Un progetto tra le scuole e il carcere per una idea di giustizia più mite e più umana Il Mattino di Padova, 16 giugno 2014 Accompagnare seimila studenti di Padova e di tante altre città del Veneto a un confronto serio, duro, profondo con le persone detenute, nelle classi e poi anche in carcere, parlare di come si può arrivare a commettere un reato, capire che potrebbe capitare a tutti di trovarsi "dall’altra parte", da quella dei "cattivi": è questo il percorso che Ristretti Orizzonti, la rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova, propone da dieci anni ormai alle scuole, con il sostegno del Comune di Padova. Quest’anno, all’incontro di chiusura del progetto, alla presenza di centinaia di studenti, c’era Benedetta Tobagi, scrittrice, figlia di Walter Tobagi, giornalista ucciso da un commando di terroristi nel 1980. È lei che ha scelto il testo, che pubblichiamo oggi, vincitore del concorso di scrittura collegato al progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", ed è lei che ha indicato agli studenti una idea di giustizia più mite e più umana: "Ci sono persone come me che si portano dietro da una vita una cosa irrimediabile: aver perso il padre in una maniera violenta è come crescere e non avere un braccio. Gli uomini hanno fatto tanta strada nei secoli ma certe emozioni forti restano, per cui sì, la rabbia la conosco, voglio dire che anche dentro di me c’è come questa bestiaccia nera, questo desiderio di vendicarmi, di essere arrabbiata, di farla pagare, ma poi è come se improvvisamente in una stanza buia ci fosse una luce e tu vedi e capisci che questa cosa non serve a niente, questa persona che ti ha fatto del male è già distrutta, non devi distruggerla, è già distrutta. E poi cominci a pensare a dopo e una delle cose più liberatorie è la sensazione che le macerie possono servire a qualcosa, ma a qualcosa di buono, nel senso che poi ci sia qualcuno che ha fatto qualcosa di male e non lo faccia più, che ci sia la possibilità che una persona esce di galera e che invece di rapinare o commettere altri reati scelga di non farlo più". Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono di Massimiliano Bortolotto, Liceo Galilei di Caselle di Selvazzano Stavo ancora finendo di mangiare il gelato con i miei amici quando mia madre mi telefonò agitata, ordinandomi di tornare a casa il più in fretta possibile. Essendo in bici, dovetti pedalare con tutta la mia energia per arrivare in poco tempo. Durante il tragitto di ritorno la mia mente era assalita da una miriade di pensieri: mio padre si era sentito male? Avevo dimenticato qualcosa da fare di importante? Mia madre aveva bisogno di aiuto? Le domande si sovrapponevano in un crescendo d’ansia, ma a nessuna riuscivo a dare una risposta. Maledissi mia madre perché non mi aveva dato più dettagli. Arrivato, avevo già sulla punta della lingua una lunga lista di domande da porre, ma mi morirono tutte in una volta sulle labbra quando vidi il primo poliziotto davanti al cancello del condominio. Molte famiglie discutevano animatamente nell’ingresso di casa, chi piangeva, chi gridava in preda alla collera, chi restava in un silenzio inquietante. Abbandonai la bici e iniziai a correre verso casa mia: ormai pensavo solo al peggio. La porta era già aperta, mia madre era seduta sul divano con il volto rosso come quello di chi ha pianto per diversi minuti, mio padre parlava con un agente che prendeva appunti. Non mi servì chiedere nulla, perché ricevetti una risposta prima di poter formulare qualunque domanda "Sono entrati i ladri... non hanno portato via molto, ma…", non diedi il tempo di finire la frase perché corsi in camera dei miei e subito notai i cassetti in cui erano contenuti i gioielli, rovesciati, con tutto il loro contenuto sparso sul letto. Sul momento non riuscii a capire cosa ci fosse e cosa no, ma mi allontanai rapidamente e andai in camera mia. La porta finestra era sfondata - probabilmente erano entrati da lì - e trovai la stessa situazione caotica: i cassetti rovesciati, degli oggetti per terra, la sedia capovolta e lo specchio in frantumi. Tornando in taverna notai che l’acquario era stato distrutto a bastonate, i pesci morti giacevano sul pavimento e l’acqua era schizzata ovunque, bagnando il tappeto regalatoci dai miei nonni. Chiunque fosse entrato non si era limitato a rubare, aveva anche compiuto, per qualche gusto sadico e crudele, diversi atti di vandalismo. Mi sedetti su uno sgabello. Inizialmente, ero sollevato dal fatto che nessuno si fosse sentito male, ma ora ero confuso e depresso. In un pomeriggio molti ricordi erano stati distrutti da un Vandalo che per divertimento aveva spazzato via tutto. Non credevo di essere così attaccato alle mie cose. Più tardi scoprii che erano stati rubati una collana di mia madre, l’orologio nuovo di mio padre, il braccialetto d’oro che avevo ricevuto per il mio battesimo, i soldi tenuti da parte per le vacanze di Natale e qualche videogioco. Quest’ultimo dettaglio mi lasciò abbastanza sorpreso, non pensavo che qualcuno avrebbe mai rubato dei videogiochi. Oltre al valore intrinseco degli oggetti che ci avevano rubato, i ricordi legati ad essi mi rendevano davvero difficile accettare il fatto che non li avrei mai più rivisti. Tutto ciò che era stato distrutto mi faceva sentire svuotato, come se ora mancasse una parte di me. Il fatto che uno sconosciuto, un Vandalo, avesse violato i miei ricordi, le mie proprietà, mi faceva sentire a disagio. Il Vandalo aveva rubato e distrutto anche in altri appartamenti, ma mi importava poco. Desideravo vederlo in prigione, chiuso a chiave in una squallida stanza per molto tempo. Lo odiavo. Lo vedevo in chiunque incontrassi per la strada. Desideravo vederlo soffrire, così come avevo sofferto io per causa sua. Circa un mese dopo venne trovato e arrestato. Decisi di andarlo a trovare in carcere, credevo che se mi fossi sfogato con lui, una parte della mia collera sarebbe diminuita. Una volta arrivato da lui però fu tutto diverso. Credevo che in volto gli avrei trovato un sorriso sadico, noncurante e superiore, mi aspettavo di trovare dell’orgoglio per il suo gesto nei suoi occhi. Credevo di aver trovato le parole giuste, durante questo mese, e pensavo che finalmente ero pronto ad un confronto con il tanto odiato ladro. Mi sbagliavo. Era un ragazzo della mia età, forse un po’ più grande. Tutto il suo essere emanava un senso di inadeguatezza e di vergogna, come se si sentisse a disagio di trovarsi lì, con me. Non sapevo cosa dire, mi sedetti e rimasi a guardarlo, così come lui guardò me. Passato un po’ di tempo decisi che dovevo essere io il