Giustizia: "Memorie dalla casa dei morti"… anno nuovo, i suicidi nelle carceri continuano di Roberto Granese Agenzia Radicale, 8 gennaio 2014 Si dice che la pubblicazione delle "Memorie dalla casa dei morti" da parte di Dostoevskij influenzò la riforma della giustizia voluta dallo Zar Alessandro II; L’Italia di oggi non ha di certo un Dostoevskij e forse non ha neppure uno Zar, ma sicuramente ha un bisogno assoluto ed imprescindibile di riformare la macchina della giustizia. Abbiamo chiuso da pochi giorni la macabra conta delle vittime del 2013…, quarantanove suicidi in carcere, quarantanove caduti che non hanno saputo o voluto resistere alla tortura, quarantanove nomi inscritti nella coscienza di uno Stato "democratico" che non rispetta le sue leggi. Se in una democrazia le istituzioni agiscono in nome e per conto della popolazione votante, dovremmo prendere coscienza del fatto che siamo tutti degli assassini e che a qualcuno non dispiace poi tanto, data la obiettiva difficoltà nell’affrontare la questione carceraria. Il nuovo anno è cominciato da una settimana ed ecco che, inesorabile come le lancette dell’orologio, si ripresenta la morte ed il pallottoliere ricomincia il suo luttuoso gioco; due suicidi nei primi sei giorni dell’anno: il primo è un detenuto del carcere di Ivrea, 42 anni, il 3 gennaio si è impiccato alle sbarre della finestra del bagno della sua cella, la corda che ha spezzato il suo dolore e la sua disperazione era una busta dell’immondizia…il mondo non è passato di lì e ha deviato anche sulla instabilità mentale di chi nel carcere del dolore italiano non sarebbe potuto durare, la seconda vittima, un uomo di 52 anni che la sera in cui i bambini di tutta Italia festeggiavano l’arrivo delle calze coi dolciumi e la chiesa festeggiava la manifestazione della nascita del Cristo crollava sotto il peso di una situazione emotivamente insostenibile ed appendeva anche lui, nella sua cella del carcere di Rebibbia, ad una sbarra ed una camicia la speranza che quell’inferno finisse, in un qualunque modo. Ricordo quando la battaglia per l’amnistia cominciò sono passati anni e sono stati versati ettolitri di sangue e lacrime; lo Stato corporativo non cede e continua, a rodere, come un cancro, il suo tessuto vivente, le persone. Ma vi siete mai chiesti, aldilà dei tanti pregiudizi forcaioli e persecutori che hanno tracciato la storia di questo paese, dal martirio della prima Chiesa, alla Grande Inquisizione, perché qualcuno parla di Amnistia, in che modo questa dovrebbe essere utile e, ancora, se è utile il perché non si fa? In poche battute ricordiamo che il carcere è solo una punta d’iceberg, la strage di stato in atto è l’estrema conseguenza di una situazione marcita che ha comunque, al suo interno, fortissime resistenze al cambiamento; la macchina della giustizia tutta è autore, vittima e responsabile di questo scempio…solo che la gente continua a morire…forse è il caso di affrontarla questa questione. Da qui vengono poi le sanzioni europee, le sentenze di risarcimento (se può esistere) ed infine il Capo dello Stato che invia un messaggio alle Camere perché si occupino della faccenda … il tutto è ancora lettera morta, morta come chi non resiste alla condizione inumana delle carceri e sceglie un’altra via, l’unica a disposizione. L’Amnistia… i delinquenti per le strade… torneranno subito dentro… costruiamo nuove carceri… se non cambiamo la legge non serve a nulla. Pensate che, aldilà da tutte queste più o meno deprecabili asserzioni, la macchina della legge è ferma. Se voi oggi commettete un reato avete bisogno della raccomandazione pure per farvi processare, ci rendiamo conto che ci sono milioni di procedure processuali pendenti e i tribunali chiudono? La frase più adatta nelle aule di tribunale di questo paese non è "la legge è uguale per tutti"…è "perdete ogni speranza o voi che entrate(se trovate posto)". Ecco l’amnistia, il grimaldello che consente di forare le mura di Troia dell’ingiustizia italiana e creare la possibilità che il sistema giudiziario, alleggerito dal peso delle sue storture e delle sue inefficienze possa essere effettivamente riformato ed aspirare ad assolvere al compito per cui è nato, far rispettare i diritti ed i doveri dei cittadini della Repubblica. Ma siamo in Italia, il paese delle corporazioni per eccellenza, la Storia come l’attualità ci ha dimostrato che non importa quanta gente muore, l’immobilismo delle lobby di potere che come unica ragione di vita hanno la perpetuazione di se stesse è l’unica progettualità esistente…fino a che poteri sovranazionali si occupano delle nostre mancanze. Lo stesso stato, incapace di affrontare la malattia che lo devasta, sceglierà la via della morte civile? Speriamo di no, e lavoriamo per questo sperando di poter creare le precondizioni perché quel funereo conto finalmente rallenti fino ad arrestarsi. Giustizia: al via esame del Decreto-carceri alla Camera, ministro Cancellieri in Commissione Dire, 8 gennaio 2014 È iniziato, in Commissione Giustizia alla Camera, l’esame del decreto legge in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria varato dal Consiglio dei ministri lo scorso 17 dicembre. In commissione è presente anche il ministro alla Giustizia, Annamaria Cancellieri. Tra le misure principali del dl, l’istituzione del garante nazionale per i detenuti, il braccialetto elettronico per chi sta ai domiciliari, la liberazione anticipata per buona condotta, norme per i detenuti tossicodipendenti ed extracomunitari, l’ampliamento della possibilità di ricorso alle misure alternative. Da domani in Commissione Giustizia alla Camera si svolgeranno le audizioni sul nuovo decreto Carceri, varato dal Governo il 23 dicembre 2013 che mira a diminuire il sovraffollamento carcerario. Lo ha riferito la presidente della commissione Donatella Ferranti (Pd), al termine della seduta di oggi alla quale ha partecipato la ministra della Giustizia Annamaria. Le audizioni inizieranno con Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e con i rappresentanti dell’Unione camere penali. Giovedì la commissione ascolterà l’Associazione nazionale dei magistrati e martedì 14 il ministro dell’Interno Angelino Alfano o il suo vice (la presenza del leader Ncd è infatti ancora da confermare). Alfano (o chi per lui) - ha spiegato Ferranti - sarà ascoltato in particolare "sulla questione del braccialetto elettronico e sulla parte che riguarda l’identificazione e l’espulsione degli stranieri". Giustizia: decreto-carceri, sconti per libertà anticipata. M5S e Lega: "Indulto mascherato" Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014 Il ministro Cancellieri ha "battezzato" l’avvio dell’iter parlamentare. La presidente di commissione Giustizia Ferranti: "Provvedimento strutturale". I Cinque Stelle attaccano: "Cuffaro potrà uscire già quest’anno. E potranno essere liberati assassini e mafiosi". In più il "conflitto d’interessi sui braccialetti elettronici". Il Carroccio giura: "In Aula sarà un Vietnam". Un indulto mascherato che può far uscire di carcere Totò Cuffaro già quest’anno e provocare un’emergenza sicurezza. È la definizione data dalle opposizioni (M5s e Lega in testa) al decreto svuota carceri che, approvato dal governo prima di Natale, ha iniziato l’iter parlamentare. In commissione Giustizia alla Camera è intervenuto il ministro Annamaria Cancellieri. La Guardasigilli ha ammesso che sul testo "ci sono posizioni differenziate", che "il decreto sarà dibattuto", soprattutto per la norma che permette di aumentare da 45 a 75 i giorni di sconto concessi ogni semestre per la liberazione anticipata. Una misura centrale per ottenere quei circa 3mila detenuti in meno nel giro di due anni che il testo promette. Ma anche la misura "che è piaciuta meno", sintetizza il ministro, che assicura: "Questo non è un indulto mascherato". Sulla stessa linea la presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, del Pd, a favore di un provvedimento "strutturale", che "non implica automatismi" nella liberazione dei detenuti, dal momento che ogni decisione sarà vagliata da un giudice, e non comporta "nessuno svuotamento delle carceri". Cancellieri non intende vedere snaturato il testo e infatti avverte: "Difenderemo a spada tratta" i punti centrali di una legge che "consideriamo un tassello importante della nostra politica: è una priorità che questo decreto venga approvato. E la maggioranza su questo tema terrà". Da domani (8 gennaio) sarà invece in Aula il disegno di legge che riforma la custodia cautelare: si era ipotizzato che queste norme potessero confluire nel testo di conversione del decreto carceri, ma visto l’approdo domani in Aula, "credo che il problema non ci sia", ha riferito Cancellieri sottintendendo l’intenzione di lasciare la parola al Parlamento. Dal reinserimento dei tossicodipendenti al braccialetto elettronico Il decreto svuota-carceri è stato varato per affrontare l’emergenza carceraria attraverso misure per il reinserimento dei tossicodipendenti detenuti e per il rimpatrio degli immigrati. Tra le misure anche l’innalzamento dello "sconto" per la liberazione anticipata (misura temporanea che scadrà tra 2 anni) e la stabilizzazione dei domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena. Sempre per quanto riguarda la liberazione anticipata, si amplia il beneficio dell’aumento dei giorni di detenzione (da 60 a 75) per ciascun semestre di pena espiata. L’applicazione retroattiva "comporta - si legge in una nota di palazzo Chigi - una contenuta anticipazione di una uscita che si verificherebbe comunque in tempi brevi". Dunque, "non si tratta di una misura automatica e non si determina una liberazione immediata (in massa) di un numero rilevante di detenuti, ma è spalmata nel tempo e comunque sottoposta alla rivalutazione del giudice che deve verificare il corretto comportamento dei detenuti". E ancora: espulsione al posto degli ultimi due anni di carcere per gli immigrati, aumento dell’affidamento in prova ai servizi sociali, l’introduzione del reato di piccolo spaccio di droga con pene minori. Tra le nuove misure, c’è anche il braccialetto elettronico, che viene incentivato, prevedendone comunque l’applicazione solo per i domiciliari, e non anche all’esterno, nei permessi o nell’affidamento in prova come in fase di elaborazione si era pure ipotizzato. Il dl prevede poi la creazione del Garante nazionale diritti dei detenuti. Il relatore Ermini (Pd): coordinare le pene per lo spaccio con la messa in prova Il relatore David Ermini (Pd) all’agenzia Public Policy indica anche alcuni argomenti che potrebbero essere contenuti in alcuni emendamenti al decreto: coordinare le pene per lo spaccio di stupefacenti con l’istituto della messa alla prova, previsto per i reati fino a 4 anni; aumentare da due a tre anni gli anni di pena per i reati di immigrazione che possono essere scontati con l’espulsione dall’Italia del detenuto. Ma anche prevedere delle risorse per il Garante dei detenuti, istituito con il nuovo decreto Carceri. "Con le norme attuali - spiega - un ragazzo che eccede nello spinello può ricevere una pena massima di 5 anni, come prevede il nuovo decreto, e questo vuol dire che non gli si potrà applicare l’istituto della messa alla prova". L’istituto della messa alla prova è stato introdotto con disegno di legge delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie, approvato a luglio dal Parlamento. L’applicazione della misura comporta condotte riparatorie volte all’eliminazione delle conseguenze del reato e, dove possibile, misure risarcitorie. L’imputato è affidato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma di trattamento che può prevedere anche lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità e attività di volontariato. L’emendamento quindi prevedrà - ha continuato Ermini - "o il ritorno della distinzioni tra droghe leggere e droghe pesanti, stabilendo per le prime una pena massima di 3 o 4 anni e di 5 o 6 anni per le seconde", oppure "si potrebbe ridurre la pena massima del reato di spaccio da cinque a quattro anni. Sarà poi il giudice a valutare caso per caso se concedere la messa alla prova". Infine, per quanto riguarda il Garante dei detenuti, istituito con il decreto, "si potrebbero stanziare delle risorse economiche (ora il decreto non le prevede, ndr), ma ci stiamo lavorando. Sarà comunque la commissione Bilancio a decidere su questo". I Cinque Stelle: saranno liberati assassini e mafiosi. Cuffaro fuori quest’anno Di certo però la maggioranza incontrerà diversi ostacoli. "È un indulto mascherato. Una norma che libererà assassini, mafiosi ed autori di reati sessuali", attacca Andrea Colletti (Movimento Cinque Stelle). "La liberazione anticipata speciale, con uno sconto che passa da 45 a 75 giorni per semestre - aggiunge - prevede una retroattività fin dal 2010: significa dare uno sconto di pena di 280 giorni a chi è già stato condannato". "È praticamente un indulto - prosegue il deputato M5S. Ed a poco servono le spiegazioni del ministro secondo cui non lo è perché sarà il giudice di sorveglianza ad applicare la norma. I magistrati di sorveglianza applicano con regolarità gli sconti, a meno che non vi siano cause gravi come risse o pericolosità del detenuto. Si tratta di un vergognoso scaricabarile della Cancellieri sui magistrati. Secondo un semplice calcolo, Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia ora in carcere, uscirebbe nel 2014". Braccialetto elettronico, Colletti (M5S): evidente conflitto di interessi del ministro Poi c’è la questione del braccialetto elettronico: "La Cancellieri - dice - ci riprova. Da ministro dell’Interno in 5 giorni riuscì a rinnovare la convenzione in scadenza con Telecom. E sappiamo dove lavorava il figlio. Ora, da ministro della Giustizia, intende allargare l’uso del braccialetto: uno spreco di milioni, c’è un evidente conflitto di interessi". "Nel dicembre 2011 da ministro degli Interni in soli 5 giorni riuscì a rinnovare la convenzione in scadenza con Telecom Italia - spiega Colletti - E sappiamo dove lavorava il figlio. Ora, da ministro della Giustizia, intende allargare l’uso del braccialetto convenzionato Telecom ad altri reati. È uno spreco di milioni di euro dello Stato". "La Cancellieri non sa che il piano carceri ha prodotto zero posti - incalza la collega Francesca Businarolo in un tweet - ministro: si guardi il sito ‘piano carceri.it’". Poi aggiunge: la responsabile della Giustizia "non parla con Alfano: non è forse in consiglio dei ministri con lei?". Molteni (Lega Nord): "Contro il decreto sarà un Vietnam" Sulle barricate anche la Lega Nord: "Il Governo e il Pd di Renzi si apprestano a votare nel silenzio generale un nuovo indulto - afferma Nicola Molteni - e metteranno in libertà migliaia di delinquenti. La Lega renderà la conversione del decreto in legge una guerriglia. Faremo di tutto in Parlamento e nelle piazze per affondare un decreto scandaloso. La maggioranza si prepari, sarà il Vietnam". "Fingono di litigare sulla legge elettorale e sulle unioni civili - aggiunge - per distogliere l’attenzione dei cittadini dal quarto indulto o dal quarto svuota carceri che il Governo e il Pd di Renzi si apprestano a votare nel silenzio generale. Metteranno in libertà migliaia di delinquenti, alla faccia della sicurezza dei cittadini e del lavoro delle forze dell’ordine". Ministro Cancellieri: la maggioranza terrà sul decreto "Ci sarà un dibattito, ci saranno favorevoli e contrari, ma la linea del Governo è molto ferma e la maggioranza terrà su questo tema". A dichiararlo è il Guardasigilli Annamaria Cancellieri, oggi in Commissione Giustizia della Camera per l’avvio dell’iter parlamentare del decreto svuota carceri. "Emergono posizioni molto differenziate - ha rilevato Cancellieri, al termine della riunione in Commissione - si va dalla netta opposizione a chi sostiene a spada tratta il decreto", ma la "priorità" del Governo, ha spiegato il