Giustizia: Orlando; sulle carceri abbiamo messo una pezza, adesso riforme Adnkronos, 11 giugno 2014 "Il rischio di un nulla di fatto c’è, perché le dinamiche della concertazione a volte portano a questo esito, ma io penso che ci siano le condizioni perché la dinamica tra avvocatura e magistratura consentano di portare a casa una soluzione condivisa". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, parlando alla festa di Left Wing in corso l’altro circolo degli Artisti di Roma. Il guardasigilli ha indicato alcune delle questioni critiche cui il governo tenta di porre rimedio con la riforma che, ha confermato Orlando, sarà discussa tra due consiglieri ministri. "Bisogna - ha detto Orlando - risolvere la carenza degli organici, altrimenti qualsiasi riforma non va avanti. C’è poi una sperequazione tra domanda e offerta di giustizia: serve una degiurisdizzazione, perché non è detto che tutto debba finire davanti a un giudice. Serve poi una depenalizzazione. Perché non è vero che si tratta di un’attenuazione della sanzione: casomai una sua maggiore efficacia. Dalla riforma del processo civile non bisogna aspettarsi effetti magici, ha effetto in un periodo lungo". Sulle carceri per Orlando "abbiamo messo una pezza, e non era scontato che il Parlamento riuscisse a legiferare visto il clima a che c’è. Ora si tratta di sistematizzare il tutto, spostare il peso sulle pene alternative, estendere la fascia grigia tra libertà e carcere. E intervenire sulla custodia cautelare: se il parlamento non riesce a mettersi d’accordo, penso debba intervenire il governo". Giustizia: la legge sulle droghe va in Gazzetta Ufficiale… ma è quella sbagliata di Giulio Manfredi (Direzione Radicali Italiani) Il Manifesto, 11 giugno 2014 Nessuna differenza tra sostanze, nel testo aggiornato delle norme dopo il decreto Lorenzin. In Italia gli antiproibizionisti devono fare un doppio lavoro: non solo prefigurare alternative concrete e fattibili all’evidente fallimento delle attuali politiche sulle droghe ma anche tirare per la giacchetta i governi che si succedono a Palazzo Chigi, quando non rispettano in malafede le loro stesse leggi o incorrono in buonafede in errori madornali. L’ultimo caso, scoperto da noi radicali e dall’Aduc, è quello del pasticcio della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del 20 maggio 2014 (n. 115) del "Testo coordinato e aggiornato" del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, il cosiddetto "Decreto Lorenzin". Si tratta del provvedimento che aggiorna le leggi in vigore, recependo le ultime disposizioni. In questo caso avrebbe dovuto recepire gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale del febbraio scorso che ha abrogato la legge Fini-Giovanardi, ripristinando la divisione in tabelle delle sostanze già prevista dalla precedente legge sugli stupefacenti. Nulla di rivoluzionario o di particolarmente difficile. Eppure, il governo, in particolare il ministero di Giustizia, è incorso in un errore grossolano, gravido di pericolose conseguenze: sulla Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un testo sbagliato, che riporta l’art. 73 del Testo unico 309/90 - articolo fondamentale perché fissa le pene per la produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti - in una versione che non tiene conto della nuova divisione in Tabelle approvata dal Parlamento e della conseguente differenziazione delle pene a seconda che si tratti delle cosiddette "droghe pesanti" (Tabella I) o della cannabis e derivati (Tabella II). Non è un errore di poco conto perché il testo errato, essendo quello "ufficiale", è stato subito ripreso e rilanciato dalle banche dati giuridiche online. Non solo. Ad aumentare la confusione ci si è messo anche il Dipartimento Antidroga dell’ex Serpelloni (ma è davvero ex?) che dà il peggio di sé pubblicando sul suo sito, nella sezione "Normativa", solamente il decreto-legge originario di marzo e non la legge di conversione di maggio… e l’articolo 73 sbagliato, quello appena pubblicato in Gazzetta ufficiale. Tutto questo crea enorme confusione, a scapito della certezza del diritto. E ora che fare? Chiediamo al Ministro di Giustizia di provvedere a spron battuto a una pubblicazione corretta e completa in Gazzetta ufficiale della legge di conversione del "Decreto Lorenzin", tenendo finalmente conto delle modifiche apportate dalla sentenza della Consulta. Potrebbe essere l’occasione buona per la pubblicazione di un nuovo Testo unico sulle sostanze stupefacenti, perché quello attuale, sottoposto agli innumerevoli "taglia e cuci" degli ultimi 24 anni, è diventato un vestito di Arlecchino: l’art. 73 citato ha subito sette aggiornamenti. Ma gli interventi tecnici non possono bastare: occorre che finalmente il premier Renzi (che ha tenuto le deleghe in materia) riformi radicalmente il Dipartimento Politiche Antidroga: serve un Dipartimento non arroccato nella torre d’avorio ma che sappia dialogare e interagire con le regioni, i comuni, i servizi per dipendenze, le comunità. E occorre che il governo convochi finalmente in autunno la Sesta Conferenza Nazionale sulle Droghe; sempre il Testo Unico prescrive che tale Conferenza si tenga ogni tre anni; l’ultima fu fatta a Trieste nel 2009, in piena era "Giovanardi-Serpelloni". Una conferenza nazionale per fare il punto sull’efficacia o meno delle politiche proibizioniste; per ridare dignità alla politiche di riduzione del danno; per incardinare la sperimentazione di nuove iniziative, dalle narco sale ai pill-test sulle sostanze. Come potete constatare, a dispetto di chi li accusa di ideologismo settario, gli antiproibizionisti radicali sono sempre stati pragmatici e concreti. Ci attendiamo dal governo una risposta altrettanto pragmatica e concreta, nella consapevolezza che ogni norma si ripercuote su persone concrete, vittime del regime proibizionista, fuori e dentro le carceri. Non dimentichiamolo mai. Giustizia: chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari… è l’ora del countdown di Stefano Cecconi Il Manifesto, 11 giugno 2014 È una buona legge quella approvata nei giorni scorsi sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (la n. 81 del 30 maggio 2014). Anche se la proroga della chiusura degli Opg al 1 aprile 2015 è un atto doloroso, perché mantiene una situazione di sofferenza per molte persone: ancora un migliaio sono le donne e gli uomini internati nei manicomi giudiziari. Però questa volta il Parlamento ha migliorato decisamente le precedenti norme. La nuova legge ha finalmente considerato l’Opg, come era il manicomio, luogo "inadatto" alla cura. Ora deve essere applicata bene, anche per scongiurare ulteriori proroghe. Alcune disposizioni vanno citate in particolare: favorire l’adozione, da parte dei magistrati, anche di sorveglianza, delle misure di sicurezza diverse dall’internamento in Opg (sia definitive che provvisorie) per la cura e la riabilitazione. Perciò serve un ruolo attivo delle Asl in rapporto con la magistratura. Ciò tanto più ora che la pericolosità sociale non può essere dichiarata, o confermata, solo perché la persona è emarginata, priva di sostegni economici o non è stata presa in carico dai servizi socio sanitari. E sapendo che la nuova legge pone limiti precisi alle proroghe della misura di sicurezza (causa di molti "ergastoli bianchi") che non può essere superiore alla durata della pena per quel reato. Rispettare l’obbligo delle regioni di presentare entro 45 giorni i percorsi terapeutico - riabilitativi di dimissione di ciascuna delle persone ricoverate negli Opg. Riducendo al minimo le mancate dimissioni (dispone la legge: "il programma documenta in modo puntuale le ragioni che sostengono l’eccezionalità e la transitorietà del prosieguo del ricovero"). Rendere effettiva la possibilità delle Regioni di rivedere i progetti per le Rems (i mini Opg regionali) diminuendo i posti letto previsti (ora quasi mille: più degli attuali ricoverati!), per renderle quantomeno residuali. E utilizzare invece i finanziamenti per la "… riqualificazione dei dipartimenti di salute mentale". Alcuni primi segnali positivi stanno arrivando da alcune Regioni che hanno annunciato di voler ridimensionare le Rems (es. Toscana e Piemonte) o già deciso di non farle (Friuli Venezia Giulia). Al recente convegno sulla chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino, organizzato dal Garante dei detenuti della Toscana, i rappresentanti della Regione hanno dichiarato disponibilità sulla proposta avanzata di ridurre i posti Rems finora previsti con una sola piccola struttura. Sarebbe un segnale positivo che guarda a tutto il Paese. Siamo consapevoli delle difficoltà che ci saranno nell’applicare la legge, dovute ad un contesto difficile - diverse "velocità" tra regioni, condizioni dei servizi socio sanitari e delle magistrature, contraddizioni o carenze normative, tagli al welfare - e a resistenze anche culturali (come al tempo della legge 180). Per questo intendiamo continuare la mobilitazione e dialogare con tutti gli "attori" impegnati nel superamento degli Opg, per sostenerli: operatori dei servizi, magistratura, camere penali/avvocati, associazioni utenti e familiari. E intendiamo continuare il rapporto con i "decisori" politici (governo nazionale e regioni, parlamento, consigli regionali). Non dimenticando le drammatiche condizioni di vita dei detenuti nelle carceri. E sapendo che il prossimo obiettivo è la modifica di quelle parti del Codice Penale che ancora sostengono l’istituto dell’Opg, ultimo baluardo della logica manicomiale. Così il faticoso processo del superamento degli Opg può rientrare nei binari della legge 180, che chiudendo i manicomi restituì dignità, diritti e speranze a tante persone. E ha reso migliore il nostro Paese. Giustizia: Progetto Raee in carcere, il doppio valore del recupero di Laura D’Amore www.stellanova.it, 11 giugno 2014 Si parla e si è parlato spesso del carcere come momento di recupero e reinserimento sociale dei detenuti in attesa di scontare la pena. E senza ombra di dubbio sono molti i casi in cui cooperative o associazioni entrano nelle carceri e creano lavoro, attività, iniziative, laboratori, opportunità. È il caso di "Raee in carcere" un progetto che negli ultimi anni ha destato curiosità ed interesse tanto da guadagnarsi un riconoscimento dal comitato italiano promotore della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti. Il progetto "Raee in carcere" è volto proprio a favorire il recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici e, al contempo, il reinserimento socio-lavorativo di persone in esecuzione penale o che hanno concluso il periodo di detenzione, attraverso il disassemblaggio di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Nato nel 2005 nell’ambito dell’iniziativa Equal Pegaso, promossa dalla Regione Emilia Romagna e dal Fondo Sociale Europeo, il progetto è diventato operativo nel 2009 con la partecipazione dei detenuti, circa sessanta, a tre laboratori produttivi operanti all’interno delle carceri di Bologna e Ferrara