Giustizia: in arrivo la stangata europea da 100 milioni, ma il governo punta a proroga di Maria Itri Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2014 Il Consiglio d’Europa decide fra il 3 e il 5 giugno se l’Italia dovrà risarcire i circa 7mila detenuti che hanno fatto ricorso per le condizioni "inumane e degradanti" dovute al sovraffollamento. Ma il ministro Orlando si mostra ottimista. Dopo lo "svuota carceri" il nostro Paese potrebbe ottenere una dilazione. Il caso aperto dalla sentenza Torreggiani. Arriverà fra il 3 e il 5 giugno la sentenza sul sovraffollamento nelle carceri che potrebbe costare all’Italia fino a 100 milioni di euro. Il tempo concesso al nostro Paese è scaduto e il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dovrà stabilire se rendere o meno esecutiva la condanna definita "mortificante" dal presidente Napolitano. Nel gennaio 2013 la Corte europea dei diritti umani ha dato ragione a Mino Torreggiani e altri sei detenuti costretti a vivere in meno di tre metri quadrati stabilendo che il nostro Paese ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Verdetto poi confermato in appello dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo il 27 maggio. Trattandosi di una sentenza pilota, all’Italia è stato dato un anno per correre ai ripari, congelando nel frattempo tutti i casi simili accaduti nel nostro Paese. In gioco non c’è solo l’immagine dell’Italia, ma anche una importante questione economica. Se le misure attuate non saranno giudicate sufficienti, lo Stato dovrà risarcire migliaia di detenuti che hanno presentato ricorso in questi mesi. Il numero potrebbe arrivare quasi a 7mila, anche se di questi solo circa 4mila riguarderebbero la questione chiave del sovraffollamento. Si tratta in ogni caso di una cifra rilevante, che potrebbe costare alle casse dello Stato fino a 100 milioni di euro (considerando un risarcimento medio di 15 mila euro per ciascun ricorrente). Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ostenta sicurezza, affermando di essere "non trionfalista, ma cautamente ottimista". "Abbiamo colto apprezzamento a Strasburgo per il rispetto della tabella di marcia" ha detto il ministro. Tra le misure adottate la messa alla prova, le nuove misure sulle droghe, l’affidamento dei tossicodipendenti alle comunità terapeutiche. "Ho la consapevolezza che la situazione è difficile e ci sono punti critici, ma anche la coscienza di aver fatto tutto il possibile". Oggi, ha rivendicato Orlando "il numero dei detenuti è sceso e continua a scendere, non ci sono più detenuti che vivono in meno di 3 metri quadrati". I detenuti nelle carceri italiane sono 59.061, ma resta aperta la questione della capienza. Secondo il Dap i posti regolamentari sono 44 mila, da mesi l’associazione Antigone e i Radicali contestano questo dato, fermandosi a 40 mila. Il calo del numero dei reclusi potrebbe però non bastare a convincere la Corte europea ad assolverci. "La direzione è quella giusta" afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Il numero dei detenuti è diminuito di 6mila unità rispetto a un anno fa, ma la distanza da recuperare è ancora grande e ora è importante che ci sia un periodo di osservazione per uscire dai rischi che il sovraffollamento comporta". Secondo Gonnella è rilevante anche la decisione presa dalla Cassazione sul ricalcolo delle pene a causa della incostituzionalità della Fini-Giovanardi. "Bisogna aspettare per vedere che cosa succederà, i numeri che abbiamo sui detenuti che potrebbero uscire sono spannometrici. Ora bisognerà fare uno sforzo importante per informare, permettere ai detenuti di conoscere quello che è un loro diritto, visto che il ricalcolo non sarà automatico, ma andrà richiesto da ognuno di loro". A farsi strada, con l’avvicinarsi della decisione finale di Strasburgo, è l’ipotesi di una nuova proroga: il Consiglio d’Europa potrebbe riconoscere i passi avanti fatti, e valutare una nuova dilazione dei tempi previsti. Una boccata d’ossigeno per il Dap che proprio il giorno in cui è scaduto l’ultimatum della Corte è rimasto senza vertice: è decaduto dal suo incarico il capo dipartimento Giovanni Tamburino, che non ha convinto il ministero della Giustizia proprio sul fronte delle azioni contro il sovraffollamento. Giustizia: Radicali; amnistia e indulto, oppure il caos per revisione di condanne su droga www.radicali.it, 1 giugno 2014 Il grido d’allarme che giunge dalla Dott.ssa Nunzia Gatto, Procuratore Generale aggiunto a Milano che coordina i magistrati dell'esecuzione penale, coincide con il nostro immediato commento di due giorni fa, diramato subito dopo la decisione della Corte di Cassazione che ha sancito la necessità di "ricalcolare" al ribasso la pena di migliaia e migliaia di detenuti sia per il "piccolo spaccio" messo in atto da recidivi, sia per lo spaccio di sostanze stupefacenti leggere che con la "Fini-Giovanardi" (dichiarata incostituzionale dalla Consulta), venivano equiparate alle droghe pesanti. Cosa ha dichiarato oggi la Dott.ssa Gatto al quotidiano Il Giorno? Che ogni caso di detenuto che chiederà (come è suo diritto) di rivedere la sua pena dovrà essere esaminato singolarmente, che gli uffici saranno sommersi dal caos oberati di migliaia di richieste e che "si sarebbe dovuto seguire la linea più volte indicata dal Presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. In quel modo, per noi - prosegue la Dott.ssa Gatto - sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto. Così invece il giudice dovrà rideterminare ogni singola sanzione attraverso un incidente di esecuzione alla presenza delle parti". Semplici e ragionevoli parole quelle del Procuratore generale aggiunto di Milano. Due giorni fa avevamo dichiarato che istituzioni serie avrebbero dovuto immediatamente attivarsi per dare alla luce un provvedimento di amnistia e di indulto che, liberando le scrivanie dei magistrati, avrebbe consentito di indirizzare maggiori forze per perseguire i reati gravi e che, con l’indulto, avrebbe fatto uscire dal carcere chi deve scontare gli ultimi due o tre anni di detenzione fra i quali le migliaia di reclusi vittime della legge Fini-Giovanardi. C’è chi definisce i radicali eccessivi ed estremisti. Conveniamo. Lo siamo sicuramente della ragionevolezza che, in fin dei conti, si afferma sempre quando si ha a cuore lo Stato di diritto e la democrazia, oggi straziati dalla tortura nelle carceri e dalla giustizia irragionevolmente lunga che mette in ginocchio il nostro Paese impedendone sviluppo e progresso umano e civile. Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani Marco Pannella, Presidente del Senato del Partito Radicale Giustizia: Gatto (pg Milano); in arrivo migliaia di domande, saremo sommersi dal caos di Mario Consani Il Giorno, 1 giugno 2014 I pusher che hanno avuto condanne per spaccio di droghe leggere potranno chiedere che la pena venga ricalcolata. Il procuratore Nunzia Gatto: "Chiederò un rinforzo di personale che possa aiutarci nell’emergenza". Quante saranno, nessuno lo sa. Certo il procuratore aggiunto Nunzia Gatto, che coordina il gruppetto di magistrati dell’esecuzione penale, si aspetta centinaia e centinaia di domande. La Cassazione, infatti, ha appena sancito che - degli attuali detenuti - chi ha avuto condanne solo per spaccio di droghe leggere potrà chiedere che la pena venga ricalcolata, visto che la legge Fini-Giovanardi (che metteva sullo stesso piano "roba" leggera e pesante) è stata cancellata di recente, proprio su questo punto, da una pronuncia della Corte costituzionale. Così molte pene inflitte potranno essere abbassate. E molti piccoli spacciatori di hascisc o marijuana ora in carcere potranno andare ai domiciliari o in affidamento al servizio sociale se non, addirittura, tornare liberi. Dottoressa Gatto, si può fare una stima del numero delle richieste che arriveranno in Procura? "È un calcolo molto difficile in questo momento. Posso dire che nel solo 2013 abbiamo dato esecuzione a 8.800 condanne definitive. Certezze statistiche ovviamente non ne ho, ma per esperienza direi che quasi il 70% riguardava reati di droga. Poi ci sono le persone inviate in carcere negli anni precedenti, ovviamente". La platea dei possibili interessati è vastissima, dunque. Ma non dovrebbe essere proprio la Procura a individuare, tra tutti costoro, quelli che abbiano concretamente diritto a una riduzione di pena? "Impossibile. Noi magistrati siamo pochi e i fascicoli migliaia. Fra l’altro, poiché la legge Fini-Giovanardi non distingueva tra droghe leggere e pesanti, dalla semplice lettura del dispositivo della sentenza non si può capire nulla, ogni caso andrà riesaminato singolarmente. Saranno i detenuti interessati a farsi avanti, non c’è dubbio". La riduzione di pena non potrà essere automatica... "Come Procura daremo il nostro parere per ogni fascicolo, ma dovrà essere il giudice dell’esecuzione a decidere: il gup o il tribunale che a suo tempo emise l’ultima sentenza divenuta poi irrevocabile. Dovrà essere fissata un’udienza con la partecipazione delle parti". Centinaia di udienze. I tempi si allungheranno... "Inevitabilmente. Per quanto riguarda il nostro ufficio chiederò un rinforzo di personale