ministro, è che il dl "venga approvato, perché è un tassello importante della nostra politica. Ho cercato di spiegarlo, ora vedremo i lavori parlamentari, il Parlamento è sovrano". La norma che "meno è piaciuta" del provvedimento varato poco prima di Natale in Consiglio dei ministri "è quella sulla liberazione anticipata - ha osservato Cancellieri - ma io ho ribadito che non è un indulto mascherato, non c’è nessun automatismo, ma si tratta solo di estensione di norme che già c’erano, altrimenti ci sarebbe un indulto dal 1975". Quanto alla possibilità che le norme contenute nel testo sulla custodia cautelare, già approvato dalla Commissione Giustizia della Camera, finiscano per confluire nel decreto svuota carceri, il ministro ha risposto: "oggi non ne abbiamo parlato, ma domani vanno in aula, quindi credo che il problema non ci sia". Leva (Pd): agganciare riforma custodia cautelare a dl carceri "Oggi alla Camera inizia il percorso di conversione del decreto carceri ed è necessario agganciarvi la riforma della custodia cautelare. Ciò deve essere fatto senza modificare il testo licenziato dalla commissione giustizia della Camera. è necessario che la politica si riappropri della propria autonomia". Lo sostiene Danilo Leva, vicepresidente Giunta delle autorizzazioni e componente commissione Giustizia del Pd secondo il quale "è una occasione importante: il sovraffollamento carcerario si affronta anche e soprattutto con le riforme giuste e quella della custodia cautelare è una delle più pressanti". Ferranti (Pd): critiche da Lega e M5s, ma dl non è indulto "Il ministro ha dato una risposta volta a far capire che il decreto carceri non è un indulto mascherato, ma una misura strutturale", che anche per quanto riguarda l’aumento da 45 a 75 giorni dello sconto previsto semestre per la liberazione anticipata "non implica alcun automatismo" e non comporta quindi "alcuno svuotamento delle carceri". Lo ha detto Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia alla Camera, al termine dell’incontro tra la commissione e il Guardasigilli Annamaria Cancellieri sul decreto. Un confronto che ha visto su "posizioni critiche in particolare il Movimento 5 Stelle e dalla Lega - ha riferito Ferranti - e qualche intervento contrario su singoli aspetti da parte di Ndc". Ferranti ha difeso l’impostazione del provvedimento: "Si tratta di misure strutturali - ha detto - che incidono sulla funzione rieducativa della pena", sulla scia delle misure prese a partire dal 2010, che "hanno comportato un calo dei detenuti nelle carceri", ha aggiunto Ferranti, sottolineando che "bisogna comunque evitare passi indietro per la sicurezza dei cittadini". Da domani, ha inoltre reso noto, inizierà una serie di audizioni sul testo: "Domani - ha annunciato Ferranti - abbiamo avuto la disponibilità del capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, e dei rappresentanti delle Camere penali. Giovedì sentiremo esponenti dell’Anm. Mercoledì prossimo dovremmo sentire il ministro dell’Interno Angelino Alfano, visto che alcune misure del decreto, quali il braccialetto elettronico e i meccanismi di espulsione degli extracomunitari, riguardano il Viminale". Sappe: servono misure alternative "Colui che commette il reato deve essere privato della libertà, ma non della dignità. Nelle nostre carceri oggi non è garantita la dignità. Non servono solo provvedimenti tampone, non solo l’indulto e l’amnistia, ma interventi strutturali. Così come è oggi il carcere è un’istituzione superata. Come si può pensare di deflazionare quando abbiamo un ingresso in carcere di circa mille detenuti al mese? Servono misure alternative e l’applicazione del braccialetto elettronico". Lo ha dichiarato Donato Capece, segretario generale Sappe, intervenendo a Tgcom24. Giustizia: norma pro-Silvio nella legge di conversione del decreto-carceri, niente carcere agli over 70 di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2014 Gli emendamenti di un deputato di Forza Italia alla riforma della custodia cautelare. Arresto più difficile anche col 416-bis. Niente carcere, anche per i reati gravi, prostituzione minorile compresa, per chi ha superato i 70 anni. Firmato Gianfranco Chiarelli, dal 5 dicembre, come riferisce Martina News, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera. Martina News, alias Valleditria News, visto che il deputato berlusconiano è di Martina Franca, noto comune del tarantino. Per chi possa valere la norma è scontato, per l’ex premier, nelle peste per via della condanna Mediaset e inquisito da più di una procura. Il ddl Ferranti sulla riforma della custodia cautelare - testo che non piace all’Anm, per cui è troppo limitativo per i pm - oggi approda in aula. L’occasione è troppo ghiotta per non sfruttarla a dovere. Si fa avanti il peones di turno, stavolta Chiarelli, che deposita tre emendamenti studiati apposta per eliminare le manette perfino quando di mezzo c’è il 416bis, l’associazione mafiosa, il reato più temuto e più pericoloso, che tutti, anche a destra, hanno sempre considerato intoccabile. Invece Chiarelli lo intacca. Diciamo subito che le sue proposte hanno scarsissima chance di passare. Presentate dall’allora Pdl, sono già state bocciate in commissione. Adesso l’Ncd di Angelino Alfano, con il capogruppo alla Camera Enrico Costa, non ha aperto alcun credito a Chiarelli. Costa non è certo un fan della custodia cautelare, tant’è che propone di imporre al ministro della Giustizia di riferire alle Camere ogni sei mesi su quanti casi di carcerazione preventiva si risolvono poi in una condanna. Ma non si spinge oltre. Decisamente aggressivo invece l’approccio dei berlusconiani, a riprova di come il partito dell’ex Cavaliere voglia tuttora imbrigliare i giudici, sicuramente temendo qualche iniziativa cautelare. Ecco, allora, che per decidere un arresto, il "concreto pericolo " diventa "l’attuale pericolo, concretamente dimostrato". Non basta. Il giudice può decidere l’arresto preventivo "solo nei confronti dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza" e solo dopo aver dimostrato di non poter dare i domiciliari "per l’assenza di un’idonea privata dimora". Eccoci agli over 70, già abbondantemente protetti nel codice di procedura attuale, ma che in futuro, se passasse la proposta Chiarelli, riuscirebbero a evitare l’arresto anche per i reati più gravi, tra i quali pure la prostituzione minorile. Equiparando gli ultra 70 alle donne incinte e alle madri con figli piccoli, Chiarelli conferma che "non può essere disposta la custodia in carcere, salvo che sussistano esigenze di eccezionale rilevanza". Per essere certo di evitare trabocchetti, chiede di cambiare anche le regole per arrestare un mafioso o per chi ha commesso un reato grave, solitamente escluso da qualsivoglia agevolazione o attenuazione, come la riduzione e il mantenimento in schiavitù, la tratta di persone, la prostituzione minorile e la pornografia minorile. Perfino per il 416-bis il carcere preventivo potrebbe essere evitato qualora "siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Quanto agli altri reati gravi "custodia cautelare in carcere soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata". Il ddl potrebbe passare il vaglio della Camera già domani. Il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri non vuole unirlo con il suo decreto sulle carceri, ma il Pd insiste. L’ipotesi è farne un maxi-emendamento al Senato che marci in fretta col decreto. Con Chiarelli bocciato, ovviamente. Giustizia: ministro Kyenge; nelle carceri manca servizio mediazione culturale per stranieri Ansa, 8 gennaio 2014 Per gli stranieri in carcere il primo problema è quello della mediazione culturale, cioè la possibilità di comunicare con gli altri, sia detenuti che operatori penitenziari. Per le donne, poi, si aggiunge il problema dei figli, che le detenute immigrate vivono in modo più acuto rispetto alle italiane. è il bilancio, nelle parole di Cécile Kyenge, della visita che il ministro per l’Integrazione ha compiuto stamani alla sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. "Le difficoltà per le detenute - ha detto il ministro subito dopo il ‘tour’ nel penitenziario - prima di tutto sono da ricondurre al legame tra madre e famiglia, la possibilità di crescere i propri figli. Ciò diventa ancora più forte per le donne migranti, perché hanno maggiori difficoltà a trovare un appoggio fuori dal carcere, a riuscire a continuare a essere madre all’interno del carcere avendo un figlio fuori". "Altro punto importante e delicato - ha aggiunto - è quello della mediazione culturale: bisognerebbe cercare di agevolare la vita qui all’interno anche per quanto riguarda la comunicazione. Bisogna agevolare la vita nel periodo in cui le donne sono dentro, cercando di dare loro degli strumenti per comunicare sia tra di loro che con il personale. Qui dentro non ci sono e ce ne sarebbe davvero bisogno, è un punto fondamentale su cui bisogna investire, anche per prevenire stati di depressione in cui cadono molte donne immigrate". D’accordo con il ministro il capo capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, che ha accompagnato Cécile Kyenge nella visita: "I mediatori culturali sono una presenza importante, purtroppo in questo momento, anche a Rebibbia, non ne abbiamo neanche uno per ragioni di spesa". Giustizia: lo Stato che tortura e uccide, polizia violenta vergogna italiana di Chiara Paolin Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014 Lunedì sera "Presa diretta" su Rai Tre ha mostrato i video dei pestaggi e le storie delle vittime di settori deviati delle forze dell’ordine. Un quadro impressionante di abusi coperti dall’omertà che imporrebbe un intervento del governo e delle altre istituzioni. Invece nessuno dice niente. La verità più indicibile diventa semplice se si raccontano i fatti, uno dopo l’altro. Lunedì sera Presa diretta ha messo in fila gli episodi accertati dalla cronaca negli ultimi anni: tutte le volte che un poliziotto, un carabiniere, un agente penitenziario hanno negato il diritto alla dignità di un cittadino; tutte le volte che, invece di applicare la legge, gli uomini di Stato hanno schiaffeggiato, bastonato, preso a calci e pugni una persona affidata alla loro responsabilità. Chi legge il Fatto Quotidiano conosce molte di quelle storie, perché ha seguìto nel tempo la fatica delle famiglie, la rabbia di chi ha disperatamente lottato per veder riconosciuta la violenza inferta ai propri cari. Riccardo Iacona e Giulia Bosetti, autori della puntata, hanno mostrato le foto dei morti insanguinati, i video delle aggressioni registrati fortunosamente da qualche testimone, gli sguardi persi di chi ha vissuto un abuso. E gli italiani hanno capito. Hanno lanciato allarmi via Facebook e Twitter: guardate che cosa sta andando in onda, accendete su Rai3, è un dovere civile. Bisogna per forza guardare la mamma di Federico Aldrovandi, la sorella di Stefano Cucchi, gli amici di Giuseppe Uva, la faccia di chi ha temuto di non poter mai arrivare alla verità sul proprio dolore. Sono stati loro lo strumento più efficace per far prendere a tutti coscienza piena di un fenomeno su cui nessuno può tacere. Soprattutto quando i dettagli spiegano la banalità del trattamento riservato a esseri umani strapazzati come bambole. "A Federico gli sono saltati addosso, sulla schiena, gli hanno fermato il cuore, si sono rotti due manganelli su quattro" ha detto la mamma di Aldrovandi. "In Italia non esiste la pena di morte, non la possono fare loro. Io madre te l’ho dato sano, me l’hai dato morto" piange ancora Rita Cucchi. Ma il valore più riconoscibile per i "Morti di Stato" è la sequenza meccanica delle storie meno famose, di chi è arrivato con la sua pena scandalosa fino ai giornali locali, ai dubbi di un cronista blandito dalle rassicurazioni ufficiali: nessun abuso, il problema è stato il soggetto violento, ubriaco, fanatico, malato di mente. A volte basta essere fratelli e mettersi a litigare un po’ più forte del normale per essere portati in Questura e rimediare una scarica di legnate (Tommaso e Niccolò De Michiel). Basta rispondere storto a un poliziotto durante un controllo per finire ammanettato e stramazzare al suolo senza che un solo testimone voglia spiegare come e perché (Michele Ferrulli). Oppure, vai allo stadio, finisci in un pestaggio alla stazione e resti disabile per tutta la vita (Paolo Scaroni). "Dedichiamo Presa diretta a uomini delle Forze dell’ordine che ogni giorno cercano di essere all’altezza della divisa e della Costituzione" ha twittato Iacona a fine serata. "Una trasmissione vergognosa che infanga la professionalità: invitiamo tutti i colleghi a non pagare il canone" ha risposto il sindacato Consap. Nessuna reazione ufficiale è arrivata dal governo, dalle forze politiche, da carabinieri e polizia. Il silenzio, ancora. Giustizia: il prefetto Marangoni "non copriamo i colpevoli", ma la polizia in trincea non dà risposte di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014 Sarebbe potuto essere l’intervento definitivo, per chiudere con un passato spesso oscuro e per aprire finalmente le porte della "casa di cristallo". E invece l’intervista al vice capo della Polizia, Alessandro Marangoni, realizzata e mandata in onda da Riccardo Iacona lunedì sera, di chiarificatore ha avuto ben poco. E non perché Marangoni non sia realmente convinto della necessità di proseguire nel percorso di trasparenza già avviato dal suo ex capo Antonio Manganelli - che tante volte ha insistito sui "muri di cristallo", quanto perché è sembrato voler svicolare proprio rispetto ai temi più scomodi posti da Iacona. Col rischio che il già dilagante sentimento anti-polizia diventi un fiume in piena. Per tutta la puntata abbiamo assistito a testimonianze, stralci di processi, lettura di atti giudiziari nei quali la polizia ha solo tentato di coprirsi, a tutti i livelli, dai colleghi dei vari imputati fino ai vertici delle Questure chiamate in causa. Ma a Marangoni, evidentemente, questo non basta per parlare di "copertura". "Lei ha indicato casi particolari - ha risposto il vice capo della Polizia al conduttore di Presa Diretta - e io non voglio prendere casi particolari, sui quali la magistratura è già intervenuta. La responsabilità penale è personale". Certo, lo dice la Costituzione. Ma proprio per questo, nel caso di un poliziotto che sbaglia, l’istituzione ha il dovere di pretendere chiarezza, di fare essa stessa luce al suo interno e di adottare provvedimenti. Quando la magistratura apre una seconda inchiesta per depistaggio, vuole dire che l’istituzione ha fallito. Alessandro Marangoni ha annunciato che, per volere del prefetto Pansa, capo della Polizia, è stata istituita una commissione che ha il compito di studiare le buone pratiche e dar vita a un regolamento operativo, in particolare sull’uso dei mezzi di coazione. Questo, ha sottolineato, a garanzia degli stessi poliziotti e dei cittadini. Ma cosa vuol dire, che bisogna capire fino a che punto si può usare il manganello? Anche. Un paio di mesi fa, dopo un giro di consultazioni sindacali, Pansa ha effettivamente messo in piedi presso il ministero dell’Interno una commissione composta dai funzionari delle direzioni centrali. Il loro compito è quello di analizzare le innumerevoli casistiche e le infinite denunce ed elaborare una bozza di protocolli operativi che dovranno poi diventare legge. Un iter molto lungo che dovrebbe servire a svecchiare le procedure di ammanettamento, traduzioni, interventi della Polstrada, uso dello spray al peperoncino - che si sperimenterà a breve a Milano - e, appunto, del manganello. Gli attuali riferimenti sono quelli del codice penale "Rocco" del 1930 e del codice di procedura penale, del 1989. Un po’ datati rispetto ai tempi e alla società attuali. Sarebbe sicuramente un passo in avanti anche rispetto alla scuola dell’ordine pubblico istituita da Manganelli a Nettuno, ma a due mesi dalla nascita della commissione è troppo presto per dire se funzionerà e in quale direzione. Iacona ha chiesto al vice capo della Polizia se gli agenti stressati possono ricorrere a un supporto psicologico e Marangoni ha risposto che, oltre a esserci il servizio interno, esistono anche le convenzioni esterne. Fonti del Dipartimento di Pubblica sicurezza fanno sapere che il numero degli psicologi della polizia presenti su tutto il territorio nazionale non supera le 50 unità. Numero che comprende quelli della "scuola tecnica", ovvero il personale che contribuisce a selezionare i nuovi poliziotti. E che, se un agente si rivolge a un professionista, rischia di vedersi tolti in rapida successione pistola e tesserino. "È un supporto che va sicuramente potenziato e diffuso in tutte le articolazioni territoriali - precisa il segretario generale del Siap, Giuseppe Tiani, perché il servizio va reso fruibile a tutti". Un poliziotto delle Volanti, che guadagna 1.200 euro al mese, magari ha problemi a casa e deve pure affrontare notti di risse e ubriachi, prima di sfogarsi con questi ultimi è meglio che lo faccia con un professionista. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, lo aveva già annunciato: nessun numero di riconoscimento sui caschi in ordine pubblico, pena l’incolumità dei poliziotti. E certo Marangoni non poteva dirsi a favore. In molti Paesi europei si usa, senza che questo comporti rischi per gli operatori della sicurezza, ma in un periodo di incertezza politica e sociale come quello che l’Italia sta attraversando nessuno vuole prendersi questa responsabilità. Anche perché già così sono in tanti, tra gli agenti, a chiedersi per quanto ancora valga la pena prendersi sputi e sampietrini in piazza. Le scene di Torino insegnano. Con fatica, incalzato dalle domande del giornalista, il prefetto Marangoni ha dovuto ammettere che c’è differenza tra l’omicidio colposo dovuto a un investimento stradale e l’omicidio colposo di Federico Aldrovandi. Il regolamento disciplinare, invece, non fa distinzioni e soprattutto non prevede la destituzione del poliziotto che si è macchiato di un simile crimine. Tanto che gli agenti condannati per la morte di Aldrovandi, scontata la pena, sono tornati in servizio. Da parte di Marangoni c’è stata una timida apertura, "possono essere valutate le differenze". Speriamo che la volontà si trasformi presto in efficienza. "Vogliamo che la nostra sia una casa di cristallo", affinché si possa recuperare il rapporto tra le forze dell’ordine e la società civile, di cui siamo parte integrante, ha concluso il vice capo. Si potrebbe cominciare dal recuperare il rapporto con la stampa, visto che la gestione post- Manganelli nega persino di comunicare le statistiche sui furti. Ne sappiamo qualcosa. Giustizia: i problemi degli agenti sono tanti, ma vengono prima i diritti dei cittadini di Filippo Bubbico (Viceministro dell’Interno) Europa, 8 gennaio 2014 La puntata di Presa diretta sulle "Morti di stato" andata in onda lunedì è un esempio di ottimo lavoro d'inchiesta, che solleva questioni importanti sul funzionamento delle forze di polizia, sulla gestione dell'ordine pubblico e sulla sicurezza dei cittadini. Senza voler fare retorica sul dolore, ma con grande onestà, bisogna dire che i casi raccontati nella trasmissione sono una ferita aperta per lo stato italiano e per le coscienze democratiche. Come istituzioni, abbiamo il dovere di dare ai familiari delle vittime risposte chiare, inequivoche, definitive, come è normale che avvenga in uno stato di diritto. Capita spesso, quando si parla di forze di polizia, che si dia vita ad un flusso di dibattito con forti polarizzazioni negative, come pure è capitato in questa occasione. Pur essendo convinto che le questioni sollevate siano di grande gravità e complessità, credo che si debba affrontare il tema provando a inserirlo in un frame nuovo. Dobbiamo passare a quella che chiamo la fase adulta dell'ordinamento repubblicano. Ona fase più matura e consapevole, in cui, pur nella complessità e nella conflittualità delle dinamiche sociali, si costruisce un sistema di regole che valgono per tutti, che devono essere chiare, trasparenti ed esigibili, in qualunque momento e per ognuno di noi. In questo senso, il fattore reputazionale della polizia è fondamentale. Non possiamo permettere che mia funzione dello Stato così determinante sia gravata da ombre che rischiano di oscurare quel tanto lavoro buono, incessante e prezioso, compiuto ogni giorno, con grande spirito di sacrificio, dalle donne e dagli uomini della pubblica sicurezza. Poco tempo fa è stata creata una Commissione che ha come compito lo studio delle buone pratiche della polizia, dal quale dovrà sortire un regolamento operativo a garanzia sia dei poliziotti che dei cittadini. Ho avuto modo di dire in altre occasioni, che tutto questo lavoro deve essere inserito in una sorta di Nuovo piano industriale per le forze di polizia, che si affranchi dal concetto ormai datato e inefficace di corporazione auto referenziale, ma che consideri queste forze come componente fondamentale per la difesa dei diritti di sicurezza di ogni cittadino. Per questo, bisogna comprendere che la sicurezza non può essere derubricata più come un concetto proprio della destra, ma che la sicurezza e l'ordine pubblico rappresentano un valore fondamentale che deve vivere in ogni contesto e che deve essere difeso e tutelato come ogni altro diritto. Sui diritti e sulla dignità delle persone bisogna essere rigorosi e questo è un principio che deve valere per tutti. Per le forze di polizia e per i cittadini. Mi rendo conto che le difficoltà che affrontano in questo momento i poliziotti sono tante, acuite da un quadro sociale ed economico di grande precarietà. Esiste un problema di risorse, di blocco contrattuale, di formazione. Questioni che stiamo affrontando e che mi auguro avranno risposte in tempi brevi. Credo però che, pur essendo consapevoli dei grandi sacrifici e dei pericoli che questi lavoratori affrontano ogni giorno, sia necessario essere esigenti nei loro confronti. Si deve stabilire un perimetro definito e un sistema di regole chiaro e bisogna avere la capacità di farle funzionare. L'uso degli strumenti di coazione deve muoversi all'interno di questo sistema di regole e non può essere tollerata nessuna infrazione e nessuna deroga. Solo in questo modo si può sfuggire alla retorica buono/cattivo che non solo non risolve i problemi, ma che acuisce contrapposizioni ideologiche che non portano da nessuna porta. Solo in questo modo si possono rimarginare le ferite aperte da episodi dolorosi che non fanno onore né al nostro paese né alla grande tradizione democratica delle forze di polizia. Giustizia: si chiamano "Forze dell’ordine"... non del disordine di Antonello Caporale Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014 Si chiamano forze dell’ordine, non del disordine. E l’uso delle armi, della forza fisica è consentito per far rispettare la legge quando essa è violata, non per violarla. Nella terribile sequenza visiva che lunedì sera Presa diretta ha illustrato su Rai3 con la virtù del migliore giornalismo d’inchiesta, abbiamo avuto la prova di come questa elementare verità, fondamento della democrazia, risulti bugiarda. Assistere a poliziotti che manganellano con ferocia, e in alcuni casi portano la loro azione alla morte altrui, apre il registro della violenza di Stato che qui appare smisurata per la varietà e la vastità dei comportamenti di vera e propria sopraffazione. Eravamo abituati alle clip poliziesche sudamericane e invece ci ritroviamo, nel silenzio umiliante del governo e di quasi tutta la classe politica, a fare i conti con questo tipo di violenza domestica "legalizzata". Certo che non si deve fare di una mela marcia tutto un cesto di frutta. Ed è sicuro che la maggioranza degli uomini in divisa servano lo Stato per pochi quattrini al mese, e lo facciano con ammirevole senso di abnegazione e indubbio spirito civile. Ma qui, è terribile dirlo, non sembra che si sia in presenza di casi isolatissimi quanto piuttosto di un apparente menu espressivo di polizia e carabinieri nei confronti di target definiti (tifosi, tossici, giovani esuberanti) e in genere coincidenti con classi sociali poco agiate. Se ci fosse un ministro dell’Interno e non una figurina di plastica, questo documento visivo sarebbe già agli atti di una severa inchiesta interna. E se ci fosse un Parlamento non da oggi sarebbe approvata la norma che impone la tracciabilità di quei manganelli, l’identificazione di ogni singolo poliziotto (non va bene il nome? basterebbe un codice di riconoscibilità) perché sia chiara e pubblica l’identità di chi è chiamato a imporre il rispetto della legge e a fare un uso prudente, equilibrato, sempre soggetto a verifica, della forza che quella stessa legge gli consente di esercitare. È infine disarmante la sequela di connivenze, di opacità e vere e proprie omissioni di atti d’ufficio che ogni inchiesta giudiziaria subisce quando si trova di fronte a casi simili. Cosa aspetta il capo della Polizia a rendere finalmente pubblico il codice di comportamento a cui ogni azione dev’essere ispirata e le sanzioni per chi varca, in nome della legge, il confine dell’illecito? Lettere: accompagnando il presidente della Toscana ho visitato il carcere fiorentino di Sollicciano… di Adriano Sofri Il Foglio, 8 gennaio 2014 Accompagnando il presidente della Toscana, Enrico Rossi, il giorno dell’Epifania ho visitato il carcere fiorentino di Sollicciano. Rossi, oltre a portare di sua tasca i panettoni ai mille detenuti - cifra insopportabile, quella degli umani, non dei panettoni - è venuto a parlare con una commissione di detenuti dell’accordo concluso dalla regione col ministero della Giustizia, e lungamente covato: la regione si impegna a finanziare 350-400 posti in comunità in cui trasferire persone che si trovano in carcere per reati legati alla tossicodipendenza, alla condizione che i posti così sgomberati non vengano immediatamente riempiti da detenuti nuovi o tradotti da altre regioni, come regolarmente avviene. La regione ha il doppio proposito di prendersi cura di detenuti tossicodipendenti che già secondo leggi vigenti e inapplicate dovrebbero trovarsi in comunità, e di ridurre l’affollamento delle celle. Per questo fine ha coinvolto nella visita anche l’assessorato alla sanità e i responsabili dell’Asl, i quali si sono impegnati a risolvere questioni di decenza minima ed essenziale, come il cambio di materassi vergognosi per lo stato igienico e tormentosi per lo spessore. Il carcere di Sollicciano è ridotto in uno stato tale da far vergognare i dirigenti e gli agenti, oltre che far digrignare i denti ai detenuti. Non ha un tetto, piove nelle celle e sulle brande. Pareti e pavimenti sono squarciati da muffe e crepe. L’arredo delle celle è sordido. Scatole elettriche piene di fili sospesi penzolano dal soffitto, facendo stupire che qualcuno dei disgraziati stipati in quella sentina non le afferrino e le strappino via, invece di tagliarsi e ferirsi con mezzi di fortuna. Il vitto è cattivo e insufficiente, e riconosciuto tale dai responsabili del carcere. Per qualche guasto o negoziato la spesa non passa da molti giorni, e le persone hanno trascorso le feste senza poter acquistare le cose più elementari. Qualunque ispezione sanitaria o civile che prendesse sul serio le norme basilari di igiene e dignità dovrebbe ordinare immediatamente la chiusura di un luogo simile. Dovrebbe ordinare la chiusura immediata di pressoché tutte le galere italiane. Alla vigilia di Natale avevo visitato il mio carcere pisano, quello in cui ho trascorso un decennio, trovandolo degradato in modo lacrimevole. I muri, e non solo gli esseri umani, non ce la fanno più nelle galere italiane. Sono ancora molte le persone che si danno da fare, autorità, educatori, agenti, e soprattutto detenuti, pur sapendo di svuotare il mare col secchiello. Marco Pannella fa un errore: confonde la convinzione che il Parlamento non vorrà votare un’amnistia con la convinzione che l’amnistia non sia una misura giusta e necessaria. Io sono favorevole all’amnistia, la considero giusta e necessaria, e francamente credo che non sarà votata: non basterà né l’infamia civile di carceri siffatte, né il peso enorme delle sanzioni europee. Il Parlamento ridurrà sensibilmente le proprie spese, ma non arriverà a sperimentare la mancanza di acqua dai rubinetti e l’abbondanza di acqua dal soffitto, né il desiderio di procurarsi della carta igienica. Il Parlamento, che io, contro un vasto numero dei suoi stessi attuali componenti, rispetto come la sede della volontà popolare, resterà pur sempre l’organismo legittimo in cui si esercita compiaciutamente o distrattamente il potere di far mancare la carta igienica ai detenuti, e fargli piovere sopra il terzo letto a castello. Lettere: così il Ministero della Giustizia ha rottamato gli operatori penitenziari di Maria Giovanna Medau (Criminologa, esperto ex art. 80 Ordinamento penitenziario) La Nuova Sardegna, 8 gennaio 2014 Del carcere si parla troppo poco e sempre per denunciare situazioni limite. Non si parla affatto, degli operatori che si occupano del trattamento, gli esperti ex art. 80 dell'O.P., psicologi e criminologi clinici ,forse perché pochi, prevalentemente donne, precari a vita e sottopagati: 17,63 euro lorde (!) all'ora. Eppure è proprio la loro presenza, che ha fatto "la differenza" nella legge 354/1975. Per lavorare in carcere hanno superato un concorso nazionale e dal 1994 regionale. Personale civile, a contratto libero professionale, rinnovato annualmente da 35 anni! Precari a vita. Con la loro opera hanno impedito che le carceri scoppiassero, non solo per sovraffollamento. In un sistema penitenziario lontano dallo spirito della riforma, si occupano dell'osservazione scientifica della personalità finalizzata al trattamento individualizzato per il recupero del reo. I loro utenti sono detenuti /e comuni, mafiosi, camorristi, sex offender, extracomunitari. Partecipano ai consigli di disciplina, esprimono un parere sulle eventuali richieste di misure alternative alla detenzione. Il lavoro dentro il carcere , è stato pioneristico e difficile, quanto può esserlo quello relativo alla salute mentale e all'equilibrio psicofisico della persona, in una istituzione totale, un tempo ancora militarizzata. Negli anni hanno perfezionato le loro competenze professionali, non solo attraverso una esperienza diretta ma frequentando corsi universitari di specializzazione, superando esami di stato per l'iscrizione agli ordini, aggiornando le problematiche del loro intervento alla mutata realtà penitenziaria , attraverso i corsi del Ministero di Giustizia. L'O.P. italiano pur avanzato nei principi, trova nelle strutture edilizie , e in leggi che hanno favorito la detenzione e il sovraffollamento, le condizioni più avverse per la sua applicazione. Dal 1987 ,gli esperti svolgono anche il servizio nuovi giunti attivato per prevenire il rischio di suicidio o di violenza eterodiretta per detenuti provenienti dalla libertà. Garantito 365 giorni all'anno, nonostante la riduzione di ore, sino al passaggio del servizio all'Asl, avvenuto in Sardegna nel 2013. Nell'ultimo decennio il loro ruolo è stato marginalizzato dall'Amministrazione con la progressiva riduzione delle ore assegnate sino al limite raggiunto nel 2013, quando, ai 4 esperti di Buon Cammino, sono state assegnate 8 ore ciascuno, a fronte di oltre 350 detenuti e lo stesso è avvenuto a Nuoro, Sassari, Oristano e Tempio! Pagati per decenni nel capitolo relativo alle attività ricreative dei detenuti (art.8), dal 31 dicembre 2013 hanno perso il posto. Ritenuti illegittimi i loro contratti, per la legge Fornero e da un rilievo della Corte dei Conti sul falso carattere libero professionale del lavoro, il ministero di Giustizia ha superato il problema, mai affrontato, di una loro