ed all’esterno del carcere di Forlì. Dal 2012 il progetto ha ampliato il proprio raggio di azione: il sito web e la pagina Facebook, cofinanziati da alcuni partner, sono gestiti da operatrici provenienti dall’esperienza del carcere, e rappresentano così un’occasione formativa e lavorativa. "Raee in carcere", già scelto come finalista tra oltre 85 progetti presentati in Europa ai riconoscimenti della European Week for Waste Reduction, si sta affermando diventando un modello per la sua capacità di coniugare finalità sociali e attenzione all’ambiente, un esempio nell’ambito della gestione dei rifiuti con un’importante valenza sociale. "Il premio è una conferma della peculiarità e del valore dell’iniziativa - ha commentato Alfredo Bertelli, sottosegretario alla presidenza della giunta della Regione Emilia-Romagna. La finalità sociale, rivolta in modo specifico alle persone in esecuzione penale, e quella ambientale, che si concentra sulla gestione dei rifiuti elettronici, si intersecano in un progetto che ha trovato il giusto riconoscimento anche a livello europeo". Il progetto è operativamente e finanziariamente sostenuto dalla multiutility Hera Spa e da tre dei maggiori sistemi collettivi italiani per la gestione dei Raee, Ecodom, Ecolight ed Erp, impegnati a remunerare le cooperative e a sostenere l’iniziativa. Un’iniziativa che ha già fatto registrare importanti risultati sia in termini ambientali che sociali. In difesa dell’ambiente ci sono stati almeno una tonnellata mensile di Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche trattati nei 3 laboratori (nel 2013): ciò ha permesso di recuperare importanti quantitativi di materie prime seconde evitando la dispersione nell’ambiente di pericolose sostanze. Dal punto di vista sociale: più di 60 persone in esecuzione penale sono state formate tramite tirocini d’inserimento e tutoraggio al gruppo dei lavoratori e coinvolte nei tre laboratori dall’inizio dell’attività ad aprile 2014: 22 sono state assunte dalle cooperative sociali che gestiscono i 3 laboratori, IT2 a Bologna, Gulliver a Forlì e Il Germoglio a Ferrara. "È importante individuare soluzioni e percorsi efficaci per promuovere e incrementare l’inclusione sociale e lavorativa delle persone detenute e in misura alternativa - ha aggiunto Pietro Buffa, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria -Inoltre, detenzioni caratterizzate da un impegno lavorativo hanno conseguenze meno destrutturanti ed effettivamente più responsabilizzanti per le persone che le vivono". Giustizia: siamo sanitari, non guardie; su Opg appello di Cgil-Medici al ministro Lorenzin Adnkronos, 11 giugno 2014 "L’approvazione della legge sulla chiusura degli Opg è un passo in avanti per mettere la parola fine alla storia manicomiale del nostro Paese. Gli psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, operatori della cooperazione sociale che rappresentiamo, vogliono essere protagonisti di questo percorso, non diventare custodi. Vogliono una risposta di psichiatria comunitaria per la salute mentale". Con una lettera-appello indirizzata ai ministri della Salute e della Giustizia, Beatrice Lorenzin e Andrea Orlando, e al presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani, Cecilia Taranto della Fp-Cgil Nazionale e Massimo Cozza della Fp-Cgil medici chiedono una svolta nel processo di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. "La permanenza delle anacronistiche norme del codice penale fascista e manicomiale sulla imputabilità e pericolosità sociale dell’infermo di mente - continuano i due sindacalisti - assieme alla massiccia diffusione delle Residenze per le misure di sicurezza (Rems) previste dalle Regioni, rischiano di tradursi in una delega di controllo sociale ai Dipartimenti di salute mentale. Inoltre l’allarme lanciato in questi giorni sulla automatica liberazione di internati negli Opg giudicati socialmente pericolosi rappresenta un rischio di ulteriore criminalizzazione di chi soffre di disturbi psichiatrici". "A voi - continua la lettera-appello di Fp-Cgil e Fp-Cgil medici - per il ruolo che ricoprite, lanciamo un appello: gli operatori dei Dsm non possono e non devono svolgere compiti di custodia al posto degli agenti di Polizia Penitenziaria. Chi lavora nei servizi dipartimentali si deve assumere la responsabilità di progetti personalizzati per le persone con disturbi psichiatrici ma non quella di vigilare su ulteriori crimini, eventualità che non può né impedire né controllare, pur agendo con prudenza, perizia e diligenza. Come del resto avviene per le persone che non soffrono di disturbi mentali". "Per queste ragioni - concludono Cozza e Taranto - chiediamo che fin dai prossimi giorni si porti avanti un confronto serrato affinché si eviti che gli operatori della salute mentale diventino dei custodi". Giustizia: Commissione Senato; assunzione lavoratori detenuti, esame sgravi a imprese Asca, 11 giugno 2014 Al via oggi in commissione Giustizia del Senato l’esame del regolamento recante sgravi fiscali e contributivi a favore di imprese che assumono lavoratori detenuti. Lo schema di decreto ministeriale - su cui la seconda commissione è chiamata a esprimere un parere entro il 18 giugno e che è iscritto tra gli argomenti in calendario questa settimana - ha come obiettivo a breve termine quello di promuovere l’occupazione di soggetti detenuti (anche ammessi al lavoro esterno o alla semilibertà), e di favorire l’organizzazione del lavoro all’interno degli istituti penitenziari, prevedendo, appunto, incentivi fiscali e contributivi per le imprese che assumono soggetti detenuti e che promuovono e svolgono attività di formazione a favore degli stessi. Nel medio e lungo periodo, l’intervento mira a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di soggetti svantaggiati, prevenendo il rischio di recidiva nel reato. Giustizia: Vietti (Csm); le mafie sono il lato oscuro di uno Stato inefficiente Ansa, 11 giugno 2014 Le mafie sono "un apparato di supplenza, il lato oscuro di uno Stato inefficiente". La definizione è del vicepresidente del Csm, Michele Vietti, che in un seminario a Palazzo dei Marescialli, organizzato con la Fondazione Falcone, ha sottolineato come "le misure repressive o le tradizionali forme di controllo istituzionale sono a tutta evidenza insufficienti" e "la rete sistemica" va affrontata "non come materia emergenziale e derogatoria, ma come dimensione ordinaria e comune", demolendone "il controllo sociale" e riaffermando "l’autorità costituita". "La diffusione ed il potenziamento dei gruppi criminali - ha osservato Vietti - si è andata modellando sulla situazioni di crisi del nostro Paese" e delle "contraddizioni istituzionali e politiche": le organizzazioni fanno da supplenti dando illegalmente lavoro, soddisfacendo le esigenze abitative e dando sostegno alle famiglie dei detenuti: "così stando le cose le misure repressive sono insufficienti. è la rete sistemica che va aggredita". è indispensabile - ha concluso il vicepresidente del Csm - "rompere la rete protettiva di cui godono le mafie e demolire il sistema extra istituzionale e di controllo sociale". Corruzione: no regole farraginose e deroghe Per combattere la corruzione "bisogna ripristinare i controlli che avevamo eliminato, evitando di creare regole farraginose ed eccessive e deroghe per l’eccezionalità di un evento. Bisogna creare un sistema normativo un po’ più elastico e meno farraginoso". Così il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, torna a parlare di lotta alla corruzione , sottolineando che "prima delle manette e del carcere viene l’educazione, il senso civico e l’etica pubblica. Un apparato repressivo, ma anche preventivo: la legge Severino contiene qualcosa se di buono in questo senso ma i tempi sono ancora lunghi per metabolizzarla". Intervistato a Radio Anch’io, il vicepresidente del Csm ricorda che di fronte a casi di corruzione" la magistratura può intervenire solo a valle, quando ormai i buoi sono scappati. Dobbiamo ripristinare un sistema in cui le barriere contro la corruzione vengono prima che i guai si verifichino". Dunque, "bisogna passare dalle parole ai fatti", ha concluso Vietti, ricordando che "sono passati 40 giorni" dagli sviluppi dell’inchiesta Expo. Lettera aperta al Ministro della Giustizia su psicologi e criminologi penitenziari di Alessandro Bruni (Società Italiana psicologia Penitenziaria) Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2014 Nuovo appello della Società Italiana di Psicologia Penitenziaria attraverso una nuova lettera inviata al Ministro della Giustizia per fermare la progressiva eliminazioni di una generazione di psicologi e criminologi penitenziari che hanno maturato una lunga e importante esperienza a favore di un ruolo "a rotazione" che al massimo durerà per quattro anni. "Le inviamo questa lettera ad un anno esatto dalla emanazione di una Circolare - scrive Alessandro Bruni, presidente della Società Italiana Psicologia Penitenziaria - con la quale il Dap ha di fatto cancellato l’esperienza di più generazioni di psicologi e criminologi penitenziari (esperti art, 80 O.P.) che hanno iniziato la loro collaborazione con gli istituti penitenziari a partire dal 1978". Nella lettera si ricorda che "oltre alle anomalie di fare nuove selezioni a chi era già stato selezionato, non considerare i titoli prima del 2005, non considerare l’esperienza di lavoro, è stato introdotto il criterio della "rotazione" e negli istituti penitenziari non si potrà più collaborare per più di quattro anni". Oltre ad evidenziare che è "lampante che il delicato lavoro psicologico e criminologico in ambito penitenziario richiede esperienza e continuità e non può essere ad "orologeria", viene stigmatizzata la ricaduta della circolare in questi primi mesi di applicazione a partire dai Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria di Sardegna, Campania, Liguria, Toscana e Marche). "Si sono verificate - prosegue Bruni - tutte quelle situazioni veramente gravi che avevamo previsto: nella maggior parte dei casi l’eliminazione di colleghi che lavoravano da moltissimi anni (...); in altri casi, parcellizzazione di un esiguo monte ore (al massimo 20 ore al mese!), riduzioni di incarichi, cambi di sede di lavoro, interrompendo così la continuità di servizio". Viene ricordato che quella degli psicologi e criminologi penitenziari non è la difesa di una "categoria" composta solo da qualche centinaio di persone, ma di chi ha creato una professione in ambito penitenziario e maturato una importante esperienza con la quale vorrebbe continuare dare il proprio utile contributo. "Questa lettera è un ultimo appello per tentare di recuperare una situazione che sta peggiorando progressivamente (come hanno segnalato anche diversi parlamentari con interrogazioni, ordini del giorno e richieste di chiarimenti): oggi sarebbe indispensabile - conclude Bruni - un suo intervento per fare in modo che una Circolare non disperda una importante esperienza attraverso una sorta di "moratoria" e successiva ricerca