che possa aiutarci ad affrontare l’emergenza. Ma lo stesso problema avranno i giudici dell’esecuzione". Non c’era un modo più semplice, da un punto di vista legislativo, per ottenere lo stesso risultato? "Guardi, personalmente sono dell’idea che si sarebbe dovuto seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. In quel modo, per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto. Così invece il giudice dovrà rideterminare ogni singola sanzione attraverso un incidente di esecuzione alla presenza delle parti. Sarà tutto più lento e complicato". Giustizia: "Fuori dal manicomio ancora il manicomio", ne parliamo con Ascanio Celestini di Anita Eusebi L’Unità, 1 giugno 2014 L’intervista all’attore e regista: "La battaglia che è stata combattuta non era solo una lotta per liberare i reclusi, ma contro tutte le istituzioni repressive, come gli ospedali psichiatrici giudiziari". In questo mese di maggio la Legge 180 ha compiuto 36 anni, il Decreto Legge 52/2014 per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, approvato lo scorso aprile in Senato, è divenuto legge con il voto finale della Camera e il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa d’un tempo, festeggia il suo centenario. Ne parliamo con Ascanio Celestini. Il 31 maggio, quindi ieri, ricorreva il centenario dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma che, inaugurato nel 1914 da Vittorio Emanuele III, ha visto l’inizio del suo smantellamento negli anni della rivoluzione basagliana, ma la sua chiusura definitiva è arrivata soltanto nel 1999. Che significato può avere festeggiare i cento anni dall’inaugurazione di un manicomio? "Un infermiere di Perugia in un’intervista di qualche anno fa mi disse che per i perugini il manicomio era un numero civico. Dietro quel numero non era importante che ci fossero poche o molte persone, che soffrissero o che venissero curate. Quel numero difendeva i cittadini sani dalla pazzia come certi amuleti apotropaici dagli spiriti maligni. La chiusura di queste istituzioni alle volte è coincisa con l’apertura dei suoi cancelli e la restituzione di un luogo per la cittadinanza, ma spesso le storie vissute all’interno hanno lasciato tracce flebili e poco comprensibili. In fondo chi non le ha conosciute prima della chiusura fa difficoltà ad avvicinarvisi dopo. E forse dovremmo anche chiederci perché dovrebbe farlo. Queste celebrazioni rischiano di diventare una nuova istituzionalizzazione, stavolta anti-manicomiale, ma altrettanto istituzionale e retorica. Basta guardare cosa sono spesso le varie giornate della memoria. La battaglia che è stata combattuta contro il manicomio non era semplicemente una lotta per liberare i reclusi, ma contro tutte le istituzioni repressive. Le istituzioni che Basaglia considerava sorelle del manicomio ("famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale" e a queste potremmo aggiungerne altre: chiesa, caserma, tribunale, carcere…) sono uscite rafforzate dalla fine del 900. Più che celebrare la fine del manicomio dovremmo constatare quanto ce ne sia ancora attorno a noi. Scrive Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, "giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro". E "entrare fuori, uscire dentro" è il motto con cui nasce nel 2000 il Museo Laboratorio della Mente. Secondo te le persone che sono uscite in seguito alla chiusura del Santa Maria della Pietà, dopo anni e anni di internamento, sono riuscite poi a "entrare fuori"? E il mondo fuori, analogamente, è davvero riuscito a "uscire dentro"? "Gli individui che sono usciti dal manicomio sono tanti e le loro storie non sono catalogabili. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro no. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta comunque, qualcun altro ha avuto fortuna ed è stato accolto. Ma non c’era alternativa: i manicomi erano lager e dovevano essere chiusi. Davanti ai sopravvissuti di Aushwitz non ci si è chiesti se non fosse opportuno umanizzare i campi di sterminio mettendo le docce al posto delle camere a gas. Quando ci poniamo la questione in merito all’entrare fuori automaticamente ci troviamo a ragionare su "quale fuori" sia quello intorno alle mura abbattute del manicomio. Fuori dal manicomio c’è ancora il manicomio. C’è nel disagio psichico e sociale, nei rapporti di potere. Un’infermiera di Padova mi racconta della chiusura dell’ospedale psichiatrico nel quale lavorava e mi parla del suo lavoro sul territorio. Mi parla di quegli operatori che si comportano come gli infermieri peggiori nei manicomi più chiusi trattando i pazienti come bambini buffi e un po’ stupidi. Li chiamano "matterelli" e "pazzerelli" e quando diventano meno governabili li gestiscono con i farmaci. Mi dice "una volta c’era il manicomio, oggi c’è il terricomio". "La pecora nera" è stato girato nel padiglione 18 del Santa Maria della Pietà. È un film che racconta una storia tipica di abbandono, violenza e pregiudizio, per cui un bambino viene internato in manicomio, e lì rimane per 35 anni. Una presenza emblematica in tal senso è Alberto Paolini, con il suo pesante bagaglio di vita reale di 42 anni di manicomio al Santa Maria della Pietà, con le sue peggiori brutture, andando dall’elettroshock alle camere di contenzione. Quanto resta delle sofferenze del manicomio negli occhi di una persona la cui casa è stata il manicomio quasi per tutta la vita? "La storia di Alberto Paolini è un esempio straordinario per raccontare l’insensatezza dell’istituzione psichiatrica. Nonostante l’internamento, gli psicofarmaci e l’elettroshock è riuscito a difendersi e a non perdere la propria lucidità. Mi raccontava Adriano Pallotta, storico infermiere del Santa Maria della Pietà e animatore del Museo Laboratorio della Mente, che tra infermieri non ci si stupiva davanti al peggioramento di un internato e che, anzi, era motivo di stupore vedere che dopo un po’ che stava dentro rimaneva più o meno nelle stesse condizioni. Il peggioramento era la norma e la cura era inesistente". L’altro volto del manicomio, gli infermieri. Internati loro stessi in un certo senso, ma con in mano il potere, e il mazzo delle chiavi. E in "La pecora nera" ritroviamo Adriano Pallotta, infermiere al Santa Maria della Pietà per oltre 40 anni, che nel film interpreta un paziente, "il professore". Quanto è stato importante il confronto con il vissuto di Adriano, come di altri infermieri, nel ricostruire la memoria storica del Santa Maria della Pietà? "Ho intervistato Adriano una decina di anni fa durante un laboratorio con gli studenti di Roma Tre. Mi ha stupito per la chiarezza della narrazione oltre che per la lunghezza del suo intervento: ha incominciato a raccontare appena arrivato, prima che iniziasse l’intervista e ha continuato quando era già finita e stavamo andando via. Nei suoi racconti è fondamentale l’esperienza che ha vissuto, ma tante persone hanno avuto una vita altrettanto interessante e forse anche più avvincente. La differenza tra lui e molti altri è che sa raccontare. Dice il professor Gerardo Guccini che ci sono attori che raccontano storie, ma non sono narratori. Ci sono attori che sono arrivati al teatro perché erano narratori. E poi ci sono quelli che non fanno teatro, ma narrano magnificamente. Questi ultimi, dice Guccini, hanno delle storie da raccontare, sanno come farlo e vanno in cerca di un pubblico. Pallotta è così. Tant’è vero che in quella prima intervista non ha iniziato la sua storia parlando di manicomio, bensì della sua esperienza personale inquadrata in una condizione sociale. Lui era il secondo di sei fratelli e la sua era una famiglia che faticava ad andare avanti. Un giorno rientrando in casa ha sentito i genitori che parlavano di lui. Erano andati a colloquio con l’insegnante che gli aveva detto di spingere Adriano a studiare perché era portato. Ha sentito i genitori che dicevano "Bisogna cercà a tutti i modi di farlo studiare. Faremo i sacrifici, faremo i sacrifici, dobbiamo fare i sacrifici...". Adriano ha pensato che "già ce n’erano tanti di sacrifici. Ma quali sacrifici! Io, zitto zitto so’ andato a Piazza Risorgimento, c’era ‘na libreria, andetti lì eme so’ venduto i libri. Ai genitori ho detto: Non voglio annà più a scuola!" e così ha incominciato a lavorare. Tutti gli infermieri che ho incontrato hanno portato degli elementi interessanti, ma lui è stato il più prezioso perché è anche un narratore. A me servono dati concreti, ma anche narrazioni perché non sono un giornalista, uno storico o un sociologo. Io racconto storie". Manicomi sono anche gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove la maggior parte degli internati ha commesso reati di poco conto, o peggio ha solo la colpa della povertà, della solitudine, della mancata assistenza e dell’abbandono. Lo scorso 28 maggio è stata approvata la legge per il superamento degli Opg, ma parte dell’opinione pubblica ha paura dei "pazzi criminali" e i servizi territoriali hanno bisogno di risorse per farsi carico dei "fratelli scomodi". Pensi si riuscirà davvero a buttare definitivamente giù le mura dell’istituto dell’Opg? "Indubbiamente gli Opg sono un’istituzione vergognosa che va superata. Ma la sua chiusura pone un problema che è difficilmente risolvibile se ci si limita a guardare solo questi istituti. La maggior parte degli internati sono stati schiacciati e probabilmente la loro pericolosità (se mai c’è stata) si è azzerata insieme a una parte consistente della loro identità. Ma mettiamo il caso dell’ipotetico internato pericoloso. Lui tornerà in prigione in "repartini" fatti a posta? E chi lo seguirà in carcere? Parlando con uno psicologo in un istituto di pena marchigiano m’ha detto "riusciamo a seguire i detenuti per una media di 25 minuti al mese". Ma anche un carcere migliore di quello italiano, meno affollato, con più spazi alternativi alla cella, eccetera, il problema si pone alla stessa maniera anche se in modo meno evidente. L’istituzione carceraria è più vecchia e datata del manicomio. Il superamento del manicomio criminale deve andare di pari passo col superamento del carcere". Lettere: funzione rieducativa della pena, va potenziato il ruolo dello psicologo di Romina Ciuffa Specchio Economico, 1 giugno 2014 In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione - competente ne è il Magistrato di sorveglianza - si aprono molte strade, tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento. Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi - osservazione e trattamento - è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito "esperto" dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario. In questi articoli - il presente e quelli che seguiranno nei prossimi numeri di Specchio Economico - individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva. Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale - quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extra murario, dalla religione - ed informale - più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arte terapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) - e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa. La pena alla luce dell’art. 27 della costituzione La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica ("tanto male inflitto per tanto male arrecato") e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale. Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile. La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione. Osservazione e trattamento nell’ordinamento penitenziario Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento "a ciascun internato o condannato" (articolo 13 comma 3). Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva. Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato "Trattamento e rieducazione": innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. L’articolo 1 del regolamento esecutivo n. 431 del 29 aprile 1976 ("Interventi di trattamento") descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come "l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali", e aggiunge: "Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale". È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi "devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione". Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. "secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare. Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione. Il ruolo dello psicologo ex art. 80 o.p. L’esigenza di una riforma viene avvertita in contesti diversi. In dottrina si discute da tempo della crisi del diritto penale e dei principi fondativi della pena (retributivo, preventivo, rieducativo); tra gli operatori penitenziari è avvertita la crisi della propria identità professionale e l’esigenza di un rinnovato slancio progettuale nell’ambito dell’attività del trattamento. Da parte della collettività proviene una domanda diffusa di maggiore sicurezza che mette in discussione alcune acquisizioni fondanti della riforma del 1975 e, in particolare, il principio della pena flessibile durante la fase esecutiva. Vi sono state, prevalentemente nella magistratura più che tra gli operatori penitenziari, preoccupazioni sul rischio che le misure alternative vanificassero i caratteri essenziali della pena: erano, certamente, alternative a questa, ma dovevano restare penose, mantenere una linea punitiva capace di dissuadere dal ritorno al reato. L’articolo 80 O.P. ha permesso l’ingresso in carcere di personale "esperto", specializzato, tra cui gli psicologi, ai quali è stato affidato il compito di svolgere attività di osservazione e trattamento sui detenuti. Nel caso specifico l’osservazione ha lo scopo di monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato, mentre - si è detto - per trattamento si intende la progettazione, da parte dello psicologo, di un programma che miri a potenziare gli aspetti positivi della personalità del soggetto reo, e a colmare le lacune o correggerne gli aspetti devianti in vista di un concreto processo maturativo. Secondo l’articolo 27 O.P., l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Si provvede all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le proprie esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. L’osservazione è svolta da un gruppo di osservazione che nella prassi e nella letteratura viene individuato con il termine di "équipe", non previsto dalla legge, ma introdotto dal regolamento stesso. Tale organo procede anche alla successiva compilazione e aggiornamento del programma individualizzato di trattamento (articolo 29). Nell’Ordinamento penitenziario non si parla di trattamenti "psicoterapeutici", ma si incarica il personale "esperto", fra cui psicologi, psichiatri e criminologi, di svolgere le attività su indicate: tra le tecniche rieducative e risocializzanti proposte da uno psicologo rientra anche la psicoterapia, che dimostra di essere un potente e valido aiuto per accogliere le persone e portarle ad attuare significativi cambiamenti di personalità in direzione di una crescita e di un miglioramento della qualità della vita. Il ruolo di "esperto" non soddisfa la professione: sono oltre 63 mila i detenuti nelle carceri italiane, l’indulto non è riuscito a risolvere il problema del sovraffollamento e, nei primi cinque mesi del 2009, sono stati registrati 28 suicidi. Nonostante la crescita esponenziale del numero dei detenuti, non è stata rafforzata l’assistenza psicologica per evitare casi drammatici. Anzi, per tutta risposta è stato ulteriormente ridotto l’orario di lavoro degli operatori del settore. Oggi circa 500 psicologi, impegnati negli istituti penitenziari italiani, hanno a disposizione 30 minuti all’anno per ciascun detenuto: troppo pochi se si considera il ruolo che lo psicologo svolge nella valutazione del comportamento del carcerato e della presenza dei presupposti per le misure alternative alla detenzione su incarico del magistrato. Nonostante i reiterati appelli da parte dell’Ordine degli Psicologi, insieme al Garante dei detenuti, per aumentare il numero delle ore di lavoro degli psicologi nelle carceri, palesemente insufficienti per garantire un ascolto ed un sostegno efficace, si constata una riduzione ulteriore dell’orario di lavoro e, con essa, si raffigura ancora una pesante sottovalutazione dell’importanza dello psicologo, in un contesto di detenzione divenuto sempre più complesso. Gli psicologi lamentano il rischio sociale legato alla sottovalutazione dell’importanza del lavoro psicologico nelle carceri, la condizione di precarietà ex articolo 80 O.P. che non ha consentito loro l’accesso al Sistema Sanitario Nazionale, il mancato riconoscimento delle loro funzioni e competenze negli istituti penitenziari, la continua riduzione dell’orario di lavoro e l’impossibilità di svolgere funzioni che contribuiscono alla sicurezza riducendo le tensioni nelle carceri e contenendo il rischio di recidiva. Lo svilimento del ruolo dello psicologo nelle carceri e la riduzione delle risorse destinate alla Sanità penitenziaria sono la conseguenza di una nuova concezione di sicurezza, non più intesa come prevenzione del rischio e reintegrazione del detenuto nella società, ma come negazione della soggettività attraverso l’etichettamento e l’esclusione, fattori che alimentano la criminalità piuttosto che garantire la sicurezza. Questi consulenti concorrono alla valutazione della pericolosità sociale dei detenuti richiesta dalla Magistratura per la concessione delle pene alternative alla detenzione e al difficile compito - reso obbligatorio anche da recenti leggi per autori di reati ad alto allarme sociale - di restituire alla società civile persone consapevoli delle ragioni del danno arrecato e garantire alla collettività la correttezza dei propri comportamenti. Ad oggi, la condizione dello psicologo penitenziario è quella di chi da 30 anni lavora con un rapporto precario e atipico, definito di consulenza, ma che di fatto ha le caratteristiche di un rapporto continuativo-subordinato, per l’utilizzo da parte del Ministero della Giustizia della sua competenza senza riconoscerne la natura e la specificità. Non meno grave l’assenza di assistenza sanitaria di natura psicologica ai detenuti (tranne i tossicodipendenti, seguiti attraverso il Ser.T.) conseguente all’esclusione formale degli psicologi dalla Sanità penitenziaria, come non avviene