Buon anno anche ai figli degli ergastolani condannati a non vedere mai il papà libero Il Mattino di Padova, 6 gennaio 2014 Ogni anno, quando arrivano le feste, raccontiamo quanto è triste passare in galera quei momenti, che di solito fuori, nel "mondo libero", vedono riunite le famiglie, e sono momenti di gioia, o per lo meno di ricerca di un po’ di serenità. Questo inizio d’anno vogliamo dedicarlo invece non al racconto dell’angoscia del Natale sovraffollato delle persone detenute, ma al dolore dei loro figli, e in particolare dei figli di quei genitori che sono condannati all’ergastolo ostativo. In pratica chi subisce una condanna per un reato commesso nell’ambito di una organizzazione criminale, deve scontarla per intero senza poter mai uscire dal carcere, a meno che non collabori con la giustizia. Ma sono tanti i detenuti che non accettano di collaborare per paura di ritorsioni e vendette nei confronti dei loro famigliari, e se sono condannati all’ergastolo, preferiscono subire la "pena di morte viva", come loro stessi definiscono l’ergastolo ostativo, piuttosto di costringere i loro figli a nascondersi, a cambiare identità, a mettere a rischio le loro vite. Nel nostro Paese sono tutti convinti che non esista l’ergastolo vero, perché tanto qui "nessuno si fa la galera". Ma le cose non stanno così, e fa rabbia leggere articoli e vedere trasmissioni televisive che ridicolizzano le pene, e ironizzano sul fatto che l’ergastolo "c’è solo sulla carta", e poi vedere questi figli di ergastolani, che passano la vigilia delle feste nelle sale colloqui di un carcere, e che sanno che il loro padre lo vedranno per tutta la vita lì dentro, o a volte non lo sanno neppure, perché quel padre non ha il coraggio di dirglielo. Ecco, dedichiamo a questi figli un augurio: che il nuovo anno porti a loro una società meno incattivita, con più umanità verso chi deve scontare una pena e un po’ di speranza per i loro padri. Figlia di un uomo ombra Quest’anno che è passato mia figlia mi ha scritto: "Ciao amore mio, un altro anno è passato e abbiamo percorso migliaia di kilometri invisibili verso il nostro obiettivo, lo so che è dura continuare ad andare avanti senza mai una soddisfazione, ma la verità è che a noi ne basta solo una... solo una vittoria per dare un senso a tutte queste delusioni ... ed io non so se questo sarà l’anno giusto, ma quella che per me è sempre stata una speranza ormai è diventata una certezza. E l’unico motivo per cui quest’anno non ti dirò che credo che tornerai da noi è perché io adesso lo do per scontato. Quindi papà non hai altra scelta... devi continuare a lottare... perché questo Natale noi siamo più numerosi, ma il prossimo anno ci aspettiamo di essere uno in più, quell’uno che sarà comunque e costantemente presente nei nostri pensieri e nel mio cuore. Ti amo tanto". Figlia di un uomo ombra, sono pochi i prigionieri che riescono ad affrontare i fantasmi del passato. Io credo di esserci riuscito. E sono stato sconfitto. Ci sono delle notti che non riesco a dormire perché sento che la mia vita è stata sconfitta. E perduta per sempre. Nei primi anni di carcere trovavo conforto nei ricordi. E nei sogni. Adesso invece, dopo ventitré anni di carcere, se ricordo e sogno soffro ancora di più. Da molti anni ogni giorno che passa è una giornata in più di sofferenza e un giorno in meno di speranza. E ci sono dei giorni che quando apro gli occhi il mattino penso subito a come sarebbe stato bello se fossi morto all’improvviso durante il sonno, perché la mia pena è una vera condanna a morte con la differenza che invece che da morto la sconto da vivo. Una morte a occhi aperti dove la mia stessa vita è diventata una prigione. Figlia di un uomo ombra, penso spesso che la speranza sia la prigione più difficile da cui poter evadere. E ti confido che ci sono dei giorni e delle notti che penso che questa sia il peggiore nemico degli ergastolani ostativi perché ti costringe inutilmente a sopravvivere. Solo per attendere un giorno che non arriverà mai. E ci sono dei momenti che non mi ricordo neppure più da quanto tempo sono prigioniero. A volte mi sembra persino di essere nato in carcere. E mi sento un morto che vive. Credo che non ci sia cosa peggiore nel mondo della "Pena di Morte Viva", perché questa è più lenta, dolorosa e più lunga della morte normale. E penso che non ci sia nessuna giustizia nel tenere murata viva una persona in una cella solo per farle attendere l’arrivo della vecchiaia e poi quello della morte. Figlia di un uomo ombra, nei momenti più bui sei stata tu con tuo fratello a illuminarmi la vita. Continuerò a lottare anche quest’anno. Te lo prometto. Non per me, ma per voi due e per la mamma. Te lo giuro sul nostro amore. Un sorriso fra le sbarre. Papà. Carmelo Musumeci Quello che desiderano per il 2014 i figli di un ergastolano ostativo Nell’ultimo colloquio che ho fatto con i miei figli, dopo tanti anni che una di loro non la vedevo proprio, lei mi ha detto: "Papà, pensi che quest’anno 2014 riusciremo ad averti a casa e a rimanere un po’ tutti insieme?". Le ho risposto: "Mai dire mai!". Loro, vivendo all’estero, non capiscono cosa è l’ergastolo ostativo e io non trovo neanche il coraggio di spiegarglielo, perché allora gli dovrei spiegare che non ho nessuna possibilità di uscire e che potranno avermi solo quando morirò. È vero, sono un codardo nel non dire la verità ai miei figli, ho paura di ferirli, di spegnere quel sogno a cui loro desiderano aggrapparsi e di fargli tanto male. Ho tanta paura di perderli ancora. L’unica cosa che rispondo quando mi fanno queste domante è "Non perdiamo mai la speranza, tutto potrebbe cambiare da un momento all’altro", ma lo dico con molta vergogna e non riesco a guardarli negli occhi. Ecco perché mi sento un padre codardo. Un giorno dovrò trovare il modo e la forza di digli la verità, ma ho tanta paura, o meglio più che paura non trovo il coraggio di spezzare il loro desiderio di avere vicino il loro papà. Nell’ultimo colloquio un mio nipotino, figlio di Veronica, alla fine del colloquio mi ha detto: "Nonno, se non vieni per Natale a giocare con noi, almeno vieni per capodanno". Il mio cuore si è spezzato in due, e mi chiedevo: già non trovo il coraggio di dire la verità alle vostre mamme, come faccio a dire una bugia ai miei nipotini? È veramente difficile, e non so cosa fare., non so se devo essere crudele e dirgli come stanno le cose e svegliarli da quel sogno che desiderano tanto si avveri. A volte si dicono bugie per paura di perdere le persone che ami, ma i miei genitori mi hanno insegnato che è meglio dire una brutta verità, che una bella bugia per non dare delusioni. Io però per ora non ho fatto mio il loro insegnamento, non ci sono proprio riuscito. Per adesso non trovo il coraggio, anche perché non sono stato un padre presente durante l’adolescenza dei miei figli, essendo da tanti anni in carcere. E la più grande vergogna che provo verso di loro è che quando avevano bisogno del conforto del padre, io non c’ero, non c’ero per affrontare i grandi problemi e non c’ero per affrontare le piccole difficoltà. Spero che un giorno troverò il coraggio di parlarne, e che capiscano questa mia bugia. Biagio Campailla Giustizia: petizioni online su indulto e amnistia, è battaglia tra favorevoli e contrari di Calogero Giuffrida Blasting News, 6 gennaio 2014 Fratelli d’Italia raccoglie firme contro amnistia e indulto. Altri chiedono invece "Umiltà verso i fratelli detenuti". Indulto e amnistia, petizioni e dibattito acceso sul web. Partono da internet diverse petizioni online promosse sia dai cittadini che da partiti. Una miriade di raccolte di firme di chi si schiera a favore oppure contro i provvedimenti di clemenza generale ritenuti necessari dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che li ha espressamente chiesti con un messaggio alle Camere per contrastare il sovraffollamento delle carceri italiane già sanzionato dalla Corte di Strasburgo. è stata intitolata "petizione contro l’amnistia e l’indulto" quella proposta sul sito firmiamo.it da Fratelli d’Italia, il partito dell’ex ministro Giorgia Meloni, secondo il quale "indulto e amnistia rappresentano il fallimento dello Stato". Nella petizione si sostiene che il problema del sovraffollamento carcerario si risolve con la realizzazione di nuove carceri e facendo scontare all’estero le pene ai detenuti stranieri, ma anche con misure di contrasto all’abuso della custodia cautelare in carcere. Secondo Fratelli d’Italia l’ultimo indulto del 2006 ha fatto uscire dal carcere oltre 36 mila detenuti su 60 mila ma dopo due anni - si legge nella petizione - il 70% tornò in carcere e il numero dei carcerati è tornato a