di una più adeguata soluzione rispettosa di chi è da tempo è impegnato in questa frontiera umana e professionale e dei detenuti stessi destinatari di tale impegno". Lettere: carcerato maltrattato? paga Pantalone… con otto euro al giorno di Alessandro De Pasquale www.fanpage.it, 11 giugno 2014 La soluzione pecuniaria, a quanto pare, sembra il metodo più veloce e facile da utilizzare per raggirare l’inefficienza dello Stato nella gestione dell’amministrazione della Giustizia nel suo complesso. L’ultima novità del Governo italiano per sfuggire alla condanna dell’Europa, è il risarcimento di otto euro al giorno da destinare al carcerato c.d. "maltrattato" dall’inefficienza del sistema penitenziario. L’Italia è un paese che preferisce monetizzare le conseguenze dei propri disservizi, invece di procedere ad una coraggiosa ristrutturazione del sistema giustizia e di quello penitenziario, partendo, ad esempio, dalla scelta degli uomini e, perché no, delle donne a capo delle Strutture Pubbliche. Se un processo dura troppo, possiamo dormire sonni tranquilli perché grazie alla legge Pinto, il malcapitato ha diritto ad una equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. Tutto questo in linea teorica, perché anche il sistema Pinto si è intasato per l’eccessivo volume di casi trattati dalle competenti Corti d’Appello territoriali. La soluzione pecuniaria, a quanto pare, sembra il metodo più veloce e facile da utilizzare per raggirare l’inefficienza dello Stato nella gestione dell’amministrazione della Giustizia nel suo complesso, ma invece di risolvere le disfunzionalità esistenti, crea danni peggiori andando ad intasare e, di conseguenza, complicare ancor di più un sistema che, di per sé, è già molto macchinoso e lento; alla luce di ciò risarcire con otto euro al giorno ogni detenuto maltrattato, sicuramente, da un lato, andrà a sopire il malcontento della popolazione carcerata, dall’altro però, creerà un’ulteriore e cospicuo impegno per le già poco profonde tasche dello Stato. Una cosa è certa: pagherà sempre e comunque il povero ed onesto contribuente, continuamente impotente di fronte allo Stato. Per ripartire bisogna azzerare, uscire dalla logica della "monetizzazione dell’inefficienza" e, nel caso della ormai nota cattiva amministrazione della giustizia e del sistema penitenziario, bisogna necessariamente dar seguito al messaggio del Capo dello Stato dello scorso anno, ovverosia la presentazione di un disegno di legge di amnistia e di indulto, seguito da un progetto riformatore che porti, finalmente, il sistema in condizioni di funzionalità, utilizzando al meglio anche la dirigenza penitenziaria. Nello specifico, l’Amministrazione Penitenziaria necessita di una ristrutturazione materiale e formale allo stesso tempo, che consenta un’esecuzione della pena nel rispetto sia dei diritti dei detenuti che degli operatori della stessa Amministrazione e, in particolar modo, degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, i quali - va detto - sono quelli che conoscono concretamente la realtà carceraria più di ogni altra figura professionale. Non va dimenticato, però, che l’esecuzione della pena non è solo quella che si realizza all’interno degli Istituti; negli ultimi anni si è dato, infatti, grande impulso e sviluppo all’applicazione delle misure alternative alla detenzione che, considerate un importante elemento deflattivo della pressione carceraria, trovano sempre maggiore spazio nella trattazione normativa. Le novità introdotte in tal senso, si traducono nei lavori di pubblica utilità, messa alla prova, agevolazioni per le istanze di liberazione anticipata e, più in generale, di accesso alle misure alternative alla detenzione. L’esecuzione penale esterna sembrerebbe così assumere il ruolo di nuova e sempre più battuta frontiera per l’espiazione della pena, ma anche in questo caso, purtroppo, senza una strutturale riforma dell’organizzazione e delle risorse personali e materiali, si rischia di intasare ulteriormente il sistema e far si che la funzionalità, in termini di efficacia e di efficienza, e la modernità dell’Amministrazione Penitenziaria, restino soltanto una chimera. Emilia Romagna: Cgil; mancano agenti donna, reparti non sicuri in carceri Forlì-Modena Dire, 11 giugno 2014 I reparti femminili dei penitenziari emiliano-romagnoli sono sguarniti: mancano agenti donne e quelle poche che ci sono, fanno servizio quasi 24 ore su 24, senza garanzia di riposo, ferie o malattie. E ovviamente, la sicurezza dentro al carcere è a rischio. "Alcuni giorni fa una collega è stara aggredita", denuncia Luciano Ianigro, coordinatore regionale della Fp-Cgil Polizia penitenziaria, che questa mattina a Bologna, insieme a una delegazione del sindacato (presente anche il coordinatore nazionale, Massimiliano Prestini), ha incontrato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna. Per l’occasione è stato organizzato anche un presidio di protesta sotto alla sede. La Cgil denuncia in particolare la situazione di Forlì e Modena, dove spesso "sette-otto colleghe fanno turni di 24 ore e sono da sole in reparto al pomeriggio e alla notte- spiegano i delegati Antonio Rocca e Massimiliano Ciccone- se hanno la febbre a 39, restano in servizio lo stesso perchè non c’è il cambio. In pianta organica, il personale risulta adeguato ma in realtà è dimezzato per distacchi o maternità". A Forlì sono presenti 18 agenti donna mentre a Modena 13, su una pianta organica di 25. "Basterebbero cinque unità in più di personale per dare un po’ di respiro alle colleghe e coprire almeno un turno", affermano Rocca e Ciccone. A Forlì, in particolare, l’attuale numero di agenti donna "non basta per aprire il reparto nel nuovo penitenziario che si sta realizzando", sostiene Rocca. Alessandria: la "rivoluzione silenziosa" arriva nella Casa di Reclusione di San Michele di Marco Madonia www.alessandrianews.it, 11 giugno 2014 Comincia oggi il nostro percorso di approfondimento sulla realtà carceraria alessandrina, in particolare quella della Casa di Reclusione di San Michele, alla luce delle indicazioni giunte da Strasburgo e recepite del nostro Paese sull’organizzazione della detenzione: celle aperte durante il giorno, più risorse e più attività per lavorare al reinserimento delle persone nella società e maggiore responsabilizzazione dei detenuti. Dopo le reiterate richieste e le sanzioni provenienti da Strasburgo per il sistema carcerario italiano è tempo di cambiare l’organizzazione all’interno degli istituti: celle aperte durante il giorno, aumento delle attività per impegnare i detenuti e costruire percorsi di reinserimento sociale. Alessandria News seguirà questa piccola "rivoluzione" grazie a una serie di appuntamenti di approfondimento con i diversi protagonisti della Casa di Reclusione di San Michele, dalla polizia penitenziaria ai detenuti, dai volontari al cappellano, dagli educatori a chi si occupa della salute fisica e mentale delle persone recluse. Un percorso per non dimenticare una realtà così delicata pur in un periodo di grave crisi complessiva della nostra società (economica, sociale, politica). Un’occasione per riflettere sull’importanza di rinsaldare il legame fra il carcere e il resto della comunità civile, sia per non alimentare falsi miti sulla figura dell’istituto detentivo che per agevolare un autentico percorso virtuoso di reinserimento sociale dei detenuti una volta scontata la propria pena. Oggi il primo appuntamento con il direttore della Casa di Reclusione, la dr.ssa Elena Lombardi Vallauri. Un’occasione per cominciare a scoprire una realtà così vicina a noi ma che troppo spesso viene vissuta come un corpo del tutto estraneo al resto della società, con tutti i limiti e i problemi che questo può comportare. Direttore, perché può essere interessante parlare del carcere? Può essere interessante parlare del carcere e delle persone che lavorano in carcere perché la società non conosce nel dettaglio quello che avviene qui e quindi quali professionalità, competenze e doti umane vengano spese per garantire quel mandato che in genere viene inteso come securitario, volto cioè a garantire la sicurezza del cittadino, e che semplificando può sembrare solo quello di custodire in luogo separato rispetto al resto della collettività delle persone. Come è noto in realtà il mandato è molto più complesso, prevede una conoscenza e una capacità di cambiamento delle persone che vogliono fare un certo tipo di percorso, e a parte questo prevede la presa in carico e la cura di un insieme di persone con caratteristiche del tutto peculiari. Del carcere si parla raramente, e di solito per raccontare le storie di chi vi è detenuto, che sono storie anche eclatanti, con risvolti negativi, che attirano l’attenzione. Ma oltre ai fallimenti ci sono anche tantissime persone che affrontano la detenzione e ne traggono frutto, a volte perfino sostegno, e, sebbene il fallimento possa sempre capitare nella vita di tutti, per un certo periodo questa detenzione può essere impiegata in maniera utile e può portare a un comportamento normale anche al suo termine. Quali sono dunque gli operatori e le figure che si muovono intorno al carcere oggi? Sono di 3 tipi principalmente: la polizia penitenziaria, che rappresenta la percentuale maggiore del personale, gli educatori, che si occupano degli aspetti pedagogici e i funzionari amministrativi. Tutte e tre queste figure lavorano in carcere e non sono quindi paragonabili a chi fa funzioni apparentemente simili all’esterno. La collettività è h24, non chiude mai, e ha un’utenza sui generis. Chi lavora in carcere risponde a bisogni e necessità di un luogo dove la vita richiede costantemente risposte e dove l’efficienza amministrativa è necessaria per garantire quei diritti che devono essere assicurati ma anche per preservare il corretto e ordinato svolgimento della vita quotidiana. Il personale di polizia assolve funzioni di diversi uffici: l’ufficio matricola, ad esempio, è il posto dove vengono controllati e attuati tutti i dispositivi dell’autorità giudiziaria che determinano la privazione della libertà: è pertanto un compito di estrema responsabilità che richiede competenze tecniche e giuridiche molto articolate. E così per tutti gli altri settori, compresi i settori logistici, dalle manutenzioni del fabbricato alla cucina, dall’infermeria alla lavanderia. Dove la polizia penitenziaria non ha la responsabilità diretta di questi servizi ha comunque la responsabilità di vigilare affinché tutto venga fatto bene, in sicurezza per gli operatori. Ma preparare colazione, pranzo e cena per 400 persone non è una cosa così semplice da gestire, mentre qui è una procedura normale e quotidiana. Per esempio, da un po’ di tempo abbiamo un cuoco vero, e ne siamo tutti felici, ma prima questi compiti venivano assolti da personale non specialistico, con le ulteriori criticità del caso. Poi ci sono una serie di altre realtà che orbitano intorno al carcere: gli operatori sanitari e il personale dell’Asl, i volontari, il cappellano… Sì sono realtà