nella realtà della pratica professionale. Ciò appare paradossale, in un momento in cui le condizioni di vita in carcere per il sovraffollamento e la riduzione di prospettive future legate all’inasprimento del sistema penale hanno determinato l’aumento del disagio psichico e dei suicidi. L’ascolto e l’attenzione alla persona sono oggi sostituiti dall’uso massiccio di psicofarmaci. La Società italiana di Psicologia penitenziaria ha di recente evidenziato come la legge e il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena siano divenuti sempre più inapplicabili per carenza di professionalità, sia specifiche (criminologi ed educatori hanno poche ore), sia aspecifiche, come per il personale di Polizia penitenziaria che, investito anch’esso dalla legge di compiti di osservazione e trattamento, ha difficoltà a garantire persino la sola peculiare funzione di sicurezza. La pena, se non è accompagnata da un trattamento penitenziario che canalizzi in modo costruttivo le energie e da un lavoro psicologico capace di facilitare la revisione critica, la consapevolezza e la riparazione del danno arrecato, può sortire un effetto opposto a quello previsto dalla Costituzione. Suicidi e aumento della recidiva sono l’inevitabile conseguenza della disattenzione verso il trattamento in carcere, che si va traducendo in un sempre maggiore allarme sociale e in insicurezza per la collettività. L’esperienza della riforma penitenziaria del 1975, dalla sua approvazione, è stata positiva, contribuendo a creare all’interno degli istituti penitenziari un clima di maggiore vivibilità e una minore conflittualità rispetto al passato. La normativa penitenziaria, tuttavia, non ha trovato facile attuazione: da un lato, si giudica superata la riforma e si predica il ritorno a una pena retributiva; dall’altro, se ne denuncia la parziale applicazione richiedendosi la rimodulazione del trattamento progressivo attraverso le misure della liberazione condizionale prima, e della semilibertà dopo, unico criterio rispondente alla finalità rieducativa della pena. Sardegna: sovraffollamento, l’emergenza è finita di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 1 giugno 2014 "Attualmente noi abbiamo una popolazione detenuta largamente al di sotto della capienza e siamo considerati a livello nazionale una sorta di laboratorio, nel senso che la Sardegna di oggi è quello che presumibilmente sarà il sistema penitenziario italiano nei prossimi anni. Perché la Sardegna in questi anni si è dotata di nuovi istituti, ha rinnovato il suo patrimonio edilizio, ha avuto un considerevole incremento del personale, negli ultimi due anni e mezzo siamo riusciti a riportare in Sardegna quasi seicento poliziotti sardi che svolgevano servizio in altre Regioni, e abbiamo anche il minor tasso di recidiva fra i detenuti che vengono scarcerati dai nostri istituti. Vale a dire che i detenuti che scontano la pena in Sardegna, non incorrono in nuovi reati". Gianfranco De Gesu è orgoglioso dei risultati raggiunti. Pronto a lasciare l’isola dopo meno di tre anni passati al vertice del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Trasferito a Roma, alla direzione generale dell’Ufficio beni e servizi del Dap, De Gesu approfitta della festa del corpo di polizia penitenziaria, giovedì scorso nella Colonia di Mamone, per salutare la Sardegna. "La prima regione in Italia ad aver conseguito il risultato di non avere detenuti sotto i tre metri quadrati" sottolinea davanti agli "eroi silenziosi", così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito gli agenti della penitenziaria. De Gesu parla a tutti loro, al pubblico riunito a pochi passi dalla chiesetta del carcere. Picchetto d’onore, reparto a cavallo, familiari, autorità, cappellano. "Un dato assolutamente positivo" incalza, riferendosi alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013, causa Torreggiani e altri. Una sentenza che condanna lo Stato italiano per violazione degli standard minimi di vivibilità dei detenuti. Tre metri quadrati, lo spazio minimo necessario ai detenuti per garantire loro la dignità umana. "Da questo punto di vista, le carceri della Sardegna sono tutte in regola" ripete De Gesu, anche se negli istituti penitenziari sardi, vecchi e nuovi, restano ancora aperte parecchie ferite. Vedi la situazione degli ergastolani, spesso in quattro o cinque nella stessa cella. Vedi i bagni alla turca a fianco ai cucinotti. Vedi i banconi divisori nelle sale per i colloqui con i familiari. Vedi le grate e i punti luce. Vedi il più generale problema della cosiddetta territorializzazione della pena. Eppure la Sardegna è un passo avanti rispetto al resto d’Italia. Lo sottolinea più volte il provveditore della Sardegna, Gianfranco De Gesu, in attesa che nell’isola arrivi il suo successore nominato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, anche se nel frattempo a reggere l’ufficio è il vicario Silvio Di Gregorio. Situazione ballerina, come succede per i sei direttori delle dodici carceri sarde (i concorsi ordinari sono fermi a 17 anni fa!). Un direttore a scavalco per ogni due istituti. Gianfranco Pala è un esempio: direttore della Colonia penale di Mamone, ma anche del carcere cagliaritano di Buoncammino (ormai lì lì per essere trasferito alla nuovissima struttura di Uta). "Nella Casa di reclusione di Mamone - dice al microfono dopo la lettura dei vari messaggi arrivati per l’occasione da Roma -, a dicembre del 2010 avevamo 379 detenuti. Oggi i detenuti sono 141, il che vuol dire che l’emergenza sovraffollamento, di cui tanto si è parlato, è un problema superato". Pala legge anche alcuni dati statistici nazionali, a conferma di quanto appena detto. "Il sovraffollamento... a dicembre del 2013 avevamo 67.700 detenuti in tutta Italia, ad aprile del 2014, invece, siamo scesi a 59.683 detenuti". "Un problema superato brillantemente grazie alla polizia penitenziaria - mette in evidenza Gianfranco Pala, perché a lavorare in situazioni davvero difficili erano loro, gli agenti della polizia penitenziaria. Ma ormai è un problema che ci lasciamo alle spalle". Mamone: i giorni dell’alluvione "Il giorno dopo la tragica alluvione del novembre scorso, sono venuto qua per verificare di persona la situazione e vi confesso che ero preoccupato, tanto da pensare addirittura di voler evacuare le diramazioni dell’Annunziata e S’Alcra". L’emozione è chiara nelle parole del direttore della Colonia penale di Mamone, Gianfranco Pala. "Poi, invece, guardando in faccia il personale qui presente, la loro fiducia, il loro senso del dovere e lo spirito di sacrificio... nessuno di loro ha fatto un passo indietro, i detenuti sono rimasti sul posto, hanno avuto i servizi che devono avere, il personale ha fatto i cambi regolarmente affrontando situazioni difficili e anche pericolose. Come se non bastasse, il personale tutto si è adoperato anche per soccorrere i paesi vicini" sottolinea Pala guardando verso il sindaco di Lodè, Graziano Spanu, presente alla cerimonia di giovedì scorso, lui che subito dopo l’emergenza aveva scritto una lettera di ringraziamento ufficiale ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. "Tutti quelli che hanno avuto necessità - va avanti il direttore Pala, qui nella Colonia penale di Mamone hanno trovato un pasto caldo". "Anch’io era qui a Mamone il giorno dopo l’alluvione" sottoscrive il provveditore regionale Gianfranco De Gesu davanti ai tre comandanti, i vice commissari Ferdinando Stazzone, Massimo Carollo e Girolamo Frenda, arrivati appena quattro mesi fa nella casa di reclusione dell’altipiano di Onanì. "Anch’io - riprende parola De Gesu - ho visto come si è prodigato il personale in quella circostanza coprendosi di onore per il servizio che non solo è stato svolto nei confronti della popolazione detenuta, ma anche perché in quei giorni questa Casa di reclusione è stato un importante centro di coordinamento e di assistenza sul territorio. A dimostrazione di un legame fortissimo". Marche: scende il sovraffollamento nelle carceri, ma restano molti i nodi irrisolti www.cronachemaceratesi.it, 1 giugno 2014 Il Garante dei detenuti Italo Tanoni e il presidente dell’Assemblea legislativa, Vittoriano Solazzi, fanno il punto sulla situazione degli istituti di pena marchigiani venerdì 30 maggio 2014 - Ore 18:32 - caricamento letture Diminuiscono detenuti e migliora la situazione relativa all’affollamento, ma restano ancora numerose le criticità. Alla scadenza dell’anno di tempo che la Corte europea dei diritti umani ha dato all’Italia per migliorare il sistema carcerario, il Garante dei detenuti Italo Tanoni ha fatto il punto, insieme al presidente dell’Assemblea legislativa Vittoriano Solazzi, sulle condizioni nei sette istituti di pena della nostra regione. "Sono consapevole che il nostro Paese sta vivendo - ha sottolineato Solazzi - non poche difficoltà, soprattutto dal punto di vista economico e finanziario. Ma i nostri padri costituenti hanno inserito nella Costituzione principi oggi troppe volte violati. Mi riferisco ai diritti fondamentali dell’uomo. La pena non deve essere soltanto la sanzione per un atto delittuoso ma deve anche aiutare chi ha sbagliato a riabilitarsi. Purtroppo