stabilizzazione con nuove selezioni per esperti. Costretti a ripetere un concorso per un titolo già in loro possesso, sono stati discriminati , dalla possibilità di avere in graduatoria una posizione utile ,dalla regola che i titoli post laurea fossero successivi al 2005 e dallo scarso o nessun rilievo dato all'esperienza pregressa in carcere. Un ricorso al Tar del Lazio ha sancito il diritto dello Stato a rottamarli. E la Sardegna si è distinta nelle nuove selezioni con una Commissione che, dovendo valutare anche le competenze professionali di psicologi, non aveva al suo interno nessun iscritto all'Ordine professionale! Oggi le Asl pagano il servizio nuovi giunti, svolto prima dagli esperti, 3.600 euro al mese! Il decreto svuota carceri, che prevede meno celle chiuse e più attività alternative, necessita di personale stabile e non precario. Buon senso vuole che gli operatori penitenziari non abbiano solo un titolo, ma anche esperienza di lavoro in carcere! In Italia c’è ancora buon senso? Lazio: Valeriani (Pd); approvato Odg per lavoro detenuti, chiesto un impegno concreto Il Velino, 8 gennaio 2014 È stato approvato all’unanimità l’ordine del giorno presentato dal vice presidente del Consiglio regionale del Lazio, Massimiliano Valeriani, riguardante il lavoro in carcere. "Anche a seguito della mia visita nella casa circondariale di Frosinone alla fine dello scorso anno - ha spiegato Valeriani - ho chiesto al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e alla giunta un impegno concreto per assumere tutte le iniziative opportune e utili a favorire l’occupazione lavorativa dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari regionali". Le carceri devono infatti favorire la partecipazione dei detenuti a corsi di formazione professionale e il loro reinserimento nel mondo lavorativo, proprio come previsto dagli articoli 15 e 20 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975). "Per questo le amministrazioni carcerarie hanno la possibilità di stipulare rapporti con aziende pubbliche o private convenzionate, oltre che con l’ente regione - conclude Valeriani -. Mentre imprese e cooperative che li assumono possono usufruire di agevolazioni fiscali e contributive. E, non ultimo, in questo modo ai reclusi viene concesso uno spiraglio e una speranza durante e dopo il periodo in cui scontano la pena". Trapani: il Sottosegretario Berretta chiede all’Asp provinciale di assicurare farmaci ai detenuti Asca, 8 gennaio 2014 "Il diritto alla salute dei detenuti delle carceri di Trapani, Castelvetrano e Favignana non può essere in alcun modo negato, a loro vanno assicurate le cure e il diritto ad avere i farmaci garantiti dal servizio sanitario". Lo afferma in una nota il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, intervenendo sulla questione della sospensione, da parte dell’Asp di Trapani, della fornitura di farmaci alle case circondariali del capoluogo trapanese e della sua provincia. "Le ragioni che hanno spinto l’Asp a prendere tale decisione, di qualsiasi natura esse siano, non possono giustificare la cancellazione del diritto alla salute", aggiunge il sottosegretario siciliano. "Mi appello - prosegue - alla sensibilità dell’assessore Borsellino perché intervenga tempestivamente per evitare che si presentino emergenze e disservizi che potrebbero causare gravi danni alla condizione fisica dei detenuti delle carceri trapanesi", conclude Berretta. Asp assicura: continua erogazione farmaci essenziali In tre penitenziari dal primo gennaio è stata sospesa la fornitura di medicinali gratuiti a causa del mancato rimborso dal ministero della Giustizia. L’Asp di Trapani in una nota sostiene che "continuerà a garantire le forniture di farmaci la cui mancanza potrebbe pregiudicare lo stato di salute dei detenuti". I detenuti delle tre carceri di Trapani, Castelvetrano e dell’isola di Favignana, dal primo gennaio non ricevevano più farmaci gratuiti dall’Azienda sanitaria provinciale, che lo scorso 20 novembre aveva comunicato la decisione unilaterale ai direttori dei penitenziari, perché non riceveva i pagamenti dal ministero della Giustizia. In merito alla vicenda - dice la nota - "la Direzione Strategica ha inoltrato all’Assessorato Regionale della Salute richiesta di parere sulle modalità assistenziali più adeguate rispetto alla normativa vigente nei confronti dell’erogazione di farmaci alla popolazione detenuta". Firenze: Sappe; a Sollicciano clima allucinante, momenti tensione in cui può succedere di tutto Ansa, 8 gennaio 2014 "Il clima nel carcere di Sollicciano è allucinante. Ci sono momenti di tensione in cui possono succedere le cose più brutte. C’è il rischio che qualcuno perda il controllo, anche tra gli agenti". Questa la denuncia di Francesco Falco, vicesegretario regionale del Sappe Toscana e responsabile di uno dei reparti dell’istituto di detenzione fiorentino. Secondo quanto spiegato dal sindacato di polizia penitenziaria, la struttura, pensata per 500 detenuti, ne ospita al momento circa il doppio. "Ci sono infiltrazioni di acqua dai muri e dai tetti, - continua Falco, nonostante i lavori effettuati ai gruppi di scarico delle acque piovane. Quando piove i detenuti sono costretti ad alzarsi di notte e armarsi di scopa per spingere l’acqua fuori dalle celle. Spesso poi l’acqua fa saltare l’impianto elettrico, e allora interi reparti rimangono al buio per ore. Se questo accade quando i detenuti sono fuori dalle loro celle, può succedere di tutto". Tra i problemi denunciati, quello relativo al vitto: "La cucina del carcere è nata per dare da mangiare a 450 detenuti, ma deve servirne il doppio, col risultato che spesso i pasti arrivano freddi". Molti detenuti per questo decidono di acquistare all’esterno alcuni prodotti: oltre al cibo, acqua e sigarette. "Prima di Natale però il sistema informatico che gestisce gli acquisti di merce è andato in tilt, e loro non hanno potuto fare la spesa. In alcuni casi siamo stati noi agenti di Polizia penitenziaria a fornire loro dei prodotti". "I detenuti - continua - dormono su materassi ammuffiti, e non possono avere una doccia calda perché il sistema di riscaldamento non è sufficiente per tutti. Se sono malati devono aspettare mesi per una visita specialistica". In questa situazione, precisa il vicesegretario del Sappe, "c’è il rischio che i detenuti se la rifacciano con chi in quel momento rappresenta lo Stato. Noi agenti di polizia penitenziaria siamo lasciati a noi stessi". Palermo: i detenuti del carcere "Malaspina" imparano a produrre formaggi www.strettoweb.com, 8 gennaio 2014 Si conclude domani il ciclo di quattro lezioni sulle tecniche di lavorazione del latte riservato ai detenuti della casa circondariale Malaspina di Palermo. Il corso di formazione, intitolato "Lavorazione del latte quale mezzo di integrazione sociale dei soggetti limitati nella libertà", organizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia con la collaborazione del Soroptimist International d’Italia club Palermo, si è articolato in lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per consentire ai detenuti di apprendere le tecniche di produzione del formaggio e della ricotta. Durante la cerimonia di consegna degli attestati di partecipazione, domani pomeriggio, sarà offerto un rinfresco con i formaggi realizzati dai detenuti. Lucca: la Cassa Edile fa scuola ai detenuti sul montaggio delle pareti in cartongesso www.luccaindiretta.it, 8 gennaio 2014 Ha avuto inizio a dicembre il corso di Innovazione tecnologica ai detenuti della Casa Circondariale S. Giorgio di Lucca. La Scuola Edile Lucchese insieme alla Cassa Edile e al Cpt di Lucca ha elaborato un progetto sul montaggio delle pareti in cartongesso con isolamento termico a cappotto, al fine di riqualificare i ragazzi detenuti e dare conoscenza di uno strumento utile per il reinserimento nel mondo del lavoro. La scuola edile lucchese con questa iniziativa, offre comprovate conoscenze e competenze per dare loro la possibilità una volta usciti, di trovare lavoro nel settore edile. Grazie alla disponibilità e all’accoglienza del direttore del carcere Ruello, alla professionalità dell’educatrice Fabiola Giannecchini, del comandante di Reparto Rosa Ciraci e di tutto il personale di polizia penitenziaria, si è potuto dar vita ad un progetto che combina conoscenze teoriche sulla materia con prove pratiche di apprendimento: durante le esercitazioni verranno effettuati interventi alla struttura della Casa Circondariale dando modo ai ragazzi di operare in contesti reali. L’attività formativa è articolata in 40 ore circa dove oltre al modulo pratica che impegna la gran parte delle ore, sono previste 16 ore di Sicurezza nei luoghi di lavoro, che verranno svolte dal personale qualificato del Comitato Paritetico Territoriale, ed un intervento finale, di tipo contestuale ma anche orientativo, della Cassa Edile Lucchese sul tema della crisi attuale in relazione alle imprese operanti nel territorio. Benevento: reinserimento dei detenuti, la Provincia approva tre progetti di formazione www.ntr24.tv, 8 gennaio 2014 Tre progetti contro la marginalità e la devianza sociale sono stati approvati con propria delibera dal Commissario straordinario della Provincia di Benevento, Aniello Cimitile. L’iniziativa viene realizzata con la cooperazione dell’Istituto Penale Minorile di Airola e con la Casa Circondariale di Benevento e riguarda percorsi appositamente pensati per il re-inserimento nella vita sociale di persone ristrette nei due luoghi di detenzione. Un primo progetto, infatti, prevede un corso di formazione professionale per artigiani della durata di otto mesi riservato a cinque giovani ospiti dell’Istituto di Airola; mentre gli altri due, riservati ad ospiti della Casa Circondariale di contrada Capodimonte, sono finalizzati alla formazione di tre archivisti, nonché di venti imbianchini-decoratori. La spesa complessiva a carico del Bilancio della Provincia è pari a poco più di 60mila Euro. Perugia: ha trascorso 40 mesi in cella da innocente, oggi viene risarcito con 400mila euro La Nazione, 8 gennaio 2014 Angelo Cirri, 3 anni e 4 mesi in carcere da innocente, è una delle tante vittime della malagiustizia italiana ma, per fortuna, dopo aver vissuto un incubo durato anni, oggi ha ottenuto una sentenza che lo scagiona dalle false accuse e lo risarcisce, almeno in parte, dei patimenti subiti. I fatti risalgono al 2004 quando Cirri, disoccupato e con 4 figli, venne arrestato con l’accusa di aver commesso 4 rapine. Ad incastrarlo, un testimone che giurò alle forze dell’ordine di aver riconosciuto l’uomo quale suo rapinatore. Cirri, nonostante si proclamasse innocente, venne condannato a tredici anni di carcere e, preso dallo sconforto, tentò anche il suicidio in cella. Il 6 novembre del 2006 l’appello ridusse la pena a otto anni e Cirri uscì per scadenza termini ma, poco dopo, la sentenza divenne definitiva e si riconsegnò nelle mani della giustizia. Il 3 ottobre del 2008 le forze dell’ordine arrestarono Antonio Di Pasquale, accusato delle morte di una guardia giurata. L’uomo, incastrato dall’esame del Dna su una sigaretta, ammise anche di aver commesso lui le rapine. Cirri ottenne così la revisione del processo e venne assolto. Oggi la Corte d’Appello di Perugia gli ha riconosciuto 400 mila euro come indennizzo per i 3 anni e 4 mesi trascorsi in carcere. Genova: evasione serial killer, indagini sui complici che gli diedero pistola e documenti Ansa, 8 gennaio 2014 Gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire tutti i movimenti di Bartolomeo Gagliano, il serial killer detenuto in Francia dove era stato arrestato dopo l’evasione, a partire da quando, il 15 dicembre, è uscito dal carcere genovese di Marassi per una licenza premio fino al momento in cui ha superato la barriera di Ventimiglia alle 00,39 di mercoledì 18 dicembre. Gli uomini della Squadra mobile genovese coordinati dal pm Alberto Landolfi e dal procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico stanno anche indagando sull’ eventualità che Gagliano possa aver avuto dei complici cui potrebbe essersi appoggiato durante la fuga. Vogliono capire, tra l’altro, chi abbia contattato per procurarsi la pistola usata per minacciare il panettiere, la mattina del 17 dicembre a Savona, dal quale si era fatto condurre a Genova dove lo aveva rapinato della sua Panda verde. Gli inquirenti intendono ricostruire, in particolare, il percorso di Gagliano dal momento in cui è arrivato nel capoluogo ligure fino a quando ha raggiunto Mentone. Il panettiere aveva riferito che era stato fatto scendere dalla Panda verso le 7 in via De Marini, nei pressi de Porto Antico. La telecamera della Sopraelevata lo aveva poi ripreso mentre passava alle 11. Un "buco" di quattro ore sul quale gli inquirenti indagano per sapere come Gagliano abbia trascorso quel lasso di tempo a Genova. Per indirizzare le ricerche di Gagliano, dichiarato evaso alle 21 del 17 dicembre, erano state decisive le immagini dell’autostrada. Come registrato dai sistemi di videosorveglianza quella stessa sera alle 23,12 Gagliano è entrato in autostrada dal casello di Albisola e alle 00,39 è giunto in territorio francese. Quindi un altro ‘bucò, dalle 11, quando è passato sulla Sopraelevata, al momento di entrata al casello savonese. "Ci sono tempi - è stato detto in Procura - nei quali non sappiamo cosa abbia fatto Gagliano". Al momento Gagliano, condannato in Francia a dieci mesi di reclusione per detenzione dell’arma e per documento falso, è detenuto nel carcere di Aix en Provence. I reati contestati a Genova sono sequestro di persona, rapina dell’auto aggravata dall’uso dell’arma, porto e detenzione illegale di pistola ed evasione. Taranto: il Sappe denuncia aggressioni al personale di Polizia penitenziaria femminile Ansa, 8 gennaio 2014 "Purtroppo a Taranto si assiste ad uno stillicidio continuo con aggressioni, soprattutto al personale di Polizia Penitenziaria femminile che va avanti da mesi. L’ultimo episodio è accaduto nei giorni scorsi". è quanto denuncia Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) in una lettera inviata al provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, alla direzione del carcere, al magistrato di Sorveglianza e al direttore generale dell’Asl. Il sindacalista si riferisce alla difficile gestione dei "detenuti affetti da gravi patologie psichiatriche". Il Sappe chiede l’intervento del Magistrato di Sorveglianza "che spiega Pilagatti - in coordinamento con l’Amministrazione penitenziaria regionale deve porre in essere tutte le misure ritenute necessarie per trovare una adeguata soluzione a tale problematica". L’emergenza, per il Sappe, "è dovuta sia dalla mancanza di una struttura all’interno del carcere dove ospitare tali detenuti, che ad una grave insufficienza delle risorse umane e degli strumenti messi a disposizione dall’Asl". Al Provveditore Regionale Pilagatti "chiede un intervento immediato affinché i detenuti affetti da patologie psichiatriche gravi vengano allontanati con urgenza dal carcere tarantino al fine riportare tranquillità non soltanto nei lavoratori della Polizia Penitenziaria, ma anche nella restante popolazione che vive con tensione e malessere tale situazione, poiché i tanti detenuti affetti da problemi psichiatrici, a causa della mancanza di una struttura adeguata, vivono giornalmente nelle stesse stanze a stretto contatto con tutti gli altri reclusi". Spoleto (Pg): una laurea in carcere, l’opportunità di una vita… intervista a Nicola Dettori. La Nuova Sardegna, 8 gennaio 2014 Intervista al neo-dottore detenuto Nicola Dettori. Che cos’è oggi il carcere? E soprattutto: a cosa serve il carcere? A punire o a redimere? "Se esiste la certezza che la persona detenuta abbia commesso il reato che gli viene imputato, è un conto... altrimenti, se così non fosse, il carcere è la peggiore esperienza di vita che possa capitare. Certo, se la persona è colpevole, la