Giustizia: il paradosso crudele del carcere di Luigi Manconi (Senatore Pd) La Repubblica, 9 gennaio 2014 A ben vedere, l’esistenza del carcere e la sua prima giustificazione, la sua amministrazione e l’ideologia che produce si fondano su un paradosso crudele. Che si esprime nella formula: "Privazione della libertà per motivi di giustizia". L’idea che la libertà e la giustizia non marcino di pari passo, sottobraccio, ma l’una si serva - al fine di affermarsi - della cancellazione dell’altra fa a pugni con quella che sembrerebbe un’ovvia verità. Ossia che giustizia e libertà si integrino l’una nell’altra e si legittimino reciprocamente. Eppure da qualche secolo è così: la giustizia si serve della privazione della libertà per imporsi di fronte alla violazione delle leggi penali. L’alternativa, nel passato, erano le pene corporali e, non ultima, la pena di morte, dispensata all’ingrosso prima dell’invenzione del carcere. E dunque, per questo, fosse pure solo per questo, la "privazione della libertà per motivi di giustizia" dobbiamo tenercela ben stretta, sapendo cosa potrebbe sostituirla. Intanto, però, quel carcere che si vorrebbe strumento di legalità, macina anche il suo contrario: palesi ingiustizie, violazioni di diritti fondamentali, e talvolta veri e propri crimini, per azione o per omissione. È questo che ci spinge a non considerare concluso il processo di civilizzazione delle pene, che ci obbliga a pensare come sia possibile liberarsi dalla necessità del carcere, che ci esorta a progettare sanzioni diverse da quella rappresentata dalla privazione della libertà, e diverse modalità di mediazione dei conflitti. La crisi economica e la progressiva erosione del welfare universalista hanno reso sempre più improbabile la grande promessa rieducativa scritta in Costituzione, ma non cancellano la dignità della persona detenuta e i suoi diritti. La stessa legittimazione del diritto penale è nella sua differenza dalla vendetta che si scatenerebbe in sua assenza. Dunque, il diritto di punire si giustifica solo quando sa essere rispettoso di chi, quella punizione, subisce, qualunque sia il reato di cui si sia macchiato in precedenza. Poi sta all’intelligenza della politica, quando non possa fare a meno di trattenere in carcere qualcuno, offrirgli quelle opportunità di "emancipazione" che gli consentano di prepararsi un’altra vita, quando quella pena sarà infine conclusa. Poi, c’è il carcere come è. Nella sua concreta e sordida materialità, nella sua infinita sporcizia, nella sua assoluta insensatezza. Ovvero totale mancanza di senso, di un qualunque significato razionale e funzionale. Il carcere come luogo di procedure di degradazione dei corpi e di annichilimento della dignità della persona. Lo spazio di una immensa miseria materiale e immateriale (altissimo tasso di analfabetismo) e insieme di una "disperata vitalità" (numerosissimi giornali realizzati all’interno e corsi di scrittura creativa, laboratori teatrali e televisioni a circuito chiuso). Ma ciò che va notato, soprattutto, è la trasformazione del carcere nella principale agenzia di stratificazione e diseguaglianza sociale del nostro paese. Fino ad alcuni decenni fa, il carcere aveva come compito principale quello di contenere i detenuti socialmente pericolosi: questi ultimi, secondo la valutazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono oggi una piccola minoranza; e, all’interno della popolazione carceraria, un terzo è rappresentato da tossicomani, un terzo da stranieri, e un terzo da individui ai margini del (oppure oltre il) sistema di cittadinanza. Persone dipendenti da tutte le dipendenze e da tutte le patologie, malati psichici e senza fissa dimora, borderline e cittadini già garantiti e ora precipitati nella scala sociale. Il carcere e altri luoghi del sorvegliare-punire assolvono a funzioni che la crisi del welfare state abbandona o trascura: laddove non arriva più la protezione pubblica, interviene la cella, il centro di identificazione e di espulsione, il dormitorio e la mensa della Caritas, i servizi psichiatrici, l’Opg. Il carcere è sempre più il reclusorio delle povertà. Ed è fatale che si radicalizzi una tendenza che sempre il sistema penitenziario ha coltivato: quella alla infantilizzazione del recluso. Si pensi che il principale strumento attraverso il quale il detenuto si rivolge all’amministrazione, chiede una visita medica o l’acquisto di cibo, un colloquio col direttore o col magistrato di sorveglianza, lamenta un disagio o rivendica un diritto, è un facsimile che il linguaggio carcerario definisce domandina. Non domanda, bensì domandina. Passa attraverso quella richiesta definita con termine bambinesco qualunque relazione tra il recluso e il mondo dei liberi. E questo è solo uno dei molti segni di quel processo di riduzione in stato di minorità, che sembra essere lo scopo essenziale e la natura profonda della privazione della libertà. Il detenuto-bambino è tale perché non padrone di sé e dipendente da altri. A partire dalle prime e fondamentali libertà. Quella di disporre del proprio corpo e quella di disporre del proprio tempo. Il detenuto-bambino può muoversi entro limiti assai circoscritti e decisi da altri e non può "andare dove vuole". Così come non può decidere dell’impiego di quella risorsa primaria e qualificante che è il tempo. Non è lui a decidere a che ora svegliarsi e addormentarsi, a che ora mangiare e a quale riposarsi. Lo decidono altri. Lo decide l’Autorità Adulta. In attesa di una crescita che, molto probabilmente, non arriverà mai. Giustizia: con la riforma della custodia cautelare sarà più difficile andare in carcere di Claudia Fusani L’Unità, 9 gennaio 2014 Entro 24 ore la Camera approva la riforma della custodia cautelare. Il testo obbliga a motivare e circostanziare le ragioni dell’arresto. In attesa di giudizio un terzo dei detenuti. Sarà più difficile andare. in carcere. Senza una condanna definitiva. In un Parlamento che naviga a vista, il destino appeso a poche ma imprevedibili variabili - la legge elettorale e la volontà di Renzi - riesce a muovere qualche passo la riforma della custodia cautelare (l’arresto nella fase delle indagini preliminari e senza condanne) che vent’anni fa, con Mani Pulite, segnò il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Che in questo ventennio ha segnato le cronache politico-giudiziarie. E che tutt’oggi tiene in cella, senza una sentenza definitiva, il 25 per cento della popolazione carceraria (circa ventimila persone). Un saldo insostenibile in un paese di diritto. Tra oggi e domani l’aula di Montecitorio licenzia la proposta di legge Ferranti, Orlando, Rossomando. Per diventare legge ci sarà poi da superare lo scoglio del Senato dove la maggioranza ha una decina di voti di vantaggio. Ma visto il gradimento trasversale del provvedimento, sono contrari solo Lega e M5S, eventuali ostacoli all’approvazione sarebbero solo strumentali ad altri fini. "Dopo vent’anni di battaglie sulla giustizia in cui non abbiamo potuto muovere un passo perché c’era sempre il rischio di una legge ad personam dietro l’angolo, per la prima volta riusciamo a dialogare e a decidere su un tema delicato come la custodia cautelare" osserva la relatrice del provvedimento Anna Rossomando (Pd). La giustizia nel dopo-Berlusconi riesce a fare qualcuno dei passi che lo stesso Cavaliere aveva a suo tempo auspicato. Il testo prevede 15 articoli il cui filo rosso è ridurre il più possibile l’uso della custodia cautelare. E, seguendo un percorso già iniziato quando negli uffici di via Arenula sedeva il ministro Severino, fare in modo che la cella diventi l’ultima ed estrema soluzione dopo aver tentato tutte le altre previste: domiciliari, messa alla prova, braccialetto elettronico. Sono gli articoli 2-3 quelli che marcano la differenza laddove dicono che l’arresto è previsto per "situazioni di concreto e attuale pericolo" che "non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del reato e dalle modalità e circostanze per cui si procede", anche in relazione alla personalità dell’imputato. Al di là dei tecnicismi della prosa, si può dire che d’ora in poi sarà molto più difficile, quasi impossibile, mandare in carcere un Silvio Scaglia (il manager che fece un anno di custodia cautelare ed è stato assolto in primo grado dopo quattro anni d’inferno) caso che a suo tempo rimase così impresso al segretario democrat. A giudicare dalle prime carte, dovrebbe anche essere più difficile mandare in cella i quattro politici locali arrestati ieri a L’Aquila per mazzette nella ricostruzione post-terremoto. Ci finiscono come e più di prima terroristi, mafiosi e autori di delitti efferati (l’omicida di Caselle). Questo non vuole dire fine del giustizialismo e trionfo del garantismo. Significa però la fine delle manette facili (che in certi casi c’è stata). Un altro passaggio chiave della nuova legge specifica che d’ora in poi il gip "dovrà motivare" le ragioni dell’arresto. Cioè non basterà più sostenere, sulla base di qualche intercettazione, che c’è un pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Il giudice dovrà anche spiegare perchè non sono applicabili, prima del carcere, tutta un’altra serie di misure interdittive oltre gli arresti domiciliari. La figura del Cavaliere è aleggiata a lungo anche su questo testo. Ma più in chiave preventiva che reale. Il sospetto, il timore, era che anche su questo provvedimento qualcuno del vasto entourage legale di Berlusconi potesse approfittare per spazzare via uno degli incubi più frequenti del Cavaliere: finire in carcere non per altre condanne definitive (che si possono sommare a quella per i Diritti tv) ma in esecuzione di qualche ordinanza di custodia cautelare. La norma ad personam di cui si è sussurrato, non da oggi, tra il Parlamento e palazzo Chigi (era interessato a questo provvedimento anche il vicepremier Alfano) avrebbe dovuto prevedere la preclusione del carcere come misura cautelare per chiunque abbia più di 70 anni. La faccia, questa volta, l’avrebbe dovuta mettere il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia Gianfranco Chiarelli. Ieri, però, in aula non c’era traccia di questo emendamento. In effetti, visto che l’obiettivo primario della legge è limitare gli ingressi in carcere, dovrebbero essere assai gravi i reati commessi da un ultra settantenne per finire dietro le sbarre. Berlusconi non sembra correre rischi analoghi. Qualora poi dovessero andare definitive altre condanne, anche in quel caso è quasi impossibile andare in carcere a 78 anni. La legge che tra oggi e domani dovrebbe lasciare la Camera, e che è stata in parte ritoccata dopo le richieste dell’Anm ("troppo limitativa per i pm"), è un ulteriore passaggio verso un diverso sistema delle pene in Italia. Gli altri step sono contenuti nel decreto sulle carceri (il secondo in un anno e mezzo) che ieri è stato incardinato in aula e nella riforma del processo penale che il ministro Cancellieri dovrebbe presentare a fine gennaio. Tutto questo infatti non può prescindere da un processo più veloce e snello. Ma quella riforma della giustizia tanto a lungo invocata sta muovendo, nel silenzio, i primi passi. Giustizia: politica e manette facili, prova d’appello per uscire dal buco nero di Cristina Giudici Il Foglio, 9 gennaio 2014 La Camera (con gran ritardo e timidezze) affronta la riforma della custodia cautelare. Cosa può succedere. La prima risposta, seppure in ritardo e parziale, al solenne e drammatico messaggio alle Camere del capo dello stato sul problema della riforma della giustizia è arrivata ieri nel tardo pomeriggio da Montecitorio, dove è cominciato l’esame della proposta di legge bipartisan su quello che è il vero nodo gordiano della giustizia penale italiana, o per meglio dire il buco nero, il punto in cui da oltre vent’anni esplode il conflitto tra potere giudiziario e cittadini, e tra magistratura e politica. Insomma il problema dell’abuso della carcerazione preventiva, che ha consentito gli errori e gli orrori da Tangentopoli fino ai recenti calvari giudiziari, uno per tutti quello di Silvio Scaglia, ex manager di Fastweb assolto nell’ottobre scorso per non aver commesso il fatto dopo un’abnorme durata della custodia cautelare. Uno strumento del codice di procedura penale, certo, ma oltre misura discrezionale e fonte di violazioni dei diritti degli indagati, che è da un ventennio inchiodato come in un fermo immagine: al decreto Biondi del 1994 e al blitz televisivo del pool della procura di Milano che di fatto lo annullava manu militari. E ancora, il fermo immagine di un dibattito più che decennale in cui a parole tutti vogliono eliminare le storture della carcerazione preventiva, ma si rimane sempre fermi allo stesso punto, reiterando quella che Marco Pannella definisce "flagranza criminale" nei confronti dei diritti degli indagati. La proposta di legge 631 depositata il 3 aprile 2013 e presentata dai relatori Anna Rossomando del Pd e Carlo Sarro di Forza Italia è il risultato di un fragile compromesso fra garantisti e settori politici per così dire meno interessati di tutti gli schieramenti politici in commissione Giustizia, e vorrebbe porre almeno dei robusti paletti, soprattutto per gli incensurati, eliminando il divieto di desumere il pericolo (della libertà) solo dalla gravità del reato, ma analizzando anche le modalità e le circostanze del reato. Altro punto è ridurre anche l’automatismo con cui ora si applica la custodia cautelare, aggiungendo la parola "attuale" al pericolo "concreto", onde evitare che il giudice possa mandare in carcere un indagato che sia già stato in carcere. Per Donatella Ferranti (Pd), prima firmataria della legge e presidente della commissione Giustizia della Camera, la riforma in essa contenuta è strutturale "perché prevede la carcerazione come extrema ratio, solo se non possono essere applicate misure interdittive e coercitive, e per un periodo di dodici mesi". Innovazioni che possono essere significative, certo, ma forse non proprio strutturali, se