primo a parlare. "Mi dispiace", esordii "ho pensato male di te, per tutto questo tempo, e ho desiderato che ti accadessero cose orribili, scusa". Lui non rispose e non alzò lo sguardo, dopo poco decisi di andarmene. Non riesco a spiegarmi come un semplice sguardo abbia potuto farmi cambiare idea così rapidamente, non so come sia possibile che alla fine io mi sia sentito in colpa al posto suo. Inizialmente pensavo che il Vandalo - anzi, quel ragazzo - mi avrebbe ricordato il dolore che avevo provato quel giorno. Invece sentivo solo un forte bisogno di perdonarlo, forse perché per quanto odiassi il suo gesto, mi dispiaceva vederlo ridotto così, senza qualcuno che lo perdonasse, e ho pensato che lui non si sarebbe mai potuto perdonare. Forse mi sono venute in mente molte frasi sul perdono e sulla riconciliazione che avevo sempre sentito e che però non ero mai riuscito ad applicare. In particolare una, di Karol Wojtyla: "Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono". La frase detta da Giovanni Paolo II in occasione della giornata mondiale della pace del 2002, mi era sembrata l’emblema di che cos’è davvero la giustizia. Non l’odio, non la rabbia, tanto meno la vendetta, ma la capacità di perdonare. Non ero stato in grado di capirlo fintanto che non l’avevo messa in pratica, ma ora credo finalmente di essere nel giusto. Giorni dopo, il ragazzo si scusò con me del suo terribile gesto e mi ringraziò per averlo perdonato. Sono davvero felice di aver cambiato idea. Giustizia: sovraffollamento delle carceri, Italia ancora sotto esame Tm News, 16 giugno 2014 Entro un anno Consiglio d’Europa valuterà ancora progressi fatti. Accovacciati su letti a castello nelle strette celle del penitenziario di Regina Coeli a Roma, i 900 detenuti come Giuseppe che vivono in questa struttura ottocentesca costruita per ospitarne non più di 643 persone, testimoniano che l’Italia ha ancora molta strada da fare per alleviare il cronico problema di sovraffollamento: "Immaginate cos’è una convivenza assolutamente anormale in termini di spazi e di mix, umano e disumano che sia, che si può creare in una cella". Un anno fa l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni in cui erano costretti sette detenuti. Ora il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha riconosciuto che sono stati ottenuti "significativi risultati", ma i penitenziari italiani restano sotto esame anche perché, come sottolinea Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, sono ancora 15.000 i detenuti in eccesso rispetto all’attuale capacità delle prigioni italiane: "È un peccato che ci sia voluta una condanna della Corte europea per fare quello che a noi sembrava ovvio si dovesse fare da molto tempo a questa parte, però è un bene che finalmente questo accada per cui noi speriamo che la pressione e l’attenzione delle organizzazioni internazionali sul sistema penitenziario italiano resti alta". Con una popolazione penitenziaria fatta in gran parte da condannati per reati legati alle droghe, si stima che la recente sentenza della Corte di Cassazione sulla legge Fini-Giovanardi possa far uscire dal carcere 10.000 persone. Intanto, grazie a maggiori sconti di pena e affidamenti ai servizi sociali il numero dei reclusi è comunque già sceso dai circa 68.000 del 2012 ai 59.000 di oggi. Restano però situazioni estreme come quella di Poggioreale a Napoli, dove 2.000 galeotti sono compressi in uno spazio progettato per 1.400. Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa riprenderà in esame la questione "al più tardi nella sua riunione del giugno 2015" e farà un esame approfondito sui progressi fatti. Giustizia: per sette italiani su dieci "la corruzione coinvolge tutto il sistema politico" di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 16 giugno 2014 Gli scandali delle tangenti dell’Expo di Milano e del Mose di Venezia rappresentano un banco di prova molto importante per Matteo Renzi, non tanto per le responsabilità riguardo ai fatti di cui si parla, che non vengono certamente imputate a lui o al suo governo, quanto piuttosto perché la domanda di palingenesi morale è largamente diffusa nell’opinione pubblica e la corruzione rappresenta simbolicamente la massima espressione della distanza tra cittadini e politica. Le inchieste in corso riportano l’Italia indietro nel tempo e tutto ciò potrebbe vanificare quanto sta cercando di fare il governo per modernizzare e trasformare il Paese, facendo prevalere la disillusione e la rassegnazione. L’onestà della politica, tanto reclamata dai cittadini, è una sorta di precondizione all’altrettanto reclamato cambiamento del Paese. L’opinione pubblica sta reagendo alle vicende in questione con molta severità e cupo pessimismo: il 70% ritiene che si tratti di fatti che riguardano indistintamente tutto il sistema politico, mentre solo il 26% pensa che le responsabilità siano individuali e non sia coinvolta tutta la politica. È un’opinione che prevale nettamente tra tutti gli elettori, anche se tra quelli del Pd la quota di coloro che circoscrivono le responsabilità a casi singoli sale al 44%. E la prospettiva non appare rosea: solo un terzo degli italiani (35%) pensa che in futuro ci saranno meno scandali grazie al ricambio generazionale e all’impegno dei politici più giovani; al contrario, la maggioranza assoluta (61%) ritiene che la piaga della corruzione non potrà essere debellata e i giovani politici in futuro si faranno corrompere. A questo riguardo i più ottimisti risultano gli elettori del Pd (il 56% risulta fiducioso e il 41% è rassegnato), mentre stupisce che quelli del M5s siano i più scettici (76% di pessimisti), tenuto conto della straordinaria presenza di giovani politici nelle file del movimento e soprattutto della battaglia per la trasparenza e l’onestà portata avanti con convinzione e intransigenza. In generale gli atteggiamenti più negativi sono maggiormente diffusi tra gli uomini, nelle classi centrali d’età (tra 30 e 60 anni), tra le persone più istruite e tra gli imprenditori, i dirigenti e i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti) che risultano più direttamente a conoscenza delle vicende delle imprese e delle gare pubbliche. A più di vent’anni da Tangentopoli la storia si ripete o, forse, non è mai cambiata e la corruzione suscita indignazione e livore, a maggior ragione in un periodo come quello attuale, nel quale le risorse sono scarse, i cittadini sono chiamati a fare grandi sacrifici, la pressione fiscale rimane elevata, si tagliano le spese e i servizi ma i costi di importanti opere pubbliche lievitano, senza che alcuno ne risponda. La