salire. Inoltre è inaccettabile per le vittime dei reati - secondo la petizione - vedere impuniti i loro carnefici e non vedere garantito dallo Stato il principio di certezza della pena. "Umiltà verso i fratelli detenuti" è invece il titolo della petizione online promossa da Vincenzo Giacobbe. "Firma questa petizione se sei favorevole per l’indulto e l’amnistia - si legge nella descrizione - come lo è anche il nostro presidente della Repubblica Napolitano". Occorre "porre fine - viene sottolineato nella petizione a favore di amnistia e indulto - a questa situazione di tortura ai danni di persone detenute stipate in celle anguste e in condizioni degradanti e inumane". Tra le altre petizioni online su indulto e amnistia, tra favorevoli e contrari, pubblicate su firmiamo.it "No amnistia e indulto", creata da Il Meridionale; "No all’indulto e all’amnistia, ma certezza della pena" creata da Edvige Tabacchi; "Amnistia e indulto", creata da Mara Depp, "Amnistia 2013" creata da Cecilia Silvestri. Ma altre petizioni circolano sul web, anche su facebook, dove sono stati creati diversi gruppi favorevoli o contrari. Di "indulto mascherato" ha invece parlato ieri il comico e leader del Movimento 5 stelle Beppe Grillo commentando sul suo blog il cosiddetto "decreto svuota carceri" approvato dal Governo Letta su proposta del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Giustizia: cosa fare contro sovraffollamento carcerario? Blog Grillo lancia sondaggio Adnkronos, 6 gennaio 2014 Cosa fare contro il sovraffollamento carcerario. è la domanda che pone il blog di Beppe Grillo, lanciando un sondaggio per votare alcune delle soluzioni proposte: depenalizzazione dei reati minori (abolizione Fini-Giovanardi); eliminazione o riduzione della custodia cautelare; accordi bilaterali con i Paesi degli stranieri carcerati affinché scontino la pena in patria; costruzione nuove carceri; ristrutturazione delle strutture carcerarie esistenti, razionalizzando e recuperando spazi; indulto e amnistia; altro, con la possibilità di avanzare la relativa proposta. Secondo i risultati di un sondaggio online promosso dal comico e capo politico del Movimento 5 stelle sul suo blog beppegrillo.it, che ha chiesto ai lettori come affronterebbero il problema del sovraffollamento nelle carceri, solo il 2.33% dei votanti (pari a 709 utenti) ritiene necessari amnistia e indulto, così come chiesto con un messaggio alle Camere dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano in considerazione della sentenza della Corte di Strasburgo, che ha sanzionato l’Italia per le condizioni degradanti e inumane nelle carceri. Al momento della chiusura del sondaggio, alle ore 14 di oggi 5 gennaio 2014, le statistiche indicavano 30.491 votanti. La maggioranza dei votanti - pari al 33.44% (10.197 utenti), ritiene che per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario siano necessari gli accordi bilaterali con i paesi di stranieri di detenuti in Italia affinché scontino la pena nei propri paesi. Il 27.85% (8.492 votanti) è per la "depenalizzazione di reati minori (abolizione Fini-Giovanardi)" mentre il 15.69% (4.783 votanti) è per la ristrutturazione delle carceri esistenti, razionalizzando e recuperando spazi, e l’11.46% (3.495 votanti) per la costruzione di nuove carceri. Solo l’1.29% (392 votanti) è per l’eliminazione o riduzione della custodia cautelare. Altri 2.421 votanti (7.94%) pensano che serva "altro" per risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri italiane. Solo il 2.33% dei votanti (pari a 709 utenti) ritiene necessari amnistia e indulto, così come chiesto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e come continuano a chiedere non solo i Radicali italiani che nei giorni scorsi promosso diverse iniziative per sollecitare al Parlamento l’approvazione dei provvedimenti di clemenza generale previsti dalla Costituzione italiana, ma anche diversi parlamentari che hanno presentato quattro ddl per la concessione di amnistia e indulto che sono in discussione alla commissione Giustizia del Senato. Proposta di indulto e amnistia che però viene "bocciata" dal sondaggio online lanciato da Beppe Grillo sul suo blog a corredo di un post in cui il leader del Movimento 5 stelle - contrario ai provvedimenti di clemenza - ha fortemente criticato il "decreto svuota carceri", approvato dal Governo su proposta del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, definendolo un "indulto mascherato". Lettere: tra lassismo e giustizialismo… L’Unità, 6 gennaio 2014 I tossicodipendenti vanno curati e non rinchiusi. Chi ha spacciato piccole quantità non può subire le identiche pene dei grandi trafficanti. L’ultima parte della pena può essere trascorsa ai domiciliari. Per decongestionare le carceri, sovraffollate negli anni dell’idiozia berlusconiana, per l’adozione di stupide leggi di "tolleranza zero". Con "risultati zero" nella diminuzione dei reati. Massimo Marnetto Risponde Luigi Cancrini Giusto. Anche se molto mi ha dato da pensare, prima di Natale, il modo in cui l’essere umano evaso dal carcere di Genova è stato incautamente trasformato, da troppi giornali, in un serial killer che si aggirava, incustodito e pericoloso, fra Genova, Torino e la Francia: dall’interno dello stereotipo che ha costituito per tanti anni il perno della stupidità giustizialista dei berlusconiani che invocano una riforma della giustizia in cui i reati dei poveri debbono essere puniti in modo sempre più severo (e rassicurante). Difficile, davvero, da sinistra affrontare con un minimo di razionalità il problema del carcere senza incorrere nelle accuse opposte di giustizialismo (nei confronti dei Berlusconi) o di lassismo (nei confronti dei poveracci). Finché non si riuscirà, forse, a far crescere l’idea per cui gli errori commessi dagli esseri umani possono e debbono essere corretti tenendo conto delle circostanze, personali, interpersonali e sociali in cui si sono verificati. La pena, osservata da questo punto di vista, potrebbe (dovrebbe) essere considerata come uno strumento fra gli altri di un percorso di "cura" e di cambiamento. Sapendo, magari, che un cambiamento utile è più difficile nel caso dell’evasore fiscale che non si sente colpevole che in quello di chi ha commesso delitti, anche gravi, ed è capace, però, di prenderne coscienza. E di costituirsi: invece di delirare, accusandoli di complotto, sui magistrati. Lettere: arriveremo ai manichini per colmare le carenze di Personale? di Mario Nicotra www.polpen.it, 6 gennaio 2014 Più volte mi sono chiesto cosa avessero i detenuti di speciale che i Poliziotti Penitenziari non avessero per cui tutte le istituzioni e tanti media fossero interessati alle condizioni di vita dei primi e non di lavoro dei secondi. La realtà penitenziaria correla strettamente la vita del detenuto al lavoro dei Poliziotti Penitenziari, quindi la “sofferenza” lavorativa del Poliziotto non può che ripercuotersi negativamente sui detenuti. Proviamo a riflettere un attimo, se ci sono pochi Poliziotti Penitenziari in una struttura carceraria saranno tutti molto più attenti e più tesi, perché se dovesse succedere qualcosa durante il loro turno sanno che dovranno affrontarla in una condizione di svantaggio numerico. Una volta questo era un fattore forse meno rilevante, ma oggi con l’introduzione della “vigilanza dinamica” è un problema quanto mai attuale, poiché potendo lasciare i detenuti liberi per ben otto ore, possono manifestarsi fatti come quello dello scorso 30 dicembre a Viterbo (la maxi-rissa). Io non oso immaginare la difficoltà dei Poliziotti Penitenziari quando si sono ritrovati in mezzo a quello che ha tutta l’aria di un “regolamento di conti”. E se anziché essere dodici fossero stati venti? Siamo sicuri che la professionalità ed il coraggio con cui il Personale è intervenuto sarebbero bastati? Un Poliziotto Penitenziario ne è rimasto ferito ed è stato trasportato in ospedale. Ricordo un fatto accaduto a luglio del 2010, in Argentina, per carenza di fondi lo stato non poteva permettersi Poliziotti a controllo di un istituto penitenziario e ha organizzato un finto servizio di sorveglianza con dei manichini. Chiaramente due detenuti se ne sono accorti e sono evasi. Dobbiamo arrivare a questo? Il costo medio giornaliero per detenuto, a quanto riportano i dati del Ministero della Giustizia, si aggira intorno ai 124 euro, considerando che abbiamo più di 63.000 detenuti... diciamo che sono un bel po’ di soldi. Ma la diplomazia internazionale dov’è finita? Se consideriamo che i detenuti stranieri erano 22.878, sempre secondo di dati del Ministero e riferiti al 31 agosto 2013, significa che ogni giorno l’Italia spende quasi tre milioni