decisamente integrate con il carcere ormai. Da qualche anno la gestione sanitaria all’interno delle strutture detentive non è più nostra responsabilità diretta ma è passata al Ministero della Sanità, e quindi c’è stato un lavoro di passaggio di competenza da noi a loro. Questo è un grosso arricchimento, anche perché i fini istituzionali sono diversi. E’ chiaro che anche prima la salute della persona detenuta era uno dei fini che l’amministrazione penitenziaria doveva assicurare, e lo è tuttora, ma ora l’intensità con cui viene perseguito questo fine è diversa, perché viene gestito da chi si occupa specificamente solo di questo. La mia speranza è che quindi il livello di attenzione alla salute e alla qualità della vita si possa innalzare di parecchio, specialmente in funzione della presa in carico complessiva della persona, per fare in modo che ciascuno impari a prendersi cura di se stesso mentre si trova qui. Spesso assistiamo a episodi di trascuratezza e di non consapevolezza del proprio stato di salute, oltre al fatto che c’è comunque un effetto negativo nella carcerazione che produce ulteriori problemi di natura psico-fisica, perciò più è di qualità il sistema sanitario che viene garantito e più la persona è in grado di partecipare al proprio rilancio. Facciamo due conti… quanti sono gli operatori all’interno della Casa di Reclusione di San Michele? Gli educatori sono 6 per 300 detenuti (ma fino a poco tempo fa erano le persone ospitate erano 400 e oltre ndr), con una persona della polizia penitenziaria che li aiuta per la parte amministrativa. Gli amministrativi sono circa 5 persone in segreteria e 7 in ragioneria. La polizia non arriva a 200 unità in totale. Abbiamo poi la presenza di medici h24 e gli infermieri per 18 ore su 24. In più ci sono i volontari, in particolare appartenenti all’Associazione Betel, che offrono una grande quantità di funzioni in silenzio, che vanno dal supporto per il vestiario, al sostegno per realizzare tutta una serie di pratiche esterne, tutte attività che i detenuti non riuscirebbero altrimenti a fare, perdendo di fatto dei loro diritti. E poi ovviamente a San Michele c’è il grosso gruppo degli insegnanti perché abbiamo il polo di studio, con percorsi che vanno dalle elementari all’università, e a loro si aggiungono i docenti dei corsi di formazione professionale e poi, troppo poche, ma ci sono le attività lavorative esterne, con i progetti di "Pausa Caffè", del forno per la cottura del pane e dell’azienda agricola interna, quello dell’allevamento delle quaglie e di gestione della sartoria della cooperativa Senape, che ora a dire il vero è un po’ in difficoltà. Ma questo è proprio l’ambito che vorremmo incrementare: persone che da fuori vengono a offrire attività in carcere. Ai volontari si aggiunge poi il cappellano, don Bodrati, che è una figura di riferimento per tutti, non solo per chi è di fede cattolica. Se viene svolto bene il suo è un ruolo di integrazione fra le diverse religioni, un tema non proprio semplice da gestire quando ci sono alcune forme di integralismo eppure la necessità di convivere in spazi forzati ogni giorno. Veniamo anche a questo aspetto. Cosa succederà ora con la riforma carceraria in vista? E’ previsto un vero e proprio cambiamento nello svolgimento della quotidianità all’interno degli istituti detentivi. A San Michele in particolare non dovrebbe essere un percorso così impegnativo come in altre realtà italiane, perché siamo già abituati ad avere le celle aperte durante il giorno. Questa nuova situazione, che varrà per tutti gli istituti di media sicurezza, comporterà una rivoluzione di fondo che riparte dai principi dell’ordinamento penitenziario e in particolare dalla responsabilizzazione del detenuto rispetto al suo percorso detentivo. Dovremo sviluppare quella parte del nostro mandato che è proprio finalizzata a mettere una persona nelle condizioni di farsi carico di se stessa. Il carcere dovrebbe essere meno passivizzante, meno un’osservazione di un ozio, e incrementare invece, per quanto possibile, le occasioni di impiego del tempo in modo utile. Questo dovrà avvenire attraverso lo svolgimento di attività serie, o di svago o di lavoro o legate alla quotidianità, tali da permettere agli operatori di aumentare la conoscenza delle singole persone detenute e aiutarle ad assumersi progressive responsabilità nel percorso di reinserimento sociale. Questo per noi vorrà dire rivoluzionare un po’ la nostra quotidianità. Facciamo un esempio? E’ chiaro che perché questa bellissima idea funzioni devono essere ben chiarite le responsabilità degli operatori penitenziali. Riducendosi lo spazio custodiale e aumentando lo spazio di responsabilizzazione del detenuto anche l’attribuzione di responsabilità per quanto avviene in carcere deve tenere conto di questo cambiamento. Attualmente tutto ciò che succede in carcere è responsabilità di chi lo doveva impedire. Se potenziamo lo spazio di responsabilizzazione dell’individuo deve essere ben chiaro che la responsabilità va ripartita diversamente. E’ un aspetto che non va sottovalutato anche perché tutti noi per attuare questa rivoluzione dovremo essere sufficientemente sereni. E poi servono le risorse economiche per riempire questo tempo di contenuti. Ora siamo nella fase di formazione, che riguarda tutti noi. Senza la possibilità di offrire adeguate attività strutturate all’interno del carcere il rischio potrebbe altrimenti essere quello che si formino, ancor più di quanto già non avviene, gerarchie interne fra i detenuti. Oggi la presenza degli operatori con i detenuti è una garanzia anche di tutela dei più deboli. Un domani, quando il modello a regime prevedrà l’intervento dei agenti in reparto solo in caso di problemi, ci dovranno essere altre tipologie di attività per gestire e organizzare il rapporto fra detenuti. Oggi sono molti servizi a raggiungere i detenuti in cella, un domani potrebbe essere il contrario. Un esempio concreto è la gestione della spesa e dell’acquisto di beni di prima necessità: oggi è il prodotto che viene portato nelle celle dopo che i detenuti lo hanno scelto fra un elenco di alternative scritte su una lista. Un domani potrebbe esistere un piccolo supermercato all’interno del carcere e potrebbero essere gli stessi detenuti a recarsi lì per fare la spesa. Veniamo al ruolo del direttore. Se i detenuti hanno troppo tempo senza sapere come impiegarlo, lei direttore invece, avendo anche l’istituto di Asti da gestire, di tempo ne ha pochissimo. Quali ripercussioni ci sono nel dover sostenere un doppio incarico? Quello del poco tempo è un problema reale, anche perché i due istituti hanno caratteristiche peculiari e non si possono prendere decisioni uniche da applicare indistintamente alle due realtà. In questa fase storica la mancanza di tempo si sente probabilmente ancora di più perché ci sarebbe la necessità di accompagnare il percorso in divenire con una presenza costante della figura di responsabilità, e il fatto che il direttore non sia sempre presente può generare una certa insicurezza. Il carcere, più in generale, ha bisogno di cura, anche per quanto riguarda le persone che lavorano qui ogni giorno. Quello del direttore è un lavoro che comporta tante fatiche ma che darà anche qualche soddisfazione… Se si sanno prendere è un lavoro che può dare tante soddisfazioni. Serve però non avere l’aspettativa di poter cambiare il mondo. Bisogna restare molto umili e saper anche contestualizzare le proprie aspettative. In questi anni fare il direttore è particolarmente difficile perché almeno sulla realizzazione del mandato istituzionale e sul reinserimento delle persone tutti noi abbiamo una certa aspettativa, e attualmente con la carenza di risorse che c’è e la conseguente demotivazione di tutti è difficile mantenere costante questo obiettivo. Se però si scende un po’ più nel concreto e si vede che nel piccolo si riescono a risolvere tanti problemi quotidiani o a dare piccole opportunità che contribuiscono a generare un reale reinserimento la propria soddisfazione la si può trovare sempre. Quello che mi auguro è di arrivare a percepirci e a essere percepiti dall’esterno come un’istituzione normale, che svolge sì un compito peculiare ma che fa comunque parte della città e della società. Ad Alessandria il prefetto, il sindaco e il direttore del carcere sono donne. Cambia qualcosa? Essere un direttore donna può essere una difficoltà in più? Con una battuta potrei rispondere che non so rispondere perché non sono mai stata uomo. Sicuramente essere donna è rilevante. Prima di tutto perché questo è un ambiente soprattutto maschile, anche nella mentalità. Ma la sensibilità, la capacità di cura e di ascolto che è peculiarità più femminile credo possano essere utili. Detto questo io devo fare il direttore del carcere e ci sono rigidità e peculiarità tipiche del ruolo che prescindono dal genere di chi lo ricopre. A me personalmente mette allegria vivere in un mondo così maschile, e continuo ad amare il mio lavoro, anche perché penso che nella collettività i maschi sappiano stare insieme molto meglio delle femmine. Reggio Calabria: Monsignor Milito ai detenuti di Palmi "sogno un carcere vuoto…" Antonio Maria Mira Avvenire, 11 giugno 2014 Ma voi alla Chiesa cosa chiedete? Cosa potrebbe fare per voi? Cosa poteva fare e non ha fatto? In cosa ha mancato?". Comincia così, con queste domande dirette, il dialogo tra il vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Francesco Milito e 70 detenuti di massima sicurezza del carcere di Palmi, tutti 416bis, detenuti per mafia. Incontro assolutamente inedito. E dialogo è stato davvero, per più di due ore. Con monsignor Milito anche una ventina di sacerdoti, il cappellano don Silvio Misiti, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Vincenzo Pedone e il direttore del carcere Romolo Pani. Un penitenziario particolare quello di Palmi, negli anni ‘70-80 supercarcere per i terroristi, oggi ospita 200 detenuti, 150 dei quali al 41bis, soprattutto ‘ndrangheta. "Questo non è un convegno ma un dialogo con voi - insiste il vescovo -. Oggi vorremmo uscire col carcere dentro di noi". E i detenuti non stanno certo in silenzio. Sono molti nel piccolo teatro ad alzare la mano per porre domande. Educatamente, quasi timidamente. "Un detenuto condannato per mafia si può reinserire nella società dopo il carcere?". Domanda secca, a farla è un esponente di spicco di una nota famiglia mafiosa calabrese. "È una domanda radicale - risponde il vescovo -. Certo che è possibile ma bisogna imparare che la vera libertà non è il male ma il bene". "È vero", dice quasi a bassa voce il mafioso. "Ma cosa fa la Chiesa per noi, per le nostre famiglie?", incalza un altro detenuto. "Bisogna andare da chi rappresenta la Chiesa sul territorio. Se non si hanno risposte si va dal vescovo. Andate alla Caritas. Venga da noi", è l’invito di monsignor Milito. C’è anche chi cita il Vangelo. "Ci insegnate a leggere la Bibbia ma lo dovrebbero fare anche i magistrati. Il padre recupera il figliol prodigo, il