corruzione contribuisce a minare il concetto stesso di contratto sociale e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, soprattutto quando sono coinvolti non solo politici e imprenditori ma anche magistrati e esponenti della Guardia di finanza. In queste circostanze la tendenza alla generalizzazione è largamente diffusa e non tutti hanno le cognizioni per distinguere le responsabilità, districarsi tra le argomentazioni o attribuire le cause all’inefficacia delle norme, dei controlli o delle sanzioni. Che il denaro destinato al sindaco Orsoni sia stato utilizzato dal diretto interessato per fini personali o dal partito che ne ha sostenuto la candidatura, al comune cittadino poco importa. Come poco importa all’opinione pubblica discernere tra il politico che chiede denaro ad un imprenditore a fin di bene (per risanare un’azienda e salvare posti di lavoro, per esempio) o per arricchirsi. Qualunque sia il fine, l’imprenditore prima o poi ti presenterà il conto e chiederà qualcosa in cambio. Di fronte alla riprovazione sociale e all’esasperazione dei cittadini non è facile fare dei distinguo. Oggi appare più premiante, in termini di consenso, essere giustizialisti anziché garantisti. La decisione di nominare il magistrato Raffaele Cantone a Commissario straordinario dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, conferendogli poteri speciali, tra cui il commissariamento ad hoc di appalti sospetti, indica la volontà del governo di reagire all’ennesimo scandalo delle tangenti, per porre un argine al fenomeno ma anche per non deludere l’aspettativa del cambiamento suscitata dal nuovo esecutivo, non dissipare il credito di cui gode e non sprecare la lieve ripresa di fiducia degli ultimi mesi. Ma tutto ciò non basta, dato che Renzi oltre ad essere premier è anche neosegretario del Pd, nelle cui file vi sono esponenti coinvolti nei fatti in questione e la distinzione tra vecchio e nuovo partito, per quanto utile nell’immediato per mettere in chiaro le responsabilità, alla lunga potrebbe perdere di efficacia. Pertanto non può permettersi di abbassare la guardia, perché bonificare la politica ha una rilevanza decisamente superiore a quella attribuita alle riforme, che pure sono molto importanti per l’opinione pubblica. Giustizia: la corruzione in Italia, ecco perché il sistema non è riformabile di Alberto Burgio Il Manifesto, 16 giugno 2014 Dall’Expo al Mose. Sul "popolo" che rifugge come la peste il politico utopista, ma è sempre pronto a giustificare o a comprendere. Imperversano le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà. La realtà superando la fantasia, si attendono sorprese. È un dejà vu, il gioco di società che disegna il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova modernizzazione. Se al Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria dello Stato? Non accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del ministro Trabucchi? Si assiste perplessi alla marea provando repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché. Perché, tra i paesi europei "avanzati", la corruzione abbia eletto domicilio proprio in Italia. E perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di radicamento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef. E questo ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della "prima Repubblica", un’intera genia di malfattori. La quale invece non ha soltanto continuato imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la corruzione è sistema? Al punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, anti sistemica onestà? C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una scoperta dell’ultim’ora. La corruzione è un reato contro la collettività, una ferita ai suoi beni materiali e immateriali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo immemore - già dall’eclissi dell’Impero romano - una società pulviscolare, di privati e di particolari. Nella quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche sparuta cerchia intellettuale. Si capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne benefici. Se per un verso (in pubblico) si storce il naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune. Si faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo. Controllare è indispensabile, ma non ci si illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del filibustiere. Ma proprio in una società siffatta la politica è il cuore del problema. Non perché sia necessariamente l’epicentro della corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni. Anche se non va di moda dirlo, la corruzione sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico. Il cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla politica soltanto - in primis dal legislatore - può muovere il riscatto. E perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo asseconda, ne deriva inevitabile un disastro. Il rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto. Anche da questo punto di vista la storia italiana offre un quadro desolante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti. E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori pubblici. Ciò nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere. In un paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia. E un pur breve tempo - tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso - in cui le cose parvero andare altrimenti. Si può leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo paese. Per non dire al suo carattere nazionale. Gramsci lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una "riforma intellettuale e morale" per l’avvento di una democrazia integrale. E davvero, fino agli anni Settanta, i comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come impegno volto a far prevalere un’idea. Come una professione in senso weberiano - un "saper fare" fatto di competenza, disinteresse e senso di responsabilità - consacrata alla trasformazione della società. Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate. In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto. Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine. Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando - avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione - scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era acquisito. Sta di fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione. Per questo non regge all’implosione della "prima Repubblica" né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita. Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete della nuova modernità italiota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi - scontate le debite, ininfluenti eccezioni - il politico è un tecnico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza. Un esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del ruolo a funzioni esecutive o esornative. Sindaci, presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano. Capi di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati. Sullo sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di modificarlo. Questo significa essere corrotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni per intrattenere rapporti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre irreprensibili desiderata. Se è così, non c’è da stupirsi che dopo Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio. Né vi è ragione di confidare - retoriche a parte - in un’autoriforma del sistema o in una spallata rigeneratrice. Non che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante. Ma contraddizioni serie attraversano il "popolo". Il risentimento qualunquistico del "così fan tutti" è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il "popolo" per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i corrotti. Per l’altro, è incline a comprendere e a giustificare. A concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo. Anche per questo il "popolo" rifugge come la peste il politico utopista e visionario, l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco mascalzoni. Giustizia: inchiesta morte Federico Perna, gli avvocati contro la richiesta di archiviazione di Gaia Bozza www.fanpage.it, 16 giugno 2014 Il caso del giovane di Pomezia morto nel carcere di Poggioreale in circostanze non chiare rischia di finire tra quelli irrisolti. Il pm chiede l’archiviazione dell’inchiesta. Gli avvocati: "Ci è stato impedito di portare avanti le indagini". Per il caso di Federico Perna, il giovane morto nel carcere di Poggioreale in circostanze non chiare l’8 Novembre 2013, la strada è tutta in salita: c’è il pericolo che l’inchiesta, aperta dalla Procura di Napoli dopo il decesso del giovane, vada a finire nel buco nero dei casi irrisolti, nella moltitudine delle morti in carcere senza verità. Il pm Luigi Musto, infatti, ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta. Gli avvocati Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo non ci stanno: "Faremo opposizione, spiega Autieri. In questa inchiesta non sono state prese in considerazione troppe cose". Per loro, è innanzi tutto il diritto alle indagini difensive. "Non siamo stati autorizzati ad espletare le indagini, che sono diritto costituzionale - continua. Il nostro diritto di difesa è stato ridotto a zero. Non ci è stata data la possibilità di effettuare le indagini, di fatto. Non ci sono state date le autorizzazioni per ascoltare i testimoni in carcere, registrazioni video, non ci è stata data copia delle cartelle cliniche; nemmeno gli oggetti personali di Perna ci sono stati dati. A nessuna richiesta è stata data risposta, ad eccezione dell’elenco dei detenuti che sono stati con Federico a Poggioreale e del nome del pm incaricato. Per me tutti tendiamo alla verità, ma abbiamo diritto anche noi ad essere messi in condizioni di effettuare le indagini: è anticostituzionale. In tutta questa vicenda manca la nostra versione". Poi c’è il nodo dei testimoni, molti di essi in carcere: "Il dubbio percosse persiste, perché noi abbiamo una corrispondenza che dice questo, ma le circostanze che vogliamo approfondire in sede di colloquio con persone che dicono che le cose sono andate in un certo modo sono subordinate alle autorizzazioni. C’è bisogno di approfondire nelle sedi opportune, dovrebbero autorizzarci a verificare l’attendibilità dei racconti che ci sono pervenuti per lettera, ma ad oggi le autorizzazioni per i colloqui con i detenuti che avevano condiviso la detenzione con Perna non ci sono arrivate". Per Autieri, la realtà non è quella che porta all’archiviazione e la morte di Perna non è una morte naturale: c’è almeno una concausa. "L’archiviazione richiesta dal pm è per insufficienza di prove - spiega - Lui ha sempre focalizzato l’attenzione sull’evento morte, che la perizia disposta dalla Procura attribuisce a un problema cardiaco. Ma la sua era una situazione gravemente compromessa dal punto di vista psicologico e patologico, non veniva curato come doveva e come dall’interno di diverse carceri veniva invece sollecitato, il suo stato non era compatibile con il regime carcerario, come è stato ampiamente dimostrato, veniva imbottito di qualsiasi cosa, in dosi fuori dal normale". Per questo, i due avvocati hanno presentato dei quesiti supplementari: "Abbiamo chiesto se Perna era compatibile con il carcere, e ci è stato risposto che non era questo oggetto dell’indagine. Poi abbiamo chiesto se non sarebbe stato il caso di approfondire in sede opportuna i problemi cardiaci del ragazzo: nemmeno questo quesito è stato preso in considerazione". Ora arriva la richiesta di archiviazione: "Noi invece chiediamo - ribatte l’avvocato - che non venga accolta la richiesta di archiviazione e che venga aperta un’ulteriore indagine sulla base di quello che diremo al giudice per le indagini preliminari, nella nostra opposizione". La madre: una notizia molto amara Una notizia che ha lasciato senza fiato la madre di Federico, Nobila Scafuro, che dopo la morte del figlio aveva deciso di pubblicare le foto del corpo di Perna: "Sono rimasta a bocca aperta. Ci sono anche delle lettere, che mi sono arrivate da un detenuto e nelle quali vengono descritti dei maltrattamenti. Ci sono dei testimoni, non si può archiviare un caso di questo genere. Ma certo non mi arrendo, io voglio ancora credere nella giustizia, voglio sapere come va a finire. Ma le foto di mio figlio le hanno viste tutti: come si fa a dire che è una morte naturale, quella? Cos’ha di naturale un corpo conciato così? Sono veramente senza parole, io ho passato questi mesi in grande ansia perché voglio giustizia per mio figlio, non posso pensare che tutto finirà nel calderone dei casi non risolti". Perna era gravemente ammalato, ed è morto in carcere La vicenda è quanto mai controversa. Federico Perna era molto ammalato. Era tossicodipendente Federico, e nonostante avesse epatite C, cirrosi epatica, leucopenia (carenza di difese immunitarie), un disturbo borderline di personalità e lamentasse problemi cardiaci, è stato trasferito di carcere in carcere fino a Poggioreale: tutte le istanze, tre, per riportarlo a casa sono state rigettate. E nemmeno i suoi problemi cardiaci, denunciano gli avvocati, "sono mai stati approfonditi". Fino alla