detenzione dovrebbe essere un "momento della vita" dove si apprende l’arte di vivere. Ma purtroppo, spesso, da detenuti, non è possibile fare certi percorsi di vita a causa della miriade di problemi che esistono all’interno delle strutture carcerarie". Lei in quante prigioni è stato finora? "Cagliari, Nuoro, Sassari e Spoleto". Quando è entrato per la prima volta e quando ne uscirà da uomo libero? "Sono entrato nel 1995 con un fine pena al 2015" Perché è in carcere, per cosa è stato condannato? "La mia condanna è un po’ anomala, perché sono stato condannato per "concorso morale" per il reato di sequestro di persona (di Giuseppe Vinci, ndr)". Il carcere le ha dato l’opportunità di studiare e laurearsi. È così per tutti i detenuti? "No, perché dipende dal carcere dove sconti la pena, in alcuni Istituti non esistono accordi o protocolli con l’Università, e quindi il detenuto è costretto a rinunciare a intraprendere un corso di studi. Da questo punto di vista, a Spoleto si dà l’opportunità di accompagnare lo studente dalle superiori fino alla laurea specialistica, soprattutto per quanto riguarda le facoltà umanistiche". Qual è stato, finora, il suo percorso di studi in carcere? Che opportunità ha avuto? "Sono arrivato a Spoleto nel 2001 e ancora non avevo conseguito la licenza media. Grazie all’impegno personale e a una serie di coincidenze sono riuscito a superare l’esame e così ho potuto iscrivermi al primo anno dell’Istituto d’Arte, dopo cinque anni ho conseguito il diploma. Non pago di questo, e grazie alle insistenze della professoressa Lidia Antonini di Spoleto, mi sono iscritto alla facoltà di Scienze dei beni storico artistici dell’Università di Perugia. Nel luglio 2012 ho discusso la tesi della triennale, argomento: "Il Cristianesimo a Orgosolo. Dalle origini fino al secolo XX". Ad ottobre dello stesso anno mi sono iscritto alla specialistica in seguito al consiglio della professoressa Lucia Mazzucato, docente di Storia dell’Arte con la quale seguo il tirocinio, ho scelto il percorso universitario di Storia dell’Arte, una materia meravigliosa". Cosa le manca di più quando è in cella? "La possibilità di comunicare con l’esterno (internet) e poter avere un contatto diretto con l’Università di Perugia". Il sistema penitenziario italiano è stato più volte "condannato" dalla Corte europea dei diritti dell’uomo... "Nonostante (quasi) ogni anno la Corte europea sanzioni il nostro sistema carcerario, spesso queste sentenze vengono sottovalutate e non si prendono provvedimenti per risolvere i problemi, dimenticando che il carcere è composto da uomini che hanno la propria dignità e sensibilità". La territorializzazione della pena è prevista da una legge che non viene applicata. "Purtroppo anche questa legge è spesso disattesa, molti detenuti (non solo sardi) chiedono il trasferimento nel luogo d’origine, ma spesso viene negato adducendo alle motivazioni più disparate. I trasferimenti nei luoghi d’origine sono fondamentali per la persona detenuta e soprattutto necessari per tenere i rapporti familiari. Per quanto mi riguarda preferisco concludere l’espiazione della pena a Spoleto poiché ho l’opportunità di concludere l’intero ciclo di studi universitari". Rinchiudere un sardo in una galera della penisola serve a qualcosa? C’è un motivo preciso? "La motivazione potrebbe essere quella riferita al termine strettamente penitenziario, o penitenza, quindi punizione nel senso psicologico del termine poiché ciò significa stare lontano dagli affetti familiari. Non credo ci sia un motivo ben definito anche se talvolta potrebbero presentarsi problemi di opportunità, termine usato dallo stesso Ministero". Come è scandita la sua giornata in carcere? "Da quando sono arrivato nella Casa di reclusione di Spoleto, sono impegnato nel lavoro e nello studio. La mattina, di solito, fino alle 13 sono addetto alla cucina detenuti. Ma talvolta capita che all’interno dell’Istituto si tengano delle lezioni di Storia dell’Arte (come dicevo, infatti, nel carcere di Spoleto esiste l’Istituto d’Arte) e io partecipo in qualità di tirocinante. Subito dopo pranzo, studio, fino alla sera tardi. E comunque potrei uscire dalla cella, poiché a Spoleto le celle sono aperte dalla mattina fino all’ora di cena". Cosa si rimprovera? "Ho sottovalutato certi comportamenti e atteggiamenti che ho avuto in passato. Mi sono illuso che non sarei stato condannato poiché il reato per cui sto espiando la pena, fino al 1993 non contemplava una condanna. Oltre a ciò sicuramente mi rimprovero l’assenza dalla famiglia e il fatto che mio figlio sia cresciuto senza di me". La legge è uguale per tutti? "Formalmente la legge è uguale per tutti, ma non tutti siamo uguali per la legge". Ha modo di seguire le vicende sarde stando in carcere a Spoleto? "Sì, certamente, oltre ad avere l’abbonamento alla Nuova Sardegna e all’Ortobene, i parenti e gli amici mi tengono costantemente informato. Ho frequenti contatti epistolari e telefonici e questo per me è molto importante". Quando tornerà a Nuoro, libero cittadino, cosa si aspetta di trovare? "Spero di trovare una città dove, dopo la forte crisi economica, peraltro comune a tutta la Penisola, si possa intravedere una ripresa economica. Quando sento parlare della crisi mi allarmo e mi viene da pensare a come era la nostra piccola città quando, nel 1995, sono stato arrestato. Nei giornali non si legge altro che di licenziamenti, fabbriche che chiudono e tutto questo vuol dire disoccupazione. Ogni tanto mi capita di fare dei raffronti con l’Umbria e mi sembra che qui la crisi sia meno pressante. Oltre a ciò mi piacerebbe molto che al mio rientro i musei cittadini funzionassero, tra cui il Museo della ceramica e la Casa di Francesco Ciusa (che dovrebbero essere a Santu Predu, il mio rione). Spero poi che in città ci sia una maggiore attività artistico/culturale, non nego che è in questo campo che vorrei riuscire a trovare un’occupazione, così da sfruttare la mia laurea. Ma forse questa è un’utopia!". "Altra persona molto importante nel mio percorso universitario era, ed è tuttora, la dottoressa Lidia Cerioni (ex magistrato del Tar), che in carcere svolge il ruolo di volontaria. È con lei che preparo la maggior parte degli esami, da poco abbiamo terminato quello di Diritto dei beni culturali e l’ho superato" racconta Nicola Dettori. Parla a ruota libera, quando parla dell’università. "In questo mio percorso di studi non ho avuto nessuna agevolazione, in quanto detenuto - precisa -, e tanto meno vantaggi di alcun genere. Ho sempre studiato molto sicuramente più di quanto farebbe un ragazzo universitario poiché a noi detenuti è preclusa la possibilità di frequentare le lezioni all’ateneo. Devo dire che oltre a essere detenuto per la mia persona, lo sono anche per mia moglie e mio figlio. Altro vantaggio che ho avuto è stato quello di aver conosciuto questa meravigliosa materia che è la Storia dell’Arte e in particolare ho una passione per gli artisti del Rinascimento, in primis il Ghirlandaio e il Filarete". Roma: Garanti, Comitato "Tre leggi" e Associazioni presentano emendamenti al decreto-carceri Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2014 Il 23 dicembre 2013 il Presidente della Repubblica Napolitano ha emanato un decreto legge in materia di giustizia penale e carceri con alcuni punti particolarmente rilevanti sull’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, sul diritto di reclamo e il reclamo giurisdizionale da parte dei detenuti, su alcune modifiche alla legge sulle droghe, nuove norme su liberazione anticipata e in materia di immigrazione. Il Coordinamento dei Garanti, il Comitato Tre Leggi e numerose associazioni che si occupano di giustizia e di diritti umani, hanno predisposto osservazioni ed emendamenti per migliorare il testo. Il decreto legge dovrà essere convertito dalle Camere entro il 22 febbraio 2014. Domani, giovedì 9 gennaio, alle ore 11.30, presso la Sala Stampa di Montecitorio, in via della Missione 4, è convocata una conferenza stampa con la partecipazione di Stefano Anastasia Presidente della Società della Ragione, Franco Corleone Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana e Coordinamento Garanti territoriali, Susanna Marietti Coordinatrice dell’Associazione Antigone, Grazia Zuffa di Forum Droghe, Valerio Spigarelli Presidente Unione Camere Penali Italiane. Sono previsti anche gli interventi dei deputati Fausto Raciti, Ivan Scalfarotto, Laura Coccia e Gennaro Migliore. Introduce la conferenza stampa l’On. Daniele Farina della Commissione Giustizia della Camera. I giornalisti possono accreditarsi personalmente inviando un fax 066783082 o una mail a sg_portavoce@camera.it. Udine: nel carcere di Tolmezzo un pomeriggio all’insegna della musica e del cabaret Messaggero Veneto, 8 gennaio 2014 Pomeriggio all’insegna della musica e del cabaret quello vissuto all’interno del carcere di Tolmezzo sabato scorso. Un momento all’insegna del divertimento voluto dai volontari della Associazione di volontariato penitenziario Vita Nuova per spezzare la solitudine dei carcerati in queste feste. Anche il sindaco Dario Zearo ha voluto portare il saluto della cittadinanza e la sua personale solidarietà a quanti vivono ristretti nel penitenziario del capoluogo carnico. Ad allietare il "pomeriggio di evasione" di un folto pubblico di detenuti, che hanno preso parte attiva accompagnando alcune canzoni con le loro voci, c’era il duo formato da Fausto Zarabara e Romeo Patatti. Accanto a loro, ampio consenso hanno ottenuto anche due detenuti: Angelo, che ha cantato "Perdere l’amore", canzone portata al successo da Massimo Ranieri, e Antonio, che si è esibito in due classici napoletani come "Te voglio bene assaie" e "Malafemmena" di Totò. "Un incontro - ha commentato Bruno Temil di Vita Nuova - che ha messo in luce talenti canori nascosti dietro le mura del carcere con un impareggiabile Romeo Patatti, che ha allietato l’uditorio con le sue barzellette divertentissime e Fausto ci ha cantato alcuni pezzi bellissimi". A portare i saluti al termine dell’incontro un’educatrice dell’istituto che, ha sottolineato l’importanza di queste iniziative che contribuiscono non solo a stemperare le inevitabili tensioni e le difficoltà che vivono i reclusi, ma anche a rendere il carcere meno isolato dal territorio circostante. Zearo ricordando l’opera portata avanti da Vita Nuova negli anni. ha sottolineato l’importanza della continua collaborazione con l’istituto penitenziario da parte della amministrazione comunale e invitando i carcerati a non lasciarsi prendere dalla sfiducia quando usciranno ma con coraggio ad affrontare ogni difficoltà con un cuore sincero e disponibile ad impegnarsi nel bene. Televisione: "Morti di Stato", un’inchiesta giornalistica di "Presa diretta" che non fa sconti di Filippo Vendemmiati www.articolo21.org, 8 gennaio 2014 Ottima la prima per la nuova serie di "Presadiretta" di Riccardo Iacona, andata in onda il 6 gennaio su Rai Tre. "Morti di Stato" una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, "i coinvolti" preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con "gli avvertimenti giudiziari" dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di "mele marce" si è occupata questa puntata di Presa diretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presa diretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate. Immigrazione: quelle giuste parole da usare per non banalizzare le gabbie di Lampedusa di Luigi Manconi Il Foglio, 8 gennaio 2014 Tre rappresentanti della Lega delle cooperative sociali della Sicilia, dopo aver svolto un’indagine sulle condizioni del Centro di accoglienza di Lampedusa, hanno affermato: "Un centro da chiudere. Un centro che sembra un lager." E hanno denunciato "lo sconcio di materassi sfatti e servizi peggio di un lager". Posso dire di conoscere abbastanza bene i Centri di accoglienza e ancora più quella loro versione tetra e reclusoria e claustrofobica che sono i Centri di identificazione e di espulsione (Cie). Negli ultimi quindici anni ne ho visitati una ventina e, per quanto riguarda i Cie, ritengo debbano essere né più né meno che aboliti. E tuttavia mai li ho definiti "lager" e penso che quella estremizzazione così emotivamente violenta del giudizio riveli una sorta di inconfessato senso di colpa. Quanto più quest’ultimo è forte tanto più si tenta di liberarsene proiettando l’oggetto di quel giudizio in una sorta di dimensione metastorica. Quasi che le colpe di quell’obbrobrio prescindessero dalla concreta situazione attuale, normativamente e geograficamente e storicamente definita, e dalle personali responsabilità, comprese quelle di mancata vigilanza e di omesso controllo. Ma, al di là di una introspezione psicologica per la quale non ho né ruolo né competenza, qui interessa altro. L’evocazione del lager come paradigma del Male Supremo è ricorrente (lo si sente usare persino per descrivere le crudeli condizioni di certi canili illegali) e doppiamente impropria. Per un verso, perché rischia di banalizzare quello che è stato davvero l’Orrore Assoluto, ossia la Shoah, riducendolo a un’etichetta buona per troppi usi e immiserendone l’eccezionalità e, dunque, l’intollerabilità etica. Per altro verso il ricorso a quel termine estremo (e non solo a quel termine, ovviamente) rivela il rischio di una qualche latente forma di indifferentismo: quasi che tutto ciò che si colloca - oggettivamente per così dire - al di sotto della misura del lager sia, per ciò stesso, sopportabile o comunque, alla resa dei conti, accettabile. Dunque, le "parole forti" costituirebbero un surrogato della critica radicale e una scorciatoia della contestazione intransigente dell’ingiustizia: e di tutte le ingiustizie, anche quando non si presentano nella loro manifestazione estrema. Infine, ed è conseguenza anch’essa assai perniciosa, accorpare tutte le forme di privazione della libertà a quel luogo demoniaco che è il lager e assimilare tutte le forme di maltrattamento all’unica categoria di tortura ha l’effetto di oscurare il nostro sguardo, impedendoci di cogliere le differenze di condizioni e dunque le diverse strategie per criticarle e, se possibile, superarle. Tutto ciò partendo dalla ferma consapevolezza che i Cie sono orribili e non riformabili e che gli attuali centri d’accoglienza vanno radicalmente trasformati. Anche per una ragione che gli stessi responsabili della Lega delle cooperative sociali della Sicilia hanno evidenziato, affermando che il Centro di Lampedusa è privo dei "requisiti minimi richiesti in un carcere". Emerge così un nodo cruciale, sottolineato da tutti quei trattenuti nei Cie che ripetono ai loro interlocutori: "Qui è peggio che in carcere". È proprio così. E non perché le condizioni di vita all’interno dei Cie o di un centro di assistenza siano oggettivamente più degradate di quelle di un medio istituto penitenziario italiano e siano tendenzialmente simili a quelle "di un lager". No. La miseria delle condizioni materiali di esistenza in un Cie è in linea con gli standard, appunto miserabili, di gran parte dei luoghi destinati alla privazione della libertà nel nostro paese. Ma qui effettivamente c’è qualcosa di peggio. Intanto la struttura, per così dire, architettonica: gabbie all’interno di gabbie, chiuse a loro volta da altre gabbie, come in un vertiginoso e ossessivo labirinto. Gabbie esattamente nella progettazione e nella realizzazione e nella logica di una recinzione finalizzata alla riduzione in cattività. E sbarre proiettate verso l’alto a scongiurare - immagino - impossibili evasioni verso il cielo o dal cielo; sbarre (questo vuole la leggenda nera qui prevalente) che sono state allungate al ritmo dei successivi provvedimenti che hanno protratto il tempo di permanenza previsto dalla norma: da un mese a due a sei agli attuali diciotto. In questi spazi ristretti e coatti non si fa assolutamente niente. Le uniche attività