si considera che invece il Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, sta lavorando a un decreto che, sullo stesso argomento, prevede fra le altre cose che sia un collegio di tre giudici a decidere e motivare un arresto. Il progetto del ministro va inoltre in senso contrario alla proposta di legge all’esame della Camera perché si spinge ad abolire il Tribunale del riesame, che invece la proposta di legge all’esame dell’Aula potenzia. Il decreto governativo dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri entro la fine di gennaio, anche se la data è tutt’altro che certa perché, come hanno detto al Foglio i collaboratori del ministro Cancellieri, si naviga ancora a vista e non si sa quando il governo lo presenterà. Il presidente di Corte d’appello Giovanni Canzio, che guida la commissione di studio del ministero della Giustizia sul processo penale, interpellato dal Foglio non vuole commentare le modifiche alla custodia cautelare arrivate in Parlamento, ma si limita a dire che le ritiene "un passo avanti". Anche se, sebbene siano stati approvati diversi provvedimenti per decongestionare il carcere, il numero dei detenuti in attesa di giudizio (come è noto la percentuale non ha eguali in Europa) non cala: circa 25 mila. L’uso e l’abuso della custodia cautelare, che ha lasciato morti e feriti sul campo, sono una patologia cronica. Come ribadì persino Ernesto Lupo, prima di lasciare il suo incarico di primo presidente della Cassazione. Nel 2012 cercò di trasmettere lo stesso concetto contenuto poi nel discorso alle Camere di Napolitano: "L’elevato numero dei detenuti non definitivi è un sintomo dello squilibrio nel processo italiano. Uno squilibrio fra la gravità indiziaria e la motivazione per la custodia cautelare", disse all’inaugurazione dell’Anno giudiziario del 2012. Ma il nodo non è ovviamente solo di natura tecnico-amministrativa. Nel 1994, il ministro del primo governo Berlusconi Alfredo Biondi cercò, invano, di limitare l’uso e l’abuso della custodia cautelare per i reati che non implicano pericolosità - tranne dunque omicidio, mafia, terrorismo. I giustizialisti mediatici e politici lo soprannominarono "decreto salva-ladri", la possibilità di riequilibrare i rapporti tra magistratura e cittadini si fermò lì, su una strumentalizzazione di pura natura politica. Eppure quelle storture rappresentano ancora oggi, a vent’anni di distanza, una patologia cronica. Una patologia che la proposta di legge ieri approdata alla Camera, dopo sei mesi di attesa, vorrebbe provare a curare: forse con un’aspirina, quando ci vorrebbe quanto meno un antibiotico. L’esame iniziato ieri sera deve superare il varco di sessanta emendamenti, molti del Carroccio e alcuni di Forza Italia, fra cui uno che vorrebbe vietare l’entrata in carcere a donne incinte o con bambini con meno di sei anni e a persone che abbiano oltrepassato l’età di settanta anni, salvo sussistano "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". Un emendamento-esorcismo per Silvio Berlusconi, nel caso di future condanne, e che probabilmente verrà bocciato. Ma che potrebbe diventare l’inciampo (basta leggere Liana Milella su Repubblica di ieri) per fermare la legge, scatenando la solita guerra civile sui banchi degli antiberlusconiani. Comunque sia, la proposta di legge può produrre dei cambiamenti, perché nelle intenzioni del legislatore si vogliono evitare i consueti automatismi usati dai magistrati dalle "manette facili", e aumentare gli obblighi di motivazione della custodia: "Il giudice dovrà dare conto con un’autonoma motivazione delle ragioni per cui gli argomenti della difesa sono disattesi", si legge. Ma anche un possibile buon esito dell’iter (ieri sono stati approvati 4 articoli, poi la seduta è stata aggiornata a oggi) non può cancellare lo schiaffo istituzionale inflitto a Giorgio Napolitano: al suo messaggio alle Camere di ottobre doveva seguire un dibattito parlamentare, che non c’è mai stato. E la presidente della commissione Giustizia, Ferranti, ha scritto una relazione che avrebbe dovuto essere la traccia per un percorso di riforme del sistema giudiziario e penitenziario, che non è mai stato calendarizzato. Giustizia: Dap; a fine dicembre 62.536 detenuti, di cui 11.108 in attesa primo giudizio Adnkronos, 9 gennaio 2014 I detenuti presenti nelle 205 carceri italiane sono 62.536, di cui 2.694 donne (a fronte di una capienza regolamentare di 47.709 posti). Gli stranieri sono 21.854, mentre le persone in attesa di primo giudizio sono in totale 11.108. I detenuti in semilibertà sono 856, di cui 80 stranieri. I dati, aggiornati al 31 dicembre 2013, sono del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, I detenuti usciti dagli istituti penitenziari ai sensi della legge 199/2010 e successive modifiche (esecuzione presso il domicilio delle pene detentive), dall’entrata in vigore fino al 31 dicembre 2013 sono in totale 13.044, di cui 840 donne e 3.791 stranieri (tra questi 336 donne). Tra i 21.854 detenuti stranieri, di cui 1.079 donne e 20.775 uomini, ben 4.060 provengono dal Marocco (18,6% sul totale stranieri), mentre 3.504 vengono dalla Romania (16%); 2.845 sono gli albanesi (13% sul totale stranieri) e 2.627 vengono dalla Tunisia (12%) e 865 i nigeriani (4% sul totale). A livello territoriale, nei 19 istituti della Lombardia, a fronte di una capienza regolamentare di 5.892 posti, sono detenute 8.756 persone (di cui 536 donne e 3.934 stranieri). Al secondo posto la Campania, dove sono reclusi 7.966 detenuti (di cui 362 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 5.850 posti nei 17 istituti di pena. Nella speciale classifica, è il Lazio ad aggiudicarsi il terzo gradino del podio, con 6.882 detenuti presenti (489 donne), staccando di poco la Sicilia che raggiunge quota 6.828 (di cui 138 donne) rispetto a una capienza regolamentare di 5.530 posti. Tra gli altri dati indicati dal Dap e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, emerge che in Piemonte i detenuti sono 4.542, in Toscana 4.008 e 2.969 in Veneto (rispetto a una capienza regolamentare di 1998 posti). In Puglia i detenuti presenti sono invece 3.722 a fronte di una capienza regolamentare di 2.444 posti, mentre in Emilia Romagna sono recluse 3.687 persone rispetto a una capienza regolamentare dei 12 istituti di pena che è di 2.390 posti. Tamburino: con liberazione anticipata speciale sotto i 60mila detenuti "Sono favorevole alle misure sulla liberazione anticipata speciale, prevista dal decreto carceri e bisogna distinguere rispetto ai fenomeni indulgenziali o estintivi". Lo ha detto il capo del Dap Giovanni Tamburino in audizione alla Commissione giustizia della Camera, secondo il quale "di fronte alla necessità di un equilibrio, questa misura ha buona efficacia ed è la meno lesiva delle esigenze di sicurezza e giustizia". Una misura, ha sottolineato, "che non è un’estinzione della pena, ma una riduzione concessa sul presupposto di una sua effettiva espiazione. C’è poi un’applicazione caso per caso e non per categorie di reati, anche se c’è un’applicazione ampia che può interessare l’80% dei casi, o anche più, in cui la liberazione anticipata può essere applicata. Inoltre è applicata in base alla meritevolezza ed è passibile di revoca se si commette un reato durante la detenzione. Ed è vista favorevolmente a livello europeo in base alle indicazione del Consiglio d’Europa". Quanto alle cifre dei detenuti cui potrebbe essere applicata, "i numeri vanno riferiti ai condannati per pena residua che sono fino a sei mesi, che sono quasi 5mila. Ma non tutti avranno questo beneficio e non tutti nella misura massima. Ma se ci fosse un’applicazione anche al 50% avremmo un effetto di una certa consistenza sui 62.400 detenuti presenti oggi nelle carceri e la popolazione carceraria scenderebbe sotto i 60 mila detenuti. Ulteriori benefici verrebbero con la previsione di consegna di altri 4.500 posti carcere entro il maggio prossimo". Pagano: numero detenuti in calo di 200 a settimana "Il numero di detenuti presenti nelle carceri italiane sta scendendo con una media di circa 150 - 200 persone a settimana". Lo dice all’Adnkronos Luigi Pagano, vice capo del Dap, che coglie negli ultimi dati (aggiornati al 31 dicembre 2013) di 62.536 presenze nelle 205 carceri italiane, il segno di "un effetto di sistema tra provvedimenti legislativi e l’azione del Dap", perché "oltre agli effetti della legge 199/2010, stanno incidendo le misure adottate negli ultimi anni dai diversi governi". "Ma anche l’ultimo decreto legge del Guardasigilli, Annamaria Cancellieri - fa notare Pagano - sta già avendo un impatto positivo: da Brescia, ad esempio, sono usciti una ventina di detenuti, e altrettanti da Marassi". "Peraltro proprio a Brescia stamattina si è arrivati ai limiti storici di presenza: 290 detenuti. Un anno fa erano oltre 400", rimarca il vice capo del Dap. "Da tutti gli istituti si vedono segnali positivi - prosegue - perché c’è una organicità di scelte rispetto all’obiettivo di ridurre il sovraffollamento, alla costruzione di nuovi istituti e reparti, e a un’azione amministrativa che ridà condizioni di vita non degradanti ai detenuti e migliori possibilità di lavoro anche al personale". "Interventi - è l’analisi del vice capo del Dap - che si affiancano a una differenziazione dei circuiti e alla possibilità di interagire con l’esterno, avvalendosi della fondamentale collaborazione della società nei percorsi trattamentali. Solo con scelte di sistema - conclude Pagano - si possono dare risposte all’Europa e rendere concreto il dettato costituzionale sulla dignità della pena e il reinserimento sociale. Un obiettivo che significa sicurezza per il cittadino". Giustizia: il decreto legge "svuota carceri" è costituzionale. Dap: "Primi effetti positivi" di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 gennaio 2014 I requisiti di necessità e urgenza straordinaria per tentare la "riduzione controllata della popolazione carceraria" stavolta ci sono tutti. Lega, M5S e Fratelli d’Italia (con l’eco esterna di un redivivo Antonio Di Pietro) avevano promesso botte da orbi male hanno prese, ieri alla Camera, con la bocciatura delle pregiudiziali di costituzionalità presentate dai tre partiti contro il decreto legge governativo del 23 dicembre scorso che, in iter di conversione, è attualmente in Commissione Giustizia a Montecitorio. Se non bastava la condanna che la Corte europea dei diritti umani ha inflitto all’Italia a causa del sovraffollamento penitenziario, se il messaggio inviato alle Camere dal capo dello Stato era caduto nel vuoto, come d’altra parte i suoi numerosi moniti e appelli precedenti, se la battaglia non violenta di Marco Pannella non aveva mai trovato proseliti tra i partiti più giustizialisti dell’arco parlamentare e la Marcia di Natale dei Radicali era già finita nel dimenticatoio il giorno della Befana, almeno con 340 voti contrari e 162 favorevoli la Camera ha sancito che con il decreto legge erroneamente chiamato "svuota carceri " si deve andare avanti. Con buona pace di chi vorrebbe farlo passare per un "indulto mascherato". Ad esprimersi sul decreto-legge sarà poi a breve anche il Csm (la Sesta commissione), per iniziativa autonoma non richiesta dal ministero di Giustizia. Intanto l’Aula ieri ha continuato l’esame del Progetto di legge presentato da Pd e Sel che contiene modifiche al codice di procedura penale per ridurre il ricorso automatico alla custodia cautelare in carcere. Questa mattina molto probabilmente il testo emendato sarà licenziato da Montecitorio e passerà poi al Senato. "E lì si fermerà", prevede polemicamente il deputato di Sel, Daniele Farina. "C’è un tema che comincia ad essere imbarazzante e che dovrebbe preoccupare - spiega l’ex vicepresidente della commissione Giustizia - Dalla Camera sono partiti diversi bastimenti, messa alla prova, omofobia, reato di tortura, diffamazione a mezzo stampa e adesso "carcerazione preventiva". Buone o cattive che siano, al Senato tutto si è bloccato". Anche il ddl presentato da Luigi Manconi per la liberalizzazione della marijuana farà, secondo Farina, la stessa fine. "Per fortuna, dopo tanto tempo, si torna in piazza l’8 febbraio prossimo - aggiunge l’esponente del milanese Leoncavallo lanciando un appello alla partecipazione - per abolire la criminogena legge Fini-Giovanardi sulle droghe". Necessità che inizia a fare breccia perfino nel ventre della Lega. E infatti anche il decreto-legge pre natalizio voluto dalla Guardasigilli Annamaria Cancellieri contiene delle blande modifiche alle norme sugli stupefacenti per incentivare il ricorso alle misure alternative per i tossicodipendenti. E "i primi effetti sono positivi - ha testimoniato il capo del Dap, Giovanni Tamburino, audito dai deputati della commissione Giustizia - monitoriamo settimanalmente i dati e abbiamo riscontrato un decremento di circa 200 detenuti a settimana". Tamburino si è detto favorevole alle misure sulla liberazione anticipata speciale prevista dal decreto carceri, che comunque vanno applicate "caso per caso e non per categorie di reati, anche se c’è un’applicazione ampia che può interessare l’80% dei detenuti". I numeri, ha specificato il capo dell’amministrazione penitenziaria, "vanno riferiti ai condannati con pena residua fino a sei mesi, che sono quasi 5 mila. Ma non tutti avranno questo beneficio nella misura massima. Ma se ci fosse un’applicazione anche al 50% avremmo un effetto di una certa consistenza sui 62.400 detenuti attuali e la popolazione carceraria scenderebbe sotto i 60 mila detenuti. Ulteriori benefici verrebbero con la consegna di altri 4.500 posti carcere entro il maggio prossimo". Della necessità di correttivi al decreto, però, sono convinti l’associazione Antigone, Fuoriluogo e l’Unione delle camere penali che questa mattina, insieme ad esponenti politici di Sel e del Pd (il renziano Ivan Scalfarotto, per esempio) e ai Garanti dei detenuti territoriali, terranno a Montecitorio una conferenza stampa per presentare alcuni