di euro per tenerli in custodia. Ma con tre milioni di euro non si può pensare di trovare nuovi accordi intracomunitari o anche internazionali per rimandarli a scontare le pene nei loro Paesi? Con i soldi che si risparmiano a lungo andare si potrebbe addirittura pensare, la butto lì e senza pretese, di assumere nuovo personale per colmare il Gap rimasto tra Poliziotti Penitenziari necessari e Poliziotti Penitenziari effettivamente in servizio. Roma: detenuto 52enne si uccide, secondo suicidio da inizio anno nelle carceri italiane Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2014 Si è impiccato incastrando una camicia nella cerniera della porta del bagno nella sua cella del carcere romano di Rebibbia N.C. Si è tolto la vita in questo modo il detenuto italiano di 52 anni che è anche il primo recluso morto, nelle carceri del Lazio, nel 2014. La notizia del decesso è stata resa nota dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’episodio è avvenuto ieri sera, intorno alle 23.00. A quanto appreso dai collaboratori del Garante, la vittima è un detenuto italiano di 52 anni in attesa di giudizio, Francesco Di Francesco, in carcere dallo scorso luglio per aver ucciso a Roma la madre, con cui era tornato a vivere da qualche tempo. Subito dopo l’arresto, l’uomo era stato recluso a Regina Coeli e da qui, successivamente, trasferito all’osservazione psichiatrica di Rebibbia Nuovo Complesso. Nei prossimi giorni Francesco doveva essere trasferito nel reparto per minorati psichici di Rebibbia Penale. "Il primo decesso del 2014 nelle carceri del Lazio - ha detto il Garante Angiolo Marroni - riporta drammaticamente in primo piano il problema dei reclusi con gravi problemi psicologici. Il carcere è un luogo duro, in grado di piegare anche i caratteri più forti, figurarsi l’impatto che può avere con quanti hanno già delle sofferenze psichiche. Il problema è che, spesso, il sovraffollamento non consente di capire se queste persone abbiano una sofferenza tanto grave da indurle a privarsi della vita. Per questo occorre passare immediatamente dalle parole ai fatti, per tornare ad un sistema detentivo che, nel pieno spirito del dettato costituzionale, rimetta al centro la persona e la tutela dei suoi diritti". Nieri (Sel): sovraffollamento produce solitudine detenuti "Stanotte a Rebibbia c’è stato il primo suicidio del 2014. Ricordiamoci che i suicidi nelle carceri italiane hanno una frequenza circa 19 volte maggiore rispetto a quelli delle persone libere. I detenuti che si tolgono la vita, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono particolarmente difficili a causa del sovraffollamento, ma anche delle poche attività trattamentali e della scarsa presenza del volontariato. Anche per questo le attività trattamentali vanno finanziate, il volontariato sostenuto e il sovraffollamento sistemico sconfitto, attraverso la revisione di norme liberticide che riempiono le carceri e non risolvono i problemi". È quanto dichiara il vicesindaco di Roma Capitale Luigi Nieri. "Con il sovraffollamento, paradossalmente, aumenta la solitudine dei detenuti, visto che diminuisce, in termini di tempo disponibile, l’attenzione che gli operatori possono dedicare ai singoli reclusi - conclude - Bisogna tutelare la dignità delle persone incarcerate costruendo per loro un percorso di riabilitazione effettiva, per non togliere a una persona già privata della libertà personale, anche il rispetto di se stesso e la voglia di vivere. La pena, è scritto nella nostra Costituzione, deve avere funzioni rieducative". Sindaco Roma Marino: subito intervento per garantire dignità umana "Ancora un suicidio in carcere, questa volta a Roma. Una drammatica emergenza. Serve subito un intervento per garantire la dignità umana". Così in un tweet il sindaco di Roma Ignazio Marino sul suicidio in cella, ieri sera, di un detenuto di Rebibbia. Sappe: secondo suicidio di un detenuto in carcere dall’inizio dell’anno "Quello di ieri notte a Roma Rebibbia è il secondo suicidio di un detenuto in un carcere italiano. Segue quello, a Ivrea il 3 gennaio scorso, di un altro italiano. Alla luce degli accadimenti che stanno attraversando le dinamiche penitenziarie in questo ultimo periodo occorre rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere". La notizia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "E’ una notizia triste, che colpisce tutti noi che in carcere lavoriamo in prima linea, 24 ore al giorno. Ed è una sconfitta per lo Stato che a morire sia una persona in attesa di giudizio. Ma va anche detto che il Parlamento ignora colpevolmente il messaggio del Capo dello Stato dell’8 ottobre scorso, che chiedeva alle Camera riforme strutturali per il sistema penitenziario a fronte dell’endemica emergenza che tra l’altro determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", tuona Donato Capece, segretario generale Sappe. "Addirittura il Capo del Dap Tamburino, che nostro malgrado è anche Capo della Polizia Penitenziaria, ha avuto l’ardire di sostenere che l’Italia non sarà in grado di adottare entro il prossimo maggio 2014 quegli interventi chiesti dall’Unione Europea per rendere più umane le condizioni detentive in Italia". Capece torna a sottolineare le criticità delle carceri italiane: "Nei 206 penitenziari del Paese il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici ma il Capo Dap Tamburino alza le mani di fronte alla sentenza Torreggiani. Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni,nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo". Bologna: fuori dal carcere diamo un lavoro a chi come noi vuole rinascere di Chiara Affronte L’Unità, 6 gennaio 2014 Gianfranco e Alfonso hanno aperto una rosticceria a Bologna con altri 5 detenuti: "vogliamo ingrandirci e dare speranze". Alle 10 del mattino la serranda della rosticceria "Gnam Gnam" in via Petroni a Bologna, nel cuore della zona universitaria, è a metà: in vetrina ci sono già alcuni piatti pronti e un po’ di panini. Dentro Gianfranco e Alfonso sono al lavoro per preparare gateau di patate, pasta al forno e leccornie siciliane e vegetariane. Questo è il loro nuovo lavoro da qualche settimana, il primo dopo molto tempo. Alfonso, 68 anni, di cui 28 passati in carcere, è finalmente fuori da una manciata di settimane. Gianfranco, che di anni ne ha 60, 13 dei quali passati dietro le sbarre, è in regime di affidamento, dopo un periodo di semilibertà: deve rientrare alle 23.Madi giorno realizza un sogno meditato da tempo: costituire un’associazione - che oggi si chiama Chiusi Fuori, aprire un’attività legata alla gastronomia e cercare di aiutare anche altri detenuti ed ex detenuti a dare una svolta vera alla loro vita. "Solo lavorando si può davvero uscire dal tunnel, sennò l’unica strada è tornare a delinquere: è successo a tutti noi e continuerà a succedere", scandiscono i due amici, che del sogno diventato realtà hanno parlato a lungo durante le ore e mezza d’aria nel carcere della Dozza, a Bologna, dove si sono conosciuti. "Facevamo footing sul prato - visto che alla Dozza un po’ di verde c’è - e intanto fantasticavamo sul futuro", aggiunge Alfonso. A dare loro una mano è stata l’avvocato di Gianfranco - Chiara Rizzo - che ha messo insieme anche soci fondatori "normali" oltre ai 5 detenuti. Non potrebbero essere più diversi, i due amici, per temperamento e per storia personale: Gianfranco, romano, uno "stravagante", come lo descrive il suo avvocato Chiara Rizzo, è stato un rapinatore, ma ha sempre coltivato la passione della cooperazione come strumento di vita e di lavoro. Così forte che è riuscito a lavorare per due anni in un agriturismo mentre era latitante. Alfonso, siciliano, è stato dentro per un reato passionale, ma ha collezionato anche reati politici legati all’estrema destra, a partire dalla sua partecipazione al golpe Borghese negli anni 70. Le loro biografie sono agli antipodi, quasi per tutto, ma il progetto che hanno in testa - ora che si sentono fuori per sempre da certi "giri" - è lo stesso: "Alleviare la sofferenza, contenere la disperazione e offrire la possibilità di ricostruirsi una vita dopo il carcere a chi, come loro, ha compiuto dei reati". Perché di una cosa sono certi: "Senza una casa, un lavoro, senza una famiglia che accolga, è evidente che una persona torni a delinquere appena uscita dal carcere". Così lo spiegano, loro: "Ti chiudi la porta dietro la schiena, con la tua valigia, quando va bene, o col sacchetto nero sulle spalle, come si vede nei film - dice Alfonso - hai forse 30 euro in tasca che ti bastano per qualche giorno, e un libretto con le indicazioni su dove puoi andare a farti una doccia. E poi?". "Se torni nella tua città gli "amici" ti