morte, avvenuta l’8 novembre 2013: secondo la perizia disposta dalla Procura di Napoli si tratta di un attacco ischemico, senza segni di percosse. Ma i legali nutrono da subito diversi dubbi, su entrambi gli aspetti. Sull’aspetto della cura delle patologie e della compatibilità del ragazzo con il carcere e delle percosse. Federico lo scriveva spesso, anche nelle lettere alla madre, che voleva tornare a casa per curarsi: "Mamma, mi stanno ammazzando, portami a casa" è scritto nelle lettere, ed era diventato una specie di mantra, racconta la madre Nobila. I dubbi si fanno largo, però, anche sull’aspetto delle presunte percosse, che gli avvocati Autieri e Cannizzo non escludono. L’ombra la gettano diversi elementi: Federico Perna aveva denunciato di essere stato picchiato già quando era detenuto nel carcere di Viterbo, denunce pubblicate da Fanpage.it. E poi diverse incongruenze erano state evidenziate dai legali: i vestiti insanguinati, un braccio con una grossa ustione e una grande ecchimosi sul palmo della mano sinistra, oltre alle tante macchie sul corpo e sul viso e a una quantità di sangue dietro la testa, visibile dalle foto fatte scattare dalla madre dopo l’autopsia disposta dalla Procura. Sulla vicenda di Federico sono state presentate anche diverse interrogazioni parlamentari: quella di Salvatore Micillo, deputato del Movimento 5 Stelle, ha ottenuto che l’allora ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, disponesse una indagine interna. Un testimone: violenza e maltrattamenti su di lui Fanpage.it ha pubblicato, recentemente, stralci da un racconto epistolare di un detenuto. Una testimonianza la cui veridicità andrebbe verificata, ma che muove accuse pesanti: "Ho visto un episodio di violenza su suo figlio, e questa guardia che è l’ispettore non se ne era accorto". Ma non è tutto. La lettera continua tra riferimenti alla vita quotidiana e alle settimane precedenti la morte di Perna, avvenuta l’8 Novembre scorso. Prima di finire al padiglione Avellino, dove avrebbe trascorso le ultime settimane, Federico - si legge - sarebbe stato al padiglione Salerno con altri quattro detenuti in cella, "e uno di loro era di colore che faceva il piantone agli altri quattro (…) ma le assicuro che Federico era autonomo e non aveva bisogno del piantone lui personalmente, perché mangiava e si lavava da solo, comunque che non stava tanto bene ci posso pure credere, infatti parecchie volte è svenuto". E poi si legge di 20-25 accessi all’infermeria. "Puntualmente lo riportavano in cella dicendo che non aveva niente - continua la lettera - e quando lui faceva casino che gli faceva male qualcosa, gli davano i medicinali per farlo addormentare e così stavano tranquilli, infatti Federico da quando stava là giù al transito, stava sempre imbottito di medicinali e a stento a volte si reggeva in piedi". Giustizia: caso di Elisabetta Ballarin; l’abbraccio e il perdono del padre della sua vittima di Gabriele Moroni Il Giorno, 16 giugno 2014 Si siedono a un tavolo, l’uomo stringe fra le sue le mani della ragazza, le parla a lungo, sommessamente, fitto fitto, gli occhi negli occhi. Elisabetta Ballarin e Silvio Pezzotta. Un padre e la giovane donna condannata a 23 anni per concorso nell’omicidio di sua figlia. La ragazza vestita di bianco, lunghi capelli sciolti, lo sguardo dolce da miope protetto dalle lenti a contatto, non fa niente per trattenere emozione e commozione. Anche l’uomo alto e massiccio accanto a lei è commosso mentre le consegna la borsa di studio della Confcooperative di Varese e una targa ricordo. Si siedono a un tavolo, l’uomo stringe fra le sue le mani della ragazza, le parla a lungo, sommessamente, fitto fitto, gli occhi negli occhi. Elisabetta Ballarin e Silvio Pezzotta. Un padre e la giovane donna condannata a 23 anni per concorso nell’omicidio di sua figlia. "Ho capito - sussurra Elisabetta - il valore della vita. Voglio essere la testimone che certe cose non devono avvenire, perché la vita è troppo importate". Silvio Pezzotta, grande cuore generoso, sportivo appassionato che adora il ciclismo e Fausto Coppi, si porta dentro una ferita lacerante, ma ha sempre dichiarato di credere nel ravvedimento di Elisabetta, nel suo risollevarsi dopo avere attraversato tanto orrore. "Sono contento - dice il padre di Mariangela - di averlo fatto. Ritengo che quando una ragazza intraprende una nuova vita deve essere incoraggiata, spronata. Lo faccio nel nome di mia figlia. Sotto molti aspetti la rivedo in Elisabetta. Forse, se le cose non fossero andate in un certo modo, anche Elisabetta sarebbe finita come Mariangela, uccisa. Oggi Elisabetta è completamente diversa da quella di una volta. Quando avrà pagato il suo conto con la giustizia, per lei la mia porta sarà sempre aperta". La Confcooperative Varese ha intitolato la borsa di studio a Cristina Lonardoni, la madre di Elisabetta Ballarin, morta lo scorso gennaio in un tragico incidente domestico. Il monossido di carbonio, sprigionato da una caldaia difettosa, aveva invaso la sua abitazione a Cuirone, frazione di Vergiate. Cristina Lonardoni era un’associata, faceva parte del consiglio provinciale di Confcooperative. Si era anche iscritta a scienze della comunicazione all’università di Varese, aveva sostenuto alcuni esami con esito brillante. Ogni anno, il 9 giugno, giorno del compleanno di Cristina, la borsa di studio verrà assegnata a un cooperatore o al figlio di un cooperatore o a uno studente che ha discusso una tesi di laurea sulla coooperazione. La prima borsa di duemila euro va a Elisabetta Ballarin, oggi 29 anni, che sta compiendo il suo percorso di studi a Brescia ed è impegnata nello stage in un quotidiano cittadino. Cerimonia breve, intensa, negli uffici di viale Aguggiari. "Ci chiedevamo - dice Nicola Abalsamo, direttore di Confcooperative Varese - cosa potevamo fare per la figlia di Cristina. Abbiamo pensato alla borsa di studio. Quando Silvio Pezzotta ci ha risposto "Bene, lo faccio volentieri", abbiamo capito di avere fatto la scelta giusta. Elisabetta ha già compiuto un lungo percorso. Ha chiesto la grazia. Adesso tocca al presidente Napolitano". Giustizia: Ass. vittime Georgofili; Dell’Utri venga fare volontario in biblioteca Accademia Ansa, 16 giugno 2014 "Marcello dell’Utri durante la sua detenzione ambirebbe a fare il bibliotecario. Non crediamo sia un problema, potrebbe sempre farlo presso l’Accademia dei Georgofili a Firenze, dove si è già recato altre volte nella sua vita per consultare testi importantissimi che sicuramente vanno ben conservati". Lo scrive il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, rispetto al