, inclusiva" suggerisce Patrizia Patrizi, docente di Psicologia giuridica e sociale all’università di Sassari. "Angolo libero" fa da pioniere, uno spazio aperto sulla Nuova Carcere e mass media. Binomio difficile, spesso, visto che "il mondo del carcere è oggetto dell’informazione, dei fatti della cronaca nera" sottolinea Franco Siddi, segretario generale della Federazione nazionale stampa italiana, presente anche lui al convegno dei giorni scorsi nel penitenziario di Badu e Carros. Un appuntamento pubblico che il direttore della Nuova Sardegna Andrea Filippi ha colto per presentare una proposta del giornale, unica nel panorama dei quotidiani italiani: "Angolo libero", una pagina work in progress per dare voce ai detenuti e a tutto il mondo del carcere. Una pagina che nasce sull’onda dell’esperienza fatta con l’omonimo magazine all’interno del progetto Liberi nello Sport dell’associazione Olimpiakos. Una pagina che la Nuova Sardegna edizione di Nuoro curerà ospitando articoli scritti dai detenuti di Badu ‘e Carros, ma anche dagli agenti, operatori e cittadini. Uno spazio aperto per parlare non soltanto di carcere, anzi... i temi che i detenuti saranno chiamati ad affrontare nella "loro" pagina del giornale sono i più diversi: ambiente, cultura, politica, economia, sport. Don Borrotzu ai detenuti: unitevi a noi nella preghiera Oltre alla famiglie del rione e dell’intera città, per la celebrazione di oggi, don Borrotzu rivolge un preciso invito anche a ogni detenuto di Badu e Carros. "Voglio proporti un appuntamento ideale - scrive - nell’ora indicata ti invito a fermarti e ad unirti alla nostra preghiera, che in quel punto sarà soprattutto per voi. Puoi farlo ovviamente con le preghiere della tua religione e con l’invocazione del "tuo" Dio. Sarà un modo per sperimentare l’unità e la fratellanza, che la Beata Maria Gabriella ha saputo vivere in modo eroico". "L’esempio di Gesù - spiega don Borrotzu - che raggiunge le nostre case e la nostra vita, ci spinge a uscire, a guardare con nuova attenzione e simpatia i nostri ambienti e le persone. Uscire per andare nelle periferie geografiche ed esistenziali". Nella nostra città noi siamo "periferia" e a volte la distanza dal centro ci risulta pesante. Spesso il carcere ci appare una periferia della periferia. Ma Dio guarda tutti con la stessa attenzione e con lo stesso amore, invitandoci ad entrare nel dinamismo della comunità e della fratellanza". Nuoro: a Badu e Carros per più fattori momento magico di Gianfranco Oppo (Garante dei detenuti) La Nuova Sardegna, 23 giugno 2014 La cura e l’attenzione per gli aspetti trattamentali nella Casa circondariale di Badu e Carros mai come in quest’ultimo periodo hanno subito un’accelerazione che ha raggiunto il proprio apice nel progetto "Carcere: il diritto penitenziario dentro e fuori". Con esso hanno viaggiato "Liberi nello sport", premio nazionale Bearzot e "Guarda la mia mano", rivolto agli studenti. Tre progetti che rappresentano la linea di risorgiva di un’attività carsica che quotidianamente viene svolta per portare avanti la risocializzazione ed articolare il trattamento rieducativo dei detenuti. Per Badu e Carros e la comunità nuorese questo è un "momento magico" perché non sempre e nello stesso momento è possibile il concorso di più fattori e su più versanti volti ad uno stesso fine: quello di ridare significato alla pena. Vi lavorano con professionalità e la sensibilità umana: la direzione, gli educatori, i comandanti, la polizia penitenziaria; l’atteggiamento profondamente illuminato della magistratura di sorveglianza, della procura. Vi hanno contribuito l’Uepe e l’amministrazione comunale; fondamentale il lavoro dell’ordine degli avvocati con la scuola forense e l’osservatorio della camera penale. Edificante poi anche lo sforzo del territorio, del Ctp, della chiesa, della cooperazione e del volontariato, che con la Sesta opera danno un contributo sistematico e rinforzano questa unità di intenti: ridare dignità alle persone quantunque abbiano sbagliato. Parrebbe scontato, ma così non è. Ci sono carceri in cui gli aspetti custodialistici sono invasivi e preponderanti. Esiste inoltre la difficoltà di parte dell’opinione pubblica a capire che la pena è di per sé sufficiente e non deve ammantarsi di afflittività e di vendetta. Sopravvivono ancora quelli