vengono a cercare, ed è fatta", aggiunge Gianfranco, che infatti a Roma non vuole tornarci più: "Non voglio storie". Nicola, anche lui in regime di semilibertà, passa da "Gnam Gnam" a trovare i due uomini per alcune dritte culinarie e approfitta per dire la sua: "Non c’è niente di rieducativo nelle nostre carceri, sono strutture solo punitive, anzi afflittive, talvolta durissime a seconda dei direttori di turno: hai pochi minuti di telefonate consentite a settimane, avvocato compreso. Così è impossibile anche tentare di mantenere un contatto con la famiglia, se ce l’hai...". Per non parlare del sovraffollamento, su cui anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insiste da tempo affinché si trovi una soluzione. "Quando va bene si sta in 3 o 4 in celle da 8 metri quadri: almeno uno è costretto a stare a letto perché manca lo spazio. C’è l’ora d’aria la mattina, un’altra dopo pranzo e alle 15 la giornata è finita", racconta Gianfranco. "Non ti resta che pensare, deprimerti o riempirti di odio", aggiunge Alfonso. Nella loro schiera di conoscenze, la percentuale di chi si libera di un passato costellato di reati è "al massimo del 5%: tutti gli altri ci ricascano e fanno dentro e fuori", assicura il più anziano. Lavorare e rinascere Il punto è che "le istituzioni non si occupano né della rieducazione all’interno del carcere, né del dopo: quando accade è grazie alla lungimiranza di un direttore o alla volontà dei cittadini", fa sapere Alfonso, mentre ricorda l’esperienza tutta bolognese nata lo scorso anno quando tre aziende, colossi del mondo della meccanica automatizzata, Marchesini Group, Ima e Gd, insieme alla Fondazione Aldini Valeriani, hanno dato vita ad una società per produrre dentro il carcere di Bologna pezzi destinati alle tre aziende, assumendo con contratto di lavoro alcuni detenuti. "Un’esperienza importantissima, che dà una speranza, perché una volta uscito dal carcere, se ti metti con tutta la buona volontà a cercare un lavoro, quando ti presenti e sulla tua carta d’identità c’è scritto che sei residente in via del Gomito (dove si trova la Dozza, ndr) il colloquio si chiude all’istante", fa sapere Gianfranco. E Alfonso aggiunge: "Non biasimo queste persone, capisco i cittadini, perché dovrebbero fidarsi, rischiare? A mancare sono le istituzioni che non se ne occupano...". Alfonso, in un periodo fuori dal carcere, era riuscito a mettere in piedi un’attività, con la sua compagna, ma poi è andata male. La passione politica e quella amorosa l’hanno "fregato": "Non avrei mai potuto rubare neanche un centesimo, non sarei riuscito mai ad improvvisarmi ladro - assicura - Ma ho partecipato al golpe Borghese negli anni 70", rivela. Una storia pesante: "È stato molti anni fa: a 16 anni militavo nella destra giovanile...". Gianfranco ha addirittura lavorato in una cooperativa agricola in montagna da latitante: "Avevamo messo su un allevamento di tori, una macelleria; io ero latitante ma conoscevo i due soci che mi hanno preso dentro: andava benissimo, ma poi i loro hanno litigato, e ci ho rimesso pure io. Rimasto di nuovo senza niente, la strada per me, era una sola... Ricominciare a delinquere e, durante un reato "in trasferta", sono stato arrestato a Cesena e spedito alla Dozza". La passione per la cucina accomuna entrambi: "Io alla Dozza ho fatto il cuoco per molto tempo", racconta Gianfranco che comincia a scalpitare: "Siamo in ritardo, devo preparare le cotolette". Il guadagno puro è ancora scarso, ma i due amici non perdono la speranza, anzi: "Vogliamo andare oltre, aiutare gli altri che non sanno dove sbattere la testa, e ci raccomandiamo con le vecchie "conoscenze" del carcere che vediamo transitare in zona, di lasciare stare, vogliamo mostrare che una possibilità c’è". Il loro obiettivo è quello di trasformarsi presto da associazione in cooperativa per avere più possibilità di andare avanti. E magari ingrandirsi. "Chissà, aprire attività in altre zone della città. Qui di passaggio ce n’è tanto, ci sono gli universitari: abbiamo scelto questo posto perché era più accessibile, molto visibile, anche se delle istituzioni locali non si è visto quasi nessuno, ma noi guardiamo avanti", assicura Gianfranco. I loro figli sanno tutto di loro, oggi. Anche i nipoti: Alfonso ne ha già vari: "Sono anche bisnonno ", dice sorridente. Paura che possano fare gli stessi errori? "Credo che loro più di altri abbiano capito che non è proprio il caso, ma, certo, se dovesse accadere, sarebbe un dolore immenso". Firenze: il Presidente della Regione Rossi in visita al carcere di Sollicciano Adnkronos, 6 gennaio 2014 Oggi, lunedì 6 gennaio, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, e l’assessore regionale al diritto alla salute, Luigi Marroni, andranno nel carcere fiorentino di Sollicciano per incontrare i detenuti, ai quali porteranno panettoni e pandori. Rossi e Marroni saranno accompagnati nella visita dal direttore generale dell’assessorato al diritto alla salute Valtere Giovannini e dal direttore generale della Asl 10 di Firenze Paolo Morello Marchese. La visita inizierà alle 10.15. Firenze: il Cardinale Betori ai detenuti "chi sbaglia non ha meno dignità" Adnkronos, 6 gennaio 2014 Un gruppo di detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano stamani ha partecipato alla messa nella Basilica di San Lorenzo, a Firenze. Il cardinale Giuseppe Betori, che ha celebrato la funzione, ha salutato i detenuti augurando che la loro "presenza sia auspicio per incrementare esperienze di compiuta umanità nel percorso di redenzione di chi ha sbagliato ma non per questo ha meno dignità". Durante la funziona è stata eseguita la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach, con il Coro e i Cameristi del Maggio Musicale Fiorentino. "Alla messa - ricorda una nota - ha partecipato un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Sollicciano, grazie a uno speciale permesso premio. Le due Letture che precedono il Vangelo sono state affidate a una personalità della cultura, Sergio Givone, e a uno dei detenuti". "Registriamo con soddisfazione - ha concluso l’0arcivescovo di Firenze - come questo evento di fede e di arte si è arricchito di un ulteriore significato sociale, come sempre accade quando la fede è autentica e l’arte è vera". Delegazione radicale alla messa con i detenuti Questa mattina una delegazione radicale composta dal consigliere provinciale Massimo Lensi, da Maurizio Buzzegoli ed Emanuele Baciocchi, rispettivamente segretario e tesoriere dell’Associazione radicale fiorentina "Andrea Tamburi", e dai militanti Grazia Galli e Luca Calamandrei, ha partecipato alla S. Messa celebrata nella basilica di S. Lorenzo dall’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, dedicata ai detenuti che vivono in situazioni drammatiche. I radicali hanno partecipato alla cerimonia insieme ad un gruppo di detenuti del carcere di Sollicciano, guidati dal cappellano don Vincenzo Russo. Napoli: Assistente Polizia penitenziaria aggredito da detenuto nel carcere di Poggioreale Ansa, 6 gennaio 2014 Un assistente della polizia penitenziaria è stato aggredito questa sera all'interno del carcere di Poggioreale, a Napoli. Lo rende il segretario generale dell'Osapp, Leo Beneduci. Secondo quanto riferisce il dirigente sindacale l'aggressione è avvenuta all'interno del padiglione "Livorno". L'assistente è stato colpito con il manico di una scopa in legno e con una penna. L'aggressore sarebbe un detenuto che lo scorso mese, riferiscono all'Osapp, voleva accendere un fuoco all'interno della cella, richiedendo l'intervento dello stesso assistente che è questa sera è stato aggredito. "Ciò dimostra che non solo a Napoli ma in tutta Italia gli uomini della polizia penitenziaria siano soli", conclude Beneduci, chiedendosi perché, a seguito di quell'episodio, il detenuto non sia stato trasferito altrove. Agrigento: la solidarietà in carcere, iniziativa del Cif di Cattolica Eraclea La Sicilia, 6 gennaio 2014 Visita a una trentina di detenute di Petrusa, portati capi di abbigliamento, regali per i loro bambini e anche alcune ore di musica e relax. Alcune componenti del Cif "Don Minzoni" di Cattolica Eraclea hanno effettuato una visita alle giovani recluse del carcere agrigentino di contrada Petrusa e hanno offerto loro dei doni, soprattutto del vestiario di cui le donne avevano bisogno. La delegazione cattolicese era guidata dal presidente del centro cattolicese Maria Sciarrabba che ha avuto l'autorizzazione da parte della direzione del carcere, grazie anche alla disponibilità mostrata dall'educatore Giovanni Giordano che ha interpretato le esigenze delle recluse. Una trentina di giovani donne, alcune anche con bambini