questo spesso non avviene". Nei penitenziari marchigiani si trovano oggi 974 detenuti rispetto ai 1.072 rinchiusi alla fine dell’anno scorso, e ai 1.225 del 2012. Inoltre le Marche sono scese nella classifica nazionale relativa al sovraffollamento dal 5° posto del 2012 al 10° posto del 2013, registrando una percentuale di affollamento del 26,6 per cento. "La situazione è migliorata molto - ha spiegato il Garante - per effetto delle leggi Severino e Cancellieri. Due normative che hanno apportato cambiamenti sostanziali con importanti riflessi nel sistema". Tanoni ha evidenziato le principali criticità e urgenze del pianeta carceri: dalla carenza di igiene degli ambienti, ai problemi legati alle attività lavorative, alla qualità della vita, alla medicina specialistica e all’odontoiatria; dalla mancanza in alcune realtà di personale direttivo, alla non idoneità di alcuni istituti di pena. Sottolineata anche la necessità di rifinanziamento del piano carceri, con Camerino in testa. Particolarmente sentito, inoltre, il problema della mancata applicazione del regolamento sull’abbattimento dei banconi nelle sale colloqui e dei decreti di espulsione. "Dare esecutività a questi provvedimenti - ha evidenziato Tanoni - avrebbe un forte impatto sulla popolazione carceraria". In un quadro generale ricco di problematiche ci sono anche punti di forza nella realtà carceraria marchigiana dove "è forte l’impegno finanziario e politico - ha affermato l’Ombudsman - della Regione" . "Le Regioni hanno il compito di sorvegliare, vigilare e segnalare - ha rimarcato Solazzi - alle autorità nazionali competenti le singole situazioni. Un ruolo che stiamo svolgendo appieno, grazie all’impegno del Garante e di tutto il suo ufficio e alla sensibilità dell’intera Assemblea legislativa che, all’unanimità, ha votato numerosi importanti documenti trasmessi poi alle autorità ministeriali". Lungo l’elenco di richieste al Governo nazionale dei garanti italiani, che in questi giorni si stanno mobilitando in tutt’Italia con incontri e conferenze. "Abbiamo inviato un documento comune al ministro Orlando - ha evidenziato Tanoni - chiedendo un incontro sui temi più importanti della realtà carceraria". Tra le urgenze, la nomina del Garante nazionale "che ci farebbe sentire - ha spiegato Tanoni - più tutelati". E ancora: "Riteniamo importante puntare sul semestre europeo a guida italiana per stabilire un diverso modello di giustizia e di detenzione, meno passivo e più responsabilizzante che permetta di ristabilire la dignità degli spazi e la qualità della vita dei luoghi di pena" Liguria: Albano (Pd) presenta interrogazione su Riordino della Polizia penitenziaria www.ivg.it, 1 giugno 2014 La senatrice Donatella Albano (Pd) ha depositato un’interrogazione urgente al Ministro Andrea Orlando per chiedere che nello Schema di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri inerente il "Regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia e riduzione degli Uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della giustizia", si tenga conto della difficile situazione delle carceri liguri. "Il riordino dell’Amministrazione penitenziaria avviato anni fa con altri Governi non è ancora concluso, in Liguria non è stato nominato nessun dirigente generale e la gestione è affidata al Provveditore della Toscana, presente in Liguria solo un giorno alla settimana, causando rallentamenti nel lavoro" spiega Albano che aggiunge: "inoltre mancano circa 300 agenti in organico: i poliziotti penitenziari presenti sono 951 a fronte di un organico previsto di 1264 unità, mentre non sono ancora stati nominati i direttori delle carceri di Savona e Imperia". "Gli Istituti carcerari liguri di Sanremo, Imperia, Savona, Genova Pontedecimo, Genova Marassi, Chiavari e La Spezia ospitano inoltre circa 1.650 detenuti a fronte di una capienza di circa mille persone, a questi vanno aggiunte le 1387 persone sottoposte a misure restrittive come l’affidamento ai servizi sociali e gli arresti domiciliari per questo ho chiesto al Ministro Orlando di tenere conto della situazione ligure nel piano di riorganizzazione del Ministero della giustizia e ristrutturazione dell’assetto organizzativo delle strutture penitenziarie e dei Provveditorati regionali" conclude Albano. Nicosia (En): chiude definitivamente il carcere, già gli ultimi detenuti che erano rimasti www.vivisicilia.it , 1 giugno 2014 Passate le elezioni e la caccia ad un pugno di voti, il carcere è stato chiuso ieri pomeriggio. Il provvedimento è stato disposto ed eseguito alla velocità della luce: a mezzogiorno è arrivato l’ordine di sfollamento, circa 2 ore dopo i pullman sui quali trasportare gli ultimi 30 detenuti rimasti che alle 15,30 erano già in partenza per le carceri alle quali sono stati destinati. Chiude il carcere come ha chiuso il tribunale ma non chiude quella politica inefficiente e incapace di portare risultati per una città ed un territorio destinati alla morte economica. Quella politica che, come purtroppo molti avevano previsto, 10 giorni prima delle elezioni aveva sospeso il provvedimento di chiusura delle 3 carceri per le quali era prevista la soppressione e cioè Nicosia, Mistretta e Modica, ma che non ha avuto neanche la decenza di aspettare una settimana dal risultato elettorale delle europee per sbloccare il provvedimento ed eseguirlo. Nicosia è un istituto penitenziario chiuso, anche se ieri pomeriggio, dinanzi ai pullman carichi di detenuti che partivano, qualcuno ancora sosteneva che "ci sono ancora speranze". La chiusura è certa e definitiva e a confermarlo la circostanza che tutti gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere nicosiano contestualmente allo sfollamento dei detenuti hanno ricevuto le assegnazioni delle nuove sedi alle quali sono stati già trasferiti. La maggior parte vanno a Enna, ma altri sono stati assegnati a Catania e ad altre strutture detentive. A Nicosia rimangono meno di una decina di detenuti in regime di "articolo 21". Si tratta di detenuti a bassa pericolosità che sono autorizzati ad esempio ad uscire dalla cinta muraria del carcere per attività lavorative e che verranno utilizzati per il trasloco di attrezzature, archivi e materiale che verrà destinato ad altri penitenziari. Operazioni che si protrarranno per una decina di giorni, ma il carcere ha chiuso comunque a mezzogiorno di ieri con l’ordine di sfollamento di tutti i detenuti ad eccezione di quelli da impiegare nel trasloco, che lasceranno il penitenziario insieme all’ultimo camion carico di suppellettili. Ieri nessuna nota sindacale, comunque annunciata per la giornata di oggi, né alcun proclama da parte dell’amministrazione comunale e del sindaco Sergio Malfitano, che aveva propagandato la sospensione del provvedimento come frutto delle iniziative da lui intraprese con il capo del Dap che avrebbe incontrato a Roma e con il ministro degli Interni Angelino Alfano. Nicosia da ieri perde un indotto di mezzo milione di euro all’anno per la sola presenza del carcere, cui aggiungere la perdita di popolazione per gli operatori che si trasferiranno. Una perdita che aggraverà la crisi economica che già vede la contrazione delle imprese e del commercio, con ulteriore perdita di valore degli immobili per i quali la giunta vuole però applicare per la Tasi l’aliquota massima. Iglesias (Ca): detenuto minaccia di suicidarsi, salvato da due agenti www.ildemocratico.com, 1 giugno 2014 Ha raggiunto l’ultimo piano del carcere e da lì ha minacciato di lanciarsi di sotto, da un’altezza di 15 metri: è accaduto ieri nel carcere di Iglesias, dove un detenuto è riuscito a salire sulla cabina dell’ascensore, lasciando intendere di volersi gettare nel vuoto. All’origine del gesto la mancata possibilità da parte dell’uomo, un italiano, di avere dei permessi e potersi recare nel paese di residenza. A rendere noto il fatto è il vicecoordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari, Stefano Pilleri: "Sono state ore estenuanti di mediazione e persuasione - ha spiegato Pilleri - il personale di Polizia Penitenziaria dell’istituto iglesiente ha dimostrato una spiccata professionalità e dopo diverse ore è riuscito a farlo desistere". Il detenuto, infatti, è salito sulla cabina ascensore in mattinata ed è sceso solo alle 16 dopo l’opera di persuasione degli agenti e dopo l’intervento anche dei vigili del fuoco. Roma: a Rebibbia Femminile progetto "informatica senza barriere" per le detenute Italpress, 1 giugno 2014 Si chiama "Informatica senza barriere" il progetto che sta consentendo a 27 detenute del carcere di Rebibbia Femminile di apprendere i rudimenti di base per l’utilizzo del computer e dei più importanti applicativi. L’iniziativa nasce da un Protocollo d’Intesa firmato nei mesi scorsi dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, dalla direzione del Carcere di Rebibbia Femminile e da Microsoft Italia che, gratuitamente, ha accettato di organizzare i corsi. "L’istruzione, la formazione professionale e il lavoro - ha detto il Garante presentando l’iniziativa - sono le basi fondamentali per consentire il completamento del percorso di recupero del detenuto previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. L’informatica, poi, è