pastore cerca la pecorella smarrita. E noi? Nessuno ci recupera". Questa volta è il magistrato a rispondere. "Il padre misericordioso non può essere il giudice, non si possono chiedere a lui occasioni di lavoro. Tocca allo Stato. Ma il percorso carcerario dipende da voi, potete creare delle opportunità e noi concedere premialità". E il vescovo chiarisce che "ci vuole il rispetto delle persone che hanno sbagliato ma anche delle vittime, ricordatelo sempre". E il tema non cambia. "È giusto che uno paghi se ha sbagliato, ma ci deve essere anche data la possibilità di essere uguali agli altri, di essere reinseriti". Questa volta è il direttore a ricordargli che "lei grazie al carcere sta completando i suoi studi universitari. Con tutti i suoi limiti lo Stato sta facendo qualcosa per migliorare la sua formazione. Anche se so bene che una volta uscito sarà difficile il reinserimento e per questo dovremmo creare un ventaglio più ampio di opportunità". Speranza ma con chiarezza. "Io non mi faccio illusioni - aggiunge il vescovo. So che ho a che fare con chi fa della morte la sua vita e del carcere la sua casa, ma dove sta scritto che debba essere sempre così? Il mio desiderio è che le carceri si spopolino. Noi non siamo attrezzati a fare miracoli ma con le nostre forze tutto sarà fatto". Così arrivano anche richieste pratiche. Come quella di un tossicodipendente. "Prendo 10 psicofarmaci al giorno e devo ringraziare don Silvio e gli operatori del carcere se no sarei già morto. Ma ho bisogno di entrare in una comunità. Ho chiesto ma non mi rispondono". Monsignor Milito prende nota. "Sarà mia cura capire perché. Mi lasci il suo nome". Poi si torna alle questioni generali. Così un trentenne si sfoga. "Io penso che la Calabria non andrà avanti se non cambia la mentalità. Voi potete essere di aiuto e le carceri potrebbero svuotarsi". Monsignor Milito gli chiede se ha avuto i sacramenti. "Sì tutti". "Te li avranno spiegati, ma una cosa è conoscere e altro è rispettare. E allora ti devi domandare cosa fai per riscattare questa terra. Devi essere il primo a non collaborare con il male. E il più grande male della Calabria è il fatalismo: è sempre andato così e non cambierà. No, questo è il primo carcere. Il mondo non è in mano del male ma di Dio che però vuole la nostra collaborazione". Si sta per chiudere quando alza la mano un ultimo detenuto. "Ci avete regalato due ore di libertà, col dialogo ma anche col richiamo alle regole. Grazie eccellenza". Ma non è finita qui. Il 18 giugno è già previsto un incontro, di dialogo e festa, tra il vescovo, i sacerdoti e i familiari dei detenuti. Perché, ricorda don Silvio, "qui non è solo repressione, qui c’è chi vi ama". Frosinone: Sappe; tenta il suicidio in cella detenuto classificato ad Alta Sicurezza Ansa, 11 giugno 2014 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Frosinone, sdraiato nel letto con la testa in un sacchetto di plastica e con dentro alcune bombole di gas butano che i detenuti usano per cucinarsi le pietanze. Protagonista, ieri mattina, un detenuto italiano classificato ad Alta sicurezza nella Casa circondariale del Frusinate. "Per fortuna l’insano gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l’ennesimo episodio accaduto in carcere a Frosinone è sintomatico di quali e quanti disagi determina il sovraffollamento penitenziario", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, che esprime ai poliziotti che hanno salvato la vita al detenuto "apprezzamento e l’auspicio che venga loro concessa una ricompensa ministeriale". Il sindacalista sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". "La situazione nelle carceri resta allarmante", aggiunge. "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Frosinone - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento e per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese tutto". Sassari: detenuto a Bancali manda in ospedale un agente penitenziario, protesta Osapp Italpress, 11 giugno 2014 "L’ennesima aggressione alla Polizia Penitenziaria si è registrata nel pomeriggio di ieri presso l’Istituto di Sassari Bancali". A darne notizia è il segretario generale Aggiunto dell’Osapp - Domenico Nicotra - e con l’occasione partecipa tutta la propria vicinanza al Segretario Regionale Osapp Massimiliano Usai che ha riportato una grave contusione alla spalla. "Questa volta, continua Nicotra, l’aggressione è stata promossa da un detenuto extracomunitario proveniente dal carcere di Tempio Pausania che appena giunto nell’Istituto di Bancali ha cominciato a prendere a calci porte, finestre e tutti i suppellettili presenti nella cella. Ad un certo punto ha anche urinato fuori dalla cella. Prima ancora che la situazione degenerasse il personale di servizio ha fatto ingresso nella cella per cercare di calmarlo ma, nel tentativo di contenerlo, si è consumata l’ennesima aggressione". "È ora di dire basta", conclude Nicotra. Non è più possibile scaricare la responsabilità della gestione di detenuti violenti alla Polizia Penitenziaria del carcere di Bancali. È arrivato il momento di creare un punto di ripartenza perché la misura è quasi colma". Monza: interrogazione del Pd sul caso della foto del detenuto immobilizzato e legato di Valentina Rigano www.mbnews.it, 11 giugno 2014 Senatori del Pd pronti a presentare interrogazione per l’episodio del detenuto (condannato a otto mesi per aggressione e minaccia), immobilizzato e legato in commissariato a Monza, dopo aver aggredito due agenti, un connazionale e i soccorritori del 118. Il Sindacato di Polizia non ci sta "siamo al fronte ogni giorno", dichiara il Siap. Sono Luigi Manconi (Pd) e Peppe De Cristofaro (Sel) ad annunciare la presentazione di un’interrogazione parlamentare sul "gravissimo comportamento attuato dagli agenti di polizia all’interno del commissariato di Monza", così scrivono in una nota. Il caso, che per la Procura di Monza non costituisce reato, ha amareggiato il sindacato dei poliziotti "La situazione è delicata, aspettiamo e vediamo se il Governo si accorgerà di noi. L’agente che ha fatto la foto, avrebbe dovuto intervenire se la situazione gli era sembrata sbagliata, non fare la foto". L’uomo immobilizzato ha causato lesioni con prognosi di 15 giorni a cinque persone, secondo quanto dichiarato dalla Questura, la sua agitazione era così incontenibile da rendere necessario l’immobilizzazione forzata in attesa dell’arrivo di un medico che lo poi lo ha sedato. Roma: "Made in Rebibbia", le opere delle detenute in mostra all’Ara Pacis Ansa, 11 giugno 2014 Mostra di lavori artistici di 68 detenute nel carcere di Rebibbia esposte oggi all’Ara Pacis: mosaici, quadri, ceramiche realizzati manualmente per esprimere interiorità emozionali e raccontare disagi e voglia di comunicare. Sono le allieve (43 italiane e 25 straniere), dell’anno scolastico appena concluso, del Progetto "Donne dentro e fuori", alla terza edizione, promosso dal Liceo Artistico Enzo Rossi che realizza un corso presso la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. La mostra, "Made in Rebibbia", con opere dal forte impatto visivo saranno ora vendute presso punti Coop di Roma e dei Musei in Comune. Il ricavato - tolte le spese - andrà a sostenere borse di studio per le detenute. Nell’esposizione odierna, presso il foyer del Museo Ara Pacis, è stata sottolineata l’importanza educativa e riabilitativa, all’interno del carcere, della possibilità del diritto allo studio; 7 detenute che hanno seguito il corso sosterranno quest’anno gli esami di maturità. "Donne dentro e fuori" sarà ripetuta anche il prossimo anno. Si continuerà - ha annunciato la preside del Liceo, Mariagrazia Dardanelli, nella sensibilizzazione sulla presenza dei bambini nelle carceri. "Vogliamo segnalare ancora questa problematica, già oggetto della terza edizione del progetto - ha precisato - affinché nessun bambino viva dietro le sbarre. Il prossimo anno punteremo a realizzare case famiglia protette dove poter accogliere le detenute mamme e i loro figli". Per l’occasione sono stati realizzati anche dei foulard su disegni delle alunne detenute, anch’essi in vendita a sostegno dei progetti educativi ad esse finalizzati. Milano: chef si diventa, anche in carcere di Olivia Manola Corriere della Sera, 11 giugno 2014 I detenuti tornano a sedere sui banchi per imparare tecniche e segreti "per una grande cucina anche in condizioni di ristrettezza". Trasformare una scatoletta di tonno in un piatto da leccarsi i baffi, oppure riciclare il pane raffermo per creare gnocchi e piadine. E ancora, riuscire a cuocere in forno senza averlo o a fare a meno dei coltelli per tagliare. Pochi ma essenziali trucchi di cucina creativa per chi si trova in situazioni d’emergenza e non vuole rinunciare ai piaceri del palato. Per la prima volta, saranno i detenuti del carcere di Opera a sedere sui banchi per imparare tecniche e segreti "per una grande cucina anche in condizioni di ristrettezza". Insegnante per un giorno, Marilena Bergamaschi, giornalista milanese esperta di gastronomia che mercoledì mattina terrà la sua lezione-conversazione all’interno della biblioteca del carcere. L’incontro fa parte del programma avviato dalla casa di reclusione di Opera insieme alla Fondazione "Per Leggere" del sistema bibliotecario del Sud Ovest Milano e all’associazione Mario Cuminetti, che si occupa di volontariato tra i detenuti. Un progetto siglato a dicembre che ha collegato, per la prima volta in Italia, una biblioteca carceraria ad un sistema bibliotecario territoriale, permettendo scambi e prestiti di volumi altrimenti irreperibili per i detenuti. "Ho pensato a una ventina di ricette perfette per cucinare con ottimi risultati anche in condizioni estreme - spiega Bergamaschi. So che molti detenuti si ingegnano e riescono a inventare nuovi piatti anche con i pochi ingredienti e soprattutto i pochi strumenti a disposizione. Mi piacerebbe riuscire a dare qualche idea in più". Oltre alle ricette ere e proprie, che saranno distribuite per invitare alla prova, la lezione comprende anche una conversazione sulla cucina povera, sul mangiare sano e sulla cucina della memoria. "La cucina di casa propria, i piatti della propria famiglia, ancora di più per chi si trova in una situazione come quella del carcere, hanno un ruolo affettivo determinante", spiega Bergamaschi. In realtà, i detenuti di Opera hanno già le mani in pasta. Dallo scorso inverno, sfornano il "Pane buono", pane a lunga maturazione realizzato con lievito madre e farine di qualità, sotto l’egida della cooperativa In Opera e del maestro panettiere Ezio Marinato. L’obiettivo è il reinserimento sociale dei carcerati: i ricavi della vendita del pane ( che si può acquistare, tra l’altro, alla cooperativa La Cordata, in Via San Vittore 49) vengono impiegati per acquistare nuovi macchinari e formare tra i detenuti nuovi panettieri, pasticcieri e gelatai. Venezia: da detenute a stiliste, la sfilata del carcere femminile della Giudecca www.veneziatoday.it, 11 giugno 2014 Dagli anni 50 ad oggi, un’antologia