piccoli, sono uscite per qualche ora dalle loro celle per trascorrere un po' di tempo con le ospiti che hanno portato in dono diversi capi di abbigliamento e del vestiario nuovo e hanno offerto il panettone natalizio. La direzione della casa circondariale ha permesso anche l'ingresso al carcere di due musicisti amatoriali, il Duo Zarelli, Angelo e Maria, padre e figlia, di Cattolica Eraclea, i quali hanno animato la giornata con canti e balli che sono risultati molto graditi dalle carcerate che sono di varia nazionalità e che scontano la pena per reati di droga e immigrazione clandestina. Il dott. Giovanni Giordano ha presentato l'associazione e i suoi progetti, mentre l'insegnate Maria Sciarrabba, molto soddisfatta dell'incontro, ha annunciato che il Cif di Cattolica tornerà ancora nel carcere agrigentino con altre iniziative sociali e di solidarietà umana. Una iniziativa di solidarietà proprio in un periodo in cui nel dibattito pubblico la questione delle condozioni di vita nelle carceri italiane è diventato uno dei temi più discussi. Frosinone: nella calza della Befana tanta solidarietà anche per i detenuti www.ilpuntoamezzogiorno.it, 6 gennaio 2014 La Befana quale veicolo di reinserimento sociale dei detenuti. È l’obiettivo del progetto illustrato ieri durante la manifestazione "Cioccolando a Frosinone" in corso di svolgimento all’interno del Parco del Ghiaccio nel quartiere Scalo su iniziativa di Confartigianato Imprese Frosinone e Asso Eventi Lazio. A spiegarlo è stata la direttrice del penitenziario frusinate Luisa Pesante che, accompagnata da alcuni ospiti della struttura di reclusione, ha consegnato alla parrocchia della Sacra Famiglia, adiacente il Parco del Ghiaccio, più di 50 calze colme di doni che lunedì alle 16.00 (domani per chi legge) attraverso il locale gruppo di volontariato della Vincenziane e la Caritas dello Scalo saranno regalate ai bimbi della parrocchia. "L’iniziativa - ha evidenziato la dottoressa Pesante - nasce dalla collaborazione tra l’istituto penitenziario di Frosinone e quello di Sulmona ed è finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti. Ognuno di essi ha partecipato al progetto costruendo con le proprie mani oggetti e giocattoli con cui sono state riempite le calze realizzate nella sartoria del carcere di Sulmona. Inoltre, con i propri soldi hanno acquistato tutti i dolci che sono stati inseriti nelle calze, insieme a dei bigliettini, scritti di proprio pugno, con pensieri indirizzati ai bimbi che le riceveranno. Nell’occasione - ha aggiunto la dottoressa Pesante - mi preme ringraziare le associazioni "Gruppo idee" e "Il mosaico" che fattivamente e da tempo ci supportano in tutte le nostre iniziative sociali". Grande soddisfazione è stata evidenziata dai responsabili di Confartigianato Imprese Frosinone, di AssoEventi Lazio e dell’associazione "Il Mosaico" per aver potuto ospitare un momento di grande valenza sociale che dimostra come si possa coniugare il divertimento con la solidarietà. Libri: "Clandestini: viaggio nel vocabolario della paura", di Giulio Di Luzio recensione di Daniele Barbieri www.corriereimmigrazione.it, 6 gennaio 2014 Dall’Aggressione allo Zingaro, senza tralasciare l’Albanese e l’Uomonero: l’ultimo libro di Giulio Di Luzio ci mette di fronte al mosaico della paura. Credevo di conoscerle tutte le storie più eclatanti di pericolosi terroristi arabi clamorosamente arrestati in Italia e poi… assolti nel silenzio dei media. Ma, ad esempio, quella del tunisino Adel Ben Slimen mi era sfuggita. La racconta Giulio Di Luzio nel suo "Clandestini: viaggio nel vocabolario della paura" (Ediesse: 160 pagine per 10 €): 2 anni, 8 mesi e 2 giorni in carcere per una parola mal tradotta e per uno scherzoso "broom" detto al telefono, ma soprattutto per pregiudizio, perché appunto la paura domina e rende molti incapaci di capire. È proprio un vocabolario quello che Di Luzio ha scritto: dalla A - di aggressione, albanese, allarme-attenzione, arginare-assaltare-assediare, assassino e attacco - via via fino alla U di uomonero, alla V di violenza e vu cumprà, alla Z di zingaro. Nell’introduzione Giulio Di Luzio confessa di averlo iniziato dopo un incontro con una scolaresca, quando un diciassettenne rompe il clima "politically correct" e dice quello che molte/i (purtroppo) mal-pensano. "La paura e l’allarme sociale che i media generosamente confezionano come pacchi-bomba nelle redazioni" funzionano e spargono panico e pregiudizio in mezzo a persone che sono, per altri motivi, incerte e impaurite, dunque altro non aspettano che l’indicazione di un "colpevole" comunque, cioè dell’antico e sempre valido capro espiatorio. Il libro si apre con una pagina di razzismo istituzionale contro gli immigrati "generalmente di piccola statura e di pelle scura", certamente "poco attraenti e selvatici", possibili stupratori, che attentano alla "nostra sicurezza". È una relazione dell’Ispettorato dell’immigrazione, preparata per il Congresso degli Stati Uniti - nell’ottobre 1912 - sugli… italiani. Fra di loro si consiglia di privilegiare "i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare" e, questo pare l’importante, "non contestano il salario" mentre "gli altri" che provengono "dal Sud Italia" sono molto peggio, da rimpatriare in massa. Dopo aver giustamente spiazzato chi legge, ricordando che siamo stati per 100 anni un popolo di migranti, Di Luzio parte con le parole "della paura" spesso introducendole con brani celebri (da Ernesto Balducci a Derek Walcott) e accompagnandole con storie esemplari. Dalle bugie dei media alle analisi costruite sul nulla sino alla nave Kater Rades speronata (81 morti, soprattutto donne e bambini) dalla corvetta italiana Sibilla per fermare "gli invasori". Ci sono vicende clamorose - ma dimenticate dai più - come la strage di Erba e le ingiuste accuse contro Azouz Marzouk, senza scordare il "j’accuse" contro le istituzioni italiane di Laura Boldrini (allora portavoce dell’Unhcr, l’organizzazione Onu per i rifugiati). E anche storie tragicomiche: il "clandestino" eroico - salva padre, madre e figlio che stanno annegando - in provincia dell’Aquila che viene ricompensato dal Presidente della Regione, Gianni Chiodi, con queste ambigue parole: "Se veramente è successo quello che raccontano le cronache, questo ragazzo è il benvenuto in Italia". Utile e propositiva l’appendice finale ("le parole giuste" da usare), ma sarebbe stata di aiuto, a mio avviso, una pur breve bibliografia ragionata sul versante giornalistico-linguistico con il rimando ai molti testi utili per storicizzare questo discorso; per dire qualche nome: Giuseppe Faso e Ribka Sibhatu, Marco Opipari e Federico Faloppa, il duo Anna Meli e Marcello Maneri, Kossi Komla-Ebri e il Gianantonio Stella dell’"Orda, quando gli albanesi eravamo noi", ma anche il subito dimenticato "Quindici innocenti terroristi" ("Come è finita la prima grande inchiesta dell’estremismo islamico") di Bianca Stancanelli che ha importanti risvolti mediatici o meglio di fanta-giornalismo. Obietterà qualcuna/o che queste accuse contro i media non coinvolgono chiunque faccia il/la giornalista: siamo una democrazia e dunque l’informazione non viene decisa con veline imposte dall’alto. Verissimo, e infatti nelle redazioni qualche eccezione c’è (Marco Imarisio, per dire uno fra i nomi citati nel libro). Ma l’ostilità verso gli immigrati travolge la maggior parte di coloro che fanno questo mestiere per una questione di meccanismi "a monte": la scelta delle fonti, i pregiudizi anche linguistici, il conformismo, la pigrizia persino, i format… Di Luzio lo spiega più volte e benissimo, ricorrendo anche all’analisi di Peter Dreier il quale fra l’altro scrive che i cronisti godono di "un guinzaglio sufficientemente lungo da permettere loro tanta libertà di movimento quanta essi desiderano averne". Forse bisogna concludere con tristezza che in Italia i più non desiderano averla. Ma quel che importa è vedere cosa accade "a valle", cioè fra coloro che ricevono queste informazioni stereotipate. Alla voce "cacciare" Di Luzio cita uno sconsolato Luigi Perrone, docente di sociologia delle migrazioni: "Chi ha ricevuto la sola informazione dai media ha un’indagine negativa del fenomeno immigrazione". È anche vero che queste banalizzazioni non riguardano solo i migranti. Parlando di guerra, il giornale tedesco "Suddeutsche Zeitung" ricordava che se "domina la semplificazione" in ogni conflitto "i giornalisti più rigorosi procedono sempre ai margini della falsità". Figuriamoci dunque quelli, ben più numerosi purtroppo, che sono meno rigorosi. Ma che il fenomeno della semplificazione e quasi falsità si allarghi ad altri temi "caldi" non