emendamenti finalizzati a "migliorare il testo". Giustizia: Favi (Pd) nel decreto-carceri manca fondamentale capitolo lavoro operatori Ansa, 9 gennaio 2014 "Alla vigilia di un decisivo dibattito parlamentare sul risanamento ed il riequilibrio del sistema penitenziario italiano, manca il fondamentale capitolo delle risorse professionali che saranno impegnate a garantire la sicurezza, il senso di umanità e la finalità rieducativa della pena. Gli organici degli educatori penitenziari, degli psicologi e degli assistenti sociali per l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione sono assolutamente carenti e saranno ancor più penalizzati dalle generali misure di riduzione del personale del pubblico impiego". Lo dichiara in una nota Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd. "I quadri del Corpo di Polizia penitenziaria continuano a soffrire di una insopportabile sperequazione di carriera rispetto a quelli omologhi delle altre Forze di polizia, mentre sono chiamati a governare un importante rinnovamento del modello di sicurezza negli istituti penitenziari. Il piano carceri che dovrà assicurare ampliamenti e nuove strutture detentive non decolla, a causa delle evidenti insufficienze delle dotazioni organiche della Polizia penitenziaria. Perfino, la riduzione dell’assetto organizzativo dell’amministrazione penitenziaria si scarica sulle strutture decentrate, piuttosto che sull’apparato burocratico centrale, quando, invece, viene dichiarata la volontà di un più stretto raccordo con le istituzioni civili e sociali sul territorio, per essere volano di un qualificato trattamento rieducativo dei detenuti e dei condannati in misura alternativa. È inaccettabile, infine, che si protragga ancora l’incertezza sull’ordinamento professionale della dirigenza penitenziaria, che da quasi otto anni non trova compiuta definizione con un primo contratto nazionale di lavoro. Il Governo apra il dossier delle professioni penitenziarie, affinché sia credibile lo sforzo di restituire civiltà e dignità al carcere ed al sistema sanzionatorio", conclude Favi. Giustizia: ma intanto nelle carceri italiane si continua a morire di Massimo Lorito www.euroroma.net, 9 gennaio 2014 Purtroppo il nuovo anno non sembra invertire una tragica statistica che lascia una triste scia di sangue nelle carceri italiane. I numeri, inquietanti, sono quelli di una guerra e ci parlano dei detenuti che muoiono ogni anno nelle "patrie galere"; per suicidi, ma anche per malattie, depressione, mancanze di assistenza e cura adeguate. Secondo il dossier "Morire di carcere" (www.ristretti.it) dal 2000 ad oggi i morti totali sono stati 2238, i suicidi 803. E in questa prima settimana del 2014 si contano già due suicidi. Il primo nel carcere di Ivrea dove un detenuto si è tolto la vita impiccandosi alla finestra di un bagno usando un sacchetto della spazzatura intrecciato. Il secondo a Rebibbia, una delle realtà carcerarie più difficili della penisola, dove un detenuto di 53 anni si è impiccato con la propria camicia nella tarda serata di domenica 5 gennaio. A quanto è trapelato il detenuto era in attesa di giudizio; in carcere da qualche mese per omicidio e in attesa di essere trasferito nel reparto per minorati psichici, sempre nelle strutture detentive di Rebibbia. Secondo il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, tali gravi episodi riportano "immediatamente e drammaticamente il problema dei reclusi nelle nostre strutture, specie di quelli con gravi problemi psicologici. Il carcere è un luogo duro, in grado di piegare anche i caratteri più forti, figurarsi l’impatto che può avere con quanti hanno già delle sofferenze psichiche. Il problema è che, spesso, il sovraffollamento non consente di capire se queste persone abbiano una sofferenza tanto grave da indurle a privarsi della vita. Per questo occorre passare immediatamente dalle parole ai fatti, per tornare ad un sistema detentivo che, nel pieno spirito del dettato costituzionale, rimetta al centro la persona e la tutela dei suoi diritti". Alla parole di Marroni si sono aggiunte quelle del vicesindaco di Roma Luigi Nieri che ha ricordato come "nelle carceri italiane hanno una frequenza circa 19 volte maggiore rispetto a quelli delle persone libere. I detenuti che si tolgono la vita, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono particolarmente difficili a causa del sovraffollamento, ma anche delle poche attività trattamentali e della scarsa presenza del volontariato. Anche per questo le attività trattamentali vanno finanziate, il volontariato sostenuto e il sovraffollamento sistemico sconfitto, attraverso la revisione di norme liberticide che riempiono le carceri e non risolvono i problemi". Le dichiarazioni di Marroni e di Nieri, a dire il vero, sembrano le uniche proferite da esponenti delle istituzioni, politici o addetti ai lavori, in merito al tragico susseguirsi di morti nei nostri istituti penitenziari. Negli ultimi anni non sembrano aver sortito effetto né le raccomandazioni, né le condanne ufficiali dell’Unione Europea ai vari governi per la vergognosa situazione in cui versano le nostre carceri. Non servono gli appelli dei familiari che vedono i propri cari spegnersi tra atroci sofferenze fisiche e psichiche dietro le sbarre. Occorre oltretutto segnalare che 3 detenuti su 10 scontano pene legate al traffico degli stupefacenti. Come a dire che in un paese come il nostro con una diffusa illegalità legata a reati finanziari, economici, contro il patrimonio pubblico, molti dei quali depenalizzati, per non parlare della criminalità organizzata, il 30% di chi finisce dietro le sbarre ci finisce per droga. Situazione resa ancora più drammatica dal fatto che in questo 30% moltissimi sono i tossicodipendenti. Il Ministro Cancellieri a seguito del "mezzo" scandalo in cui si era venuta a trovare dopo il caso Ligresti, rimasta saldamente a capo del Dicastero della giustizia, aveva promesso attenzione particolare per tutti quei casi degni di nota, ma, ahinoi, ad oggi non c’è ancora stata un’inversione di tendenza. Inversione di tendenza che non vuol dire altro che applicare finalmente la Costituzione italiana e i diritti civili anche tra le mura dei nostri penitenziari. Giustizia: nelle carceri due suicidi in una settimana. Ornella Favero: "c’è assenza di speranza" di Gian Luigi Cocci Redattore Sociale, 9 gennaio 2014 Per l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere nel 2013 sono 48 le persone che si sono tolte la vita. La direttrice di Ristretti Orizzonti, Favero: "C’è uno stato di abbandono. Fa rabbia che si intervenga solo per evitare le sanzioni dell’Ue". Sono passati solo 8 giorni dall’inizio del nuovo anno è già ci sono da registrare tre decessi, di cui due suicidi, all’interno delle carceri italiane. L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere non ha fatto in tempo ad archiviare il 2013 - con 148 decessi, di cui 49 suicidi - che già deve riprendere la conta. "Difficile commentare" per la direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero, che addita come responsabile di questa "catastrofe" lo stato di abbandono e disattenzione che circonda il pianeta carcere. "C’è una tale desolazione e la situazione è così pesante - si sfoga. Oggi c’è assenza di speranza". Il 2013, per Favero, è stato questo, l’anno della disattenzione, "dovuta ai numeri assurdi delle persone ristrette, con un personale numericamente fermo a 20 anni fa e magistrati che non sono in grado di dare risposte alle istanze dei detenuti perché non ce la fanno o perché manca chi redige i documenti necessari, come le osservazioni". In questa situazione le famiglie e le persone ristrette restano sospese, in attesa di sapere, ad esempio, quando arriverà il primo permesso. Anche i colloqui si fanno difficili per il sovraffollamento e i rapporti personali rischiano di risentirne. La direttrice di Ristretti incalza: "È uno scaricabarile tra istituzioni. Anche sul fronte dell’umanizzazione delle carceri si cerca di fare qualcosa, ma è frustrante la sensazione di svuotare il mare con un cucchiaino". E insiste: "Trovo bestiale l’attesa di risposte che non arrivano: in carcere non è come fuori, dentro si pensa solo a quello ed è logorante". I suicidi, anche quelli tentati, e l’aumento della violenza che si registra nelle carceri sono, per Favero, un’altra conseguenza dello stato di abbandono. "Ora la politica sta provando a intervenire - sottolinea - ma è desolante che si muova qualcosa solo per evitare di pagare la sanzione dell’Unione Europea e non per la consapevolezza delle condizioni disumane in cui si trovano a vivere migliaia di persone. Mi fa rabbia non solo come volontaria, ma come cittadina". Giustizia: Ucpi; bilancio di legislatura in profondo deficit, serve riforma subito Adnkronos, 9 gennaio 2014 Sulla giustizia, è possibile intervenire "in tempi assai ristretti, non più di tre mesi". Lo sottolinea in una nota l’Unione Camere Penali, che traccia una road map delle riforme possibili da sottoporre al Governo ed al Parlamento, al fine di "tentare di salvare dalla bancarotta un bilancio di legislatura che, fin qui, è in profondo deficit". Ma occorre che "la volontà tante volte di arrivare a riforme realmente condivise sia reale" ed infatti i penalisti ammoniscono che altri interventi "come l’abolizione del divieto di reformatio in pejus in caso di appello dell’imputato, quella del principio di immutabilità del giudice, la limitazione dei casi di ricorso nella ipotesi di "doppia conforme di condanna", l’introduzione di casi di inammissibilità degli appelli per manifesta infondatezza, l’abolizione del tribunale del riesame, la preclusione di questioni di nullità e l’esclusione della parte civile nel giudizio abbreviato, ed infine l’anticipazione dell’ammissione delle prove in sede di udienza preliminare" di cui pure si sta parlando in questi giorni come punti di un possibile Ddl delega che sarebbe proposto dal Governo, produrrebbero una "irriducibile opposizione da parte dell’Avvocatura penale" che già in questi giorni è mobilitata per salvaguardare il diritto difesa, "che da ipotesi come queste sarebbe ulteriormente ed irrimediabilmente compresso". Uno dei temi in primo piano, rilevano i penalisti, oggi in audizione in Commissione Giustizia alla Camera, è quello del carcere: "Non vi è spazio per la contrapposizione, che spesso viene strumentalmente invocata, tra interventi ordinari (riforma della custodia cautelare, rinnovazione del sistema delle pene, interventi sull’ordinamento penitenziario) ed interventi straordinari (amnistia e indulto), poiché i secondi - spiegano - sono funzionali ai primi. Resta però il nodo politico della percorribilità degli uni e degli altri". Quanto agli interventi ordinari, in Parlamento sono in discussione alcuni disegni di legge che "possono portare a significativi risultati, purché li si affronti con spirito costruttivo": il "vero nocciolo politico" sul quale le forze politiche si devono esprimere con chiarezza, è per l’Ucpi la volontà di "riportare il carcere entro i suoi confini costituzionali, eliminando la custodia cautelare come pena anticipata prima della condanna, assicurando la marginalità della sanzione detentiva e la prevalenza di altre forme punitive". Una riforma "che però si deve avere il coraggio e la volontà di difendere, cosa che proprio oggi appare posta in dubbio dalla formulazione uscita dal comitato dei nove della Commissione Giustizia che ha edulcorato una delle previsioni formulate sul pericolo di reiterazione". Un’altra riforma a costo zero, e "universalmente condivisa", sottolineano i penalisti in una nota, è quella della sospensione del processo nei confronti degli irreperibili: è in Parlamento un testo già passato al vaglio della Commissione Giustizia il cui percorso parlamentare potrebbe portare al suo esame in "tempi rapidissimi". E ancora, la riforma della responsabilità civile dei magistrati e quella delle norme che regolano la l’esercizio del diritto elettorale passivo da parte delle toghe; anche in questo caso "non sarebbe questione di tempi, le proposte sono già all’esame del Parlamento, ma di volontà politica, anzi per meglio dire discontinuità rispetto ad un passato che va dalla Prima alla Seconda Repubblica, nel corso del quale questi temi sono stati inibiti dai veti della magistratura". Infine, la scelta di operare un provvedimento di clemenza come "elemento di frattura della emergenza umanitaria nelle carceri. Al di là delle strumentalizzazioni elettorali, resta la constatazione che la macchia indelebile della condanna che l’Italia ha subito, sul rilievo di sottoporre a trattamenti disumani e degradanti i propri detenuti, è una vergogna nazionale che deve, deve immediatamente, essere cancellata. Tutti sanno che solo un provvedimento generalizzato di clemenza è in grado di interrompere la flagranza di questa condizione illecita, e non si può far finta di ignorarlo solo per lucrare una manciata di voti". Giustizia: intervista a Marco Pannella "carceri italiane figlie di un regime illegale" www.clandestinoweb.com, 9 gennaio 2014 Nonostante i reiterati appelli del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sull’emergenza carceri e sul provvedimento di amnistia, è tornato a parlare anche il leader radicale, Marco Pannella, che intervistato da Dimitri Buffa sulle pagine di Italia-24news spiega "è il regime. Non c’è nessuna norma che riescano ad applicare. Dopo sessanta anni si sono come incartati. Contrariamente al fascismo che rispettava la propria legalità, anche se infame, questi appena approvata la Costituzione hanno cominciato a mangiarsela". Sul tema delle carceri italiani e sull’urgenza di fare presto qualcosa in merito Pannella spiega che "tutte le riforme giudiziarie le abbiamo dovute ottenere con altrettante battaglie sin dall’inizio. Sul 41 bis dovemmo fare quella ricerca che poi abbiamo pubblicato perché era materia da segreto di stato". Sulla giustizia la politica sembra non interessarsi e non adoperarsi