della moda italiana ideata e realizzata dalle carcerate veneziane, aiutate dall’antica tessitura Bevilacqua. Sabato 14 giugno, alle 19, all’isola di San Giorgio nel piazzale antistante la Basilica palladiana, venti modelle tra cui sette delle dodici "Marie del Carnevale 2014" sfileranno proponendo una carrellata di vestiti e accessori in grado di ricostruire la storia della moda italiana dagli anni 50 ad oggi. Le stiliste sono le stesse detenute del carcere della Giudecca, dove da oltre un decennio è stata aperta una sartoria. Alla conferenza stampa di presentazione della manifestazione, svoltasi martedì a Ca’ Farsetti, sono intervenuti oltre all’assessore comunale alle Attività culturali, Angela Vettese, anche il presidente della Cooperativa sociale il Cerchio, Gianni Trevisan, promotore dell’iniziativa, Alberto Bevilacqua dell’antica tessitura Luigi Bevilacqua, e Stefania Stea, vice presidente dell’associazione veneziana albergatori e madrina dell’evento. "Si tratta di una particolarissima sfilata - ha affermato l’assessore Vettese - in cui verrà presentata una vera linea creativa, frutto di impegno e ingegno da parte di un gruppo di detenute che possono competere sul mercato con analoghe attività imprenditoriali. Grazie alle iniziative realizzate dalle cooperative sociali negli istituti di pena cittadini, il carcere non è più un buco nero in cui espiare il tempo del malcontento. Si offre, grazie al lavoro, l’occasione per ripensare alla propria vita e alle opportunità per rientrare nella società in modo diverso". Alberto Bevilacqua, che ha consegnato gran parte dei tessuti utilizzati per il confezionamento degli abiti, ha definito l’evento "una bella avventura che lega l’antica produzione tessile veneziana alla solidarietà. Oggi le prigioni italiane sono luoghi di sofferenza, ma è necessario che tornino ad essere luoghi di rieducazione". Il lavoro in carcere e il numero significativo degli occupati negli istituti di pena cittadini e nazionali, è stato il tema affrontato dal presidente Trevisan: "Diamo lavoro a 45 su un totale di 77 detenute, mentre sono 65 le persone con pene alternative impegnate in vari ambiti, grazie alla collaborazione della Direzione del carcere femminile e del Comune di Venezia che negli anni non hanno mai fatto mancare il loro sostegno. Portare il lavoro in carcere è una battaglia di democrazia e civiltà che va condotta soprattutto in questo momento di grande difficoltà. Dal 16 giugno inoltre a Mestre altri quattro ristretti lavoreranno in un nuovo parcheggio per biciclette". La manifestazione è aperta alla cittadinanza, per partecipare è necessario contattare i numeri 041 2771127 o 345 4628276, email claudia@ilcerchiovenezia.it, cristina@ilcerchiovenezia.it. In caso di pioggia la sfilata si svolgerà negli spazi interni della Fondazione Cini. Brescia: calcio in carcere, domenica finali 29° Campionato Memorial Giancarlo Zappa Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2014 Nell’ambito del "Progetto-Carcere" dell’Uisp di Brescia, realizzato in collaborazione con le Associazioni "Carcere e Territorio", A.S.D. Sport per Tutti, col patrocinio del Comune di Brescia (Assessorato allo Sport e Presidenza del Consiglio) e col sostegno della Fondazione Asm Brescia, sono diverse le attività in programma. Nel carcere di Verziano giovedì scorso si è disputata la 14° ed. della "Coppa Sorriso", quadrangolare di calcio a 7 che ha visto trionfare la formazione dei Detenuti "A" che ha battuto in semifinale per 4-3 l’Istituto Superiore "Lorenzo Gigli" di Rovato ed in finale si è imposta per 4-0 sull’Istituto Superiore "Don Milani" di Montichiari. È la seconda volta che i detenuti iscrivono il proprio nome nell’Albo D’oro, dopo la vittoria del 2004. Altro quadrangolare di calcio nel pomeriggio di giovedì 12 giugno con la 9° ed. della "Coppa dell’Amicizia" con la partecipazione dei Detenuti "A" - "B" , dei giornalisti del "Brescia Oggi" e del Liceo Scientifico "Leonardo" Brescia. Nella mattinata di domenica 15 giugno attesissimo appuntamento a Verziano con le finali del 29° Campionato a 7 "Memorial Giancarlo Zappa", alla presenza dei familiari dei detenuti e delle autorità cittadine. Per il 3°/4°posto Polisportiva Euplo Natali Brescia - Onoranze Funebri Alfio Remondina; per il 1°/2°posto i campioni in carica de I Bonvicino affronteranno I Sans Papiers. Nella Casa Circondariale cittadina di Canton Mombello martedì 10 giugno è iniziato il 39° torneo di calcetto con 8 squadre di detenuti delle Sezioni Sud e Nord e gli studenti degli Istituti Superiori "Tartaglia-Olivieri" e "Ipsia Moretto". Udine: "Encerrados", in mostra 10 anni di fotografie da 74 prigioni del Sudamerica www.info.fvg.it, 11 giugno 2014 Il fotogiornalista internazionale Valerio Bispuri presenta per la prima volta a Udine il suo pluripremiato reportage fotografico "Encerrados": 10 anni di foto in 74 prigioni del Sudamerica. Homepage Festival riconferma il suo amore per la fotografia, ospitando nella serata di venerdì 13 giugno un vero e proprio talento del fotogiornalismo internazionale: Valerio Bispuri. Classe 1971, con radici romane e master in giornalismo, Bispuri presenterà per la prima volta al pubblico udinese presso l’auditorium del Palazzo Toppo Wassermann di Udine, alle ore 20.30 ed a ingresso libero, il suo straordinario "Encerrados", ossia "Rinchiusi". Un progetto fotografico che non ha precedenti e che raccoglie 10 anni di scatti in 74 prigioni del Sudamerica, dalla Colombia al Venezuela fino all’Argentina e al Cile. Encerrados è un lungo filo che attraversa le città, i sorrisi, la rabbia e le illusioni di chi vive rinchiuso, un’indagine sul mondo carcerario e sul Sudamerica, un lavoro di denuncia per mostrare le condizioni spesso inumane e terribili in cui versano molti prigionieri. Attraverso la proiezione di una serie di immagini verrà ripercorso questo suo viaggio, conoscendo la complicata realtà di questo continente. Le carceri, viste come lo specchio di una cultura, raccontano le difficoltà e le speranze di un popolo, privato dei propri diritti, costretto a condizioni di vita pessime, in una situazione di crisi generale che interessa tutto il Paese. Il progetto, divenuto una mostra che ha girato il mondo (dal Centro Cultural Recoleta di Buenos Aires durante il Festival dei Diritti Umani al Visa pour l’Image a Perpignan nel 2011 fino al Palazzo delle Esposizioni a Roma, all’Università di Ginevra e al Festival di Fotografia di Berlino) oggi è diventato un libro grazie ad una campagna di crowd funding che Homepage Festival ha sostenuto con entusiasmo. Grazie al festival udinese, infatti, sono state raccolte le risorse per realizzare le prime 1.000 copie del volume. Si ricorda che Bispuri sarà inoltre protagonista nelle due giornate successive, sabato 14 e domenica 15, di un workshop sul tema del fotogiornalismo e del reportage. Valerio Bispuri è fotoreporter professionista dal 2001, quando è cominciata la sua collaborazione con numerose riviste italiane e straniere. Tra le avventure professionali di Bispuri un progetto durato 8 anni e conclusosi nel 2013, ideato per denunciare la diffusione del consumo di Paco, la droga che uccide migliaia di adolescenti e bambini nei sobborghi delle metropoli sudamericane. I premi conquistati da Bispuri per la sua attività non si contano: tra i tanti si ricordano il Sony World Photography Awards 2013, il premio del pubblico al Days Japan Award 2013, il Poy Editing Magazine nel 2014 e il Poy latinoamericano 2011 (menzione speciale). In Italia è rappresentato da Echo Photo Agency. Tutte le conferenze si svolgono in collaborazione con il Comune di Udine, la Libreria Feltrinelli di Udine e con il patrocinio di Club Unesco di Udine. Ufficio Stampa Conferenze Homepage Festival. Marta Orlando - marta.orlando@homepagefestival.com - 348 9388570. Libri: "Malerba", di Carmelo Sardo e il tema del "fine pena mai" di Federica Ferretti www.ilcorrieredabruzzo.it, 11 giugno 2014 Il tema caldo, dalla drammatica attualità, della "fine pena mai", sta per essere raccontato in un modo diverso, per tanti, troppi versi, addirittura toccante. Carmelo Sardo, il noto giornalista del Tg 5, in verità già nostro ospite, è appena uscito con il suo Malerba (Mondadori). E torna oggi sul nostro Corriere, in una maniera altrettanto inaspettata, fin quasi sorprendente: ha scelto così di contribuire alla nostra inchiesta sulla scrittura-giornalismo. Il carcere è un tema caldo, un tema con cui occupare le pagine di cronaca certi di fare scalpore. Nell’ottica di Carmelo Sardo, noto giornalista del Tg5, che ha scritto il suo secondo libro "Malerba" a quattro mani con l’ergastolano Giuseppe Grassonelli, no. C’è umanità nel suo raccontare la "fine pena mai". Che vuol dire? La nostra costituzione prevede che il carcere serva a recuperare chi ha sbagliato, non a punirlo. Deve cioè restituire alla società uomini nuovi, diversi, tornati nella legalità. Conosco personalmente storie di criminali che sono entrati in carcere come uomini a perdere, e che invece, seguiti adeguatamente da educatori, da personale qualificato, da docenti universitari che svolgono un lavoro silenzioso ma efficace, si ritrovano e imboccano straordinari percorsi di recupero. Io ho passato a 20 anni, 9 mesi in un carcere di massima sicurezza come agente di custodia per il servizio militare ed ho trovato più umanità in quel carcere che in molti ambienti della vita sociale. Cosa hanno visto e vedono gli occhi di Carmelo? Dentro ho visto la voglia di riscatto, di rinascita di chi ha sbagliato e con dignità sta scontando la sua pena. Fuori vedo, specie nei palazzi del potere, un preoccupante disincanto verso le esigenze fisiologiche dei condannati. Basti guardare le condizioni pietose in cui versano le nostre carceri e i continui bacchetta menti dell’Europa al nostro paese che non fa abbastanza per rendere più civile e decorosa la detenzione. F.F. Perché tanto interesse e "familiarità" con una simile tematica? Proprio perché ci sono passato. Come dicevo prima ho fatto il militare nel corpo della polizia penitenziaria e ho toccato con mano una realtà che da fuori uno non immagina neanche. Dietro le sbarre ci sono uomini veri, padri di famiglia, mariti, figli, che sanno di aver sbagliato ma non per questo bisogna chiudere loro la porta in faccia. Ho passato lunghe notti di servizio a parlare con loro, a sentire le loro ansie, le loro angosce, pentiti degli errori e pronti a dimostrare di essere diversi, nuovi. Chi è Malerba davvero? Malerba è un uomo straordinario, di un’intelligenza fuori dal comune. Un uomo entrato in carcere a 26 anni semianalfabeta e dopo 22 anni di dura prigione, oggi è un uomo di grande cultura, laureato in lettere moderne con 110 e lode. Malerba, erba tinta, erba cattiva, è Giuseppe Grassonelli, come veniva chiamato nella sua Porto Empedocle quando era un ragazzo. Poi un giorno gli hanno sterminato la famiglia, la mafia voleva morto anche lui, e il destino lo ha trascinato in una storia drammatica contenuta nel libro che abbiamo scritto insieme, Malerba