sminuisce, anzi, né consola. Che a livello conscio o inconscio sui media si preferisca dare una immagine negativa dei migranti è dimostrato da un clichè che si ripete all’infinito: nei titoli (quelli che fanno la "memoria" di chi legge) la nazionalità del migrante compare sempre se è aggressore o presunto tale, ma ostinatamente scompare se è vittima (ad esempio di un incidente sul lavoro). Ogni parola sbagliata conta - specialmente se ripetuta mille volte - perché come ricorda Di Luzio, citando Gianni Rodari, "una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio". I rapporti internazionali (ad esempio dell’Ecri, la commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, spesso citata nel libro) da anni accusano istituzioni e media di "accrescere l’insicurezza" dei migranti. Un discorso capovolto dunque ma del tutto legittimo: se le cronache vedono (o inventano) solo "clandestini" minacciosi, i fatti documentano invece aggressioni e mobbing contro gli immigrati. Crimini certo ne commettono anche gli stranieri ma - chiarisce Di Luzio - "quasi sempre sono i tipici reati dei poveri, cioè furto, piccola ricettazione, spaccio". Certo chi scrive (spesso incalzato dagli eventi) può avallare sciocchezze anche in buona fede. Capita anche a chi è più bravo. E infatti, persino Di Luzio nel libro cade in un errore raccontando in modo assai impreciso una vicenda accaduta a Roma il 14 febbraio 2009. Questo non mina l’intero edificio di "Clandestini" che è invece solido e ben documentato. Un altro piccolo errore del libro - ma qui è questione di impaginazione, suppongo - riguarda la bella citazione sul "grigio" a cavallo delle pagine 78-79 che risulta senza fonte, mentre invece è tratta dal libro (citato 2 pagine dopo) "Quando nasci è una roulette". Un libro utile. Sarebbe bello che questo "vocabolario della paura" presto venisse archiviato come "inservibile", un triste arnese del passato ma - come scrive l’autore - "non sarà facile". Rimandando alla questione di fondo del noi/loro che molte/i immaginano chissà perché più differenti che simili, si potrebbe concludere in poesia. "Siamo diversi come due gocce d’acqua" ci ricorda Giulio Di Luzio citando la poetessa polacca Wislawa Szymborska. "E adesso che sarà di noi senza i barbari? Questa gente in fondo era una soluzione" ironizzava molto tempo prima il poeta greco Costantinos Kavafis. Versi che chiudono il problema dei tanti razzismi nell’unico modo possibile: cercando di tornare alle radici del pregiudizio, all’idea stessa di umanità. Immigrazione: come l’Europa fortezza nega l’asilo ai rifugiati siriani Antonio Mazzeo www.contropiano.org, 6 gennaio 2014 Più di 2 milioni e 300.000 rifugiati siriani registrati a dicembre, il 52% dei quali minori di età, a cui si aggiungono almeno 4 milioni e 250 mila persone sfollate nel paese. In tutto, più di 6 milioni e mezzo di uomini, donne e bambini che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni per scampare agli orrori del conflitto in Siria, quasi un terzo dell’intera popolazione. Di questi, però, solo 55.000 sono riusciti a entrare nell’Unione europea e a chiedere asilo, ma gli stati membri hanno dato disponibilità ad accoglierne appena 12.000. "Si tratta dello 0,5% dei siriani che hanno lasciato il paese, una dimostrazione che l’Ue ha miseramente mancato di fare la sua parte per fornire un riparo sicuro a coloro che non hanno più niente se non la loro vita", ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, in occasione della presentazione del rapporto intitolato Un fallimento internazionale: la crisi dei rifugiati siriani. "Il numero dei reinsediamenti previsti è davvero deplorevole e i leader europei dovrebbero abbassare la testa per la vergogna", ha aggiunto Shetty. "Le loro parole suonano banali di fronte alla realtà. L’Europa deve aprire i suoi confini, favorire ingressi sicuri e porre fine a queste gravi violazioni dei diritti umani". Amnesty International denuncia come solo dieci stati membri dell’Ue abbiano offerto il reinsediamento o l’ammissione umanitaria ai rifugiati provenienti dalla Siria. "Coloro che ce l’hanno fatta a passare attraverso le barricate della fortezza europea si sono diretti in buona parte in Germania e Svezia, i paesi che hanno offerto il maggiore aiuto ai richiedenti asilo", si legge nel report. Dall’ottobre 2011 all’ottobre 2013, la Svezia ha ricevuto 20.490 nuove richieste d’asilo, mentre la Germania 16.100. Gli altri stati dell’Ue si sono impegnati a prendere soltanto 2.340 rifugiati. In Grecia, Cipro e Italia, meno di 1.000 persone hanno chiesto asilo in ciascuno dei tre paesi; la Francia ha offerto disponibilità per 500 persone, lo0,02% del totale delle persone fuggite, mentre la Spagna si è limitata ad accogliere appena una trentina di richiedenti, ossia lo 0,001% del totale dei rifugiati. Il 97% dei cittadini fuggiti dalla Siria si sono diretti verso i cinque paesi confinanti: Turchia, Egitto, Iraq e soprattutto Libano e Giordania, dove oggi risiedono rispettivamente 835.735 e 566.303 rifugiati. "Ciò ha comportato un aumento della popolazione residente in Libano del 20%, mentre quella della Giordania del 9%", aggiunge Amnesty International. "In questi due paesi la maggior parte dei rifugiati siriani vive in condizioni assai precarie in campi profughi superaffollati, in centri di accoglienza comunitari o in insediamenti informali". In Giordania circa un terzo dei rifugiati è ospitato in sei campi, il più affollato dei quali è Zaatari, il secondo campo profughi più grande al mondo, con 117.000 residenti. Il resto dei rifugiati siriani vive in villaggi e cittadine nei pressi del confine settentrionale con la Siria e nella capitale Amman. "Non ci sono invece campi profughi ufficiali in Libano, eccetto quelli che da lungo tempo ospitano rifugiati palestinesi", riporta Amnesty International. "Così i siriani sono costretti a vivere ai margini delle città, in campi informali che loro stessi hanno realizzato". Il numero dei rifugiati registrati in Turchia è di 536.765 persone, ma secondo il governo locale la cifra avrebbe già superato quota 700.000. Duecentomila siriani sono "ospiti" di campi profughi gestiti dallo stato. L’organizzazione internazionale in difesa dei diritti umani denuncia tuttavia che dal marzo 2013, più di 600 rifugiati siriani sono stati espulsi dalla Turchia e deportati in Siria. "Da allora - spiega Salil Shetty - abbiamo ricevuto numerose denunce di ulteriori rimpatri forzati di persone accusate dalle autorità turche di condotte criminali o presunte violazioni di legge". Secondo l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, al 30 novembre 2013, erano stati registrati in Libia 15.898 rifugiati siriani, ma la popolazione siriana ivi residente è stimata in non meno di 200.000 persone. Il diritto d’ingresso dei rifugiati in Libia è stato progressivamente ridotto a partire dal settembre 2012, dopo l’attacco terroristico contro il consolato USA di Bengasi. Ulteriori restrizioni sono state decretate nel gennaio 2013 con l’imposizione del visto d’ingresso a tutti i siriani. "Ciò ha costretto centinaia di rifugiati a fare ingresso nel paese utilizzando rotte non ufficiali, esponendosi al pericolo e allo sfruttamento di trafficanti e delle differenti milizie armate esistenti", denuncia Amnesty. "La Libia non possiede un sistema nazionale di asilo; la maggior parte dei rifugiati che vive nel paese ha uno status migratorio irregolare, nonostante la decisione del Ministero dell’Interno di dare i permessi di residenza a coloro che si registrano presso l’Ufficio passaporti". Come rilevato da Amnesty International durante una visita in Libia nel novembre 2013, spesso i permessi di residenza non verrebbero riconosciuti dalla autorità locali e dalle milizie armate cresciute numericamente dopo la fine del conflitto del 2011. "In alcuni casi i rifugiati siriani sono stati detenuti arbitrariamente in centri di detenzione per immigrati con l’accusa di risiedere illegalmente in Libia", aggiunge Amnesty. "Gli intervistati hanno denunciato di essere stati vittime di aggressioni fisiche da parte di uomini armati, furti, vessazioni verbali e, in alcuni casi, di sequestri di persona. Altri hanno raccontato di essere stati sottoposti a gravi forme di sfruttamento, a lavori forzati, con salari bassissimi e, talvolta, di non aver percepito perfino alcuna forma di pagamento". Per 12.000 siriani a cui l’Ue ha riconosciuto il diritto al reinsediamento, altre decine di migliaia sono costretti a rischiare un viaggio pericoloso via terra o via mare per raggiungere un’Europa sembra più barricata e militarizzata.Dall’1 gennaio al 31 ottobre 2013, 10.680 rifugiati siriani hanno raggiunto le