desiderio espresso da Dell’Utri di potersi occupare della biblioteca del carcere di Parma dove è detenuto. Anche se, evidenzia la stessa nota, "il problema è un altro, Marcello dell’Utri continua di sicuro in queste ore a percepire per legge il suo vitalizio da senatore, anche se il Presidente del Senato ha avviato un iter per eliminare i vitalizi ai senatori condannati". "Nel contempo - invece - le nostre vittime, quelle della strage di via dei Georgofili, quelle che abitavano di fronte all’Accademia, e durante l’attentato del 27 Maggio 1993 sono rimaste invalide all’80% della capacità lavorativa, non solo non possono più lavorare e fare i bibliotecari, ma non percepiscono neppure i giusti vitalizi e le pensioni a cui hanno diritto". Per Maggiani Chelli "non c’è più tempo per indugi filosofici e grandi proclami per placare gli animi esacerbati a vantaggio del quieto vivere di chi governa senza muovere un dito per fare giustizia. Sono i fatti che contano e questo Governo verso le vittime di mafia terroristica eversiva del 27 maggio 1993, per ora è solo in obbligo, mentre continua a favorire chi con la mafia ha avuto a che spartire". Basilicata: 600.000 euro per campagna antincendio, impegnati anche i detenuti di Renato Sansone www.meteoweb.eu, 16 giugno 2014 La pineta costiera della zona jonica, le aree naturalistiche, il Parco del Pollino e l’Appennino Lucano: sono le principali aree della Basilicata da difendere dall’attacco degli incendiari e dai comportamenti colposi dell’uomo. Parte in Basilicata la lotta al fuoco che si avvarrà soprattutto di due elicotteri, sulla base di una convenzione tra la Regione ed il Corpo forestale dello Stato che è diventata operativa già da oggi. Il massimo ente territoriale ha stanziato 600mila euro per la campagna di antincendio boschivo. La Forestale mette a disposizione due elicotteri AB 412, particolarmente adatti per le attività operative, che saranno ubicati di stanza in Basilicata per tutta la durata della campagna estiva. Le basi di schieramento sono una per provincia: una è a Pisticci - Tinchi (Matera) presso l’eliporto Madonna delle Grazie, dal 15 giugno al 15 settembre 2014, e l’altra presso l’aviosuperficie di Grumento Nova (Potenza) per il periodo che va dal primo luglio al 30 settembre. Oltre all’attività di spegnimento incendi e di bonifica con getti dall’alto, in collaborazione con le forze a terra, l’impiego degli aeromobili prevede anche operazioni di protezione civile, il monitoraggio del territorio e il trasporto di personale addetto alle operazioni Aib o di soccorso. Gli AB 412 sono dotati del sistema di navigazione elettronica cartografica per il riconoscimento delle zone colpite da incendio tramite coordinate geografiche (tipo Gps). Nel periodo complessivo che va dal 15 giugno al 30 settembre sono previste 300 ore di volo. Anche i detenuti saranno impegnati in attività antincendio sul versante calabrese del Parco nazionale del Pollino, l’area protetta che ricade nella Basilicata meridionale e nella Calabria settentrionale e dell’Alto Jonio. È quanto prevede un protocollo di intesa che è stato sottoscritto a Castrovillari dall’Ente Parco, dalla direzione della casa circondariale di Castrovillari e dall’associazione di volontariato Anas (Associazione nazionale di Azione Sociale). L’intesa prevede l’utilizzo di detenuti dell’istituto penitenziario di Castrovillari per l’attività di avvistamento degli incendi boschivi. I detenuti impegnati saranno 5 per volta, nella turnazione complessiva il numero arriva a 20. Saranno attivi in località "Petrosa", zona sensibile dal punto di vista naturalistico, da proteggere dal fuoco. L’iniziativa è stata definita "unica in Italia". Oltre a contrastare il fenomeno degli incendi boschivi, è frutto di un accordo stipulato tra Ministeri della Giustizia e dell’Ambiente che si impegnano a promuovere l’utilizzo delle persone in esecuzione di pena al fine di favorire la reintegrazione sociale dei condannati e diminuire il rischio di recidiva. Biella: cominciato il trasferimento dal carcere di via dei Tigli dei mafiosi più pericolosi La Stampa, 16 giugno 2014 Condannati per l’omicidio Rostagno e per la strage di via Georgofili di Firenze: lasceranno spazio ad altri detenuti. È cominciato il trasferimento, dal carcere di Biella, di alcuni tra i più pericolosi mafiosi condannati anche all’ergastolo. Tra questi uno tra Vincenzo Virga e Vito Mazzara, incarcerati a vita per il delitto Rostagno e altri ritenuti responsabili della strage di via Georgofili a Firenze. La loro partenza libererà spazio che sarà occupato dall’arrivo di altri detenuti comuni. Intanto toccherà alla Digos, dopo una fase iniziale che ha visto impegnati gli agenti della polizia penitenziaria, fare chiarezza sull’episodio accaduto sabato scorso all’esterno del carcere di Biella: una bomba carta, lanciata ed esplosa tra i due muri esterni della casa circondariale. La vicenda: nel tardo pomeriggio un’auto si accosta alla cancellata nord del penitenziario, quella che dà verso Città Studi. A bordo qualcuno che deve conoscere molto bene i dispositivi di sicurezza, in particolare come sono piazzate le telecamere che infatti non registreranno la targa del mezzo. Impressi sui nastri, ora in mano agli investigatori, però le sagome di due uomini mascherati che lanciano contro la barriera una bomba carta. L’esplosione, che non provoca danni, richiama comunque l’attenzione delle guardie impegnate a presidiare l’ingresso di via dei Tigli dove, negli stessi istanti, si sta svolgendo una manifestazione, con una decina di persone, a sostegno di un detenuto anarchico. Questo farebbe supporre, un collegamento tra la bomba carta e il gruppo di persone che protestavano a sostegno dei giovani sotto inchiesta per le proteste contro gli sfratti dagli edifici occupati a Torino tra il settembre 2012 e questo gennaio. Milano: i detenuti di Bollate al lavoro per recuperare il restauro di Villa Burba a Rho Il Giorno, 16 giugno 2014 Detenuti del carcere di Bollate al lavoro per il restauro conservativo della fontana di Villa Burba a Rho. Il Comune ha affidato alla Cooperativa Sociale Trasgressione, che da decenni opera nelle carceri milanesi con progetti di recupero e reinserimento sociale, i lavori per il maquillage della fontana centrale collocata nel cortile d’ingresso della storica Villa Burba. Le opere di restauro, seguite dall’architetto Vittorina Bertuolo, dureranno fino al 30 luglio e riguarderanno anche una statua in pietra calcarea situata all’interno del giardino della villa. L’importo complessivo dei lavori è di 22.000 euro. "Con l’avvio di questo progetto