per cambiare lo status quo delle dinamiche attualmente in corso negli istituti penitenziari italiani, "la gente per le strade mi ferma e mi domanda se ce la si fa con questa amnistia, magari saranno parenti, ma ormai sono parenti di milioni di persone perché noi abbiamo posto il problema di venti anni di questo andazzo, di certo il regime ha imparato che a noi non ci devono sentire nei dibattiti che sono il luogo in cui si confrontano le cose e le idee – spiega ancora Pannella – per un paese che ha la costituzione teorica che noi abbiamo, per esempio nessuno ha detto che da quindici anni in Italia c’è il crollo delle violenze, costante, ma poi questo chi lo sa? Perché sessanta anni di partitocrazia danno questi risultati". "In due anni, dopo il messaggio di Napolitano, dopo quello che ha detto la ministra della giustizia, alla tv, delle carceri, si parla poco o niente. Già dall’epoca del convegno della prepotente urgenza… si doveva fare qualcosa… il problema venne posto dal capo dello stato, e loro niente. La verità è che nel vuoto di ideologia viene fuori che questi sono populisti per cultura… però la battaglia ormai si è internazionalizzata, su tutto", afferma il leader radicale che insieme ad una delegazione durante il giorno di Natale ha partecipato alla Marcia di Natale per sensibilizzare sui temi di amnistia, libertà e giustizia e durante il giorno di Capodanno è andato a far visita alle due carceri romane di Rebibbia e di regina Coeli. Anche in merito alla malagiustizia Italia, come il caso Tortora, tornato da poco in auge anche grazie al documentario di Ambrogio Crespi "Enzo Tortora, una ferita italiana", Pannella ha raccontato nell’intervista come "era di nuovo in corso la raccolta delle firme sui referendum, era attualità istituzionale, persino Berlusconi aveva firmato tutti e dodici i quesiti, e il problema dell’amnistia era soprattutto del funzionamento della giustizia… non tanto di un provvedimento di clemenza, l’Europa ci rimprovera nei suoi rapporti la ferita che viene inferta allo stato italiano e alla sua popolazione con questo tipo di giustizia". Giustizia: intervista a Luigi Manconi "stop alle leggi carcerogene" di Carlo Lania Il Manifesto, 9 gennaio 2014 Senatore Luigi Manconi, il primo stop al suo disegno di legge sulla depenalizzazione della marijuana arriva proprio da Renzi. Se lo aspettava? "Se ricordo bene, Renzi si è detto contrario alla liberalizzazione delle droghe leggere. Ma io penso che la liberalizzazione sia esattamente il regime oggi in vigore in Italia, ovvero la possibilità di acquistare sostanze stupefacenti a qualunque ora del giorno e della notte, in qualunque via o piazza d’Italia da una moltitudine di esercizi commerciali illegali: spacciatori, cioè. Contro questo regime io opero per arrivare a un sistema che sia invece di legalizzazione, che significa regolamentazione della produzione, del commercio e del consumo delle sostanze stupefacenti a partire dai derivati della canapa indiana. Questo significa sottoporre hashish e marijuana a un sistema di tassazione e controllo, regole e limiti. E considerato il quadro normativo e i rapporti di forza politici possiamo parlare di una prospettiva, non certo di una scadenza a breve termine. Di conseguenza, il mio disegno di legge sceglie di intervenire sulla Fini-Giovanardi per abrogare le norme illiberali e carcerogene di quella normativa". La sua proposta ha trovato consensi in ambienti inaspettati, dalla Lega a Giuliano Ferrara sul Foglio. Non mi sorprende. Posso raccontarle un episodio singolare? Prego. Nel 1999 ero senatore dei Verdi. In quell’anno, lo stesso giorno il manifesto e il Sole24ore pubblicarono un testo per la legalizzazione delle sostanze stupefacenti con una doppia firma: in rigoroso ordine alfabetico Luigi Manconi e un convintissimo Marcello Pera. In quel tempo in Italia, grazie al coordinamento radicale antiproibizionista e al lavoro di persone come Giancarlo Arnao, Marco Taradash, Franco Corleone e, grazie al cielo, molti altri, raccogliemmo un numero sterminato di adesioni, anche tra molti funzionari di polizia. Cosa che in altri paesi era avvenuto da tempo. Negli Usa molti di coloro che avevano partecipato con ruoli particolarmente attivi alla guerra contro la droga già all’epoca ne denunciavano il fallimento e già all’epoca caldeggiavano soluzioni alternative. E fu allora che anche in Italia cominciarono a diffondersi le politiche di riduzione del danno che rappresentarono un’autentica, anche se assai faticosa, svolta. Nonostante questo ci sono voluti trent’anni per sancire il fallimento del proibizionismo. Un fallimento sancito ora a livello mondiale, ma che certo è di lunga data. La commissione internazionale presieduta da Kofi Annan ha fatto affermazioni decisamente lucide e inequivocabili. Prima dichiarando l’insuccesso totale delle politiche proibizioniste e poi incoraggiando le strategie di regolamentazione e legalizzazione, in particolare per la cannabis. Nascono da qui l’esperienza dell’Uruguay, ma anche la decisione del Colorado di legalizzare l’uso ricreativo della marijuana e la diffusione in molti paesi di norme in materia di cannabis terapeutica. A proposito di questo: lunedì lei presenterà un ddl per l’uso terapeutico della cannabis. Di che si tratta? Parto da un dato medico: i derivati della canapa, ovviamente, non servono per guarire dalle malattie, ma intervengono positivamente su alcuni effetti collaterali di certe patologie o di terapie particolarmente invasive. Per dirne una: la patologia della quale io sono affetto può avere benefici dall’uso della marijuana al fine di ridurre la pressione endoculare. Da questo punto di vista, la mia personale morigeratezza, non mi ha aiutato. Ma anche alcuni effetti collaterali della chemioterapia o di malattie come la Sla sono affrontati positivamente da farmaci a base di cannabinoidi. Parliamo di immigrazione. Finalmente un segretario del Pd che non ha paura di parlarne in termini che non siano solo repressivi. Vero. Ma ricordo anche che Pierluigi Bersani, e non è un omaggio in ragione della sua condizione attuale, condusse la campagna elettorale indicando come obiettivo essenziale la questione della cittadinanza. Quindi, c’è una significativa continuità corrispondente a un’opinione condivisa, anche se sono il primo a sapere che non è maggioritaria nel Paese e, temo, neanche nel centrosinistra. La convincono le proposte di Renzi? Sono ovviamente d’accordissimo con l’abolizione del reato di clandestinità e penso che i tempi di detenzione nei Cie debbano essere portati ai 30 giorni originari della Turco-Napolitano. I Cie hanno fallito e sembrano destinati comunque a esaurirsi, tanto più se funzionerà la norma che prevede l’identificazione in carcere di coloro che vanno espulsi al termine della pena. Sono favorevole anche all’apertura di uffici di collocamento nelle ambasciate, punto questo che può essere legato a un passaggio cruciale che, a mio avviso, costituisce la più efficace riforma della Bossi-Fini, ovvero la concessione del permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. Questo avrebbe un importante effetto anche sul piano culturale e simbolico perché potrebbe contribuire a superare l’attuale riduzione della figura dello straniero alla mera funzione di forza-lavoro. Giustizia: Riina e le minacce a Di Matteo. Il giallo delle intercettazioni Ansa, 9 gennai 2014 Il capo del Dap viene sentito in Commissione antimafia. E racconta quello che sa su una storia di cui si è molto parlato. Sul caso delle minacce di Totò Riina al pm di Palermo Nino Di Matteo emerse da un’intercettazione di un dialogo in carcere tra Riina e un altro detenuto, Alberto Lorusso, e soprattutto sul come questa notizia sia trapelata "non mi risulta che sia stata aperta un’inchiesta amministrativa interna: non credo che ci sia". Lo ha detto il capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, sentito in Commissione antimafia. Riina, ha spiegato Tamburino, fece "gravi minacce" al direttore del carcere di Opera dove era detenuto e "io ne fui informato dalla Direzione detenuti e trattamenti. Per questo avevamo già avviato l’iter per l’applicazione del 14 bis a Riina", la misura per inasprire la sorveglianza sui detenuti. "La richiesta, che è sempre sottoposta al controllo giurisdizionale, è stata fatta nel novembre 2013", ha detto il capo del Dap, negando che il 14 bis non si possa applicare ai detenuti in 41 bis, cioè in regime di carcere duro: "Il Dap - ha detto Tamburino - non può aver risposto che non lo applica, perché lo fa e io stesso ho firmato diverse applicazioni". "Per una coincidenza temporale - ha detto ancora Tamburino - quando siamo venuti sapere delle minacce al direttore del carcere è emersa sulla stampa anche la notizia delle minacce a Di Matteo". Riguardo ai rapporti di Riina con altri detenuti all’interno dei cosiddetti gruppi di socialità, Tamburino ha spiegato che questi gruppi "per i detenuti in 41 bis sono di 4 persone, gli abbinamenti vengono fatti dalla direzione generale detenuti, ma viene sempre sentita l’autorità giudiziaria, ed è avvenuto anche per l’abbinamento Lorusso-Riina. Non mi risulta inoltre che Lorusso sia mai stato in abbinamento con il figlio di Riina". "Se sono state disposte delle intercettazioni in un carcere di massima sicurezza, io non lo so ed è giusto che sia così. Non mi risulta - ha detto inoltre Tamburino - che Riina sapesse di essere intercettato, non ho elementi da cui si possa ricavare. È un’ipotesi possibile, forse anche verosimile. Ma dai dati che ho non si può dire", ha spiegato Tamburino, al quale i parlamentari, a iniziare dalla presidente della commissione Rosi Bindi, hanno chiesto come sia uscita la notizia delle minacce. Bindi si è detta "molto sorpresa" del fatto che il capo del Dap affermi di non essere al corrente di intercettazioni effettuate in un carcere, cioè in un ambito sotto la giurisdizione del Dap, su un detenuto in 41 bis. E perplessità hanno manifestato anche diversi commissari. "Le notizie apparse sulla stampa" sulle minacce di Riina a Di Matteo, ha affermato Tamburino, "rappresentano l’esito di un’attività giudiziaria. Quando ho partecipato al comitato sulla sicurezza convocato a Palermo, a cui hanno preso parte anche molti magistrati siciliani, lì ho avuto la certezza che questi fossero dati noti all’autorità giudiziaria di Palermo e Caltanissetta". Ma "l’autorità amministrativa", per cui è competente il Dap rispetto alle carceri, "è separata da quella giudiziaria". Se da una parte, quindi, "gli agenti sono tenuti a informare l’autorità giudiziaria di tutti gli elementi utili", dall’altra "io non vengo informato dell’attività giudiziaria in corso e non mi informo, è giusto che sia così: per garantire la riservatezza delle indagini, meno sono a sapere e meglio è". "E non mi risulta - ha aggiunto - che ci siano state fughe di notizie per un’attività informativa di competenza amministrativa". 706 i detenuti al 41 bis, 130 per ‘ndrangheta Sono 706 i detenuti attualmente sottoposti al regime del 41bis, distribuiti in 12 carceri italiane. Lo ha reso noto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, nel corso di un’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. "Duecentottantaquattro sono riconducibili alla camorra - ha spiegato Tamburino -, 215 a Cosa nostra, 130 alla ‘ndrangheta, 43 a Sacra corona unita e alle "altre" mafie pugliesi. Solo 3 dei detenuti al 41 bis appartengono ad organizzazioni terroristiche". Marche: il Garante dei detenuti Tanoni; la legge Fini-Giovanardi va modificata Ansa, 9 gennaio 2014 Il Garante dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha sottoscritto il documento che il Coordinamento nazionale dei garanti ha prodotto a pochi giorni dall’approvazione del decreto Cancellieri, e in cui si sollecitano due correttivi: la modifica della legge Fini - Giovanardi e una maggiore autonomia del Garante nazionale dei detenuti. "È necessario - spiega Tanoni - modificare la Legge Fini - Giovanardi sulle droghe leggere, una delle principali cause del sovraffollamento delle carceri. Il carcere non può essere il solo rimedio ad una delle maggiori piaghe della nostra società e depenalizzare non significa eliminare ogni sanzione, ma individuare delle pene alternative come il trattamento in comunità o la messa in prova nei servizi sociali". Altro aspetto sul quale il coordinamento chiede maggiore attenzione è il ruolo del Garante nazionale dei detenuti. "Questa figura di garanzia e i suoi collaboratori per poter operare in piena autonomia devono essere svincolati dall’apparato gestionale penitenziario e da qualsiasi organizzazione politica e amministrativa" afferma Tanoni. I contenuti della proposta dei garanti saranno presentati domani a Roma dal presidente del Coordinamento nazionale Franco Corleone. Basilicata: carceri non affollate; in regione 442 detenuti, uno in più rispetto agli standard di Valerio Panettieri www.ilquotidianodellabasilicata.com, 9 gennaio 2014 In che stato sono le carceri lucane rispetto al bilancio stilato dal ministero della Giustizia il 31 dicembre del 2012? In un momento storico in cui si parla di decreti svuota carceri, amnistie e si rimette in discussione la legge sulle droghe Fini - Giovanardi c’è da fare il punto, almeno fino al 31 dicembre del 2013, su quante persone vivono in un regime carcerario in Basilicata. È indubbio che la questione del sovraffollamento delle strutture è molto seria e necessita di un intervento immediato, ma in Basilicata i dati non sono inquietanti come nel resto delle regioni d’Italia, ma il dato nazionale indica in primo luogo lo spaventoso sovraffollamento delle strutture. Giusto per fare un po’ di conti: a fronte di una capienza regolamentare di 47 mila 709 posti in tutta Italia al 31 dicembre 2013 dietro le sbarre ci sono 62mila 536 persone e solo 856 di questi si trova in uno stato di semilibertà. Il dato regionale però dice ben altro. A fine del 2012 la situazione era questa: a fronte di una capienza