coste italiane dopo aver lasciato i porti in Egitto, Libia, Turchia e Siria. Altri hanno raggiunto la Grecia via mare attraverso l’Egeo o dal confine terrestre con la Turchia. "Abbiamo visto centinaia di cittadini siriani perdere la vita nel Mediterraneo", ha commentato amaramente Salil Shetty. "Ed è deplorevole che chi rischia l’incolumità e la vita per arrivare qui sia respinto in modo violento dalla polizia o dalla guardia di frontiera o posto in stato di detenzione per settimane in condizioni realmente squallide, con cibo acqua e cure mediche insufficienti". Il viaggio verso l’Italia è sicuramente quello che ha generato le peggiori tragedie. Nei primi dieci mesi del 2013 il numero dei rifugiati e dei migranti provenienti dall’Africa del Nord annegati in mare è stato stimato in 650 persone. Nel suo rapporto sull’incapacità internazionale a dare risposte adeguate alla crisi umanitaria siriana, Amnesty International dedica un passaggio al tragico naufragio di un’imbarcazione con più di 500 persone a bordo, l’11 ottobre 2013, a largo di Lampedusa. "Molti di essi erano rifugiati siriani", scrive l’Ong. "Secondo il racconto dei sopravvissuti, l’imbarcazione fu danneggiata mentre lasciava le acque della Libia da un’unità militare libica che aprì il fuoco contro di essa. L’imbarcazione danneggiata iniziò velocemente ad essere invasa dall’acqua e successivamente affondò portandosi con sé centinaia di uomini, donne e bambini. I sopravvissuti hanno dichiarato di essere rimasti in acqua per ore prima di essere assistiti dalle unità maltesi e italiane". Innumerevoli gli abusi e le violazioni compiute dalle autorità di frontiera dell’Unione europea. "Le politiche di controllo dell’Ue sono sempre più pregiudizievoli dei diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti", denuncia Amnesty. "Le misure di controllo dei confini introdotte negli ultimi anni, inclusa l’esternalizzazione delle funzioni anti-migratorie e la costruzione di reticolati, hanno comportato pesanti effetti a danno dei diritti di coloro che chiedono di fare ingresso nell’Unione europea. L’Unione europea ha certo il diritto di controllare le sue frontiere, ma la maniera con cui lo fa non può comportare la violazione dei diritti umani, come sta accadendo oggi". Amnesty rileva, in particolare, come l’Ue abbia finanziato massicciamente i programmi di potenziamento del controllo delle frontiere esterne della Grecia. Negli ultimi due anni, la Commissione europea - nell’ambito del cosiddetto Return and External Borders Fund - ha assegnato alla Grecia 228 milioni di euro per installare sistemi elettronici di vigilanza e accrescere le capacità di detenzione delle persone entrate illegalmente nel paese. Nello stesso periodo, la Grecia ha ricevuto solo 12 milioni e 220 mila euro dal Fondo Europeo per i Rifugiati che sostiene le attività di accoglienza. Grazie ai contributi finanziari, le autorità greche hanno completato la costruzione di 10,5 km di reticolati anti-migranti lungo i 203 km di frontiera con la Turchia, attivando inoltre 2.000 nuovi vigilantes a partire dell’estate 2012. "Queste misure hanno spesso costretto i rifugiati a percorrere rotte sempre più pericolose nel mar Egeo", aggiunge Amnesty International. "Nei loro disperati tentativi di ottenere protezione in Europa, molti rifugiati, comprese le famiglie con neonati e bambini piccoli, spendono i loro ultimi risparmi per pagare i trafficanti e navigare a bordo di piccole e superaffollate imbarcazioni, inidonee alla navigazione". Come il Canale di Sicilia, anche il mare tra la Grecia e la Turchia è lo scenario di infinite tragedie. Dall’agosto 2012 ad oggi, perlomeno 130 rifugiati, provenienti in buona parte dalla Siria e dall’Afghanistan, hanno perso la vita mentre tentavano di approdare in Grecia, negli undici naufragi sino ad oggi accertati. Amnesty International rileva infine come molti rifugiati giunti in Grecia e Bulgaria abbiano subito trattamenti degradanti e disumani. "Rifugiati siriani hanno raccontato di essere stati sottoposti a maltrattamenti dagli agenti di polizia o della guardia costiera della Grecia, che con armi in pugno e protetti dai caschi, li hanno pure privati di tutti i loro beni e, alla fine, li hanno respinti verso la Turchia". Il numero delle operazioni illegali di respingimento dalla Grecia non è noto, ma l’Ong ritiene che abbia riguardato centinaia di persone. In Bulgaria, nei primi undici mesi del 2013, sono arrivati non meno di 5.000 rifugiati. La maggior parte è ospitata in centri di emergenza, il principale dei quali si trova nella città di Harmanli. "Si tratta, a tutti gli effetti, di un centro di detenzione", denuncia Amnesty. "Il nostro staff vi ha trovato rifugiati detenuti - in alcuni casi da oltre un mese - in condizioni squallide in container, edifici in rovina e tende. Mancavano strutture igienico-sanitarie adeguate e il cibo, i medicinali e i letti scarseggiavano. Un ampio numero di detenuti, tra cui anche persone ferite durante il conflitto, necessitava di cure mediche, altre avevano contratto malattie croniche o avevano disturbi mentali". L’Europa fortezza armata sconosce sempre più diritti e senso d’umanità. Congo: viaggio alla fine del mondo, il sogno dell’Europa e le carceri di Kinshasa di Eleonora Bianchini Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2014 I detenuti nella capitale della Repubblica Democratica del Congo. La povertà, i militari in cerca di soldi e alcolici e la soggezione nei confronti dell’uomo bianco. Racconto di un Paese tra i più ricchi di risorse naturali del mondo e col Pil pro-capite più basso in assoluto. Il 30 dicembre oltre 100 ribelli sono stati uccisi tra Kinshasa e Lumumbashi. Parlavano di tentato colpo di Stato. Nella capitale della Repubblica Democratica del Congo erano state assaltate la tv pubblica, l’aeroporto e lo Stato maggiore. Questo è quanto ho letto sui giornali italiani al ritorno. In Congo, invece, le notizie erano confuse, incerte. Ognuno con la sua versione da raccontare e tutti convinti che, in fondo, non avrebbero mai saputo la verità. Pare che, alla fine, sia stato un regolamento di conti interno all’esercito. Alcuni seguaci del pastore ex candidato alle presidenziali del 2006, Joseph Mukungubila Mutombo, avrebbero assaltato i tre obiettivi armati di machete, vestiti in abiti civili. Per il portavoce del governo, Lambert Mende, le vittime erano 95 aggressori e otto membri dell’esercito. Il tentato colpo di Stato è solo un tassello del viaggio in uno dei Paesi più ricchi al mondo di cobalto, diamanti e risorse naturali, ma col Pil più basso in assoluto e dove, in media, si muore a 46 anni. Il reddito pro-capite annuale è di circa 270 dollari, meno di uno al giorno. Nella Rdc, che vive in buona parte con gli aiuti umanitari di Monusco (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite), l’uomo bianco è per alcuni un’entità superiore, per altri uno sfruttatore. L’Europa, però, è il paradiso immaginario. Un sogno su cui decine di églises de Réveil ("chiese del risveglio"), sette cristiane che promettono ai fedeli l’arrivo e la ricchezza nel Vecchio Continente, costruiscono la loro fortuna. Fanno leva sulla disperazione dei congolesi, in balia di povertà, superstizione e stregoneria. Motivo per cui è meglio non fare foto o, al massimo, farle di nascosto. "Perché la fai a qualcuno che non conosci? Alcuni possono pensare che la usi per riti strani", mi spiegano. A Kinshasa c’è chi è diventato schizofrenico a forza di parlare di Europa. Vaga senza meta, parla al vento. È impazzito perché lì non ci è mai potuto arrivare. Le prigioni di Makala È il carcere principale di Kinshasa, 6.400 detenuti divisi in pavillon, "padiglioni". All’ingresso, alle visitatrici, danno un quadratino di carta giallo "da non perdere, altrimenti non ti fanno uscire. E non dire che sei giornalista". Ci sono uomini, donne, minori, malati, detenuti politici. Una città nella città, labirinto di corridoi all’aperto tra visite dei parenti, mercatini interni e corruzione senza fine. I secondini sono alcuni condannati, i più fortunati: li chiamano governateur, hanno posizioni di potere all’interno del carcere, decidono gli "incarichi" degli altri prigionieri e li controllano. Un sistema repressivo talmente efficiente da garantire un ordine ineccepibile. Tanti detenuti non sono chiusi in cella. Non ce n’è bisogno. Stanno all’aperto, tra la polvere dei passaggi di terra battuta, nei cortili dentro le mura carcerarie, sotto il sole sempre opaco e pungente, avvolti dall’umidità. A tanti carcerati vengono affidati presunti ruoli di responsabilità. C’è chi è contabile, chi siede nella commissione disciplina incaricata di vigilare sulla