che vorrebbero buttare la chiave e quelli che non distinguono tra abiura (concetto medievale mediato dalla tortura a ruota di Galileo); pentimento (che è fatto estemporaneo ed episodico, oltre che a rischio opportunismo) e ravvedimento che è un processo che necessita di consapevolezza, di intenzionalità, di una direzione, di un impegno attivo che contrasti i processi di infantilizzazione e deresponsabilizzazione tipici di un’istituzione paternalizzata come il carcere. Per buttarla in sociologia vale la pena ricordare che le società moderne delegano ad alcune istituzioni alcuni compiti ed investono in esse molte risorse. Così la scuola non è solo stare nei banchi e l’ospedale stare nei letti: a scuola si istruisce e negli ospedali si cura. Pare logico allora che nelle carceri si rieduchi, si faccia "un percorso" e non si passi il tempo ad oziare 22 ore in cella per uscire uguali o peggio di prima. A questo ci chiama il carcere moderno, questo è il trattamento, cui non potrà che contribuire la formidabile iniziativa della Nuova Sardegna che, primo giornale in Italia, aprirà le sue pagine ai detenuti aiutandoci a ricordare che se è pur giusto punire è altrettanto giusto ripensare il senso della pena. Lucca: all’ospedale San Luca una sezione per i detenuti Il Tirreno, 23 giugno 2014 Una collaborazione sempre più stretta su tutti i temi che legano l’Asl 2 e l’amministrazione del carcere. È la volontà comune emersa nel corso di un incontro tra il dg dell’Asl Joseph Polimeni e il direttore della casa circondariale di Lucca Francesco Ruello, che si è svolto in occasione di un sopralluogo alla sezione di degenza riservata ai detenuti all’interno del nuovo ospedale San Luca, già attiva da una settimana. "Per la realizzazione di questi locali - ha evidenziato il dottor Polimeni - abbiamo seguito le indicazioni fornite dal dottor Ruello e dai suoi collaboratori. Sono state quindi adottate tutte le misure necessarie per garantire un sufficiente livello di comfort alle persone ricoverate e contemporaneamente ottemperare alle esigenze di sorveglianza del personale della polizia penitenziaria. La sezione di degenza, dotata di bagno, comprende infatti un locale dove il personale di vigilanza può sorvegliare il detenuto o i detenuti. Sono presenti inoltre porte blindate e telecamere, il controsoffitto è completamente allarmato, i supporti sono tutti incassati e non ci sono elementi sporgenti per scongiurare eventuali gesti di autolesionismo". Massa Carrara: "Men at work" venti detenuti hanno concluso i corsi di formazione Il Tirreno, 23 giugno 2014 Dieci allievi per il corso di cucina "Cooking" e dieci per quello di edilizia "Building": venti detenuti del carcere hanno frequentato per mesi e concluso i corsi del progetto formativo "Men at work", all’interno della casa di reclusione. La cerimonia di consegna degli attestati (validi anche all’esterno) è avvenuta qualche giorno all’istituto, alla presenza di rappresentanti dei soggetti coinvolti, tra gli altri Anna Malacalza e Stefania Galli, referenti dell’ente gestore Percorsi, e della direttrice Maria Martone, che ha espresso grande soddisfazione: "Questi progetti sono per i nostri ospiti punti di ripartenza, quello che tutti ci auguriamo è di poter replicare, anzi implementare queste progettualità, in sinergia con gli altri enti, anche al fine di creare un collegamento con la realtà occupazionale cittadina, in vista dell’inclusione lavorativa dei detenuti". Gestito da Ats tra Percorsi Srl e Pegaso Network della Cooperazione Sociale Toscana, in convenzione con la Provincia e finanziato da un fondo sociale europeo, il progetto prevedeva oltre 600 ore di lezioni teoriche e pratiche, un esame conclusivo alla presenza di una commissione esaminatrice esterna. Significativi i risultati: i corsisti di "Building" hanno contribuito alla realizzazione di una piccola saletta colloqui all’interno del carcere e al restauro di una parte dei corridoi dell’area lavorazioni, mentre quelli del corso "Cooking" hanno lavorato per le normali attività delle cucine del carcere e realizzato buffet e rinfreschi. Grande impegno dei partecipanti e grande disponibilità delle due cooperative che hanno dato il loro apporto al progetto, MaRis e Cir Food, che hanno messo a disposizione docenti e materiali, e anche grande collaborazione