regolamentare tra Melfi, Potenza e Matera era di 441 posti. I detenuti, in totale, erano 454. Tredici persone in più rispetto a quanto previsto, di certo non uno scarto sensibilmente alto ma comunque segno tangibile che anche in una regione con una popolazione molto bassa il rischio sovraffollamento è reale. Nel 2013 la situazione è migliorata di un poco. Il numero dei posti non è aumentato ed è rimasto sui 441 dell’anno precedente, solo che a risultare detenuti, stando sempre ai risultati annuali pubblicati dal ministero della Giustizia, sono 442 persone, dodici in meno rispetto al 2012 e una in più stando agli standard sulla capienza. Due soltanto sono quelli in semilibertà, mentre sui 442 totali solo 20 sono donne e 53 gli stranieri. E questo è un dato importante: nonostante l’allarmismo sul pericolo dello "straniero" ad affollare le carceri sono soprattutto persone di nazionalità italiana. I dati però dimostrano un altro fatto, rispetto al Molise, che soffre di un sensibile sovraffollamento, la Basilicata mostra un volto molto più "umano" nelle case circondariali. C’è però da considerare la posizione stessa dei detenuti. Attualmente nelle carceri lucane ci sono 45 persone in attesa di primo giudizio, 19 appellanti e 31 ricorrenti. Sono invece 8 i detenuti con più imputazioni a carico ma senza condanne definitive. Il totale è di 58 persone che si uniscono ai 339 condannati definitivi che vivono tra le mura delle case circondariali regionali. Firenze: a Sollicciano, tra le macerie dell’utopia carceraria di Enrico Rossi (Presidente della Regione Toscana) Corriere Fiorentino, 9 gennaio 2014 Caro direttore, nel giorno dell’Epifania sono stato al carcere di Sollicciano con Adriano Sofri e l’assessore Luigi Marroni. Per vedere e toccare con mano, ancora una volta, la condizione umana nelle carceri e discutere coi detenuti alcune soluzioni pratiche che vorremmo attuare in tempi rapidi. Non è il caso di tornare sulle cifre e sul racconto del calvario penitenziario. Le violazioni sistematiche all’articolo 27 della Costituzione e la procedura d’infrazione avviata dalla Corte europea dei diritti umani sono un macigno sulle nostre coscienze. Potrà sembrare banale ma una visita in carcere, come fosse una visita da un nostro parente in cattiva salute, è condizione imprescindibile per ogni misura d’intervento. Sollicciano è un non luogo, orfano dell’utopia carceraria e cementizia degli anni Settanta. Allora la riforma (1975) introdusse il concetto di "umanizzazione della pena" regolando in una chiave nuova il trattamento e l’organizzazione della detenzione, superando, almeno sulla carta, la natura repressiva e classista dell’ordinamento fascista (1931). Ebbero inizio programmi di alfabetizzazione, formazione al lavoro, ricreazione sportiva e culturale. Sollicciano sorse in quegli anni da un progetto di architetti illuminati (Andrea Mariotti, Piero Inghirami, Gilberto Campani). Da allora però le finanze sono diminuite continuamente e le infrastrutture sono invecchiate malissimo. Si vive in tre per ogni cella, tra pareti fradice e sporche, fredde d’inverno e roventi d’estate. Mancano le risorse per garantire il vitto: carta igienica, caffè, rasoi, eccetera, e i programmi alternativi sono ormai del tutto residuali. Le utopie costano care e quando si esauriscono le risorse per alimentarle, sul campo restano macerie e deserti umani. Quello che voleva essere il culmine della razionalità si è rovesciato così nel suo contrario e la detenzione si è risolta in una regressione animalesca. I detenuti sono diventati bestie in gabbia. È bene aver chiaro questo contrappasso per trovare un punto di risalita. In Toscana abbiamo intenzione di intervenire concretamente. Lo abbiamo già fatto firmando un protocollo assieme al ministro della Giustizia lo scorso 17 dicembre a Firenze. Nella nostra regione oggi ci sono 900 detenuti in più rispetto alla capienza massima. Di questi 350 potrebbero in tempi rapidi essere affidati a misure alternative. L’investimento della Regione (circa 4 milioni di euro) va in questa direzione e i suoi effetti potranno essere misurati tra 6 o 7 mesi. I primi detenuti ad essere avviati al programma saranno una settantina, in particolare mamme e tossicodipendenti; le prime strutture di accoglienza saranno pronte entro la prossima estate. A Pianosa, in accordo con il sindaco di Campo nell’Elba, cercheremo di recuperare - grazie al lavoro di un’ottantina di detenuti - gli edifici in degrado destinandone alcuni all’accoglienza turistica e daremo il via ad un programma di coltivazione agricola. La Regione ha infine stanziato 400mila euro per sostituire tutti i materassi (come avviene periodicamente negli Ospedali) su cui i detenuti passano la maggior parte della propria vita. Credo che la polarizzazione tra i sostenitori di un’amnistia generale e gli alfieri dell’ordine pubblico e della disciplina repressiva paralizzi il nostro Paese, renda sterile il dibattito politico e allontani soluzioni ragionevoli. Nel mezzo c’è però un ampio campo d’azione, che resta deserto, e potrebbe invece diventare il terreno di un intervento riformista fondato sull’umanità, sulle buone pratiche e sul volontariato. Per rendersi conto di questa opportunità bisogna rompere il ghiaccio. Accorciare le distanze tra il carcere degli altri e le nostre vite. Trapani: direttore carceri; decisione incomprensibile Asp di negare farmaci ai detenuti da Michele Caltagirone www.trapaniok.it, 9 gennaio 2014 Sulla questione relativa all’interruzione della fornitura dei farmaci da parte dell’Asp di Trapani per i detenuti degli istituti di pena di Trapani, Castelvetrano e Favignana, abbiamo sentito il dottor Renato Persico, direttore della casa circondariale di Trapani. "Intanto - ci ha detto - bisogna puntualizzare che la fornitura farmaceutica da parte dell’Azienda Sanitaria veniva assicurata ininterrottamente dal 2004 e da allora noi avevamo dormito sonni tranquilli in tal senso, fino a pochi mesi fa, quando l’Asp ci ha comunicato che tale fornitura sarebbe stata interrotta a partire dall’1 gennaio del nuovo anno, sia per i farmaci di uso comune che per quelli che rientrano nella tabella H (per malati con patologie croniche, tossicodipendenti, affetti da hiv). Hanno sottolineato che l’assistenza farmaceutica per i detenuti delle carceri non è passata al servizio sanitario nazionale e per tale motivo i farmaci adesso sono garantiti soltanto a pagamento. Questo ovviamente comporta una spesa per l’Amministrazione Penitenziaria in un momento di grande difficoltà". Per il dottor Persico si tratta comunque di un’incongruenza, considerato "che i detenuti hanno diritto all’assistenza farmaceutica perché rientrano nel servizio sanitario nazionale. Si tratta di una decisione che non riusciamo a comprendere e tra l’altro finora l’Asp di Trapani è l’unica azienda sanitaria siciliana ad aver assunto un tale provvedimento. Credo che decisioni del genere - ha concluso - vanifichino il nostro lavoro ed i nostri sforzi di fornire un servizio dignitoso". Sassari: detenuto morto per overdose in carcere, le indagini vanno avanti La Nuova Sardegna, 9 gennaio 2014 Come è finita la droga in un carcere appena inaugurato, moderno e... modello? Come ha fatto il detenuto romeno a eludere i controlli riuscendo in questo modo a iniettarsi con una siringa l’eroina che lo ha poi ucciso? Alcuni giorni fa è stata depositata la perizia del medico legale che ha accertato che a causare la morte di Viorel Neicu, 30 anni, è stata un’overdose di eroina e non un infarto fulminante. I familiari avevano chiesto con forza che venisse fatta chiarezza sul decesso del loro caro (il romeno era rinchiuso in carcere per sfruttamento della prostituzione). Per arrivare alla verità si erano affidati agli avvocati di Olbia Cristina e Abele Cherchi. La perizia eseguita da Vindice Mingioni su richiesta del pubblico ministero Elisa Loris, titolare dell’inchiesta, ha rivelato una verità ben diversa da quella che era stata ipotizzata in un primo momento: Viorel Neicu è morto per overdose di eroina iniettata con siringa. La perizia ha quindi stravolto il responso iniziale che attribuiva il decesso a cause naturali. Orala Procura di Sassari vuole vederci chiaro e infatti le indagini della Loris sono tutt’altro che chiuse. Osapp denuncia: criticità a Bancali "Ancora criticità nella casa circondariale di Sassari Bancali e a pagarne dazio è sempre la Polizia Penitenziaria", a dichiararlo è il segretario generale aggiunto dell'Osapp, Domenico Nicotra, che rende nota la richiesta rivolta al Provveditore regionale perché vengano assunti provvedimenti non più rinviabili. "In particolare - ha aggiunto Nicotra - è impensabile che detenuti che si sono resi responsabili di disordini negli ambienti detentivi e su cui gravano anche denunce di oltraggio a Pubblico ufficiale qual è il poliziotto penitenziario, vengano autorizzati a prestare attività lavorativa. Infine - conclude il sindacalista - se questo trend negativo non viene interrotto e non viene ridata la giusta dignità alla polizia penitenziaria, saranno istituiti dei presidi di protesta sindacale e probabilmente nel corso dell'anno appena iniziato saremo costretti a parlare della questione penitenziaria sarda e di tutte le sue criticità". Palermo: la "mutua assistenza" di Pino Porto… per i picciotti in cella 800mila euro di Riccardo Lo Verso www.livesicilia.it, 9 gennaio 2014 Da Palermo si era trasferito a Milano, dove è stato arrestato nel settembre scorso e dove aveva costruito un reticolo di cooperative. Sarebbero servite, secondo l’accusa, a creare dei fondi neri a disposizione dei carcerati. Da Porta Nuova a Resuttana: in tanti hanno beneficiato dell’aiuto di Pino il "cinese". Adesso chi si occupa di loro? Sulle spalle aveva il peso dei detenuti. Decine e decine di famiglie campavano grazie a Pino Porto. Quanto costava la catena di solidarietà di Cosa nostra? Ottocentomila euro, a giudicare dai conti fatti dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo che a lungo hanno indagato su Pino il "cinese". Da Palermo si era trasferito a Milano, dove aveva costruito un reticolo di cooperative. Sarebbero servite, secondo l’accusa, a riciclare i soldi della mafia, ma anche a creare dei fondi neri utilizzati per sostenere economicamente i detenuti e i loro familiari. Pino Porto aveva contatti con i mafiosi di diversi mandamenti della città - da Porta Nuova a Resuttana - e così ora gli investigatori sono al lavoro per scoprire chi avrebbe beneficiato della "generosità" del "cinese". I mafiosi a Milano sono sempre stati di casa. L’asse con Palermo era nato al tempo di Vittorio Mangano, lo stalliere di casa Berlusconi. Un’asse fatto di affari e protezione. La stessa protezione di cui ha goduto, per ultimo, Gianni Nicchi. L’astro nascente di Cosa nostra ha trascorso parte della latitanza nella casa milanese di Pino Porto. A lui si sono sempre rivolti i familiari di Nicchi quando si sono spostati in trasferta per i colloqui nel carcere di Opera. Il "cinese" non solo ne curava gli spostamenti, ma passava anche uno stipendio mensile a Lucia Martinelli e Francesca Nicchi, madre e sorella di Gianni. Non sono gli unici. Pino Porto è uno che ha sempre avuto un occhio di riguardo per colui che chiamava "il mio padrino", e cioè Gioacchino Matranga, che a Milano era stato arrestato dopo un breve periodo di latitanza. Condannato per un grosso traffico di droga, era finito ai domiciliari per motivi di salute. E dalla sua abitazione di San Donato Milanese si era allontanato facendo perdere le proprie tracce. Nel 2010 l’arresto. Ecco cosa diceva di lui Pino Porto in una conversazione con Vito Leale, indicato dagli investigatori come uomo di fiducia del "cinese" a Palermo: "Mi domandano tutti i soldi, io per ora non ne ho... si sono fatti prestare ottomila euro da quello e quello li chiede a me... lui mio padrino si è fatto cambiare un assegno allora gli ho dato duemila euro io...". Leale: "... se uno cerca di dare da mangiare a questo e a quello finiscono nella tasca...". E Porto tagliava corto: "Ho più di 800 mila euro fuori Vito, ho pure messo 180 mila euro dalla mia tasca Vito...". Ce n’è abbastanza per fare scrivere ai pubblici ministeri di Milano che "può dirsi del tutto certo che la destinazione di tale somma (frutto del nero imponente che viene realizzato con le false fatturazioni e l’utilizzo di manodopera clandestina) sia il mantenimento dei detenuti". A settembre scorso la Procura di Milano ha chiesto e ottenuto gli arresti, tra gli altri, di Pino Porto e Cinzia Mangano. Arresti eseguiti dalla polizia meneghina. Cinzia Mangano è la figlia di Vittorio, il reggente del mandamento mafioso di Porta Nuova che divenne stalliere. La Mangano era amministratrice unica della Cgs New Group Scarl e consigliere della Csi Milano Società Cooperativa, entrambe con sede a Milano. Nel 2008 le due coop hanno incassato 3 milioni con appalti di ortofrutta, pulizia e trasporto merci. Parte di questi soldi sarebbero stati utilizzati da Pino Porto per aiutare i detenuti e i familiari di chi sta in carcere. Ora che è finito in carcere ci si chiede chi ne avrebbe preso il posto. Chi garantirebbe la mutua assistenza targata Cosa nostra a chissà quante persone. Viterbo: la Cancellieri visita carcere di Mammagialla "diventerà un modello per il Lazio" Adnkronos, 9 gennaio 2014 Il Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri si è recata in visita oggi presso la Casa Circondariale di Viterbo. "È un carcere con tanti problemi ma anche con grandi potenzialità - ha commentato il Guardasigilli a conclusione della sua visita - Ho trovato una grande disponibilità a lavorare ed impegnarsi per migliorare la situazione, soprattutto con riguardo alle attività sociali, educative e lavorative dei detenuti". Accolta dal direttore Teresa Mascolo, spiega una nota del ministero della Giustizia, il ministro ha visitato la struttura nelle sue differenti sezioni, intrattenendosi anche con il personale di Polizia penitenziaria addetto