previste sono quelle primarie delle funzioni fisiologiche: dormire, mangiare, orinare, defecare. Per un paio di decenni abbiamo discusso intorno al concetto di "non luogo" elaborato da Marc Augé ma oggi credo di poter dire che il non luogo per eccellenza, nel continente europeo è appunto il Cie. Qui la categoria di smarrimento, variamente definita da Augé trova una sua radice nella marxiana alienazione, da intendersi in particolare come condizione di estraneazione e spossessamento. Nella gabbia e nel campo quella condizione si palesa come scissione, spesso in senso strettamente psichico. Estraneazione spossessamento scissione come altrettante espressioni di un processo di separazione tra il corpo fisico e l’identità soggettiva. È l’effetto di una situazione dove il non luogo galleggia in una dimensione di non tempo, come negazione brutale - mi suggerisce Vittorio Dini - di quelle qualità kantiane (luogo e tempo, appunto) che costituiscono il fondamento stesso della persona umana. Tutto ciò può collegarsi a quanto scrive Hannah Arendt in un brano del capitolo XI de "L’origine del totalitarismo", citato da Valeria Verdolini in un bell’articolo in doppiozero.com (richiamato dall’indispensabilissima rassegna radiofonica "Pagina 3"). Così la Arendt: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana". Ecco, nei Cie, gli individui trattenuti hanno perduto "tutte le altre qualità e relazioni specifiche" e qualunque rapporto reale con la dimensione del luogo e del tempo. Ed è questo a rendere così imprescindibile e urgente, ma, allo stesso tempo, così labile e inafferrabile il discorso sui diritti umani. Un discorso che rischia costantemente di "naufragare", quasi che la "semplice" qualità umana non offrisse alcun appiglio tangibile per svilupparsi adeguatamente (ed è forse un segno del destino che quel "naufragare" dei diritti umani incroci la sorte di chi spesso dal mare proviene e spesso nel mare trova la morte). Immigrazione: caso Bonsu, i vigili urbani condannati chiedono il risarcimento al Comune Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014 È il 29 settembre 2008 quando un ventiduenne di colore, scambiato per la vedetta di uno spacciatore, viene fermato in un parco a Parma. Lo studente Emmanuel Bonsu Foster denuncia ai carabinieri di essere stato inseguito e pestato all’uscita dai corsi serali che frequentava. Ammanettato, era stato caricato su un’auto di servizio, picchiato di nuovo e portato nella caserma di via del Taglio, dove erano continuate violenze e aggressioni verbali di stampo razzistico per spingerlo a confessare quanto non aveva fatto. Anche fotografato con un cartello al collo. Per quell’episodio vengono condannati (violenza aggravata dalla discriminazione razziale) 8 vigili urbani, con pene tra i 7 e i 3 anni e mezzo. Uno pensa: ovvio che siano stati licenziati. No, non è andata così. Sono stati demansionati e spogliati della divisa, ma riassunti dal Comune di Parma. D’altronde è la sentenza di primo grado. Ma a tre degli ex vigili non è andata giù bene neanche così e hanno chiesto i danni al Comune per il demansionamento. Causa civile e risarcimento danni. Anche contro la Prefettura e il Comando di polizia municipale per "ottenere il risarcimento del danno derivante dalla perdita di status di agente di pubblica sicurezza, che garantisce una relativa indennità economica sospesa da luglio 2012 dopo la revoca delle qualifiche". E la vicenda non è finita qui. Ci saranno i processi di Appello e Cassazione, ma pendono ricorsi al Tar. Una vicenda senza fine che il ragazzo, oggi diventato adulto, chiede solo di poter dimenticare. Droghe: Manconi (Pd) presenta un ddl per la coltivazione e la cessione della cannabis Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2014 Sbarca in Senato un ddl per la coltivazione e la cessione della cannabis indica e dei suoi derivati. Lo ha presentato il senatore del Pd, Luigi Manconi, presidente della commissione parlamentare per i diritti umani. "Dopo trent’anni di fallimenti della politica proibizionista in tutto il mondo, che ha portato solo ampliamento del mercato e del numero di consumatori, carcerizzazione di massa e sofferenze sociali - ha dichiarato Manconi annunciando la presentazione del ddl - si è avviata finalmente una riflessione da parte di molti enti pubblici e di alcuni stati nazionali". E in queste ore sempre più Sel e parte del Pd chiedono la legalizzazione della cannabis. Il ddl prevede la non punibilità della coltivazione per uso personale di marijuana e della cessione di piccoli quantitativi dei derivati della cannabis finalizzata all’immediato consumo personale. Previsto il ripristino della distinzione del trattamento sanzionatorio tra droghe leggere e droghe pesanti, con una riduzione delle pene per le prime, fino alla completa cancellazione delle sanzioni amministrative per i consumatori dei derivati della cannabis. "In questo modo si potrà ristabilire un solco chiaro tra comportamenti inoffensivi legati al consumo personale di sostanze che non nuocciono gravemente alla salute, non più di quanto faccia l’abuso di tabacco e di alcool - ha detto Manconi - e il traffico di sostanze stupefacenti". Intanto lo spinello libero continua a dividere la Lega Nord. E se il segretario federale Matteo Salvini ha dichiarato ieri che il Carroccio è contrario a ogni ipotesi di liberalizzazione, Gianni Fava, assessore lombardo all’agricoltura, che aveva lanciato una apertura anti-proibizionista, ha rilanciato: "Non cambio idea". E avverte: "Non mi sento solo". E incassa il sostegno del deputato leghista Gianluca Pini che su Facebook scrive: "Sono d’accordo con l’amico Gianni Fava". E aumenta il numero di dirigenti del Carroccio che si dichiarano apertamente anti-proibizionisti. Così la polemica nata ieri per un tweet dello stesso Fava e rimbalzata per tutto il giorno della Befana sui social network dei principali esponenti leghisti si infiamma. E supera i confini regionali della Lombardia fino a raggiungere il cuore del parlamento di Roma. No comment, invece, dal governatore Roberto Maroni, che dopo il chiarimento di ieri che attribuiva all’errore di un collaboratore il retweet di Fava: "Non ho nulla da aggiungere", si limita a dire. "La depenalizzazione dell’uso delle droghe - ha detto Donata Lenzi, capogruppo Pd in commissione Affari sociali della Camera - è un tema all’ordine del giorno dei lavori della Camera e presto avremo una proposta di riforma della legge Fini-Giovanardi". E aggiunge: "indubbiamente occorre affrontare in modo serio anche il tema di una legislazione che consenta di superare l’assurda criminalizzazione dell’uso della cannabis che fino a oggi, oltre a contribuire al drammatico sovraffollamento delle carceri, ha addirittura favorito la diffusione delle droghe pesanti. Dunque mi pare che sia ineludibile una normativa più razionale". "La legge Fini-Giovanardi è una legge sbagliata, feroce, inefficace. Il proibizionismo non è altro che manna dal cielo per i narcotrafficanti. È ora di legalizzare la cannabis", ha scritto Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà. La cannabis, usata oggi da almeno un giovane su cinque e al centro del dibattito politico per le proposte di liberalizzazione, è tutt’altro che innocua, anzi ha vasti effetti nocivi. Lo sottolinea il documento "La nostra salute", nel passaggio dedicato alle droghe, pubblicato sul sito del ministero della Salute. "Spesso sono considerate droghe innocue. Ma i derivati della cannabis (marijuana e hashish) - si legge - hanno un’ampia gamma di effetti nocivi. Danneggiano l’apparato respiratorio e quello immunitario, rendendo più fragile quindi l’organismo di chi ne fa uso alle aggressioni di agenti esterni. Causano l’aumento del battito cardiaco (tachicardie) e mal di testa". Per gli esperti del ministero, poi, "influiscono inoltre sulla memoria e sulla capacità di concentrazione facendo venire meno la coordinazione e la prontezza dei riflessi. L’assunzione in dosi elevate può comportare l’insorgere di paranoie e manie di persecuzione. Se consumata per lunghi periodi, la cannabis può dar luogo a quella che è definita sindrome amotivazionale, un disturbo caratterizzato da distrazione, apatia, riduzione delle attività, incapacità di gestire nuovi problemi, compromissione del giudizio e delle abilità comunicative". Droghe: cannabis, perché legalizzare conviene… di Emiliano Fittipaldi L’Espresso, 8 gennaio 2014 La fine del proibizionismo, spiegano gli esperti, darebbe una mazzata al giro d’affari della criminalità organizzata, mentre lo Stato potrebbe incassare dalla legalizzazione fino a 8 miliardi di euro e risparmiare somme enormi investite per la repressione del fenomeno. E per la prima volta, dopo le aperture di esponenti di Lega, Sel e Pd, l’argomento potrebbe essere all’ordine del giorno del governo. Possibile che anche in Italia si riesca a liberalizzare la cannabis? Ora come ora, ci credono in pochi. Le resistenze sono enormi, la cultura proibizionista è ancora forte, e il governo Letta sembra troppo debole per poter pensare di varare un provvedimento così delicato. Eppure, quando persino esponenti di primo piano di una forza conservatrice come la Lega Nord aprono alla depenalizzazione e all’uso terapeutico, vuol dire che qualche margine in più per discutere di un tabù sempre più demodé nel resto del mondo esiste. Non è un caso che ieri, dopo l’apertura a sorpresa dell’assessore lumbard Gianni Fava a fumate libere, il leader di Sel Nichi Vendola abbia chiesto via Twitter di superare la legge repressiva firmata da Fini e Giovanardi legalizzando al più presto gli spinelli, e che Luigi Manconi, senatore del Pd, abbia annunciato di aver depositato un disegno di legge per depenalizzare la coltivazione e la cessione di cannabis e affini. Il dibattito è ripartito dopo che, nel 2013, in alcuni paesi, compresi alcuni stati Usa, si è deciso di cambiare rotta, e depenalizzare totalmente la "maria". In Uruguay la "canna di Stato" è realtà dallo scorso novembre, e tra pochi mesi chi vorrà fumarsi uno spinello potrà scegliere tra quattro qualità diverse di erba vendute direttamente sui banconi della farmacia. Due mesi fa il Senato ha dato il via libera definitivo alla legge che permetterà al governo guidato da Josè "Pepe" Mujica di coltivare e vendere direttamente marijuana a circa un dollaro al grammo, primo caso nella storia. "Ora bisognerà solo aspettare che i semi germoglino", ha spiegato Josè Calzeda, capo della Giunta nazionale delle droghe: "Una volta seminato e fatta la prima raccolta, riforniremo i negozi al dettaglio. I cittadini registrati potranno comprarsi fino a 40 grammi al mese, e piantare massimo sei piante alla volta". Obiettivo primario: creare un mercato legale per sconfiggere i cartelli narcotrafficanti del Paraguay, massimi esportatori di cannabis del Sud America. Molti considerano la decisione di Montevideo una rivoluzione. E non solo per i 120 mila consumatori abituali che in Uruguay potranno rollare e squagliare resina senza nascondersi: altre nazioni, infatti, stanno guardando con enorme interesse l’esperimento voluto dal presidente ex guerrigliero. L’ideologia proibizionista è in crisi da tempo, e in Occidente si è riaperto il dibattito su quali siano le migliori politiche sui narcotici. Nel 2011 la Commissione globale sulla politica delle droghe, organismo di cui fanno parte esperti in materia e personaggi come l’ex presidente dell’Onu Kofi Annan, ha pubblicato una relazione devastante in cui si spiega che "la lotta alla droga iniziata cinquant’anni fa è fallita", e si sottolineava come in primis per la cannabis, "occorre sperimentare modelli di legalizzazione che colpiscano la criminalità organizzata salvaguardando la salute dei cittadini". Il manifesto della commissione è stato apprezzato da molti leader, come gli ex inquilini della Casa Bianca Bill Clinton e Jimmy Carter. Tre mesi fa, davanti all’assemblea delle Nazioni unite, il presidente del Guatemala ha pregato i paesi membri di darsi una mossa, smettendola di "stigmatizzare" coloro che fanno uso di sostanze stupefacenti senza arrecare danno agli altri. La tolleranza zero non va più di moda: in Portogallo e in Australia Occidentale la depenalizzazione della marijuana è stata un successo, l’uso della gangja per scopi terapeutici è sempre più diffusa, mentre in Olanda la protesta dei 670 coffee-shop è riuscita a bloccare la norma che prevedeva il divieto di vendere marocchino e super skunk agli stranieri. La frontiera degli antiproibizionisti di recente si è spostata negli Usa, il paese del pianeta che spende più soldi nella battaglia alle sostanze stupefacenti: quest’anno gli Stati di Washington e Colorado hanno legalizzato attraverso un referendum popolare il consumo personale di marijuana. Non solo a scopo medico (per alcune malattie l’uso di cannabis è già permesso in 18 Stati) ma anche per momenti di piacere, fumate collettive o torte all’erba jamaicana. Obama ha dato un occhio ai sondaggi (alla fine del 2013 una rilevazione Gallup spiegava che per la prima volta la maggioranza degli americani, circa il 58 per cento, è a favore delle canne libere; nel 1969 al tempo degli hippy erano fermi al 12 per cento) e ha chiesto al dipartimento della Giustizia di non ricorrere contro le nuove leggi. Ora altri Stati potrebbero seguire la scelta di Denver e di Washington. Il movimento a favore del libero spinello, insomma, sta prendendo piede. Grazie ad argomentazioni e parole d’ordine che, almeno per quanto riguarda gli stupefacenti leggeri, fanno sempre più presa sull’opinione pubblica. Anche perché i divieti finora imposti non hanno fermato la diffusione capillare della cannabis: se nel 1998 i fan accaniti erano stimati in 140 milioni, nel rapporto dell’Onu del 2012 erano lievitati a 180. La fine del proibizionismo, spiegano gli esperti fautori del laissez-faire, darebbe una mazzata al giro d’affari della criminalità organizzata, permettendo contemporaneamente ai governi nazionali di incassare miliardi in tasse (in Colorado solo per le entrate fiscali della cannabis terapeutica ammontano ad oltre 5 milioni di euro, mentre un report del Medical Marijuana Business Daily prevede che alla fine del 2018 il mercato Usa della cannabis, grazie ai due referendum, arriverà a sfiorare i 6 miliardi di dollari; secondo i radicali in Italia, invece, lo Stato potrebbe incassare dalla legalizzazione fino a 8 miliardi di euro) e risparmiare somme enormi oggi investite per la repressione del fenomeno. D’altra parte l’approccio proibizionista resta dominante. A favore delle loro tesi, i conservatori elencano gli studi scientifici che dimostrerebbero come la cannabis possa provocare effetti negativi a lungo termine , soprattutto tra chi ha iniziato a usarla da giovane: la sostanza aumenta la probabilità di sviluppare depressione o sintomi psicotici, come la schizofrenia e il disturbo bipolare. Mentre altre ricerche evidenziano problemi per la memoria e un rapporto stretto tra l’uso di droghe leggere e quello di sostanze pesanti. A chi punta il dito sulla pericolosità del principio attivo della cannabis, il tetraidrocannabinolo, gli antiproibizionisti contrappongono però le statistiche sull’abuso di alcol e tabacco, "droghe" legali che provocano vere carneficine: secondo una ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2013, il fumo uccide nel mondo circa sei milioni di persone ogni anno, mentre l’Istituto superiore di Sanità ha stimato che solo in Italia negli ultimi 12 mesi sono morte a causa dell’alcol 30 mila persone, trenta volte il numero dei decessi causati nello stesso periodo da overdose da eroina e oppiacei. Se nel decennio 2005-2015, chiosa l’Oms, alcol e tabacco causeranno tumori mortali a quasi 30 milioni di persone, leggendo il capitolo sui decessi causati dai vari narcotici della relazione 2011 della Ue salta agli occhi che un paragrafo sulla canapa non è stato nemmeno stilato. In