l’amministrazione comunale persegue sia la finalità più evidente del recupero e della pulitura della fontana e della statua, sia quella del reinserimento sociale e lavorativo di persone che hanno dovuto scontare una pena in istituti carcerari - dichiara l’assessore al verde pubblico e arredo urbano, Gianluigi Forloni. La cooperativa sociale Trasgressione grazie all’integrazione di differenti competenze e professionalità, garantisce un percorso di reinserimento sociale permanente, per prevenire ricadute e offre opportunità lavorative come il restauro della fontana di Villa Burba". Arezzo: riprendetemi in carcere, ho fame... ottiene i domiciliari ma non riesce a vivere La Nazione, 16 giugno 2014 Trentenne riceve 150 euro al mese dal padre ma non riesce a vivere. Così si è fatto avanti per riprendere la sua cella: ma non l’hanno preso. Ha suonato il campanello come fosse stato un condominio: e invece era un carcere. Un carcere dal quale non voleva scappare ma dove voleva tornare. Stanco di starsene a casa. È la notizia alla rovescia che vede protagonista un napoletano di 33 anni, che a fine maggio aveva lasciato la sua cella del San Benedetto dopo un periodo di detenzione per reati di droga, per concludere la condanna ai domiciliari a Foiano. Venerdì ha suonato il campanello. "Non voglio più vivere in questo modo - ha detto agli agenti di custodia - non ho da mangiare, rivoglio la mia cella, almeno potrò mangiare tre volte al giorno". Ma gli hanno spiegato che non funziona così, che non è un condominio e che non avrebbero potuto incarcerarlo. "Mio padre mi spedisce 150 euro al mese, con una cifra del genere non si vive". L’uomo, essendo agli arresti domiciliari, poteva abbandonare la sua abitazione soltanto due ore nei giorni concordati per fare la spesa o altre commissioni. Tolmezzo (Ud): Pino Roveredo e il laboratorio con i detenuti "la scrittura ci può salvare" Messaggero Veneto, 16 giugno 2014 In carcere l’atto di scrivere diventa la componente fondamentale per non perdere la comunicazione col mondo. Con questo spirito è stato presentato ieri nella Casa Circondariale di Tolmezzo il reading nato dal primo laboratorio di scrittura creativa "Lettere dal carcere per i detenuti", guidato da Pino Roveredo, già vincitore del Campiello nel 2005. Il percorso è stato curato dal Css Teatro stabile di innovazione "Come molti di voi sanno sono stato in carcere quando ero molto giovane e mi sono salvato grazie alla Cultura". ha detto Roveredo. Trani: detenuto evade dalla semilibertà per andare a trovare la moglie in ospedale www.radiobombo.com, 16 giugno 2014 "Un detenuto italiano ammesso alla semilibertà non ha fatto rientro martedì nelle carceri di Trani, dove era ristretto. Dopo un giorno di ricerca da parte della Polizia Penitenziaria è stato catturato il giorno dopo, l’11 giugno, giorno coincidente con il suo 34° compleanno". Ne dà notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che esprime "soddisfazione per la cattura e apprezzamento agli Agenti di Polizia Penitenziaria che hanno effettuato indagini, pedinamenti e arresto". "Il detenuto era impiegato nelle pulizie del cimitero di Trani ed aveva la moglie in ospedale - aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sappe, aggiungendo che - e il soggetto evaso era detenuto in espiazione definitiva con fine pena 27 agosto 2015". "I nostri poliziotti sono stati bravi a mettersi immediatamente sulle sue tracce e quindi riacciuffarlo. Ma questo è un evento che purtroppo si può verificare, anche se la percentuale dei detenuti ammessi a fruire di semilibertà o permessi all’esterno che non fa poi rientro è minima", "È del tutto evidente - aggiunge - che un detenuto ammesso a fruire di semilibertà che non rientra in carcere allunga ovviamente la sua permanenza nelle patrie galere. Ma la semilibertà è utile (e la stragrande maggioranza di chi ne fruisce ha un comportamento ineccepibile) proprio per creare le condizioni di un percorso trattamentale e rieducativo finalizzato a intessere rapporti con la famiglia. Anche scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Come, ad esempio, il lavoro di pubblica utilità per i soggetti sorpresi alla guida in stato di ebbrezza, che consistente in una prestazione di lavoro non retribuita a favore della collettività da svolgere in via prioritaria nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale: sono complessivamente circa 5mila persone". Venezia: oggi si tiene un convegno sul tema "Genitori in carcere e diritti dei minori" di Riccardo Petito Il Gazzettino, 16 giugno 2014 Confronto pubblico oggi all’hotel Ca Sagredo di Venezia. Istituzioni e associazioni coinvolti per tutelare gli affetti. Una tematica assai delicata: la dinamica del rapporto tra genitori e figli, quando i genitori devono scontare delle pene. Il convegno "Essere genitori in carcere: tra diritti degli adulti e diritti dei minori d’età", si terrà oggi a Venezia presso l’hotel Cà Sagre-do in campo Santa Sofia, in due sessioni. La prima sì aprirà alle 9.30 e illustrerà i cambiamenti che una legge, la 62/2012, ha messo in moto rispetto al passato. Nel pomeriggio, dalle 14.30, è prevista una Tavola rotonda. Il convegno, organizzato dall’Ufficio Protezione e Pubblica Tutela dei minori della Regione del Veneto (con la collaborazione del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Venezia e dell’Associazione "La Gabbianella e altri animali"), si propone quale momento di confronto: "Il mantenimento e la qualità dei legami affettivi tra i genitori detenuti e i loro figli - spiegano gli organizzatori - è questione complessa e dilemmatica, su cui da tempo il Pubblico Tutore dei minori del Veneto, nell’esercizio delle proprie competenze istituzionali di Garante dei diritti dei bambini e degli adolescenti, si sta confrontando anche con altri attori istituzionali e del privato sociale che operano nel territorio regionale". Nuova evidenza ha assunto la questione a seguito dell’attribuzione al Pubblico Tutore dei minori, in via temporanea, anche delle funzioni di Garante delle persone ristrette nella libertà personale (L.R. 37/2013). Saranno presentì rappresentanti di Istituzioni pubbliche ed esponenti dell’Autorità Giudiziaria, dell’Amministrazione penitenziaria, del privato sociale e delle professioni legali. Nuoro: i detenuti-attori raccontano se stessi alle istituzioni di Davide Fara Adnkronos, 16 giugno 2014 Teatro per il reinserimento. Teatro per il sociale. È finita in forma istituzionale lo spettacolo dei carcerati di Rebibbia a Nuoro, al Teatro Eliseo. Sul palco, oltre ai detenuti ed ex-detenuti e attori, anche i rappresentati delle