fondamentale perchè la conoscenza e l’uso del computer sono, ormai, diventati imprescindibili nel mondo del lavoro. Per tutti questi motivi è, stato per noi, un risultato straordinario aver coinvolto un’azienda di livello mondiale come Microsoft, che ha accettato con entusiasmo, e gratuitamente, di partecipare ad una iniziativa di elevato valore simbolico e sociale". Il corso è articolato in nove giornate di lavoro dedicate all’introduzione al computer e al sistema operativo Windows, all’uso della posta elettronica ed alla applicazione del pacchetto Office (Word base e avanzato, Excel, Power Point). Alle lezioni si sono iscritte 27 detenute che, a turno, stanno lavorando sulle 10 postazioni di computer che è stato possibile allestire all’interno del carcere. Cagliari: Riformatori; dopo chiusura il carcere di Buoncammino deve passare a Regione Ansa, 1 giugno 2014 "Il carcere di Buoncammino, subito dopo la chiusura definitiva, deve passare alla proprietà della Regione. Lo Statuto sardo parla chiaro: l’articolo 14 impone che la Regione, nell’ambito del suo territorio, succede nei beni e nei diritti patrimoniali dello Stato di natura immobiliare e in quelli demaniali", lo ha dichiarato il coordinatore regionale dei Riformatori, Michele Cossa. "Chiediamo al presidente della Regione - ha aggiunto Cossa - di attivarsi immediatamente per evitare che lo Stato continui a occupare una struttura che, come prevede lo Statuto che è legge costituzionale, deve obbligatoriamente essere consegnata alla Sardegna. Dunque, una volta chiuso, l’edificio che ospita Buoncammino deve necessariamente passare nelle mani della Regione. A quel punto potrà finalmente essere donato a Cagliari e a tutta la Sardegna. Una questione che riguarda moltissimi beni sparsi in tutta l’Isola e su cui la Giunta deve accendere i riflettori al più presto". Ragusa: due casi di scabbia tra i detenuti stranieri, è emergenza sanitaria nel carcere www.radiortm.it, 1 giugno 2014 Ancora emergenza all’interno della Casa circondariale di contrada Pendente a Ragusa. Dopo i suicidi sventati grazie all’intervento degli agenti di Polizia penitenziaria, adesso si profila un’emergenza sanitaria. Giovedì, infatti, sono stati segnalati due casi di scabbia. I detenuti sono stati prontamente isolati e messi in quarantena. Si tratta di due cittadini stranieri che lamentavano prurito e, dopo gli accertamenti sanitari, sono risultati affetti da scabbia. Si tratta di un’infezione contagiosa della pelle che si verifica tra gli esseri umani. È causata da un parassita molto piccolo e di solito non direttamente visibile che si inocula sotto la pelle del soggetto colpito, provocando un intenso prurito allergico. Roma: viaggio nel nido di Rebibbia tra i "detenuti" da zero a tre anni… d’età di Irene Buscemi e Maria Itri Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2014 Non hanno commesso un reato, non lavorano per l’amministrazione penitenziaria, non sono nemmeno volontari. Eppure trascorrono le loro giornate in carcere. Sono i circa sessanta bambini che stanno crescendo all’interno di cinque istituti di reclusione in Italia. Una realtà poco conosciuta: la legge 354 sull’ordinamento penitenziario permette alle detenute madri di piccoli dai 0 ai 3 anni di tenerli con sé. Si evita così il trauma del distacco, ma per i bambini il prezzo rimane altissimo. Nonostante la grande umanità degli operatori, i piccoli trascorrono i primi anni di vita in cella, in un ambiente opprimente, lontani dal padre e dai fratelli fino al compimento del terzo anno d’età. A quel punto dovranno lasciare la mamma. Il carcere di Rebibbia a Roma è uno degli istituti che ospita una sezione nido. In alcuni momenti è arrivato ad accogliere fino a diciannove bambini, molti di origine rom. "I nostri bambini stanno male. Non hanno colpe ma scontano una pena", ci hanno raccontato le ragazze recluse che abbiamo incontrato. Madri e figli trascorrono le giornate in un luogo protetto e separato dal resto del carcere, ma senza libertà. "Una vergogna, i casi sono così pochi che è inconcepibile che lo Stato non intervenga", spiega Gioia Passarelli, presidente di "A Roma Insieme". L’associazione si prende cura dei piccoli che vivono nel nido di Rebibbia da 22 anni, organizzando feste di compleanno, gite al mare e in montagna. Le detenute e i bambini potrebbero vivere in strutture diverse dal carcere, ad esempio in case famiglia. A Milano esiste l’Icam, l’Istituto a custodia attenuata, ma si tratta di un caso unico: per realizzare progetti simili in altre parti d’Italia non ci sono i fondi. Ragusa: si è tenuto il convegno "Carcere, lavoro e strategie di inclusione" La Sicilia, 1 giugno 2014 "Carcere, lavoro e strategie di inclusione". Questo il tema del convegno organizzato all’interno del progetto "Coltivare le libertà" attuato dal Consorzio "La Città solidale" di Ragusa e dalla cooperativa "L’arcolaio" di Siracusa. "Il progetto - spiega Aurelio Guccione, presidente de La Città solidale - prende le mosse da un altro percorso già svolto che si chiamava "Rompete le righe" ed era rivolto ai detenuti presenti a Modica e Ragusa. Da quel progetto nacque la cooperativa "Sprigioniamo sapori" che oggi opera dando lavoro a 6 detenuti e ad ulteriori 4 persone. Ciò dimostra che l’economia carceraria ha positive ricadute sul territorio, anche dal punto di vista occupazionale, oltre che di recupero e sicurezza sociale. Oggi le cooperative sociali che operano nelle strutture detentive sono capaci di conciliare i regolamenti delle carceri con le esigenze proprie del mondo del lavoro e di farlo in ottemperanza con la sostenibilità reale di una impresa. Forniamo un reddito ai detenuti, ma non solo a loro, e ridiamo dignità attraverso un percorso di avvicinamento alle regole a quelle persone che proprio dalle regole si erano allontanate". "Il tasso di disoccupazione nelle carceri - spiega Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto, che insegna un mestiere ai detenuti di Padova - è pari al 96%. La vera emergenza, dunque, non è il sovraffollamento, ma la mancanza di lavoro. Il progetto "Coltiviamo le libertà" ha coinvolto in Italia 9 carceri per un totale di 7.000 detenuti. A Ragusa sono 6 le persone coinvolte tra coloro che stanno scontando una pena. E tutto ciò avviene grazie al lavoro ed alla capacità di spesa e di gestione delle cooperative sociali del territorio. Da questa sono nate esperienze connesse che offrono lavoro per molte altre persone, non in detenzione, che prima erano disoccupate. Il lavoro nelle carceri è un investimento e non un costo. Per ogni milione di euro investito nel lavoro penitenziario se ne risparmiano 9 che potrebbero essere reinvestiti nel settore sociale". "Lavorare in carcere - conclude l’avvocato penalista Enrico Platania - equivale a riappropriarsi della legalità e ad un tornare nella legalità. Occorre però dire che le condizioni degli istituti di pena sono molto spesso pessime e inaccettabili. Non è possibile pensare di educare attraverso questo tipo di punizione". Milano: il killer camorrista Setola ferisce un agente, in isolamento nel carcere di Opera www.campanianotizie.com, 1 giugno 2014 Ha ferito alla testa un agente della penitenziaria del carcere di Milano-Opera, a causa degli occhiali da sole, così, ora, il killer dell’ala stragista del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola detto ‘o Cecato, è tornato in isolamento. Secondo quanto si apprende dall’avvocato di Setola, Alberto Martucci, il killer è venuto alle mani con la guardia carceraria dopo essersi accorto che dalla sua cella erano spariti gli occhiali da sole. Dalle parole si è passati alle mani e la guardia sarebbe finita in infermeria. In video conferenza, infatti, quel giorno, Setola si è presentato senza occhiali scuri e l’episodio non è passato inosservato. Il killer, infatti, da tempo lamenta problemi di vista (maculopatia a un occhio) e in più occasioni ha chiesto di essere sottoposto a specifici esami che poi ha però rifiutato. "Con l’isolamento - dice l’avvocato Martucci, che ha confermato l’episodio - a Setola viene negata, tra l’altro, la l’ora d’aria, la tv e la radio". Tempio Pausania: "Prison Fellowship Italia" presenta risultati Progetto Sicomoro www.agensir.it, 1 giugno 2014 L'Amministrazione penitenziaria della Casa di reclusione di Tempio Pausania e l’Associazione Prison Fellowship Italia (Pfit) presentano gli obiettivi raggiunti a conclusione del Progetto Sicomoro, svoltosi presso la Casa di reclusione di Tempio Pausania, venerdì 6 giugno, presso la Sala conferenze del Carcere. Il Progetto Sicomoro, un programma già sperimentato con successo dalla Prison Fellowship International (Organizzazione statunitense che opera attraverso il recupero e la riqualificazione dei detenuti, oltre che con l’evangelizzazione all’interno delle carceri) prevede 7 incontri all’interno delle mura di un carcere tra detenuti e vittime di reati analoghi, con l’obiettivo di favorire una riconciliazione e la riumanizzazione degli uni e degli altri. Con la presentazione dei risultati e la condivisione di testimonianze dei detenuti e delle vittime coinvolte nel Progetto, si intende sottolineare