alla custodia dei detenuti e con il personale amministrativo in servizio. "Mammagialla diventerà un carcere modello per il Lazio". La ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri esce dall’istituto penitenziario di Viterbo con in testa un progetto per migliore la struttura e la vita di detenuti e agenti. La ministro è arriva nel capoluogo nel pomeriggio per una visita a sorpresa nel carcere, dove il giorno di capodanno è scoppiata una violenta rissa tra detenuti, con un bilancio di dodici feriti. Il fatto ha destato molto clamore, tanto che la guardasigilli ha deciso di venire a vedere di persona cosa succede a Mammagialla. "Il problema di questo carcere non è il sovraffollamento – ha detto al termine della visita – qui non ci sono le situazione drammatiche per cui l’Europa ci sta colpendo, nessuno ha meno di i tre metri di spazio vitale. Il vero problema è la mancanza di spazi sociali. Questo carcere ha enormi possibilità e si può lavorare per migliorare la vita di tutti. Anche degli agenti penitenziari che stanno facendo un grossissimo sforzo in questo istituto, io penso che se ci mettiamo tutti insieme a lavorare, e potremmo fare cose interessanti". La ministro durante la visita a Mammagialla ha incontra la direttrice dell’istituto Teresa Mascolo con la quale ha parlato a lungo per capire la situazione di vivibilità. "Mammagialla è una struttura solida con grandi potenzialità e ne faremo un modello per il Lazio. Diventerà sicuramente un carcere pilota. Il mio impegno sarà di totale di attenzione". Sulla rissa che ha sconvolto la vita all’interno del carcere la ministra lascia solo una battuta: "Si tratta di fenomeni complessi, ma non bisogna assolutamente arrendersi di fronte alle difficoltà ma comprenderne le motivazioni". Intanto lunedì 13 gennaio gli agenti della polizia penitenziaria preoccupati dopo la mega rissa hanno indetto un sit-in di protesta di fronte ai cancelli del carcere. "Apprendiamo che attualmente il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri si è recata a sorpresa presso l’Istituto di Viterbo Mammagialla. Con il Ministro presente anche il Professor Palma. Visita dovuta sicuramente a seguito dei fatti, rissa tra romani e rumeni, avvenuti nella giornata di Capodanno". A riferirlo, in una nota, è Massimo Costantino, segretario nazionale di Fns Cisl Lazio. "La visita del ministro - aggiunge - segue anche la convocazione da parte del Dipartimento amministrazione penitenziaria delle organizzazione sindacali fissata per il giorno 14 gennaio, seguito richiesta delle segreterie nazionali e regionali del comparto sicurezza. Plauso della Fns Cisl Lazio per la visita del Ministro all’Istituto di Mammagialla, per la vicinanza alle problematiche penitenziarie della regione Lazio e non solo". L’Istituto viterbese di Mammagialla allo stato risulta tra uno degli istituti della Regione Lazio dove più è marcata la presenza dei detenuti presenti, 700 circa, rispetto alla capienza regolamentare che può ospitare di 440. "Il personale di Polizia penitenziaria - prosegue Costantino in conclusione - anche se con carichi di lavoro più che raddoppiati in questa situazione così anche in altre, è sempre riuscita a far fronte ad una gravissima criticità con la massima professionalità al fine di riportate la situazione allo stato naturale". Caserta: al via iniziativa di Radicali e familiari dei detenuti a favore dell’indulto www.caserta24ore.it, 9 gennaio 2014 Dalla mezzanotte di mercoledì ha preso piede un’iniziativa nonviolenta del tutta spontanea, nata da comuni cittadini e parenti dei detenuti in tutta Italia a partire dalle sorelle Terragni. Tale iniziativa consiste in uno sciopero della fame ad oltranza per ottenere l’amnistia e l’indulto, a pochi giorni dalla marcia per l’amnistia promossa dai radicali. Il 2014 è iniziato da pochi giorni è già si registrano 3 morti negli istituti di pena. Allo sciopero della fame, sostenuto da un centinaio di cittadini in tutta Italia, hanno aderito anche Luca Bove, segretario dell’Associazione "Legalità & Trasparenza" - Radicali Caserta e Domenico Letizia attivista, sempre, dell’Associazione radicale della provincia di terra di lavoro. Il segretario dei Radicali Caserta , dichiara " Mai come ora il provvedimento di amnistia occorre per la giustizia italiana e per tutti i cittadini e nelle prossime settimane saranno organizzati varie iniziative nella nostra provincia sul tema della giustizia, infatti oltre a organizzare sit-in nonviolenti presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere nel mese di febbraio, in collaborazione con Pasquale Visone, dell’Associazione culturale "Inversione di Marcia "e Luca Coronella di "Generazione Adesso" organizzeremo anche un convegno sulla giustizia a Casal di Principe, comune dove molti cittadini sono sottoposti alla custodia cautelare. In merito interviene anche Domenico Letizia, che dichiara: "Proveremo con le armi della conoscenza e della non-violenza ad incidere ulteriormente nel nostro territorio, martoriato dalla malagiustizia, a diffondere le nostre proposte sulla giustizia. Proponiamo l’amnistia e con noi abbiamo numerosi cittadini che vivono sulla propria pelle la problematica; una società democratica deve puntare all’abolizione delle galere e dei luoghi di tortura e sappiamo che nessuna riforma della giustizia può partire senza un provvedimento urgente di amnistia". Genova: carcere di Marassi, direttore reintegrato tra gli applausi dei detenuti Ansa, 9 gennaio 2014 Applausi dai detenuti. Mazzeo, ringrazio il ministro. Il direttore del carcere di Marassi Giuseppe Mazzeo resterà al suo posto nell'istituto di pena genovese, è stato infatti annullato il trasferimento disposto dal Guardasigilli subito dopo l'evasione durante un permesso premio del serial killer Bartolomeo Gagliano poi arrestato a Mentone. La notizia, anticipata dal Corriere Mercantile di Genova, è stata accolta con applausi, strette di mano e le classiche 'battiturè dai detenuti che avevano annunciato lo sciopero della fame in caso di trasferimento del direttore. "Ringrazio il ministro - ha detto Mazzeo che stamani ha ripreso il suo lavoro - perché sono un operativo e non mi sarei trovato in un ruolo diverso ma anche perché ho mille progetti da portare a termine come l'area verde dove i bambini possono stare con il loro genitore detenuto e il laboratorio per creare prodotti detersivi ecologici". Napoli: agenti feriti, a sparare detenuto non rientrato da permesso premio Adnkronos, 9 gennaio 2014 Uno dei tre giovani fermati per la sparatoria nella quale sono stati feriti due agenti di polizia a Napoli non era rientrato da un permesso premio ottenuto a fine dicembre, e sarebbe dovuto tornare subito dopo Natale nell’istituto di pena minorile dove era detenuto "per un’impresa più o meno simile a questa". Lo ha detto il questore di Napoli Guido Marino, nel corso della conferenza stampa che segue i fermi dei tre giovani. Un altro dei tre era agli arresti domiciliari, il terzo è un pregiudicato. Genova: detenuto tenta suicidio a Marassi, salvato in extremis italia-24news.it, 9 gennaio 2014 Rischiamo di abituarci a leggere di suicidi in carcere, poiché lo stato di emergenza è talmente cronico da diventare quotidiano. Lo scenario si sposa questa volta a Genova, nella sesta sezione del carcere di Marassi, dove poco dopo l’ora di pranzo di oggi, alcuni agenti della polizia penitenziaria sono riusciti ad evitare che il gesto, disperato, di un detenuto, riuscisse: l’uomo, un nordafricano, si era impiccato alla finestra della sua cella ed è stato salvato in extremis dai poliziotti intervenuti. Era rimasto coinvolto in una rissa nel giorno dell’Epifania. A denunciare la pesante pressione e condizione lavorativa degli agenti di polizia penitenziaria, è il segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari, Fabio Pagani, che aggiunge: "Fino a quando questi eroi della Polizia Penitenziaria pur con grande capacità operativa potranno evitare gesti estremi, compiuti da detenuti esasperati e purtroppo instabili? Il gesto messo in atto dal -detenuto -sottolinea- è quasi certo che sia stato compiuto dopo la giusta notifica di denuncia per rissa". Il segretario denuncia una carenza permanente all’interno dell’istituto penitenziario di 100 unità, ma anche un sovraffollamento ormai cronico, con 800 detenuti presenti a fronte di una capienza di 456 posti. Pistoia: giovane detenuto condannato per droga tenta di uccidersi in carcere La Nazione, 9 gennaio 2014 Il tribunale di sorveglianza gli aveva negato le misure alternative. Il giovane ha tentato il suicidio nel carcere di Santa Caterina in Brana giovane ha tentato il suicidio nel carcere di Santa Caterina in Brana. Un giovane detenuto, originario della Valdinievole, ha tentato il suicidio, martedì sera, in una cella di isolamento del carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia. Voleva impiccarsi, ma il gesto, per fortuna, non ha avuto successo. Adesso, l’uomo è ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Jacopo e le sue condizioni sembrano stabili. Domenica, intorno all’ora di pranzo, i carabinieri si sono presentati a casa sua, dove vive con i familiari, per eseguire l’ordine di carcerazione. Il giovane è stato condannato in via definitiva a 3 anni e 4 mesi perché trovato in possesso di un notevole quantitativo di marijuana. Nel corso dell’ultimo anno, era rimasto agli arresti domiciliari, uscendo solo per andare a lavorare. Era seguito dal Sert di Montecatini, dove si presentava con regolarità per sottoporsi ai controlli previsti. Assistito dai congiunti, sembrava davvero avviato verso una nuova vita. In base alla relazione presentata al tribunale di sorveglianza di Firenze dagli specialisti, avrebbe potuto scontare la parte rimanente della condanna attraverso l’affidamento in prova, senza alcun problema. Ma i giudici non hanno affatto condiviso questa proposta, convinti che servissero ben altre soluzioni. Il carcere, secondo le valutazioni dei magistrati, rappresenta l’unico mezzo per cambiarlo, senza alcuna alternativa. Televisione: a "Linea gialla" (La7) di martedì scorso inchiesta sui maltrattamenti in carcere www.ilsussidiario.net, 9 gennaio 2014 Nella puntata di martedì 7 gennaio 2014 della trasmissione Le storie di Linea Gialla, vengono riproposte alcune vicende che hanno dominato la cronaca italiana nel corso degli ultimi mesi. Si parte dalla storia di Federico Perna, un giovane detenuto di 34 anni trovato morto nel carcere di Poggioreale lo scorso 8 novembre. Si tratta di una storia che pone lo sguardo sui presunti maltrattamenti e pestaggi che i detenuti subiscono all’interno di alcune strutture penitenziarie da parte di agenti. La madre di Federico, Nobila Scafuro, racconta come il proprio figlio fosse stato rinchiuso in carcere all’età di 31, mentre il fratello, Christian, mostra una foto che lo ritrae nello stato fisico che aveva nel momento in cui è entrato in carcere. Si intravede un uomo di 31 anni che, senza dubbio è in ottima salute, con una corporatura asciutta. Al momento del decesso ci sono foto raccapriccianti che mostrano un uomo molto ingrassato, con diversi lividi e feriti sul corpo. In pratica la denuncia dei familiari è che all’interno del carcere non solo Federico ha subito dei pestaggi, ma gli è stato anche negato il diritto di essere curato visto che soffriva di cirrosi epatica. La madre non riesce a darsi pace per quanto accaduto e si dice pronta a portare avanti una battaglia a tutto campo per ottenere che i detenuti non siano costretti a subire quanto purtroppo ha subito il figlio. Vengono dunque mandati in onda alcuni contributi che parlano della struttura penitenziaria di Poggioreale al cui interno verrebbero consumati atti deplorevoli. Un ex detenuto conferma l’esistenza di una cella zero, nella quale veniva rinchiuso un detenuto che doveva essere punito da una sorta di squadriglia che attuava pestaggi durante la notte, lontane dall’occhio delle telecamere interne. L’ex detenuto rivela come la detenzione all’interno della struttura napoletana sia tutto fuorché una detenzione basata sulla rieducazione sociale e civile. L’ex detenuto evidenzia come tutti siano a conoscenza di questi gruppi puntivi costituiti da agenti penitenziari senza scrupoli compresa la stessa direttrice del carcere, ma di come nessuno faccia nulla affinché possano cambiare le cose. Viene quindi mandato in onda un servizio in cui viene sentito il cappellano di Poggioreale, Don Franco Esposito, che denuncia come in effetti nella struttura accadano dei maltrattamenti. Viene sentita in forma anonima anche una volontaria, che parla di alcuni maltrattamenti subiti da un detenuto omosessuale le cui denunce non vengono prese in considerazione. Viene in seguito mandata in onda la clip nella quale il vice capo del Dap, Luigi Pagano (in una puntata precedente del programma) racconta di come sia in atto una sorta di operazione trasparenza per cui si dice disponibile, in qualsiasi momento, a lasciare entrare a Poggioreale le telecamere per una sorta di sopralluogo teso a mostrare come all’interno della struttura non accada nulla di quanto denunciato. In seguito, però, il sopralluogo non è stato concesso, senza peraltro darne una giustificazione. È stato inoltre sentito un ex agente penitenziario del carcere di Asti, Andrea Frungillo, che conferma come all’interno delle strutture avvenissero maltrattamenti e pestaggi di varia natura. Frungillo parla di come spesso gli arrivi dei detenuti fossero accompagnati da delle lettere nelle quali veniva evidenziato come dovessero essere trattati bene fino al processo per poi essere maltrattati in seguito. Frungillo parla di come solitamente fossero cinque gli agenti che operavano queste dolorose punizioni e che spesso riguardavano anche il cibo. Nello specifico venivano puniti alcuni detenuti facendo in modo che per due o tre giorni non gli fossero consegnati i pasti. Vengono raccontate poi le storie di Nicola Pagano che ha tentato per ben cinque volte il suicidio