istituzioni cittadine e regionali: il rettore dell’Università di Sassari, Attilio Mastino, il sindaco di Nuoro, Sandro Bianchi, il vescovo di Nuoro, Mosé Marcia. "La fine all’alba", della compagnia stabile Assai, scritto da Antonio Turco, regia di Francesco Cinquemani è qualcosa di diverso da uno spettacolo teatrale. La recita è un’occasione offerta ai detenuti per raccontare la drammatica condizione delle carceri e dei carcerati d’Italia. La prima compagnia di drammaturgia penitenziaria d’Italia, fondata nel 1982 da Antonio Turco, funzionario giuridico pedagogico presso la Casa di reclusione di Rebibbia, con alle spalle circa cento progetti all’attivo, è una di quelle scommesse che la direttrice della casa circondariale di Badu e Carros, Carla Ciavarella, ha sposato dallo scorso anno con il progetto "Carcere: diritto penitenziario dentro e fuori", realizzato in collaborazione con la Scuola forense di Nuoro. Nel corso dell’anno sono stati organizzati degli incontri di studio formativi rivolti agli avvocati nuoresi su temi inerenti l’esecuzione penale, il diritto penitenziario, il trattamento penitenziario in differenti circuiti e le buone prassi operative. La rappresentazione al Teatro Eliseo (seguita da un’altra nel carcere di Badu e Carros), è una tappa di un percorso d’inserimento per attuare misure di detenzione alternative (nella compagnia presenti anche due ergastolani). Il progetto rientra dunque in un percorso sociale di informazione ed avvicinamento al mondo di fuori che mira ad abbattere i gap di pregiudizi che ruotano intorno al sistema carcere sempre più numeroso anche nell’isola. "Si sbaglia, è vero - è stato detto dal palco - ma ci sono anche possibilità di recupero, di presa di coscienza degli errori fatti, di opportunità che il carcere può dare, e che è necessario per noi sfruttare appieno grazie all’aiuto, alla volontà di tutti". Cuba: a Guantánamo è nata una "Little America" all’ombra del carcere militare di Gina Di Meo Ansa, 16 giugno 2014 C’è la Cuba dell’embargo e c’è l’altra Cuba, quella che vive all’insegna della tipica opulenza americana. È la vita ordinaria di civili e militari di stanza a Guantánamo Bay, l’altra Cuba, quella che ospita la base navale, in gergo Gitmo. Circa 120 chilometri quadrati di superficie marina e terrestre che gli americani occupano dal 1903. In teoria Washington pagherebbe un affitto di poco più di 4mila dollari all’anno ma per protesta contro ciò che viene definita un’occupazione illegale il governo cubano non ne incassa un centesimo. Qui degli effetti dell’embargo non c’è traccia. Quando si mette piede a Guantánamo Bay è il mare cristallino dei Caraibi che dà il benvenuto. Un breve tratto di acqua in traghetto e si arriva alla base. All’ombra del carcere dove sono attualmente detenuti 149 terroristi o presunti tali c’è una Little America dove chi ci lavora vive la quotidianità statunitense. Fast food, campi da golf, un mega supermercato, una palestra appena rinnovata con le attrezzature più moderne e attività ricreative in abbondanza. A separarli dalla Cuba delle ristrettezza è la cosiddetta Cactus Curtain (cortina di cactus, ndr) la barriera di cactus, una sorta di muro di Berlino, costruita nel 1961 dalle truppe cubane per evitare che i cubani in fuga si rifugiassero negli Stati Uniti. Fu chiamata cortina di cactus in allusione alla Cortina di Ferro in Europa. Oggi la base non è del tutto preclusa ai cittadini cubani. Esistono due categorie ai quali è permesso soggiornarci, i "residenti speciali", ossia quelli che nel 1959 si rifiutarono di vivere sotto il regime di Fidel Castro. All’epoca il governo americano diede asilo a 380 di loro, ma attualmente ne rimangono solo 33. Poi ci sono gli "emigranti", ossia coloro che sono riusciti a oltrepassare la cortina di cactus e hanno trovato ospitalità nei centri di accoglienza. In attesa di essere trasferiti altrove, di solito in un paese dell’America Latina, occasionalmente vengono assunti per lavorare in qualche struttura della base. Nella base trovano "casa" quasi 5mila persone di cui 2.132 militari e 2.828 civili. Tutto funziona indipendentemente dal governo cubano. C’è un ospedale, un centro meteorologico e oceanografico e scuole. La base è anche autosufficiente dal punto di vista energetico con un impianto che ogni giorno desalinizza quasi cinque milioni di litri di acqua e un altro che produce energia elettrica. Inoltre si cerca di essere anche eco sostenibili con pannelli ad energia solare e impianti eolici. Cina: 3 persone condannate a morte per attacco in piazza Tienanmen La Presse, 16 giugno 2014 Un tribunale di Urumqi, nella regione cinese di Xinjiang, ha condannato tre persone a morte per aver organizzato l’attacco del 28 ottobre scorso in piazza Tienanmen a Pechino. Lo ha riportato l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, aggiungendo che altri quattro imputati sono stati condannati a pene tra cinque e 20 anni di carcere e uno all’ergastolo. Le tre persone condannate a morte sono accusate di aver finanziato l’attentato, in cui un suv si schiantò contro un gruppo di turisti all’ingresso della Città proibita, uccidendo due passanti e i tre assalitori. Gli imputati, ha riferito Xinhua, si recarono a Pechino il 7 ottobre del 2013 per portare i soldi necessari per acquistare l’auto, la benzina, dei coltelli e altri materiali. Gli otto sospetti furono arrestati alcuni giorni dopo l’attacco, il primo a Pechino in diversi anni. Iraq: famiglie denunciano uccisione di 11 detenuti marocchini avvenuta nelle carceri Nova, 16 giugno 2014 I familiari dei cittadini marocchini residenti in Iraq e dati per dispersi hanno denunciato le "uccisioni di massa" nel paese "che sono indiscriminate". È stato chiesto al governo di Rabat di convocare l’ambasciatore iracheno in Marocco per chiedere chiarimenti circa il destino dei marocchini dispersi, alla luce dei recenti problemi di sicurezza che si registrano nel paese. L’associazione denuncia la recente uccisione di 11 detenuti marocchini avvenuta nelle carceri irachene. Siria: amnistiato ex capitano squadra salto a ostacoli, 21 anni per aver battuto fratello Assad Adnkronos, 16 giugno 2014 È stato liberato in Siria, dopo 21 anni di carcere, Adnan Qassar, ex capitano della squadra ippica di salto a ostacoli. Lo riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Qassar era stato arrestato dopo aver battuto in una gara il fratello di Assad, Basel. La liberazione è avvenuta nell’ambito dell’amnistia che ha scarcerato 1500 detenuti in occasione delle contestate elezioni presidenziali, nelle quali Assad è stato riconfermato per un terzo mandato.