l’importanza delle misure alternative e il ruolo della giustizia riparativa nell’ambito del sistema penale e penitenziario. Interverranno alla conferenza stampa Marcella Reni, presidente Prison Fellowship Italia onlus, Carla Ciavarella, direttore della Casa di reclusione di Tempio Pausania; i detenuti, le vittime e i familiari, coinvolti nel Progetto. Sarà presente, inoltre, il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Sardegna. Cassano Ionio (Cs): attesa la visita di Papa Francesco, incontrerà malati e detenuti Avvenire, 1 giugno 2014 "Sarà un giorno di gioia, ma soprattutto un evento di Chiesa". Lo ha scritto monsignor Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Ionio e segretario generale della Cei, che ha diffuso il programma della visita del Papa, prevista per il 21 giugno prossimo. "Il Santo Padre - ha aggiunto Galantino - verrà per incontrare la comunità di credenti che testimonia il Signore Risorto in un territorio che sente forte il bisogno di essere confermato nella fede e recuperato ad una vita degna di essere vissuta. Un impegno che ci chiama tutti, nessuno escluso, a fare appieno la nostra parte, seminando coerenza, speranza, giustizia, solidarietà e fede vissuta nella quotidianità, incarnando in maniera coerente il Vangelo". Ed ecco il programma. In mattinata, alle ore 9, il Papa sarà al carcere di Castrovillari, per la visita ai detenuti, al personale penitenziario ed alle loro famiglie. Ad accoglierlo ci sarà monsignor Galantino, insieme al quale successivamente, in elicottero, raggiungerà Cassano, intorno alle 11. Dopo una breve cerimonia di accoglienza, avrà luogo il trasferimento al vicino centro di cure palliative per malati terminali "San Giuseppe Moscati". Quindi, alle 12, attraversando in auto via Salvo D’Acquisto, via Giovanni Amendola e corso Garibaldi, l’arrivo in Cattedrale, per un incontro riservato al clero diocesano. Alle 13 il Papa sarà al seminario diocesano "Giovanni Paolo I", dove offrirà il pranzo ai poveri della Caritas diocesana ed ai giovani della comunità terapeutica "Saman". Nel pomeriggio, alle 14.30, altra visita, questa volta agli anziani dell’istituto "Casa Serena". Quindi la ripartenza in auto alla volta di Sibari, per la Santa Messa che sarà celebrata nella spianata dell’area ex Insud, con inizio fissato alle 16.30. Prima, però, passaggio tra i diversi settori a bordo della papamobile, per stringere in un unico, affettuoso abbraccio le decine di migliaia di fedeli che hanno già richiesto il pass, gratuito, attraverso il sito www.papafrancescoacassano.it e l’infopoint attivo in piazza sant’Eusebio. Alle 18, infine, la partenza per Roma, con l’elicottero che decollerà dalla piazzola attrezzata alle spalle del palco, librandosi in volo sulla Piana di Sibari. Cinema: "Nisida. Storie maledette di ragazzi a rischio", plauso dell’associazione Casmu www.campanianotizie.com, 1 giugno 2014 L’Associazione aversana Casmu, presieduta da Mario Guida, plaude al regista Enzo Acri per l’uscita del suo docufilm "Nisida. Storie maledette di ragazzi a rischio". La pellicola, girata a Napoli tra Porta Capuana, Forcella e Borgo Orefici, annovera attori poco più che ventenni e provenienti da "zone difficili". Il carcere di Nisida è stato ricreato invece in una masseria di San Pietro a Patierno per i due mesi di ciak. La trama verte sulla vita quotidiana della prigione di Nisida ed i tentativi di riscatto dei ragazzi. Tra questi, spiccano due amici, arrestati non ancora maggiorenni per una rapina terminata con l’omicidio di un ragazzo, descritta in flashback. La madre del giovane ucciso, Maria Cacciapuoti (interpretata da Marinella Ferrandino), piuttosto che inveire contro gli assassini del figlio, dedica la sua vita al recupero di adolescenti a rischio, proprio nel carcere di Nisida. Una madre coraggio che lancia un messaggio di amore e perdono. Mario Guida, da sempre impegnato con i suoi spettacoli per sostenere persone in difficoltà, emarginate, sofferenti e che vivono dolori particolari tra cui i detenuti specialmente quelli dell’Opg di Aversa, in questo film coglie molte tematiche a lui care e per le quali si spende quotidianamente. A tal proposito sottolinea: "Ritengo doveroso esprimere il mio sincero plauso per l’uscita di questo straordinario film, arrivato già oltreoceano e premiato dalla San Francisco University. Conosco molti attori impegnati in questo lavoro cinematografico tra cui l’attore, autore, regista teatrale Antonio Letizia che interpreta il Sacerdote guida spirituale del carcere minorile di Nisida. Questi attori sono persone che con me girano tutto l’anno le carceri della Campania per portare attraverso l’arte un messaggio di speranza. E questo racconto vuole proprio sostenere l’impegno di noi tutti, ovvero quelli che credono nella possibilità di una Napoli che sogna un futuro migliore. Anche se è descritta una storia violenta, nel film c’è un messaggio centrale molto cristiano. Una madre che accompagna al dolore il senso cristiano del perdono e del mettersi al servizio del recupero di questi ragazzi. Un messaggio alto per l’intera società che da un lato premia il lavoro del terzo settore, dall’altro lancia un monito a chi ci governa affinché consideri che dal basso c’è una vivacità che non sempre viene colta da chi ha il dovere di farlo. Dunque complimenti al regista Enzo Acri e all’intero cast di attori e tecnici per questa grande testimonianza cinematografica che a breve presenteremo anche nella nostra provincia casertana affinché si crei un momento di riflessione e approfondimento su queste tematiche delicate e complesse ma anche di grande profondità spirituale". Immigrazione: è nato in Italia, ma è trattenuto in un Cie… di Luigi Manconi e Valentina Brinis L’Unità, 1 giugno 2014 È la storia di V.B. nato ad Aversa. Non ha documenti necessari per dimostrarlo e richiedere la cittadinanza Prigioniero nel Centro di Ponte Galeria in attesa di rimpatrio. Ma dove? Era esattamente un anno fa quando Alma Shalabayeva veniva rimpatriata in Kazakistan. Dal Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria era stata trasferita, in tempi insolitamente celeri per quel posto, all’aeroporto di Ciampino da cui sarebbe partita con un volo diretto organizzato dal governo kazako. Una procedura decisamente anomala rispetto a quella adottata per le donne e gli uomini che sono trattenuti nei cinque Cie d’Italia attualmente funzionanti. Capita raramente, infatti, che nelle tre ore successive all’udienza di convalida davanti al giudice di Pace, la persona sia rimpatriata. Nella stragrande maggioranza dei casi la realtà è un’altra: il rimpatrio non è detto che avvenga, e se avviene non è immediato. I dati, raccolti tra gli altri da Medici per i diritti umani, dimostrano che meno dell’1% degli immigrati irregolari viene effettivamente riportato nel proprio paese. E tra quelli trattenuti nei Cie, ciò corrisponde a una percentuale del 46%. Per tutti, il fattore di maggiore difficoltà è rappresentato dall’attesa del rilascio per l’una o per l’altra destinazione: o verso l’espulsione o verso il rilascio di un documento regolare. Dall’udienza di convalida passerà almeno un mese prima dell’incontro successivo (l’udienza di proroga) con il giudice di pace. In quei lunghissimi trenta giorni la persona, qualunque sia la sua situazione, sarà costretta nel centro di identificazione e di espulsione. Le condizioni in cui vertono questi centri sono al di sotto di standard di vita dignitosi. Nell’ultimo anno di Cie si è parlato molto facendo emergere le innumerevoli contraddizioni e criticità che segnano questi posti. Al ministero dell’Interno sono state presentate delle proposte che mirano al loro superamento, argomentato in particolare con l’inefficacia rispetto allo scopo previsto (e basti riflettere su quel dato prima accennato a proposito del tasso dei rimpatri). Si può dire che a questo punto il trattenimento perda qualunque significato e qualunque utilità. In quel periodo di tempo, infatti, le persone dovrebbero essere identificate ma anche questo non è detto che accada a causa delle difficoltà di comunicazione con i consolati e le ambasciate che dovrebbero occuparsi del riconoscimento dei connazionali. A volte capita che anche di fronte al mancato riconoscimento da parte delle autorità consolari, il trattenimento non venga meno. È questo il caso di un uomo, V.B., trattenuto da cinque mesi al Cie di Ponte Galeria la cui ambasciata di riferimento ha risposto negativamente sul suo riconoscimento. A complicare la situazione è la città di nascita: Aversa, in Italia. È uno dei tanti italiani di fatto che però non hanno i documenti necessari a dimostrarlo e richiedere la cittadinanza. Si tratta di una persona per la quale è difficile immaginare un rimpatrio perché, in quale paese potrebbe tornare? Nel frattempo, però, il giudice di pace competente a decidere della sua libertà, non consente il rilascio in quanto "è in attesa del giudizio del tribunale sulla pericolosità sociale", una procedura prevista per chi esce dal carcere. E così, dopo la detenzione, il trattenimento. E poi, chissà. È questa totale incognita sul proprio destino che ha determinato la decisione di V.B. di far