in carcere in ragione di quanto fosse dura la vita al suo interno e di Marcello Lonzi che all’età di 29 anni è morto nel carcere di Livorno, ufficialmente per un infarto anche se il padre mostra delle fotografie dalle quale si vedono segni di pestaggi e scie di sangue sul pavimento che portano all’esterno della propria cella. Droghe: perché proponiamo la cannabis libera di Sandro Gozi e Luigi Manconi L’Unità, 9 gennaio 2014 Uruguay "Paese dell’anno", secondo l’Economist. Chi l’avrebbe mai detto? Eppure, è proprio grazie a quel Paese dell’America latina che gli ultimi giorni del 2013 e i primi del 2014 hanno portato all’attenzione generale la tematica della depenalizzazione dei derivati della cannabis. Una questione rimasta irresponsabilmente sotto traccia per troppo tempo. Il primo segnale positivo è arrivato proprio dall’Uruguay del presidente Pepe Mujica: dal 10 dicembre la vendita e il consumo di marijuana sono stati depenalizzati e sottoposti a un regime di legalizzazione. A un mese di distanza, dal gennaio di quest’ anno, lo Stato americano del Colorado ha legalizzato il mercato della cannabis, al pari dello Stato di Washington, e molti prevedono che altri seguiranno (Oregon, Arizona e Michigan...). Ed è notizia di questi giorni che lo stato di New York, sull’onda dell’elezione a sindaco del liberale Bill de Blasio, intenda sperimentare l’uso terapeutico della marijuana (tutt’altra questione ma strettamente correlata, com’è evidente). E in Italia? Come troppo spesso accade, siamo inesorabilmente ultimi: o, nell’ipotesi più ottimistica, penultimi. La verità è che il nostro Paese è prigioniero di una visione antiquata e antiscientifica che tende a uniformare ogni tipo di droga. Non è così. È un preciso dovere di ogni Stato combattere il traffico criminale di droghe pesanti - e trovare soluzioni pragmatiche e razionali per ridurne le conseguenze sulla vita e sulla salute di chi ne fa uso - ma qui stiamo parlando d’altro. Ovvero del consumo personale dei derivati della cannabis. Coltivare una o più piantine in casa, esclusivamente per il consumo privato, non ha alcun impatto negativo sulla salute di chi lo fa e non crea danni a terzi. Il fatto è che la "guerra alla droga", come fu lanciata da Richard Nixon più di 40 anni fa, è miseramente fallita. E a dirlo non è qualche sballatotardo frick, bensì una fonte assolutamente qualificata, la Commissione globale per le politiche sulle droghe. Questo organismo internazionale, guidato dall’ex segretario dell’Onu Kofi Annan, dopo anni di ricerche ha stabilito che non è con la repressione e la criminalizzazione che si combatte il traffico di stupefacenti. Dal 1998 al2008, il consumo globale degli oppiacei è aumentato del 34.5%, e quello della cocaina del 27%. E risulta dimostrato, peraltro, che non c’è stato alcun effetto di riduzione del consumo di cannabis nei Paesi che hanno introdotto misure particolarmente repressive. In altre parole, le strategie più aggressivamente proibizioniste non pagano. Ed è proprio la Commissione guidata da Annan a "incoraggiare i governi a sperimentare modelli di regolamentazione legale di droghe (per la cannabis, ad esempio) che siano finalizzati a minare il potere della criminalità organizzata e a salvaguardare la salute e la sicurezza dei cittadini". Legalizzare il consumo delle droghe leggere è inoltre lo strumento giusto per colpire le filiere di spaccio, e ha l’indubbio vantaggio di "concentrare le azioni repressive sulle organizzazioni criminali violente", come si legge nel rapporto 2011 di quella stessa Commissione. È sulla scorta di queste convinzioni - avvalorate dalla ricerca scientifica, dall’indagine sociale e dalla elaborazione giuridica - che abbiamo presentato alla Camera e al Senato due proposte di legge per la modifica della normativa in materia di sostanze stupefacenti, al fine di depenalizzare la coltivazione, il consumo e la cessione di piccoli quantitativi per uso personale della cannabis. E abbiamo presentato altri due disegni di legge per l’utilizzo terapeutico della stessa sostanza. In particolare, la proposta sulla depenalizzazione, estendendo gli effetti del referendum abrogativo del 1993 anche a tutte quelle attività di coltivazione cosiddetta "domestica", da un lato evita la sanzione penale al piccolo coltivatore e, dall’altro, punisce solo in via amministrativa le condotte di detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti diverse dai derivati della cannabis, anche in quantitativi di significativa consistenza. Siamo infatti convinti che legalizzare la coltivazione e l’uso personale della cannabis sia una risposta opportuna alle profonde trasformazioni in corso, e da decenni, nella nostra società. Chi fuma uno spinello non è un pericoloso criminale, bensì qualcuno che ha adottato uno stile di vita - o, più semplicemente, un consumo - non condiviso da tutti. A fronte di ciò, sono state approvate leggi "carcerogene" come la Fini-Giovanardi, sulla base di proclami ideologici e di un’idea cupamente moralistica e tristemente stigmatizzante delle relazioni sociali e delle forme di vita. Il principale risultato è stato il sovraffollamento delle carceri italiane. "Siamo pieni di criminali pur non avendo un crimine", per usare le parole della National Review, storica rivista dei conservatori americani, che ha aperto alla depenalizzazione. Possiamo permetterci di essere più conservatori dei conservatori americani? Noi crediamo di no. Anche perché, e non va mai dimenticato, si deve partire da due incontestabili considerazioni generali. La prima: nessuno è mai morto a seguito del consumo dei derivati della canapa indiana nell’intera storia dell’umanità. La seconda: l’abuso di hashish e marijuana produce senza dubbio effetti nocivi, ma non più (e probabilmente assai meno) degli effetti nocivi determinati dall’abuso di sostanze, perfettamente legali, come alcol e tabacco. Non è una buona ragione? Droghe: il Padrino proibizionista… di Roberto Saviano La Repubblica, 9 gennaio 2014 Ho sempre detestato droghe leggere e pesanti. Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista. Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente di più falso. Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un dibattito sereno. È successo con l’aborto, con l’eutanasia, succede con le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte maggiore delle istituzioni religiose - con il peso che la Chiesa Cattolica ha in Italia - e che la politica tutta, tranne pochissime eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro l’intero nostro Paese. Proprio dalle pagine di Repubblica un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta, raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte. Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di trent’anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato posto. So che la legalizzazione delle droghe è un tema complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro, che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento. Bisognerebbe partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze proibizioniste più forti, e sono camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra. Del resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante un’intervista: con tutto il fumo che i ragazzi "alternativi" napoletani compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di centrodestra in provincia. Il proibizionismo (degli alcolici) ha già condotto l’uomo e lo Stato nell’abisso cento anni fa: non ha senso ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al consumo, anzi, è l’unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D’altronde, è grazie ai divieti che guidano l’azienda più florida al mondo con oltre 400 miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga. L’unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte. Nonostante questo, quando in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo, mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora da arrestare. Eppure l’economia della droga è la prima economia: cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione, appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali - e l’elenco sarebbe interminabile - vengono alimentati dalle arterie del narcotraffico. Gran parte della politica italiana (con poche eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di "drogati" o di "mafiosi" e in definitiva - questo è lo sbaglio maggiore - non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle persone. Nulla di più falso. La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un’analisi accurata del mercato delle droghe e l’attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l’inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere. Umberto Veronesi da anni si dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare, prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i tagli. All’altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche semplicemente l’assunzione prolungata di hashish e marijuana possono avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti di fumo o per rendere gli effetti dell’erba più pesanti. Plastica, cera per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi sugli effetti che le sostanze stupefacenti - allo stato puro - hanno sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti hanno sugli organismi la cera per scarpe o l’ammoniaca, se assunte regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può essere "che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non vogliono morire". Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia, si è tenuta la sesta "Cumbre de las Americas" (Vertice delle Americhe) e si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo del confronto - come Onu e Ue, si sono dichiarati contrari alla legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le "wars on drugs" sono destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a Denver la vendita è stata permessa tout court. Secondo molti paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al loro interno. La Colombia vive una fase di crescita economica inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della corruzione delle istituzioni, dall’altro la pressione dei cartelli e della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla legalizzazione perché si è reso conto che l’invasione dei cartelli messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala, al Belize, all’Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante nel senso della salvaguardia dei propri mercati. Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l’unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt’altro. È privare il commercio e l’uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l’unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo. Droghe: cosa succederebbe alle carceri se la marijuana fosse "libera"? di Selene Cilluffo www.today.it, 9 gennaio 2014 Un terzo della popolazione carceraria è tossicodipendente e 25 mila sono i detenuti dentro per reati legati agli stupefacenti. Cosa succederebbe se l’apparato giudiziario fosse meno rigido sul consumo di droghe? La lega apre sulla legalizzazione della marijuana. Sel approva e anche in Italia inizia il dibattito - tardivo - sulla legalizzazione/depenalizzazione delle droghe leggere. "Dopo trent’anni di fallimenti della politica proibizionista in tutto il mondo, che ha portato solo ampliamento del mercato e del numero di consumatori, carcerizzazione di massa e sofferenze sociali, si è avviata finalmente una riflessione da parte di molti enti pubblici e di alcuni stati nazionali", ha affermato il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare per i diritti umani. È lui che ha presentato a Palazzo Madama un disegno di legge in materia di "coltivazione e cessione della cannabis indica e dei suoi derivati". Il senatore nella sua dichiarazione ha subito collegato la questione della liberalizzazione delle droghe leggere alle carceri. Sono così vicini i due temi? I dati più freschi sull’argomento risalgono 31 dicembre 2012, in cui la percentuale nelle carceri italiane di tossicodipendenti era pari al 23,8%. I detenuti reclusi per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sugli Stupefacenti erano il 38,4% del totale nazionale. Il testo è stato modificato il 21 febbraio 2006 dalla legge Fini Giovanardi, oggetto di dibattito sin da prima della sua approvazione: ponendo sullo stesso piano droghe pesanti e leggere, introducendo il limite di quantità per l’uso personale e aumentando le pene per il possesso di stupefacenti si è guadagnata l’appellativo di "criminogena" ed è stata spesso imputata di essere una delle cause principali del sovraffollamento delle carceri. Una sua eventuale abolizione è stata chiesta da più parti e da diverse realtà che operano all’interno delle carceri e con i detenuti. Ben 26 mila detenuti su 65 mila, 2 su 5, sono finiti in galera per violazione di tale provvedimento. Inoltre un detenuto su tre è tossicodipendente. Rivedere la legge Fini-Giovanardi, cercando di depenalizzare il consumo di droghe, svuoterebbe le carceri con molta più efficacia di un provvedimento di amnistia o di indulto? Una domanda che la politica ha cominciato a porsi. Lo stesso neo segretario del Pd Matteo Renzi, prima della sua nomina, aveva detto di essere a favore della cancellazione del provvedimento. Nella relazione del Dipartimento delle Politiche Antidroga del 2013 si legge che "l’analisi generale dell’andamento dei consumatori negli ultimi 12 mesi, riferiti alla popolazione generale 15-64 anni, conferma la tendenza alla contrazione del numero di consumatori, già osservata nel 2010 per le sostanze quali eroina, cocaina, allucinogeni, stimolanti e cannabis". Insomma in Italia ci si droga di meno, ma per droga si finisce di più in carcere. Persino il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) qualche mese fa sulla questione aveva detto che "i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, dovrebbero scontare la pena fuori dal carcere, nelle comunità di recupero. I detenuti tossicodipendenti sono persone che commettono reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione". La legge è al vaglio della Corte di Cassazione: la legittimità costituzionale sulla Fini-Giovanardi verrà discussa in Camera di Consiglio il 12 febbraio. Intanto diverse sono le realtà che ne chiedono l’abolizione. Il 12 novembre 2013 sono state depositate alla camera dei Deputati i testi delle proposte di legge di iniziativa popolare della Campagna Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tutte le proposte hanno l’obiettivo di ripristinare la legalità nelle carceri e di contrastare in modo sistemico il sovraffollamento agendo anche su quelle leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza. Il terzo disegno riguarda le modifiche al testo unico sugli stupefacenti chiedendo "il superamento del paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi, la depenalizzazione dei consumi, la diversificazione del destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti, diminuendo le pene e restituendo centralità ai servizi pubblici per le tossicodipendenze". Intanto a luglio è stato pubblicato il "4° Libro Bianco sugli effetti della Legge Fini Giovanardi", uno studio che ha monitorato gli effetti del provvedimento nei suoi anni di applicazione. Lo studio è a cura di Antigone, Cnca, Forum Droghe e Società della Ragione, con l’adesione di Magistratura Democratica, Unione Camere Penali. Queste le conclusioni: "I dati complessivi ci dicono che la gran parte delle persone che entrano in carcere per la legge antidroga sono consumatori o piccoli spacciatori. La repressione è concentrata sulla cannabis. L’impatto carcerario della legge antidroga è la principale causa del sovraffollamento. All’aumento della carcerazione e delle sanzioni amministrative corrisponde un abbattimento dei programmi terapeutici. È urgente una modifica della legge". Droghe: che ipocrisia vietare lo "spinello" e consentire il "cicchetto" di Vittorio Feltri Il Giornale, 9 gennaio 2014 Sono più di trent'anni che se ne parla, periodicamente, e ogni volta che la questione torna a bomba scattano le polemiche. Sempre le stesse, il solito bla bla che non chiarisce le idee e semmai le confonde. Una barba infinita. Mi riferisco alle droghe leggere, le cosiddette canne, cioè sigarettone artigianali contenenti vegetali strani, tipo la marijuana, grazie alle quali, aspirandone il fumo, si proverebbero ensazioni piacevoli e, addirittura, secondo alcuni si trarrebbero effetti benefici per l'organismo. Vero o falso? Non sono in grado di rispondere. Sono costretto ad attenermi ai luoghi comuni che proliferano in quest'ostica materia. Una cosa tuttavia è certa. Mettere sullo stesso piano le sostanze definite leggere e quelle riconosciute pesanti (eroina, cocaina eccetera) è sbagliato e non serve a dirimere il contenzioso: depenalizzare o no il consumo degli stupefacenti senza distinguere quali di essi uccidono e quali, invece, non sono affatto letali? Ecco il punto. Ragionando senza farsi annebbiare dai pregiudizi nemici della razionalità, occorre ammettere che la marijuana, per esempio, per quanto non sia preferibile all'aerosol, non è più nociva di un bicchiere di vino o di un grappino. Non si comprende quindi perché debba essere osteggiata e proibita quasi fosse un pericolo per la salute pubblica, essendo stata equiparata gratuitamente alle "pere" e alle strisciate di polverina bianca. Non ha senso. Per andare giù piatti, se è consentito bersi tre birre o due whisky o altrettanti cognac senza andare incontro a guai con la legge, non si capisce per quale motivo una boccata o cinque di fumo debbano costituire reato. Suvvia, si eviti di demonizzare i vizietti giovanili mentre si tollerano allegramente quelli senili: il cicchetto e le Marlboro, le cui conseguenze per la salute non sono né meno gravi né più trascurabili. È ora di aggiornarsi. Finiamola di ripetere come dischi rotti che le droghe leggere aprono la strada a quelle pesanti. Non è così o lo è solo in alcuni rari casi relativi a persone la cui fragilità è tale da renderle incapaci di difendersi da ogni tentazione, anche quella di distruggersi alla velocità della luce. È inammissibile arrestare uno che aspiri hashish e similari e chiudere un occhio, anzi, due, davanti a uno che bruci 40 Camel al dì. Come è assurdo sbattere in galera un tipo che nell'orto di casa coltivi la cannabis con l'intento di "spararsela" nei polmoni e non di venderla al mercato nero. A proposito del quale vi è da precisare che viene incrementato proprio dal proibizionismo, che non ha mai fornito un buon servizio sociale. Al contrario, gli spacciatori, i "venditori di morte" e perfino quelli di erba, hanno sempre tratto enormi vantaggi dal contrabbando (che agisce nell'ombra alterando prezzi e finanziando la criminalità organizzata) fonte di denaro sporco e macchina inesauribile di propaganda favorevole alla diffusione delle sostanze vietate. Le leggi restrittive, in questi campi, hanno sempre ottenuto risultati opposti a quelli desiderati da chi le ha scritte. Lo Stato, infine, pensi a sanare il debito pubblico e lasci ai cittadini la facoltà di scegliere ciò che fa bene e ciò che fa male. Di sicuro, ne uccide di più il fisco della marijuana. Droghe: Giovanardi (Ncd); sinistra disinformata e schizofrenica sulla cannabis Italpress, 9 gennaio 2014 "Rispondo con certosina pazienza a Nichi Vendola, all’assessore leghista della Lombardia Gianni Fava e ai tanti sprovveduti che non sanno di cosa parlano quando straparlano di droga, che la mia legge ha completamente depenalizzato il consumo personale di ogni tipo di sostanza stupefacente, l’uso terapeutico della cannabis in Italia è già legale dietro presentazione di ricetta medica, i tossicodipendenti che hanno commesso reati (spaccio, furti, borseggi, violenze ecc.) che comportano condanne sino a sei anni, non devono stare in carcere ma curarsi presso strutture pubbliche o comunità di recupero (cosa che oggi purtroppo non sempre avviene perché alcune regioni non pagano le rette alle comunità)". Lo afferma in una nota Carlo Giovanardi, senatore di Ncd. "Se l’obiettivo di questi signori invece è quello di liberalizzare l’uso di cannabinoidi per scopi ricreativi con effetti devastanti sulla salute, aumenti esponenziali dei costi socio sanitari e avvio al consumo di altri tipi di droga (eroina e cocaina) la nostra contrarietà è assoluta - prosegue. Purtroppo abbiamo a che fare con una sinistra schizofrenica che mentre propone la liberalizzazione della cannabis, in questi giorni in Parlamento sostiene tenacemente il surreale comma 3 lettera f) della delega al Governo sul benessere animale che testualmente chiede al Governo di vietare l’utilizzo di animali (topi compresi ndr) per le ricerche sulle sostanze d’abuso". Tunisia: da Sel interrogazione parlamentare sui tre italiani detenuti da più di un anno www.sicilia24news.it La paura che la loro vicenda finisca nel dimenticatoio è tanta. È necessario che si continui a ricordare e a parlare di Michele Magliuolo, Nicola Magliuolo e Giacomo Danese. Si tratta di tre italiani che da più di un anno stazionano in un carcere tunisino. A chiedere informazioni e a sollecitare il Governo italiano affinché se ne preoccupi sono stati alcuni parlamentari. L’arresto è avvenuto nei primi mesi del 2013. Due cittadini di Torre del Greco e uno di Trapani sono stati fermati a Bizerte. Qui lavoravano nel settore dell’export di corallo prima di essere portati in galera. A richiamare la vicenda è stato il deputato Arturo Scotto di Sel. Per chiedere informazioni sulla vicenda Scotto ha deciso di presentare al ministro degli Esteri un’interrogazione parlamentare. Quello che viene chiesto è che si faccia luce sulla vicenda, informando le famiglie delle circostanze che interessano i loro congiunti. "Alle famiglie degli arrestati - spiega il deputato Scotto - non è stata notificata alcuna documentazione, se non il numero del fascicolo pendente presso l’autorità giudiziaria tunisina e l’indicazione della prigione di Momaguia come luogo di detenzione dei tre italiani, e gran parte del materiale risulta essere in possesso dell’ambasciata italiana in Tunisia". Quello che viene chiesto nell’interrogazione parlamentare è "quali iniziative si intendano assumere per far sì che le famiglie degli arrestati possano avere al più presto notizie certe sullo stato di salute e giudiziario dei loro congiunti e se non si ritenga opportuno verificare il rispetto dei diritti umani di difesa dei cittadini italiani in questione", conclude l’esponente di Sel. L’angoscia dei familiari, senza notizie da 10 mesi Il loro calvario è cominciato a cavallo tra il mese di febbraio e il mese di marzo del 2013, quando le forze di polizia della Tunisia fecero irruzione nelle loro abitazioni di Bizerte per eseguire gli arresti ordinati dalla locale autorità giudiziaria. Dal 23 febbraio non si hanno più notizie di Michele Magliulo e Nicola Magliulo - padre e figlio, rispettivamente di 65 anni e 32 anni - detenuti, insieme a Giacomo Danese di Trapani, all’interno del carcere di Mamaguia: un assordante silenzio che ha gettato nell’angoscia i familiari dei due arrestati di Torre del Greco, addetti nel settore dell’export di corallo dalla Tunisia all’Italia e accusati di traffico internazionale di "oro rosso". La storia è stata portata a conoscenza dal deputato Arturo Scotto di Sinistra Ecologia e Libertà che ha presentato un’interrogazione al ministro degli affari esteri nella terza commissione della Camera dei deputati "per chiedere quali iniziative si intendano assumere per far sì che le famiglie degli arrestati possano avere al più presto notizie certe sullo stato di salute e giudiziario dei loro congiunti questione". India: processo ai marò italiani, udienza rinviata al 30 gennaio La Stampa, 9 gennaio 2014 Il giudice indiano ha chiesto ai legali dei due fucilieri italiani di formalizzare la propria posizione su alcune obiezioni; agli atti manca ancora il rapporto della polizia indiana sulla conclusione delle indagini. Il tribunale speciale che sta esaminando il caso dei due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ha rinviato oggi l’udienza sul caso al prossimo 30 gennaio alle 14 ora indiana. Il giudice Darmesh Sharma ha chiesto ai legali della difesa di formalizzare la propria posizione su alcune obiezioni. All’udienza, durata circa 15 minuti, non erano presenti i due fucilieri. Agli atti manca ancora il rapporto della polizia della Nia sulla conclusione delle indagini. Secondo quanto scrivono alcune agenzie di stampa indiane, l’atto d’accusa sul caso potrebbe essere presentato questo mese. In una prima udienza il 6 dicembre scorso i due non si sono presentati ed il giudice, ricorda l’agenzia indiana Pti, "li aveva esentati, solo per una volta, su richiesta orale dei loro legali". Infine, sottolineano le agenzie, il "Rapporto contenente i capi d’accusa sarà molto probabilmente depositato questo mese". Fino all’inizio del processo Latorre e Girone sono in libertà provvisoria sotto custodia della Corte Suprema indiana. Siria: miliziani al-Qaeda uccidono detenuti carcere Aleppo, tra loro attivisti e giornalisti Nova, 9 gennaio 2014 Il gruppo Stato islamico in Iraq e Siria, organizzazione militare legata ad al Qaeda, ha ucciso ieri decine di detenuti rinchiusi nel carcere della città di Aleppo, nel nord della Siria. Le vittime, secondo il quotidiano arabo "al Quds al Arabi", sono state fucilate in un garage dell’ospedale pediatrico della città che si trova nel quartiere di Al Qadi Askar; tra loro ci sono quattro attivisti e giornalisti vicini all’opposizione siriana laica. Inoltre 12 corpi senza vita di civili sono stati trovati in una sede del gruppi jihadista, l’organizzazione islamista che i ribelli laici accusano di essere sostenuti dal regime del presidente siriano, Bashar al Assad. Intanto in Siria siamo al quinto giorno consecutivo della guerra tra i ribelli dell’opposizione laica e non islamizzata da una parte e di quella jihadista dall’altra il cosiddetto "Stato Islamico in Iraq e Siria". Un portavoce di quest’ultimo gruppo ha minacciato di "schiacciare" i combattenti dell’opposizione moderata contro i quali sta già combattendo. La minaccia è arrivata via internet in una registrazione audio della voce dello sceicco fondamentalista, portavoce dell’organizzazione terroristica Abu Mohammed al Adnani, il quale ha esortato i combattenti della sua organizzazione a "schiacciare con forza per abortire il complotto dal principio", prima di dichiarare che la Coalizione nazionale dell’opposizione "è oramai un obbiettivo legittimo" da colpire senza pietà. Sud Sudan: niente tregua senza rilascio prigionieri, questione al centro dei colloqui in Etiopia Tm News, 9 gennaio 2014 I ribelli del Sud Sudan guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar hanno ribadito oggi che non ci sarà alcun cessate il fuoco fino a quando il governo di Juba non deciderà di rilasciare i loro alleati, arrestati all’inizio del conflitto. La liberazione di questi 11 detenuti è al cuore dei negoziati in corso oggi ad Addis Abeba, con l’obiettivo di arrivare a una tregua. "I nostri colleghi dovrebbero essere liberati per venire ad Addis Abeba e partecipare" ai colloqui, ha detto oggi alla stampa il portavoce Yohanis Musa Pauk. "Non si può negoziare mentre alcuni sono in carcere - ha aggiunto - bisogna liberarli per permettere loro di svolgere un ruolo nei negoziati. Noi aspettiamo la liberazione dei detenuti, solo quando saranno liberati firmeremo l’accordo di cessate il fuoco". I combattimenti tra truppe governative e ribelli sono in corso nel Sud Sudan dal 15 dicembre scorso. Il presidente Salva kiir ha accusato Machar e i suoi alleati di aver tentato un colpo di Stato; accusa smentita dall’ex vicepresidente. Le violenze hanno causato finora un migliaio di morti e circa 200.000 sfollati.