da parte delle ditte Knauf Sistemi costruttivi e Casa Tessieri, che hanno offerto prodotti e materiali impiegati durante le esercitazioni. Augusta (Rg): i detenuti della "Brucoli Swing Brothers band" all’Arena Gattabuia www.oggimedia.it, 23 giugno 2014 Sabato 21 giugno lo spazio aperto Arena Gattabuia del carcere di Augusta ha inaugurato i concerti della Brucoli Swing Brothers band, 22 detenuti guidati da Maria Grazia Morello. Scelti dai detenuti stessi alcuni brani nei quali ritrovano tracce di sé: Panico di Fabri Fibra e Neffa, Battito animale di Raf, Ragazzo inadeguato di Pezzali. Uno spettacolo dove la musica italiana la fa da padrona e coinvolge il pubblico. Giovannino, una voce di punta, durante le giornate di permesso in paese viene ormai circondato di richieste musicali. "À signo’, vi sembro un jukebox?" risponde spontaneo Giovanni. A due passi dalla libertà preferisce non tornare in Puglia, rientrerebbe in dinamiche devianti. "Cercheremo di dargli una mano con la ricerca di lavoro. Dormirà qui, poi dovrà trovarsi un affitto, vedremo di aiutarlo anche in questo" dichiara Emilia Spuches capo area educativa. La Brucoli Swing Brothers band è il risultato di una delle attività artistiche che, insieme ai corsi scolastici, al lavoro e allo sport, impegna i detenuti e diventa strumento per rivedere sé stessi e la propria vita nutriti da autostima e desiderio di riscatto. "L’assegnazione del lavoro domestico è a rotazione, l’ingresso in officina prevede una prova d’arte" spiega Emilia Spuches. Il carcere di Augusta diretto da Antonio Gelardi ha un motto "bisogna impedire che si esca dal carcere peggiori di quando ci si è entrati o che la vita vi venga spenta". "Ricordo la visita ispettiva del 2013 fatta con Rita Bernardini, incontrammo un detenuto che avevamo già visto in un altro carcere. Al primo incontro si lamentava, voleva lavorare. Rincontrato qui si sentiva soddisfatto" racconta Gianmarco Ciccarelli dei Radicali tra il pubblico durante il concerto che verrà replicato il 25, 26 e 27 giugno. È inoltre attivo uno sportello di consulenza legale gratuita coordinato dall’avvocato Vito Pirrone. Sono soprattutto detenuti non comunitari - circa 70 - ad averne maggiore necessità; chiedono per il permesso di soggiorno, i rapporti con la famiglia, la possibilità di scontare la pena nel paese d’origine, l’autorizzazione per vedere i figli. La casa di reclusione di Augusta si distingue come eccellenza, non è però esente da criticità strutturali come il sovraffollamento - i posti regolamentari sono 309 e attualmente i detenuti presenti sono 500 - e la carenza d’acqua in estate, "sarà necessario anche quest’anno qualche giorno con l’autobotte e l’acqua razionata" spiega Emilia Spuches. Aosta: la band musicale "Re-visione" suona per i detenuti del carcere di Brissogne www.aostacronaca.it, 23 giugno 2014 Il cortile passeggio C della Casa circondariale di Brissogne ha ospitato un concerto di musica rock a cura del gruppo Re-visione. La band aostana - composta da Mario Dal Monte, Riccardo Sterchele, Sergio e Simone Cremaschi, Riccardo Cova, Enzo Martello e Piero Zocca - si è esibita davanti ad una cinquantina di persone detenute. L’iniziativa, che rientra tra le attività ricreative e culturali proposte all’interno del carcere, è nata dalla collaborazione dell’Associazione Valdostana di Volontariato Carcerario e della Direzione dell’Istituto di pena valdostano. Stati Uniti: lo scandalo delle donne sterilizzate illegalmente nelle carceri della California Reuters, 23 giugno 2014 Donne sterilizzate nelle carceri californiane senza documenti che provino la loro autorizzazione, quattro carceri californiane al centro dello scandalo. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato, il numero delle detenute sterilizzate è di 40. Il rapporto, pubblicato lo scarso giovedì dal Californian State Auditor rivela che le donne sono state sterilizzate chirurgicamente fra il 2005 e il 2011, senza le corrette procedure del caso. Le strutture dove erano detenute le donne sterilizzate illegalmente sono: Folsom Women’s Facility, Central California Women’s Facility, Valley State Prison for Women e il California Institution for Women. In realtà, 144 donne erano state sottoposte alla sterilizzazione chirurgica, ma un terzo di loro non aveva dato il consenso legale alla sterilizzazione. Secondo la legge californiana, la procedura di sterilizzazione può aver luogo soltanto a distanza di 30 o massimo 150 giorni dal momento in cui la donna da il proprio consenso all’intervento, in modo da consentirle di riflettere a sangue fredda sulla scelta compiuta. Tuttavia è emerso che in alcuni casi i medici hanno eseguito le operazioni senza disporre della documentazione richiesta, mentre in altri i documenti erano stati addirittura falsificati modificando il periodo di attesa. Alla luce delle accuse, i sindaci hanno richiesto i nomi dei medici coinvolti nello scandalo, al fine di poter esaminare più accuratamente il loro operato. L’inchiesta è partita dal senatore Ted Lieu, che ha mobilitato il CIR (Center for Investigative Reporting) per le indagini. "Dopo aver verificato le procedure chirurgiche applicate alle donne sterilizzato, ci siamo accorti che troppe cose non andavano", ha dichiarato. Le indagini e le analisi della documentazione devono obbligatoriamente arrestarsi al 2005 per l’irreperibilità dei documenti. Prima del periodo in questione non è stato possibile eseguire gli accertamenti del caso, così le probabilità che già negli anni 90 nei carceri femminili della California le donne subissero sterilizzazioni non a norma sono molto alta. A seguito di queste scoperte che hanno evidenziato molteplici falle nel meccanismo di sterilizzazione delle detenute californiane, il senatore Hannah Beth-Jackson ha presentato un disegno di legge nel febbraio che proibisce la sterilizzazione delle donne come forma di controllo sulle nascite. Malawi: la storia di Suor Anna, l’angelo di bambini e detenuti di Vittorio Zambaldo L’Arena di Verona, 23 giugno 2014 Ai carcerati fornisce medicinali e cibo. Ha creato un’infermeria e corsi di recupero per ex galeotti. La francescana suor Anna originaria di Affi ha realizzato 54 scuole Ben 65 villaggi in Malawi hanno scuole materne e rurali grazie a una suora veronese che vive nel paese africano dal 2002, dopo essere stata per una decina d’anni in Tanzania e poi un lungo periodo di attività a Roma per la comunità delle Francescane ausiliare laiche missionarie dell’Immacolata, in cui entrò diciassettenne nel 1960. Sono 54 le scuole già costruite dalla missionaria originaria di Affi, una decina ancora organizzate sotto l’albero più grande del villaggio o una tettoia, mentre per altre cinque tutto il materiale di costruzione è pronto per essere montato. Il villaggio collabora alla costruzione e alla gestione della scuola. Suor Anna con le offerte raccolte compera il materiale. Il capo villaggio che organizza il lavoro di preparazione e cottura dei mattoni, di scavo delle fondamenta, del trasporto dell’acqua. "Con le offerte si comperano il cemento, la calce, il legname e gli infissi e si paga la manodopera Con 3.500 euro si costruisce dal nulla una scuola mentre è gratis il servizio dei docenti". Sono già 3.400 i bambini che frequentano queste scuole rurali e che ricevono una refezione quotidiana che integra con una miscela di farina di soia e mais, arricchita con vitamine e zucchero, la dieta povera di proteine che ricevono a casa loro, mentre per alcuni orfani è l’unico pasto di tuttala giornata: "Bastano 50 euro per alimentare per un mese tutti i bambini di un intero asilo", fa sapere suor Anna L’altro impegno della suora veronese è il progetto carceri: ne segue ben nove, di cui due minorili ed è l’unica persona autorizzata ad entrare nel braccio della morte. "Questi detenuti non possono vedere nessuno al di fuori del personale del carcere e sono l’unica esterna che una volta al mese li può visitare. Con i fondi dell’8 per mille destinati alla Chiesa cattolica siamo riusciti a costruire un’infermeria nel carcere di Chichiri, che aiuta a salvare molti perché non ci sono cibi speciali per i malati e aiuti sanitari", denuncia suor Anna, che ha avviato un programma alimentare per ottomila detenuti di cui 900 sieropositivi. Si finisce in carcere rischiando di morire per le dure condizioni, anche per piccoli reati, come una nonna che deve scontare sei mesi per aver rubato un paio di scarpe per il nipote orfano che doveva andare a scuola o una mamma al primo mese di gravidanza che è stata denunciata senza prove dal vicino per un furto di mais: è rimasta in carcere per tutta la gravidanza, ha