sentire la sua voce. Da quarantott’ore chiede di poter parlare con la questura della sua situazione. A lui si sono aggiunti molti altri trattenuti, che lamentano la scarsa attenzione nei loro confronti da parte del Giudice di Pace. È l’ennesima conferma del fallimento di un’istituzione, il Cie appunto, che prima ancora di essere iniqua appare totalmente insensata. Droghe: Giovannini (pm a Bologna), con nuove norme spacciatori di strada in libertà Ansa, 1 giugno 2014 Con le nuove norme sulle droghe leggere e sullo spaccio di lieve entità, per molti spacciatori "abituali" si apriranno le porte delle carceri italiane, con conseguenze preoccupanti. È l’opinione del procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, interpellato per un parere sugli effetti della recente sentenza della Corte Costituzionale che ha fatto rivivere la vecchia legge droga, di una recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che consente di abbassare le pene inflitte e passate in giudicato a chi è stato condannato e di una recente legge che ha modificato la pena per lo "spaccio lieve". "Noi operatori del settore penale - ha detto Giovannini, coordinatore del gruppo del pool criminalità comune e che da anni segue l’argomento - viviamo in questa materia un momento di oggettiva difficoltà interpretativa. Le sentenze e leggi ovviamente vanno applicate, tuttavia non si possono sottacere le loro conseguenze sul piano pratico". E cioè che, "in estrema sintesi, quando la recente legge entrerà in vigore, essendo stata abbassata la pena massima per il cosiddetto "spaccio lieve", in pratica quello su strada, che tanto affligge tutte le città, Bologna compresa, non sarà più possibile applicare il carcere, al massimo si potrà mettere il soggetto agli arresti domiciliari". Sudan: Meriam sarà liberata… anche senza l’aiuto italiano di Giulia Merlo Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2014 Revoca della condanna a morte per la donna accusata di aver rinnegato la propria religione dopo le pressioni di Regno Unito e Usa. Meriam sarà liberata tra pochi giorni". Ad annunciarlo è il sotto segretario agli Esteri sudanese Abdullahi Alzareg, che ha aggiunto che il Sudan garantisce la libertà religiosa e protegge le donne. Gli avvocati, però, sono prudenti e parlano di una scarcerazione "non prima di due settimane". Meriam Ibrahim, la dottoressa sudanese di 27 anni condannata all’impiccagione per aver commesso apostasia, ha partorito pochi giorni fa la sua secondogenita, Maya, ed è detenuta da febbraio nel carcere di Khartum, con l’altro figlioletto di 20 mesi. Oltre che per aver abbandonato la fede musulmana professata dal padre, la donna è stata anche condannata a 100 frustate per adulterio, perché il tribunale ha considerato illegittimo il suo matrimonio con un cristiano. La donna si è sempre dichiarata innocente, perché cresciuta come cristiana dalla madre, e si è rifiutata di convertirsi all’Islam. L’impiccagione era stata differita di due anni per dare il tempo alla donna di svezzare la bambina, mentre la fustigazione era prevista tra pochi giorni. I suoi legali avevano già presentato ricorso alla Corte d’Appello di Khartum e per giorni si era parlato anche di un nuovo processo che escludesse la condanna a morte, smentito dalle autorità. Il marito Daniel Wani, un cristiano del Sud Sudan con passaporto americano, ha denunciato tre giorni fa in un’intervista alla Bbc le precarie condizioni di salute di Meriam, tenuta sempre ammanettata e spesso senza ricevere cibo, e la sua preoccupazione per i due figli piccoli, costretti in carcere ed esposti alle malattie. L’uomo aveva provato a chiedere i bambini in custodia, ma il tribunale glielo aveva negato. "Mio figlio Martin non ride più - ha detto l’uomo - vivevamo tranquilli fino a che il fratello di Meriam non l’ha accusata di apostasia per impossessarsi di un negozio di sua proprietà". L’uomo ha anche detto che la moglie è stata fatta partorire nella propria cella, rimanendo incatenata. L’incubo di questa famiglia, però, oggi sembra stia per finire. La notizia della liberazione della donna arriva dopo che il caso aveva indignato l’opinione pubblica internazionale, suscitando la reazione dei governi occidentali. A rispondere all’appello del marito di Meriam è stato soprattutto il primo ministro inglese David Cameron, che sulle pagine del Times ha affermato di aver telefonato direttamente al premier sudanese, chiedendo che la sentenza di morte venisse annullata. "Il trattamento riservato a Meriam è barbaro e non trova posto nel mondo di oggi", ha commentato. Sulla vicenda è intervenuto anche l’ex premier Tony Blair, che ha definito il caso "una brutale e disgustosa distorsione della fede". Immediatamente dopo che la notizia della condanna era stata resa pubblica, il 15 maggio scorso, si erano mosse ufficialmente le ambasciate di Regno Unito, Usa, Canada e Olanda attraverso un comunicato congiunto per chiedere la liberazione della condannata. Anche negli Stati Uniti l’opinione pubblica si è mobilitata, anche grazie ai tweet dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton e dell’attrice Mia Farrow, che avevano denunciato "l’abominio" della condanna a morte. Anche Amnesty International, numerose associazioni internazionali e l’arcivescovo di Canterbury, leader spirituale della Chiesa Anglicana, si erano mosse in favore di Meriam. Anche i media stranieri hanno dato ampio spazio alla storia, a cui il Times ha anche dedicato tutta la prima pagina qualche giorno fa, ricostruendo . In Italia, invece, la condanna di Meriam non ha ricevuto la stessa eco mediatica. A farsi portavoce della richiesta di salvezza è stato il quotidiano cattolico Avvenire, che ha lanciato la petizione "Meriam deve vivere". Alla campagna aveva subito aderito anche il premier Matteo Renzi, con un tweet in cui assicurava che l’Italia si sarebbe fatta sentire nelle sedi diplomatiche. Sulla vicenda era intervenuta anche il ministro degli Esteri Federica Mogherini, dalla sua trasferta a New York per una visita al segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon. Poi più nulla, nemmeno quando si è saputo che la donna ha partorito e che la bambina è stata lasciata in carcere. L’unico personaggio pubblico che in questi giorni ha lanciato un appello per Meriam è stata l’ex ballerina Carla Fracci, che ha chiesto al papa di intercedere per la salvezza della giovane madre cristiana. Afghanistan: libero dopo 5 anni soldato Usa, scambio con 5 detenuti Guantánamo La Presse, 1 giugno 2014 L’unico soldato statunitense detenuto in Afghanistan è libero dopo quasi cinque anni di prigionia. Lo hanno reso noto funzionari Usa spiegando che i talebani hanno accettato di rilasciare il sergente Bowe Bergdahl in cambio della liberazione di cinque detenuti afghani dal carcere statunitense di Guantánamo Bay, a Cuba. Il trasferimento è avvenuto dopo una settimana di intense trattative con la mediazione del governo del Qatar, che prenderà in custodia gli afghani. In una dichiarazione, il presidente Usa Barack Obama ha detto che il recupero di Bergdahl testimonia "l’impegno dell’America per non lasciare nessun uomo o donna in divisa sul campo di battaglia". Bergdahl, 28enne di Hailey, Idaho, era stato catturato dai talebani il 30 giugno 2009. Diverse decine di forze speciali americane sono state coinvolte nello scambio, che ha avuto luogo questa sera nella parte orientale dell’Afghanistan, vicino al confine pakistano. Bergdahl è in buone condizioni e in grado di camminare. Dovrebbe essere trasferito a Bagram Air Field, la principale base americana in Afghanistan, e poi negli Stati Uniti. Obama: Bergdahl non è mai stato dimenticato Il presidente Usa Barack Obama ha annunciato il rilascio dell'unico soldato americano tenuto prigioniero in Afghanistan, il sergente Bowe Bergdahl. In una conferenza stampa ieri al Giardino delle Rose della Casa Bianca, accompagnato dai genitori del soldato Bob e Joni Bergdahl, ha detto che Bowe "non è mai stato dimenticato" durante i cinque anni di prigionia. Bergdahl è stato liberato in cambio del rilascio di 5 afghani detenuti al carcere di Guantanamo Bay, a Cuba. Gli Stati Uniti "non lasciano mai i propri uomini e le proprie donne in uniforme indietro" ha affermato ancora Obama, sottolineando che ora la priorità è assicurarsi che il militare riceva le cure necessarie. Il padre del sergente ha ringraziato tutti coloro che hanno partecipato al recupero di suo figlio, sottolinendo che per lui è complicato esprimere a parole i suoi sentimenti. Nord Corea: missionario sudcoreano condannato ai lavori forzati a vita La Presse, 1 giugno 2014 Un missionario battista sudcoreano è stato condannato ai lavori forzati a vita in Corea del Nord con l’accusa di spionaggio e di avere provato ad allestire chiese sotterranee. Lo riferiscono i media nordcoreani, precisando che il processo si è svolto venerdì e che l’uomo ha ammesso di avere commesso atti religiosi anti-Corea del nord e "che ledono la dignità" della leadership suprema del Paese, in allusione alla famiglia di Kim Jong Un al potere. Secondo la versione fornita da Pyongyang, l’uomo era stato arrestato a ottobre dopo essere entrato nel Paese dalla Cina.