Italia - uno dei pochi paesi occidentali dove una legge del 2006, voluta da Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi del Pdl, ha equiparato l’hashish e la marijuana a cocaina ed eroina - gli antiproibizionisti hanno da sempre un faro: Marco Pannella e il partito radicale. Che in queste settimane sta raccogliendo le firme per un nuovo referendum. L’obiettivo non è la legalizzazione tout-court, non raggiungibile per via referendaria, ma "l’eliminazione", spiega l’ex senatore Marco Perduca, "del carcere per i fatti di lieve entità. Depenalizzando la coltivazione domestica di cannabis e il possesso di quantità medie di droghe svuoteremmo le carceri". Al 30 settembre 2013 su circa 64 mila detenuti ben 25 mila erano dentro per la violazione della legge sulla droga. Difficile sapere quante tra questi siano in galera per spaccio di cannabis (reato che può essere punito da 6 a 20 anni), visto che le sostanze psicotrope davanti alla legge sono tutte uguali. "A spanne, però, possiamo ipotizzare che oltre un terzo (ossia 9 mila persone, soprattutto stranieri) uscirebbe subito se la marijuana fosse legalizzata. La situazione delle carceri", chiosa il radicale, "migliorerebbe strutturalmente". Altro che amnistia, insomma. Senza dimenticare i benefici sul lavoro di polizia, istituzioni sanitarie e tribunali: nel 2012, come segnala il Dipartimento delle politiche antidroga nella sua relazione annuale, il 77 per cento delle segnalazioni (in tutto 32.694) fatte dai prefetti ai Sert competenti ha riguardato la cannabis. Il pugno di ferro, a livello globale e nazionale, non sembra avere funzionato. Né sulla diminuzione della produzione, né sul livello dei consumi. Nell’ultimo rapporto dell’Onu la cannabis resta di gran lunga la droga illegale più popolare al mondo, con un numero di appassionati stimato superiore ai 180 milioni di persone, il 3,9 per cento di umani tra i 15 e i 64 anni. Per fare un confronto, l’uso della cocaina è dieci volte più basso. L’Europa rappresenta per l’hashish il mercato più grande del mondo, con importazioni massicce dal Marocco, che dopo Afghanistan e Messico ha le coltivazioni più estese del pianeta. La produzione è ormai globale e intensiva: in Albania, a Lazarat, lo scorso agosto la Guardia di Finanza ha fotografato con il satellite un’area coltivata a marijuana estesa 319 ettari, pari a 400 campi di calcio. "Il prodotto finito", spiegarono i finanzieri, "al dettaglio verrà venduto a cinque euro al grammo, con un guadagno stimato in 4,5 miliardi di euro". Pari a poco meno del 50 per cento dell’intero Pil albanese. I mattoni di erba pressata e la resina marocchina invadono l’Europa da ogni direzione: i prezzi variano a seconda della qualità dai tre ai 24 euro, e il consumo nel 2012 ha toccato, secondo l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, le 2.500 tonnellate annue, fumate da 3 milioni di consumatori abituali. Di sicuro l’Italia, insieme alla Grecia, è il paese in cui la produzione nazionale di marijuana è cresciuta di più: nel 2011 sono state oltre un milione le piante sequestrate (al 99, 3 per cento sono coltivate al Sud, dove il clima è ideale), in pratica la stessa quantità espropriata in Jamaica. Per fare un confronto, in Francia la polizia ne ha trovate solo 73 mila. Secondo l’ultima relazione della Direzione centrale servizi antidroga, però, il numero di piante pignorato nel 2012 è addirittura quadruplicato, superando i 4,1 milioni di esemplari: un dato che ci mette ai primi posti tra i produttori mondiali. Mafia, camorra, sacra corona unita e ‘ndrangheta gestiscono da sempre parte importante dei traffici internazionali, dello stoccaggio e della vendita, ma ormai si sono buttati anche su piantagioni esterne e indoor. Già: se un tempo le droghe leggere erano considerate attività minori, "oggi Cosa Nostra si dedica anche alla coltivazione. La criminalità organizzata ha urgente bisogno di soldi, perché con la crisi", ragiona il procuratore aggiunto della Dda Teresa Principato, "le estorsioni e gli appalti non sono più redditizi come un tempo". Il business è miliardario: da Trento a Siracusa fumano in centinaia di migliaia, uomini e donne, giovani e vecchi. Nella relazione Ue 2012 il Belpaese si segnala come lo Stato con la prevalenza più alta di consumatori rispetto alla popolazione generale: il 32 per cento degli italiani ha provato marijuana almeno una volta nella vita, il 14,3 per cento l’ha usata nell’ultimo anno, il 6,9 per cento nell’ultimo mese, percentuale che raddoppia tra gli under 24. Gran parte della sostanza è importata da Russia, Albania e Africa o prodotta da associazioni criminali, ma anche le coltivazioni per uso personale ormai fanno la loro parte: spulciando i rapporti delle forze dell’ordine si scopre che nella sola settimana tra il 7 e il 15 ottobre sono state scovate piantagioni in mezza Penisola (piantine su un balcone a Chieti, altre 13 a Macerata, giardini a Catanzaro e Pisa, 50 piante a Sessa Aurunca, 42 ad Alessandria, 9 vasi a Lucca, mentre un friulano ha trasformato in serra la cameretta della figlia di tre anni) e ha arrestato una dozzina di persone, tutte italiane. Tra loro persino contadini di erbe aromatiche ed imprenditori edili che, a causa della recessione, avevano deciso di riconvertire la loro vecchia attività in perdita gettandosi sul business di "Maria". La domanda, per lei, è sempre alta. Pina Picierno (Pd) per la legalizzazione: i tempi sono maturi L’esponente della segreteria del Pd si schiera nel dibattito sulla marijuana. "Potremmo stroncare il mercato illegale. Ma non sarà un tema inserito nel patto di governo". Pina Picierno, deputata del Pd e membro della segreteria renziana, dice sì, "i tempi sono maturi per la legalizzazione". E così nel Pd avanza il dibattito sulla cannabis, e sul superamento della Fini-Giovanardi, "soprattutto", ricorda Picierno, "per svuotare le carceri". Un provvedimento sul tema però "non sarà nel patto di governo", continua la deputata, ma il parlamento dovrà discuterne, "perché i pensieri di Giovanardi non sono affare del Pd". Onorevole, il senatore Manconi, del suo partito, ha depositato un disegno di legge sulla cannabis: prevede la non punibilità della coltivazione ad uso personale di marijuana e la cessione di piccoli quantitativi per uso personale. Che ne pensa? "I tempi sono assolutamente maturi. Credo sia arrivato il tempo per un discorso di questo tipo. Non so se sarà la proposta di Manconi, o una delle altre depositate in parlamento, ma certo dobbiamo parlarne". Lei nella segreteria del Pd si occupa di legalità... "E lo dico proprio per questo. Bisogna soprattutto sottrarre mercato alle organizzazioni criminali. Lo dice anche Saviano, lo dicono fonti autorevoli: legalizzando la cannabis e le droghe leggere si può stroncare il mercato illegale". Pensa che il tema possa trovar spazio nel patto di governo che state scrivendo con Letta? "Questo no. O almeno non ne abbiamo parlato, come invece abbiamo fatto per i diritti civili e l’immigrazione. Però in parlamento, in commissione giustizia, ci sarà modo di parlarne serenamente". Chissà che ne pensa Giovanardi, vostro alleato. "I pensieri di Giovanardi sono affare suo, non del Pd". Sì, ma potrebbe essere un problema di Letta. Tra coppie gay, immigrati e ora cannabis, il rapporto con Alfano si fa difficile. "Il parlamento troverà il modo di discuterne senza alzare i toni, anche con il nostro alleato, Alfano. Certo però non possiamo affrontare il tema con chi ha legato la propria carriera politica all’opposizione verso i diritti civili, con uscite violente che non voglio ricordare, e a leggi che hanno limitato le libertà e appesantito la situazioni delle carceri". E proprio sulle carceri, anche nella Lega, c’è chi sostiene se ne possa discutere subito, con lo "svuota carceri". "Certo, quella potrà essere l’occasione per discutere della depenalizzazione e superare la Fini-Giovanardi. Poi però la legalizzazione è un’altra cosa". Serpelloni (Dpa): contrario a legalizzare la cannabis "Sono contrario a legalizzare la sostanza: dal punto di vista tecnico e scientifico non è razionale. Dopo di che, rispetterei le eventuali decisioni del Parlamento, come giusto". è il commento del capo del Dipartimento delle Politiche antidroga della presidenza del Consiglio, Giovanni Serpelloni alla possibilità che, in un prossimo futuro, in Italia venga legalizzata la coltivazione per uso personale, e la piccola cessione, della marijuana o cannabis indica. Una possibilità , quella della legalizzazione, prospettata dall’assessore leghista lombardo all’Agricoltura, Gianni Fava, e oggi rilanciata da un disegno di legge presentato dal senatore del Pd Luigi Manconi. Serpelloni parte da un ragionamento: "è ampiamente dimostrato che a fronte di una diminuzione della disapprovazione sociale c’è contemporaneamente un aumento del consumo delle sostanze nocive, compreso tabacco e alcol. In caso di legalizzazione aumenterebbe dunque l’uso, in particolare tra i giovani. Un settore che fa molto gola alle grandi compagnie del tabacco, che da anni studiano il settore per ovviare alle recenti difficoltà nel loro settore. Non è un caso che la cannabis venga definita oro verde. Poi, certo, poi ci sono anche i piccoli produttori, che sono tantissimi: è un mercato enorme". Il punto inoltre, secondo Serpelloni, è che in natura la cannabis indica ha "tra il 5 e il 7% di principio attivo" mentre l’"erba" oggi in commercio "tra modifiche genetiche, tecniche di coltivazione particolari e altre accortezze, arriva al 50-55%, con danni enormi al cervello, particolarmente quello in formazione". Quanto al problema carcerario, per Serpelloni la soluzione "è sempre quella che vado prospettando da 5 anni: le carceri non sono luogo di cura per tossicodipendenti. Chi viene arrestato per reati non gravi legati alla droga dovrebbe poter accedere allo strumento già esistente, cioè scontare la pena in comunità, al diurno o al Sert". Insomma, ipotesi bocciata: "ma nel caso passasse - conclude Serpelloni - non mi dimetterei e continuerei nel mio lavoro con le nuove regole. Magari suggerendo al governo di aumentare la prevenzione". Droghe: Uruguay, la battaglia di Canne di Franco Corleone Il Manifesto, 8 gennaio 2014 Il 10 dicembre del 2013 il Senato dell’Uruguay ha approvato definitivamente una legge di legalizzazione della canapa che rovescia il paradigma su cui si è costruita l’ideologia del proibizionismo. Due anni fa (Manifesto, 13 aprile 2011) in questa rubrica ci eravamo occupati della discussione in atto nel Parlamento di quel Paese sulle soluzioni possibili per sconfiggere il narcotraffico e per affermare una politica di riduzione del danno. Non è stata una decisione facile né improvvisata. Oggi possiamo dire pubblicamente che abbiamo avuto qualche ruolo in questa svolta epocale, infatti chi scrive assieme a Riccardo De Facci e Cecco Bellosi ebbe tre anni fa un lungo incontro di lavoro con l’Ambasciatore dell’Uruguay a Roma presentando idee e proposte che largamente sono state recepite. Potremmo dire che la proposta di legalizzazione della cannabis presentata alla Camera dei Deputati in Italia nel 1995 (A.C. n. 2362) e nel 1996 (A.C. n. 128) con oltre 150 sottoscrizioni ha visto la luce a Montevideo. Infatti è prevista per la prima volta nel mondo la regolamentazione della produzione, della vendita e del consumo ammettendo esplicitamente non solo l’uso terapeutico ma anche quello ricreativo. È prevista anche la coltivazione per uso personale individualmente e attraverso i cannabis club. Si è così dimostrato che una forte e rigorosa volontà politica supera i tabù ideologici e i pretesi divieti imposti dalle Convenzioni internazionali; il presidente Mujica ha affermato con nettezza che cento anni di persecuzione del consumatore non hanno prodotto alcun risultato e che l’alternativa è rappresentata da un consumo responsabile e vigilato, fuori dai circoli criminali. L’obiettivo dichiarato è la salute pubblica da raggiungersi attraverso politiche educative e la prevenzione dell’uso problematico, con il divieto di ogni forma di pubblicità. È previsto il controllo del livello di Thc presente nelle piante e la qualità del prodotto. Il prezzo concorrenziale a quello del mercato sarà di un dollaro al grammo. La scelta dell’Uruguay, un paese di soli tre milioni e mezzo di abitanti, ha dimostrato che con relativa facilità ci si può sottrarre ai ricatti delle agenzie dell’Onu. Il presidente dell’Ufficio Internazionale di Controllo sui Narcotici (Incb) Raymond Yans ha proclamato che la riforma non protegge i giovani e addirittura produrrà un effetto perverso di incoraggiamento verso una precoce sperimentazione. David Dadge, portavoce dell’Unodc ha lamentato che l’Uruguay abbia preso una decisione da solo senza aspettare gli esiti dell’Assemblea Generale dell’Onu prevista per il 2016. Non mancano gli anatemi sul fatto che l’Uruguay con la sua scelta radicale, più rigorosa di quella dell’Olanda, abbia violato la Convenzione del 1961 di cui è parte. Sono ululati dei cani da guardia di una narco burocrazia al tramonto, perché il fallimento della war on drugs è sotto gli occhi di tutti. Dopo la vittoria della Bolivia di Morales all’Onu per il riconoscimento della legittimità dell’uso della foglia di coca come patrimonio della cultura indigena, dall’America latina arriva dunque una nuova lezione. D’altronde anche negli Stati Uniti, senza squilli di tromba, si sono registrate significative riforme della legislazione sulla marijuana in ben dodici stati nel 2013. È ora che anche l’Italia abbandoni la politica di repressione che riempie le galere di consumatori per il possesso di sostanze stupefacenti, in notevole percentuale di canapa, e per fatti di lieve entità. Nel decreto Cancellieri sul carcere si comincia ad avanzare qualche modesta proposta di modifica della Fini-Giovanardi. Il Parlamento mostri più coraggio! Belgio: chiede l’eutanasia in carcere, soffre troppo per i suoi disturbi mentali di Elena Molinari Avvenire, 8 gennaio 2014 A 20 anni è stato condannato all'ergastolo per stupro e omicidio. Da 30 è rinchiuso in un carcere belga, in isolamento per 23 ore al giorno, senza ricevere, a suo dire, le cure che la sua malattia mentale richiede. Ora Frank van den Bleeken vuole morire. Poiché in Belgio non esiste la pena di morte, il 50enne ha chiesto l'eutanasia - questa sì permessa nel Paese europeo. "Due psichiatri di fama hanno visitato Frank e hanno concluso che quest'uomo soffre in modo continuo a causa della sua condizione mentale - ha spiegato l'avvocato del detenuto, Jos Van Der Velpen - per questo chiede di essere ucciso: perché soffre in modo insopportabile". Il caso spinge però la legge sull'eutanasia belga ai suoi limiti. Riaccendendo la polemica. Van den Bleeken non è un malato terminale, non prova dolore fisico e le stesse turbe mentali che lo hanno spinto a commettere reati orribili in gioventù fanno dubitare della sua capacità di chiedere coscientemente la morte. Il livello di disperazione che ha raggiunto dietro le sbarre mette in luce inoltre le condizioni carcerarie in Belgio, criticato numerose volte dalla Corte europea per i diritti umani per non aver fornito terapie psicologiche adeguate ai criminali con problemi psichiatrici, imprigionati in condizioni definite "squallide". "La mia vita non ha assolutamente significato - ha detto l'ergastolano - potrebbero benissimo mettere un vaso di fiori al mio posto". Lo scorso gennaio la Corte europea ha concesso risarcimenti pecuniari a mille carcerati con problemi mentali che avevano fatto causa al governo belga, riconoscendo che erano stati rinchiusi in istituti sovraffollati che cadevano a pezzi, senza l'assistenza di personale specializzato. Prima di chiedere al ministero per la Giustizia belga il permesso di ricevere un'iniezione letale, Van den Bleeken ha presentato una petizione di essere inviato a un carcere psichiatrico olandese, in nome