appunto, edito da Mondadori, collana Strade blu. Sei venuto in Abruzzo, precisamente nel carcere di Sulmona per discuterne. Cosa pensi della nostra regione anche alla luce di questa "visita"? Abbiamo parlato di "fine pena mai" e ho potuto apprezzare le sensibilità vere degli abruzzesi sollecitati su un tema così delicato. Vi hanno preso parte oltre 500 persone, e non solo professionisti, ma anche comuni cittadini, abruzzesi che hanno scaldato le corde più recondite dell’animo di fronte al dramma vissuto dagli ergastolani che sono intervenuti con le loro angosciose storie. L’Abruzzo è una terra cosi’ meravigliosa, pensate che lo stesso Giuseppe Grassonelli, quando l’hanno trasferito qui nel carcere di Sulmona e ha notato cosa si vedeva dalla sua cella, mi ha raccontato di non aver dormito la notte incantato a guardare le montagne che non aveva mai visto in altre carceri e ad annusare l’aria d’Abruzzo. Pensi che Il tuo Giuseppe Grassonelli possa davvero essere riabilitato da una simile esperienza? E mi riferisco alla vostra avventura letteraria, perché lui è condannato all’ergastolo, giusto? Grassonelli è un uomo diverso, nuovo, cambiato, un’intelligenza che meriterebbe di essere restituita alla società. Ma ha subito l’ergastolo ostativo che non gli permette di accedere ad alcun beneficio: neppure un’ora di permesso per tutto il resto della sua vita. E credo sia un’inciviltà specie se pensiamo che altri criminali che hanno ucciso perfino poliziotti, sono in semilibertà dopo 20 anni di carcere e lui che ha ucciso mafiosi e sicari per sopravvivere e per vendicare i suoi cari, è destinato a marcire in una cella. Ti sentiresti di maturare una proposta di legge dopo questa tua-vostra esperienza così particolare? Non spetta a me, semplice giornalista e scrittore, farlo. Ma ci sono associazioni che da anni si battono per questo con orgoglio e dignità e stanno raccogliendo sempre più consensi che prima o poi il governo dovrà rendersi conto che l’ergastolo ostativo è una pena di morte per i vivi. Sono fiducioso. Quanto ti ha ispirato l’avventura cinematografica dei fratelli Taviani "Cesare deve Morire"? Non mi ha ispirato per niente perché non ho neppure visto il film e capisco che è una mia lacuna. Secondo te, questa forma di punizione così estrema e per tanti troppi versi disumana, ha ancora un senso nelle carceri italiane? Non ha più alcun senso, ma attenzione, solo per chi dimostra di essersi recuperato. Chiaro che per un mafioso all’ergastolo che dal carcere continua a lanciare minacce contro tutto e tutti e soprattutto contro i magistrati, come Totò Riina per intenderci, non merita alcun beneficio. Io mi riferisco solo ai tanti Grassonelli sepolti nelle nostre carceri che sono diventate persone a cui affideresti i tuoi figli. Cosa senti di poter aggiungere a quanto già detto fatto proposto su questo tema? Mi piacerebbe che chi governa questo paese andasse in carcere a incontrare i tanti Grassonelli, a passare con loro mezza giornata in cella, come ho fatto io. E chissà, forse capirebbero. Immigrazione: Leggi Ue; per extracomunitari massimo 180 giorni trattenimento nei Cie Public Policy, 11 giugno 2014 Il periodo massimo di trattenimento del cittadino extracomunitario all’interno del centro di identificazione e di espulsione non può essere superiore a 180 giorni. È quanto prevede un emendamento al disegno di legge "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea in materia di immigrazione e rimpatri" approvato in Aula alla Camera. L’emendamento era stato presentato da Giuseppe Guerini (Pd). "La convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi trenta giorni. Qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà, il giudice, su richiesta del questore, può prorogare il termine di ulteriori trenta giorni", si legge nell’emendamento. "Anche prima di tale termine, il questore esegue l’espulsione o il respingimento, dandone comunicazione senza ritardo al giudice. Trascorso tale termine, il questore può chiedere al giudice di pace una o più proroghe qualora siano emersi elementi concreti che consentano di ritenere probabile l’identificazione ovvero sia necessario al fine di organizzare le operazioni di rimpatrio. In ogni caso - continua l’emendamento - il periodo massimo di trattenimento del cittadino extracomunitario all’interno del centro di identificazione e di espulsione non può essere superiore a centottanta giorni". Il cittadino extracomunitario che sia trattenuto per un periodo pari a 180 giorni presso le strutture carcerarie, "può essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di trenta giorni". "Nei confronti del cittadino extracomunitario a qualsiasi titolo detenuto, la direzione della struttura penitenziaria richiede al questore del luogo le informazioni sull’identità e nazionalità dello stesso. Nei medesimi casi il questore avvia la procedura di identificazione interessando le competenti autorità diplomatiche. Ai soli fini dell’identificazione - conclude il testo - l’autorità giudiziaria su richiesta del questore dispone la traduzione del detenuto presso il più vicino posto di polizia per il tempo strettamente necessario al compimento di tali operazioni. A tal fine il ministro dell’Interno e il ministro della Giustizia adottano i necessari strumenti di coordinamento". Immigrazione: la protesta dei rifugiati del Cara di Roma respinta a suon di botte di Valerio Renzi Il Manifesto, 11 giugno 2014 Sono le sei e mezzo del mattino quando richiedenti asilo e rifugiati cominciano ad uscire dal Cara di Castelnuovo di Porto, alle porte della capitale, uno dei più grandi e sovraffollati della penisola. Di solito questa è l’ora verso cui cominciano il loro esodo per raggiungere la città: prima un lungo tratto a piedi, poi i mezzi interurbani. Ma ieri il loro viaggio si è fermato a poche centinaia di metri dal Cara dove sono "ospiti": con cartelli, pancali e la loro rabbia bloccano la Tiberina. Sono circa duecento, uomini e donne di tutte le età, alcuni ancora in carrozzina o fasciati ai corpi delle madri. Appena ci vedono arrivare, unici testimoni della loro protesta, cominciano ad urlare in inglese davanti a telecamere e smarth phone le loro ragioni: "siamo trattati come bestie, non come essere umani. Qui il cibo è scadente, siamo completamente isolati e non ci danno il pocket money", ovvero i soldi a cui i rifugiati avrebbero diritto, si parla di due euro e cinquanta centesimi al giorno, ma che da alcuni mesi non gli vengono erogati regolarmente. I profughi si siedono a terra, urlano, chiedono di essere ascoltati. Ma a parlare con loro vengono polizia e carabinieri in assetto antisommossa, addirittura l’esercito di stanza del Cara indossa scudi, caschi e manganelli. Così, dopo circa un’ora e mezza con la tensione che sale, le forze dell’ordine provano a trascinarli via dalla strada. Loro non ci stanno, vogliano parlare con la cooperativa Auxilium, che gestisce anche il Cie di Ponte Galeria, e le istituzioni che però latitano. Parte la carica della polizia, violenta, fino alle porte del centro e poi anche dentro, quando vengono date alle fiamme per protesta alcuni suppellettili. Alla fine sei migranti, quattro donne e due uomini, vengono portati via di peso e con brutalità. "Abbiamo visto donne sbattute a terra e insultate, uomini picchiati con calci e pugni, presi a manganellate, trascinati per i capelli e insultati come animali - denunciano gli attivisti delle reti antirazzisti Yo Migro, Esc_Infomigrante, Lab! Puzzle e Astra 19, Asailum, Laboratorio 53, Cooperativa Be Free che filmano, inviano tweet e fotografie. "In quanto unici testimoni di quello che è accaduto, siamo stati identificati e minacciati di arresto nel tentativo di spaventarci e farci allontanare". Sul luogo arrivano i deputati Ileana Piazzoni (Sel) e Khalid Chaouki (Pd), che all’uscita dalla struttura hanno dichiarato: "Il dialogo con gli ospiti ha consentito di stemperare il clima di tensione ma riteniamo necessario che il ministero dell’interno convochi immediatamente un tavolo di confronto che coinvolga la prefettura e la cooperativa subentrata da poco nella gestione del Cara, per agevolare gli sforzi compiuti da quest’ultima nel garantire condizioni di accoglienza consone". Sulla vicenda intervengono successivamente anche la consigliera regionale Marta Bonafoni che parla di fatto "gravissimo" in quanto "siamo costretti ancora una volta a commentare cariche di polizia contro cittadini migranti, obbligati una volta di più a gesti estremi per essere ascoltati. Il Cara di Castelnuovo di Porto dovrebbe essere un luogo con la trasparenza e i diritti al centro dell’attenzione e dell’impegno delle istituzioni e del governo. Ma gli eventi che si stanno susseguendo ci dicono ben altro". India: caso marò; Massimiliano Latorre al ministro Pinotti "speriamo di rivederci presto" Tm News, 11 giugno 2014 Si è chiusa con una battuta di Massimiliano Latorre la breve videoconferenza che stamane ha collegato i due marò ancora detenuti in India con la festa della Marina militare che si sta svolgendo a Roma. Un collegamento aperto dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e dai capi di Stato maggiore della Difesa e della Marina, Binelli Mantelli e Giuseppe De Giorgi. Latorre ha infatti concluso il collegamento con un "speriamo di rivederci presto" rivolto ai suoi interlocutori. Questo mentre il suo collega Girone aveva ammesso, poco prima, che, dopo oltre 2 anni di detenzione in India, "ogni giorno sembra più lungo". I due fucilieri di Marina hanno ancora una volta voluto ringraziare quanti in questi anni si stanno adoperando per la loro liberazione e in particolare Latorre ha voluto ringraziare i suoi colleghi di Marina per l’impegno nella missione Mare Nostrum e "per chi si adopera - ha detto - per la salvaguardia della vita in mare". Medio Oriente: detenuti palestinesi in sciopero di fame, è la protesta collettiva più lunga Aki, 11 giugno 2014 È lo sciopero della fame collettivo più lungo della storia palestinese quello iniziato il 24 aprile dai detenuti palestinesi in carcere in Israele per regime amministrativo. Lo ha dichiarato un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, Addameer, che sul proprio siro ha detto che "questo è il più lungo sciopero della fame di massa tra i prigionieri nella storia palestinese dopo quello durato 45 giorni nel 1976". Quello attuale, in corso da 49 giorni, vede invece "coloro che fanno lo sciopero della fame determinati nel chiedere la fine della politica della detenzione amministrativa". Il gruppo denuncia inoltre come negli ospedali israeliani siano in atto procedure mediche per forzare i detenuti a interrompere lo sciopero della fame, ad esempio introducendo il cibo con il sondino. "Questo è un atto pericoloso per l’istituzionalizzazione della tortura dei palestinesi che fanno lo sciopero della fame", denuncia l’organizzazione, che riferisce anche di come stiano peggiorando le condizioni dei scioperanti. "I detenuti sono stati avvertiti che è a rischio la loro vita, che i loro muscoli