anche partorito là e il bambino è rimasto rinchiuso con lei. "Più della metà dei detenuti dorme seduta perché non c’è spazio per sdraiarsi. Per affrontare la debilitazione delle malattie serve cibo per integrare l’alimentazione monotona che arriva dal carcere. Sono aiutata in questo da una cooperativa costituita per offrire un futuro e assistere gli ex carcerati inserendoli nel mondo del lavoro, con interventi nell’edilizi a nella falegname ria e nella sartoria e maglieria. Un giovane segue le pratiche legali e un altro tiene le comunicazioni con le famiglie dei detenuti. Altri lavorano nei laboratori e insegnano un mestiere o danno ai più giovani la possibilità di prepararsi agli esami per ritornare a scuola", riferisce la religiosa veronese che ringrazia "gli amici di Affi e Illasi, mio fratello Giovanni e sua moglie Marta per le offerte, che sostengono i progetti, e gli organizzatori e i partecipanti alla cena benefica di Caprino". Per aiutarla ci si può rivolgere all’associazione "Con Anna per il Malawi" Onlus in via Chiesa 10 ad Affi (telefono 349.0896901). Algeria: leader salafita al Bara in sciopero della fame contro regime carcerario Nova, 23 giugno 2014 Il leader del gruppo combattente salafita algerino, Abdel Aziz al Bara, ha iniziato uno sciopero della fame nel carcere di Algeri in cui si trova per chiedere di essere scarcerato. Al Bara è uno dei tre leader salafiti ancora in carcere nonostante il processo di riconciliazione avviato nel 2004 dal presidente Abdelaziz Bouteflika. Al Bara non viene scarcerato per una richiesta di arresto dell’Interpol e protesta per lo stato di isolamento in cui versa dal 2011. Ha fondato il gruppo armato che nel 2000 ha ucciso 15 poliziotti a Biskra. Slovenia: secondo giorno di carcere per l’ex premier Jansa, condannato per corruzione Nova, 23 giugno 2014 Secondo giorno di carcere per l’ex primo ministro sloveno e leader del Partito dei democratici (Sds), Janez Jansa, detenuto da venerdì scorso, per corruzione. Jansa dovrà scontare due anni di carcere. Jansa ha dichiarato alla stampa di aver fornito all’attenzione della difesa i fascicoli del filone finlandese del processo Patria, contenete dei documenti che non sono inclusi nel caso perseguito in Slovenia. Secondo il leader dell’Sds, il materiale finlandese potrebbe scagionarlo dalle accuse. L’accusa slovena ha avuto due anni per esaminare il fascicolo finlandese ma non lo ha fatto perchè "questo è stato un processo farsa sin dall’inizio", ha detto Jansa. "Non è mai successo qualcosa di simile, nemmeno di fronte al tribunale militare del 1988", ha detto l’ex premier, in riferimento al processo militare in cui è stato condannato dalle autorità jugoslave per il rilascio di segreti militari, episodio ancora oggi considerato lo spartiacque dell’indipendenza della Slovenia. La difesa, secondo Jansa, ha esaminato i fascicoli del filone finlandese solo ora perchè era convinta che l’atto d’accusa non avrebbe retto. Jansa e i suoi avvocati hanno spiegato che da rapida occhiata ai faldoni finlandesi sono emersi documenti (in particolare corrispondenze elettroniche) del tutto nuove e in contrasto con le tesi dell’accusa. Lo scorso 28 aprile l’Alta corte di Lubiana ha confermato la sentenza di primo grado contro l’ex premier Janez Jansa, condannando l’attuale leader del Partito democratico sloveno a due anni di carcere e 37 mila euro di multa per il suo coinvolgimento nel caso Patria. Jansa era accusato di aver ricevuto tangenti dal gruppo della difesa finlandese Patria per la stipula di un contratto tra la società scandinava e il governo di Lubiana nel 2006. Oltre all’ex premier Jansa, il tribunale di Lubiana ha confermato la condanna anche per Ivan Crnkovic e il brigadiere Tone Krkovic, già condannati in primo grado. I due dovranno scontare 22 mesi di carcere. Egitto: ergastolo per 8 attivisti che hanno incendiato ufficio dei Fratelli Musulmani Nova, 23 giugno 2014 Il tribunale penale di Damietta, in Egitto, ha condannato al carcere a vita otto attivisti riconosciuti colpevoli di aver incendiato un ufficio provinciale del partito dei Fratelli musulmani "Libertà e giustizia". L’episodio è avvenuto nel corso delle proteste popolari del giugno scorso contro l’ex presidente Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza, poi deposto il successivo 3 luglio.