di un accordo tra i due Paesi che permette scambi di detenuti per evitare il sovraffollamento. Ma il trasferimento non è stato possibile. Ora l'ergastolano ha fatto causa alla ministra alla Giustizia belga Annemie Turtelboom, esigendo misure correttive immediate. Oppure la morte. Da quando il Belgio ha legalizzato l'eutanasia, nel 2002, la sua applicazione si è gradualmente estesa. E lo scorso mese il Senato statale ha approvato l'inclusione dei bambini fra le categorie che hanno "diritto" ad esigere un'iniezione che metta fine alla loro vita. Uno studio pubblicato lo scorso giugno dall'associazione dei medici canadesi (in Québec è in discussione la legalizzazione dell'eutanasia) ha evidenziato che un terzo dei casi di eutanasia nella regione fiamminga del Belgio (una delle tre dello Stato) sono stati portati a termine senza l'esplicita richiesta del paziente, poiché questi era inconscio o affetto da senilità tale da non poter dare il suo consenso. In quei casi a decidere la morte del paziente è stato il suo medico. Ancora più allarmanti sono i casi in cui è un infermiere ad amministrare l'iniezione letale. In quelle circostanze, in tutto il Belgio, la percentuale di morti senza esplicito consenso sale al 45%. È stato lo stesso studio a concludere che i dati confermano la presenza di "gruppi di pazienti vulnerabili a rischio di finire la loro vita prematuramente contro la loro volontà". Ha fatto notizia invece ieri il caso di Emiel Pauwels, 95enne e malato di cancro terminale allo stomaco, considerato l'atleta vivente più vecchio del Belgio, che ieri si è sottoposto a iniezione letale nella sua casa di Bruges, con il figlio Eddy al fianco, dopo aver salutato parenti e amici. Il numero delle morti assistite in Belgio è in crescita. Sono state 954 nel 2010 e 1133 l'anno successivo, prima di impennarsi a 1432 nel 2012, con un aumento del 25%. Stati Uniti: in Florida prima esecuzione del 2014, nel 2013 sono stati giustiziati 39 detenuti Tm News, 8 gennaio 2014 È avvenuta in Florida la prima esecuzione dell'anno degli Stati Uniti, dopo il netto calo registrato nel 2013. Le autorità hanno praticato un'iniezione letale ad Askari Abdullah Muhammad, conosciuto anche come Thomas Knight, condannato a morte per tre omicidi. Nel 2013 sono stati 39 i detenuti giustiziati negli Stati Uniti, contro i 43 del 2012. Dal 1999, anno in cui vennero registrate 98 esecuzioni, il numero dei condannati a morte è diminuito del 60% in tutto il paese. Complessivamente erano 3.108 i prigionieri nel braccio della morte il 1 aprile scorso, contro i 3.170 dell'anno precedente. Inoltre, oggi sono 18 gli Stati americani che hanno deciso di non ricorrere alla pena capitale; sei di questi hanno preso tale decisione negli ultimi sei anni. Gran Bretagna: in carcere si mangia meglio che in ospedale, per detenuti maggiori controlli Il Fatto Alimentare, 8 gennaio 2014 Il cibo preparato per gli ospedali britannici è di qualità così scarsa che non supererebbe gli standard delle mense scolastiche. Gli standard alimentari di qualità nelle carceri britanniche sono più alti rispetto a quelli di alcuni ospedali, dove il valore nutrizionale dei cibi distribuiti è talmente scarso, che non potrebbero essere serviti nelle mense scolastiche. Negli ospedali, infatti, ci si affida a regole decise da chi gestisce il servizio di ristorazione: un fatto giudicato inspiegabile dalla Campaign for Better Hospital Food, che lo ritiene un affronto nei confronti di migliaia di pazienti. "I ministri devono vivere su un altro pianeta se pensano che sia accettabile stabilire degli standard per la qualità dei pasti serviti ai carcerati ma non quella del cibo per i pazienti malati", afferma Alex Jackson, coordinatore della campagna, alla quale aderiscono novantotto organizzazioni. Il ministro della Salute, Dan Poulter, replica che ci sono molti esempi di ospedali dove il cibo è ottimo, anche se ci sono troppe differenze tra le varie zone del paese, per colmare le quali il governo avvierà un nuovo programma di ispezioni. Il ministro britannico continua a ritenere necessaria la presenza di standard alimentari, ma che non debbano essere stabiliti per legge, perché le migliori decisioni sono quelle prese a livello locale dagli chef e dai responsabili della ristorazione dei vari ospedali. Grecia: evade terrorista del Gruppo "17 Novembre", caccia all’uomo nel nord del paese Ansa, 8 gennaio 2014 La polizia greca ha lanciato una serrata caccia all’uomo nel Nord del Paese nel tentativo di catturare di nuovo Christodoulos Xiros, 55 anni, condannato per appartenenza al gruppo terroristico "17 Novembre". Lo ha reso noto l’edizione online del quotidiano Eleftherotypia. Xiros stava scontando una condanna a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione nel penitenziario di Korydallos, alla periferia di Atene, per complicità in sei omicidi, attentati dinamitardi e rapine. Il detenuto era uscito dal carcere per una licenza festiva di nove giorni il primo gennaio e, come nei giorni precedenti, si sarebbe dovuto presentare stamani al commissariato di polizia di Nea Kallikratia, sulla penisola Calcidica, vicino Salonicco, dove aveva detto che sarebbe rimasto a casa della sorella. Ma non lo ha fatto e così sono scattate le ricerche della polizia. Secondo quanto ha dichiarato stamani all’emittente privata Skai Tv l’avvocato di Xiros, Frangiskos Ragousis, il suo cliente si è dato alla fuga. "Ha potuto farlo ed è scappato come ogni rivoluzionario deve fare", ha detto Ragousis. Christodoulos Xiros è uno dei tre fratelli - il cui padre era un "pope" - arrestato e condannato per il ruolo svolto nei 27 lunghi anni di sanguinosa attività del gruppo 17 Novembre. L’organizzazione eversiva venne sgominata nel 2002 quando uno dei fratelli Christodoulos, Savvas, 52 anni, venne catturato dopo essere rimasto gravemente ferito nell’esplosione di un ordigno scoppiato prima del tempo. Siria: attivisti, Padre Paolo Dall’Oglio è detenuto in un carcere controllato dall’Isis Adnkronos, 8 gennaio 2014 Sarebbero in corso trattative "molto delicate" tra i ribelli siriani e i jiahdisti dello ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levantè (Isis) per il controllo di un carcere nel nord della Siria nel quale si ritiene che il gruppo legato ad al-Qaeda detenga Padre Paolo Dall’Oglio. Lo sostengono attivisti dell’opposizione citati dal quotidiano "Al Hayat". Gli attivisti hanno ribadito che le brigate dell’Esercito siriano libero, affiancate da miliziani del Fronte al-Nusra, hanno rimosso le barriere innalzate intorno al carcere dai loro ex alleati dell’Isis tra la provincia di Raqqa e il confine con la Turchia. "La seconda mossa dovrebbe essere quella di prendere in mano il carcere Sed Tishreen controllato dall’Isis, evitando però l’assalto per garantire l’incolumità dei prigionieri illustri, tra i quali si ritiene che ci siano il gesuita italiano e giornalisti francesi", hanno rivelato gli attivisti al quotidiano al Hayat. Ieri l’Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione vicino all’opposizione e di base a Londra, aveva confermato che i ribelli dell’Esercito siriano libero stavano assediando il quartier generale dei miliziani dello Stato islamico che si trova a Raqqa, la città dove si sono perse le tracce di Dall’Oglio il 28 luglio scorso. Brasile: dramma nel carcere di Pedrinhas, in un video-shock tre detenuti decapitati La Repubblica, 8 gennaio 2014 Il filmato è stato registrato lo scorso 17 dicembre e pubblicato oggi sul sito del quotidiano Fohla de S. Paulo. All’origine della strage uno scontro tra gang rivali. Nella prigione di Pedrinhas sono stati più di 60 gli omicidi nel 2013. Immagini scioccanti arrivano dal carcere brasiliano di Pedrinhas. In un video registrato da un detenuto con il proprio cellulare si vedono tre uomini decapitati. I corpi cosparsi di ustioni e ferite sono ammassati nel cortile della prigione. Il pavimento è un lago di sangue e le tre teste sono esibite uno di fianco all’altra come dei trofei. In sottofondo gli insulti di un gruppo di detenuti, non riconoscibili dal filmato, rivolti alle tre vittime. Un video raccapricciante, non adatto a chi ha lo stomaco debole, ma non consigliato neanche agli altri. Una testimonianza della violenza nel carcere, che si trova nella periferia di Sao Luis, capitale dello stato di Maranhao, nel nordest del paese, ed è considerato il più pericoloso del Brasile: nel 2013 vi sono stati commessi 62 omicidi. Secondo il quotidiano brasiliano i cadaveri sono quelli di Diego Coelho, 21 anni, Manoel Ribeiro, 46, e Irismar Pereira, 34. I tre sarebbero stati decapitati in seguito a uno scontro tra detenuti di gang rivali. Gli autori della strage sono invece ignoti. Ma il quotidiano Fohla ha inviato il video al governo brasiliano per consentire di aprire un’inchiesta sull’accaduto. Russia: aiutiamo le donne che vengono torturate nelle carceri di Nadia Tolokonnikova www.huffingtonpost.it, 8 gennaio 2014 Nadia Tolokonnikova è stata liberata di recente da un carcere siberiano in cui è rimasta reclusa - insieme alle altre componenti delle Pussy Riot - per più di ventun mesi per aver partecipato alla "preghiera punk" di protesta contro il presidente russo Vladimir Putin. Nadia divulga sull’Huffington Post le sue riflessioni sul periodo che ha trascorso in carcere. Perché credo sia importante mobilitarsi per il sistema carcerario russo? La risposta è semplice. Perché le ragazze e le donne che si trovano dietro le sbarre mi dicono: "Sogno di prendere la tubercolosi solo per uscire dall’IK-2!" Queste donne hanno un posto dove andare quando saranno liberate, hanno genitori e figli. Ma sono talmente umiliate, represse e private della voglia di vivere che sono pronte a contrarre di proposito una grave malattia per un’unica ragione: finire in ospedale per uscire di prigione. Una prigione dove vengono percosse con mazze, spranghe e anfibi, dove dormono solo poche ore al giorno, dove trasportano blocchi di cemento, dove vengono torturate e uccise. È per questo che stiamo creando "Justice Zone". È una piattaforma che sarà la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Durante la nostra prigionia, l’amministrazione del carcere ha tentato di mettere a tacere me e Masha Aloykhina facendo pressione sulle detenute che ci erano più affezionate. Ora tenta anche di dare un giro di vite alle attività di "Justice Zone" prendendo in ostaggio l’amica di una persona che lavora insieme a noi in favore dei diritti umani. Kira Sagaydarova, nostra collega di Justice Zone, è stata liberata cinque mesi fa dalla prigione IK-2 e ora partecipa attivamente al nostro lavoro per cambiare la situazione nelle carceri. Di recente Kira ha rilasciato diverse interviste in cui ha parlato delle flagranti violazioni e delle sistematiche violenze che si verificano nell’IK-2. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: "Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella". "I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno!". Vika Dubrovina è un’amica di Kira ed è ancora in prigione. A metà novembre Kira ha smesso improvvisamente di ricevere lettere da Vika. Il 25 dicembre Vika è riuscita a chiamare sua mamma, e le ha detto di aver trascorso l’ultimo mese in una cella punitiva. Ecco le parole della madre di Vika: "Vika mi ha chiamato in lacrime e mi ha detto che, a causa di un’intervista rilasciata da Kira, l’hanno messa due volte per quindici giorni in una cella punitiva e le hanno detto di tenersi pronta a spostarsi nel SUS." Il SUS è una caserma in cui ti chiudono a chiave e ti proibiscono di vedere familiari o amici e di fare telefonate. I direttori della prigione IK-2 non nascondono il fatto che Vika subirà trattamenti punitivi finché Kira, che ora è libera, smetterà di parlare delle carceri della Mordovia. La prima volta che Vika è stata messa in una cella punitiva è stato a causa di una targhetta. Le si è avvicinata una dipendente del carcere che le ha strappato la targhetta con il nome, poi le ha annunciato che stare in prigione senza la targhetta è una violazione, per la quale sarebbe stata punita con quindici giorni di reclusione nella cella d’isolamento ghiacciata. Dopo quindici giorni, Vika è uscita dalla cella punitiva. Ha trascorso la notte nella caserma principale con tutte le detenute. Il giorno seguente, è stata convocata dal direttore, il quale le ha detto che sarebbe stata nuovamente punita a causa dell’uniforme, per qualche irregolarità nella casacca, e che l’avrebbero mandata di nuovo in cella punitiva per altri quindici giorni. Il 26 dicembre, il giorno successivo alla fine del secondo periodo in cella punitiva, Vika è stata rinchiusa in isolamento per un terzo periodo con un altro pretesto assurdo. Perciò Vika sta trascorrendo quarantacinque giorni in isolamento. Alla metà di gennaio, quando sarà portata di nuovo nel reparto principale, i dirigenti dell’IK-2 escogiteranno un altro piano per punirla di nuovo, solo per il fatto che la sua amica Kira sta rivelando cosa succede nella prigione. Insieme alla madre di Vika abbiamo già inoltrato una denuncia al Procuratore Generale e alla Procura di Moldavia, e abbiamo presentato un’istanza alla corte di Zubova Polyana Mordovia affinché i tre periodi trascorsi da Vika in cella punitiva siano dichiarati azioni illegali perpetrate dall’amministrazione dell’IK-2. Per ottenere la risposta delle procure e della corte bisognerà attendere un paio di settimane, ma dobbiamo iniziare ad agire subito, oggi stesso. Dobbiamo chiarire ai direttori dell’IK-2 e al sistema carcerario della Mordovia che non possono punire impunemente Vika Dubrovina per vendicarsi del fatto che la sua amica scrive della situazione nel carcere. Per questo motivo, incoraggiamo tutti voi che non restate indifferenti di fronte al male - che è quello che sta succedendo a Vika - a mostrare ai funzionari del carcere della Mordavia che le loro azioni saranno punite. Al momento sono già state inoltrare centinaia di proteste da persone che hanno risposto al nostro appello e non sono rimaste indifferenti. Speriamo che, grazie all’attenzione generale, le punizioni illegali cesseranno a non ne verranno imposte di nuove. Stati Uniti: nel Kentucky detenuto evade ma poi si riconsegna "sto morendo di freddo" Adnkronos, 8 gennaio 2014 Detenuto evade da una prigione del Kentucky, ma si riconsegna per il troppo freddo. Robert Vick, 42 anni di Hartford, fuggito dalla prigione di Lexington domenica scorsa, ha resistito all’aperto solo poche ore a -28 gradi e si è riconsegnato il giorno dopo. Le autorità hanno dichiarato che l’uomo è entrato esausto in un motel, chiedendo di poter chiamare degli agenti per poter tornare in prigione. "L’uomo, entrato nell’hotel, ha chiesto alla reception di volersi riconsegnare alle autorità a causa del freddo polare", ha dichiarato la portavoce del dipartimento locale di polizia Sherelle Roberts. "L’evaso ha poi aggiunto - prima di fare rientro nel Blackburn Correctional Complex, ha avuto bisogno di cure da parte del personale paramedico". Una portavoce della prigione ha dichiarato che l’uomo era fuggito vestito solo con l’uniforme dei detenuti: pantaloni, maglietta e una giacca leggera. Francia: detenuto armato di una sbarra di ferro prende in ostaggio direttrice carcere Adnkronos, 8 gennaio 2014 La direttrice del carcere di Baumettes a Marsiglia è stata presa in ostaggio da un detenuto nel suo ufficio. L’uomo, 35 anni, sarebbe armato di una sbarra di ferro e a provocare la sua rabbia sarebbe stato un cambiamento di cella, riferiscono i media francesi. Il detenuto ha preso in ostaggio la direttrice attorno alle 17 dopo essere entrato nel suo ufficio per un colloquio. Chiede che venga sul posto il direttore interregionale dei penitenziari. È la prima volta che si verifica una presa di ostaggi nel carcere di Baumettes, un istituto di pena con 1.300 posti che attualmente ospita 1.800 detenuti fra uomini e donne.