si stanno danneggiando. I medici hanno detto che alcuni di loro potrebbero subire un attacco cardiaco o un infarto in qualsiasi momento", si legge. Addameer invita quindi la comunità internazionale a intervenire a sostegno dei detenuti in sciopero. Haniyeh scende in campo da calcio per detenuti in sciopero fame L’ex primo ministro del governo di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh è sceso in campo, di calcio, per una partita in solidarietà con lo sciopero della fame organizzato in massa dai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. La protesta, la più lunga di questo tipo nella storia palestinese, è iniziata lo scorso 24 aprile per protestare contro la politica israeliana della detenzione amministrativa che prevede il carcere senza processo e per ragioni di sicurezza. Organizzata da ex detenuti palestinesi rilasciati dalle carceri di Israele, la partita ha voluto coinvolgere Haniyeh per mostrare solidarierà, come già altri hanno fatto in varie forme in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, per mostrare vicinanza ai prigionieri, le cui condizioni di salute stanno peggiorando. Siria: decine di detenuti colpevoli di "terrorismo" liberati dall’amnistia di Assad Tm News, 11 giugno 2014 Le autorità siriane hanno cominciato a rilasciare decine di prigionieri dopo l’amnistia generale concessa dal presidente Bashar al Assad. Lo ha riferito l’avvocato Anwar al Bounni, esperto di difesa dei diritti umani. "Decine di prigionieri del carcere di Adra sono stati liberati ieri e altri stanno uscendo oggi", ha spiegato il legale. Una settimana dopo la sua controversa rielezione a capo dello Stato, Bashar al Assad ha annunciato la più grande amnistia dall’inizio della rivolta in Siria nel 2011 che dovrebbe consentire a migliaia di prigionieri di tornare in libertà. "Il tribunale antiterrorismo e le corti penali stanno passando in rassegna i nomi delle persone interessate e stanno inviando le liste alle differenti prigioni" come Adra e Saydnaya, vicino Damasco, o Tadmor, nell’Est del Paese. Secondo l’avvocato Bounni, l’amnistia dovrebbe interessare prigionieri già giudicati o detenuti senza processo. "I servizi di sicurezza hanno già ricevuto le loro liste", ha confermato il legale. Più di 100.000 persone sono attualmente detenute in Siria e altre 18.000 sono ritenute scomparse, secondo l’Osservatorio siriano sui diritti umani. L’amnistia non ferma la guerra (Osservatore Romano) Per la prima volta il provvedimento riguarda anche i disertori dell’esercito e i combattenti stranieri in Siria. Un nuovo provvedimento di amnistia in Siria, il quinto in tre anni, è stato deciso dal Governo del rieletto presidente Bashar Al Assad. A beneficiarne dovrebbero essere stavolta anche i disertori dell’esercito entrati nelle file degli insorti. Inoltre, l’amnistia riguarderà anche "gli stranieri entrati in Siria per unirsi a gruppi terroristici, se si consegneranno entro un mese dal decreto", in un chiaro riferimento ai cittadini di molti Paesi arabi e anche occidentali arrivati per combattere nelle file delle formazioni islamiste. E la prima volta che in un’amnistia vengono citati i combattenti stranieri. Per quanto riguarda le persone già in carcere, dovrebbero essere liberati i malati terminali e quanti hanno più di settanta anni. Inoltre, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ufficiale Sana, sono previste le commutazioni della pena di morte nei lavori forzati a vita e dell’ergastolo in vent’anni di reclusione. Il ministro della Giustizia, Najem al Ahmad, ha detto che la decisione è stata presa in un ambito di "perdono sociale" per favorire "la coesione nazionale" dopo che "l’esercito ha ottenuto diverse vittorie militari". Già la settimana scorsa Assad aveva concesso l’amnistia a circa ottocento prigionieri nelle carceri di Aleppo, nel nord, e di Adra, nella provincia di Damasco. I detenuti, tra i quali figuravano ottanta donne, erano stati incarcerati con accuse di terrorismo. Proprio ad Aleppo, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha comunicato ieri di aver potuto consegnare cibo, medicine e altro materiale di prima necessità sia nella parte controllata dall’esercito governativo sia in quella dove gli insorti resistono ancora all’assedio. Nonostante gli sforzi umanitari, comunque, ad Aleppo come sugli altri fronti di guerra la popolazione civile resta ostaggio di un conflitto del quale non s’intravede la fine e che all’insurrezione contro il Governo di Damasco somma lo scontro tra gruppi islamisti in lotta tra loro. Decine di vittime sono state segnalate ieri in combattimenti tra tali formazioni nella provincia orientale di Deir Az Zor, in parte sottratta al controllo delle truppe governative. A fronteggiarsi nell’area sono lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante e il Fronte al Nusra. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), un’organizzazione non governativa basata a Londra e considerata vicina all’opposizione, le due parti avrebbero avuto rispettivamente 28 e 17 miliziani uccisi. Più in generale, l’Ondus parla di 193 morti in ventiquattr’ore, compresi 61 civili, in tutto il Paese. Di pericolo di "somalizzazione" del Paese è tornato a parlare ieri il dimissionario inviato per la Siria dell’Onu e della Lega araba, Lakhdar Brahimi. In un’intervista ad alcuni organi d’informazione tedeschi, Brahimi ha detto che la Siria rischia di diventare "uno Stato fallito simile alla Somalia", aggiungendo che "se non si arriverà presto a una soluzione pacifica della crisi, c’è forte pericolo di coinvolgimento nella guerra di tutta la regiione". In uno dei fronti dove sono stati più cruenti i combattimenti degli ultimi mesi, quello di Homs, un tempo primo polo industriale del Paese e poi epicentro dell’insurrezione, l’Iran si accingerebbe ad aprire un ufficio di rappresentanza per i suoi mediatori tra l’esercito siriano e i ribelli sconfitti. I mediatori iraniani, in particolare, stanno ancora definendo i termini del ritiro degli ultimi miliziani antigovernativi dal sobborgo di Al Waar. L’Iran aveva già svolto una cruciale mediazione tra le parti conclusa tra aprile e maggio per lo sgombero di un migliaio di miliziani da Homs. Brasile: 200mila detenuti oltre la capienza, contro il sovraffollamento più "domiciliari" Agi, 11 giugno 2014 Il Brasile ha una popolazione carceraria di 567.655 detenuti, ospitate in strutture penali costruite per contenerne solo 357.219, secondo i dati diffusi il 5 giugno dal Consiglio Nazionale di Giustizia del Brasile. Il Consiglio ha riconosciuto che la situazione sarebbe ancora più grave se i 146.936 brasiliani che attualmente stanno scontando condanne agli arresti domiciliari dovessero essere inviati in galera; parte di questi hanno ricevuto il beneficio dei domiciliari specificamente a causa della mancanza di spazio nelle carceri. "Considerando i casi di arresti domiciliari, il deficit nelle carceri brasiliane sale a 358.000. Se contiamo il numero di mandati d’arresto non eseguiti, ben 373.991, la popolazione carceraria del paese schizza a 1.08 milioni di persone e il deficit a 731.781 unità", ha detto il supervisore del dipartimento carcerario del Consiglio, Guilherme Calmon. Il consiglio ha spiegato che lo studio senza precedenti sul numero di detenuti in Brasile è stato preparato sulla base delle consultazioni effettuate a maggio 2014 con tutti i tribunali penali dei 27 Stati del Paese. "Fino ad ora, la questione carceraria è stata discussa con riferimenti statistici che dovevano essere rivisti. Dobbiamo considerare il numero di persone agli arresti domiciliari nel calcolo della popolazione carceraria" ha proseguito Calmon, in un comunicato rilasciato dal ministero. Gli arresti domiciliari possono essere concessi a qualsiasi prigioniero, principalmente per problemi di salute che non possono essere trattati in carcere. Ucraina: ai giornalisti russi tenuti nelle carceri ucraine è stato proibito di parlare www.italian.ruvr.ru, 11 giugno 2014 I giornalisti russi del canale televisivo Zvezda durante una conferenza stampa a Mosca hanno parlato delle condizioni della loro detenzione in carcere in Ucraina. I giornalisti russi Andrej Sushenkov e Anton Malyshev stavano andando a seguire l’insediamento di Poroshenko. Sono stati arrestati il 6 giugno dalla guardia nazionale nei pressi di Slavyansk nel sud-est dell’Ucraina e poi sono stati consegnati al Servizio di sicurezza ucraino. Ottenere il rilascio dei giornalisti è stato possibile solo lunedì 9 giugno. "In carcere c’era un posto per dormire, dovevamo stare seduti sul pavimento e faceva molto caldo", ha detto Andrej Sushenkov. Insieme con i giornalisti nella camera c’erano cittadini locali, arrestati per aiuto agli autonomisti. Sushenkov ha anche detto che nella cella era proibito parlare. Anton Malyshev ha riferito che tutte le comunicazioni tra i detenuti e le loro guardie si basava su minacce e percosse. Messico: lite nel carcere di Matamoros, nello Stato di Tamaulipas, feriti 8 detenuti La Presse, 11 giugno 2014 È di otto detenuti feriti, alcuni dei quali in modo grave, il bilancio di una lite scoppiata in Messico all’interno della prigione di Matamoros, nello Stato di Tamaulipas. Alcuni dei prigionieri hanno appiccato il fuoco e i feriti hanno riportato bruciature. Polizia e soldati sono stati inviati sul posto per bloccare gli scontri e spegnere le fiamme. Le autorità non hanno riferito se i detenuti coinvolti hanno legami con il traffico di droga. Lo Stato di Tamaulipas è da tempo teatro di una sanguinosa battaglia fra il cartello del Golfo e quello Zetas, che combattono spesso anche all’interno delle carceri. Iraq: tre carceri di Mosul sono controllate dall’Isis, liberati quasi 3mila detenuti Nova, 11 giugno 2014 Sono tre in tutto le carceri di Mosul finite oggi nelle mani dei miliziani dello Stato islamico di Iraq e Siria (Isis). Una volta occupato il carcere di Badush questa mattina, i terroristi islamici hanno preso il controllo del centro di detenzione di al Tasfirat e di quello della sezione anti-terrorismo della polizia. A Badush sono stati liberati 1.400 detenuti, a Tasfirat 700 e in quella dell’anti-terrorismo 625. Per questo salgono a 2.725 i detenuti evasi oggi dalle tre carceri della città del nord dell’Iraq. Slovenia: ex premier Jansa dal 20 giugno in carcere, condannato a 2 anni per corruzione Ansa, 11 giugno 2014 L’ex premier sloveno di centrodestra Janez Jansa dovrà presentarsi il 20 giugno al carcere di Dob per scontare i due anni di pena inflittigli dalla corte d’appello. La condanna è arrivata perché Jansa avrebbe accettato un’offerta di corruzione per facilitare all’azienda finlandese Patria l’affare con 135 blindati da vendere allo stato sloveno. Nonostante la condanna sia diventata definitiva con la sentenza di secondo grado, Jansa non ha ancora perso tutte le speranze. La sentenza potrebbe essere ribaltata dalla Corte costituzionale, cui Jansa ha fatto ricorso e che secondo fonti ufficiose potrebbe dare il proprio responso già nella giornata di oggi.