condotta dei compagni di padiglione. Passiamo tra loro, siamo tre bianchi. Sorridono con soggezione, ci stringono la mano, ci fissano a lungo. Impossibile passare inosservati, passare e basta. Ci accompagna suor Anna, già infermiera in una prigione in Togo. "Spesso, la mattina, trovavo un morto n infermeria. La diagnosi non era mai ‘morto di famè, non si poteva dire. Eppure era così". Anche a Makala, come in tutto il Paese, mangiare non è scontato. Bisogna essere fortunati, conoscere le persone giuste dentro al carcere, avere soldi - anche per dormire su un materasso si paga. Altrimenti a terra, e sulla terra sporca e calpestata. Un pasto al giorno è un lusso. Lì dentro la religione è la sola distrazione, l’unica attività che abbia un senso. I carcerati, chi può e come può, autofinanziano la propria chiesa. Suor Anna ci sconsiglia di chiedere il motivo della condanna. "Solo se si prende confidenza si può domandare, altrimenti si offendono", spiega. In tanti non sanno nemmeno perché sono lì, aspettano di sapere il capo d’imputazione e sono in attesa di giudizio. Possono passare anni, spesso i dossier scompaiono. La burocrazia smarrisce le carte, i faldoni. A quel punto, bonne chance. Si è in balìa del destino, della fortuna e dei soldi. Chi può pagare 300 dollari al magistrato, magari, ha qualche possibilità. Tanti rimangono lì, sine die. Incontriamo anche un uomo vestito da militare che, all’ombra, ascolta musica assordante - la sentiremo più o meno ad ogni angolo di strada. Ha lo sguardo fiero e la disinvoltura di un uomo libero. Gli stringiamo la mano. È Edi Kapend, il colonnello accusato di avere ordito il complotto contro Laurent Kabila, padre dell’attuale presidente, ucciso nel 2001. Kapend era suo cugino nonché responsabile della sua sicurezza. Quanto rimarrà dentro? "Di certo fino a che Kabila figlio sarà al mondo". Dicono che le maman che controllano il padiglione femminile siano più severe degli uomini. All’ingresso alcune donne perquisiscono altre visitatrici. Allungano qualche centinaio di franchi e hanno il via libera, possono entrare. Il cortile nel padiglione delle donne è pieno di fango. Stanno lì, puliscono stancamente qualche pentola, un vestito. Si accovacciano senza lamentarsi nella polvere, tra i rifiuti, a fianco degli scoli a cielo aperto. Senza sapere neanche perché sono lì. Il momento più vivace della settimana è la messa. Ma, per partecipare, devono scrivere una lista coi nomi delle aspiranti da consegnare ai responsabili. Burocrazia su burocrazia solo per attraversare un cortile e pregare. C’è una signora anziana. La sua colpa, pare, è di avere dato ospitalità a tre minorenni che il giorno dopo avrebbero assaltato qualcuno con i machete. Di più, non sa. Non sa se e quando ci sarà il processo. Non ha soldi per pagare. Lei li aveva solo ospitati, senza chiedere nulla. C’è anche il padiglione dei minorenni, hanno dai 13 ai 18 anni. Entriamo in una delle celle, anche quella non è chiusa a chiave. Sono circa in 40, tutti davanti alla tv, tutti a dire in coro "bonjour". Hanno passato gli ultimi cinque giorni senza acqua corrente, quello era il primo in cui potevano lavarsi. Anche qui, chi ha i soldi, ha un letto. Chi è senza, a terra. A Kinshasa ci sono oltre 40mila bambini di strada, spesso abbandonati dalle famiglie perché accusati di portare sfortuna, essere la causa di malattie o problemi in famiglia. Finiscono per strada, a imbottirsi di sedativi a basso costo per stordirsi. Abbandonati da tutti, vivono di accattonaggio. Alcuni di loro finiscono a Makala. Se l’inferno esiste, lo immagino così. Verso il Basso Congo Partiamo all’alba del 28 dicembre dopo avere passato la notte al Foyer Saint Paul, studentato progettato e voluto da Coe (Associazione Centro Orientamento Educativo) che accoglie 60 giovani universitari congolesi e si occupa della loro formazione. Il nostro autista sniffa tabacco, parla lingala, dialetto della Rdc occidentale. Il volume della musica in auto è altissimo. Chiediamo di abbassare, ma al nostro amico congolese del Foyer, Firmìn, spiega che non può, altrimenti si addormenta. Parte "Heal the world" di Michael Jackson, dice che è l’unico cantante occidentale che conosce. A noi bianchi non rivolge né lo sguardo né la parola. C’è caldo, umidità. La strada verso Matadi è asfaltata, il paesaggio sempre lo stesso: bambini piccoli che giocano nel fango con capre e maiali nei villaggi, donne incinta o cariche di foglie di manioca, legna e figli, affaticate, pazienti. Uomini seduti a guardare il vuoto, a chiacchierare e a bere birra. Poi, la città. Matadi. Un formicaio, come Kinshasa. Il traffico è anarchia pura. Pulmini stracolmi di passeggeri, attaccati alle ante delle portiere, a qualunque appiglio per scroccare un passaggio. La gente corre mentre attraversa la strada. Le costanti: polvere, fango, rifiuti, fogne a cielo aperto. Le uniche foto le posso fare mentre siamo in macchina, sperando nessuno si offenda. Passiamo Matadi, direzione Boma. La strada è sterrata, è fango secco, una tormentata gimcana tra buche e dislivelli di decine di centimetri. Da Boma arriviamo a Nsioni, un villaggio. Lì conosciamo Jacques Courtejoie, medico belga ex dipendente Oms che si è trasferito in Congo nel 1958, "dove vuole morire ed essere sepolto". Da allora ha sempre lavorato lì. Dopo tanti anni all’ospedale di Kangu, ora scrive libri per la formazione degli infermieri e dirige il "Centre pour la Promotion de la Santé". Si è sempre preoccupato di come informare la popolazione locale sulla profilassi comportamentale per evitare le malattie. La malaria, ad esempio. Ci racconta che, appena arrivato in Congo, aveva portato con sé un poster della Bayer che accostava la sagoma di un uomo a quella di una zanzara e spiegava come si contraeva la malattia. Nel disegno le proporzioni, dato lo scopo didattico, non erano rispettate. La zanzara era grande quasi come l’uomo. Le mamme congolesi a cui lo mostrò per prime scoppiarono a ridere. Credevano che il medico fosse fuggito dall’Europa perché gli insetti erano grandi quanto lui. Allora Jaques capì che la didattica che aveva usato fino a quel momento non sarebbe servita a niente. E iniziò a spiegare malattie, rischi e infezioni con storie, disegni e dialoghi nei quali i congolesi potessero identificarsi. Di fronte all’Angola Altre ore di macchina tra fango, terra rossa e arriviamo a Mwanda, sull’Oceano Atlantico. L’acqua è scura, sporca, come la sabbia. Eppure ci sono alcuni pescatori e chi fa il bagno. Ci sono pozzi di petrolio e la foce del fiume Congo. Che significa anche sversamento di rifiuti in mare. Di fronte a noi c’è l’Angola, vediamo la costa. Nubi pesanti della stagione delle piogge, anche se caldo e umidità non ci abbandonano mai. Sul tragitto di andata e ritorno, alcune barriere indicano i pedaggi "peage", scritto a mano. I militari ci fermano con un cenno della mano, si avvicinano. Chiedono soldi, come tutti, perché capita che passino mesi senza che lo Stato versi lo stipendio. "Soldi per la birra, vogliamo bere qualcosa, lì dietro [sul sedile posteriore, ndr] ci sono i bianchi". E via 500, 1000 franchi. Circa 50 centesimi, un dollaro. Mentre il militare parla, i bambini si avvicinano a lui e alla nostra macchina, schiacciano il volto contro il finestrino e si appoggiano al fucile del poliziotto, forse senza munizioni, in cerca di familiarità davanti a qualcosa di così misterioso e insolito come un bianco. Si aggrappano a quel fucile come se fosse la mano di un adulto. L’ospedale di Kingasani Torniamo a Kinshasa per visitare l’ospedale di Kingasani, uno dei quartieri più poveri della città. Lì più di altrove si respirano odore di fogna e rifiuti. Suor Claudia è in Congo da quasi vent’anni. È dell’ordine delle Poverelle di Bergamo, a cui appartenevano anche le sei suore morte di Ebola nel 1995 a Kikwit, diocesi suffraganea di Kinshasa. Per loro è in corso il processo di beatificazione. L’ospedale di Kingasani è una perla di cura e bellezza nel degrado del quartiere. Vediamo il reparto maternità. Tante donne, spesso giovanissime, aspettano il loro turno. Le suore spiegano che devono fare attenzione affinché i neonati non vengano rubati. Perché le africane che non possono avere figli "e non sono poche" se li portano via "per non avere problemi in famiglia". Essere sterili è un disonore insopportabile, una maledizione. Poi c’è anche chi prende i bambini per atti di stregoneria e traffico umano. "Dobbiamo stare attente", dice. Lì hanno costruito anche un’ospizio. Tanti degli anziani ospitati vivevano in strada. Ora hanno trovato un letto, tre pasti caldi al giorno e assistenza. Nella stessa struttura c’è anche un bambino, ha meno di dieci anni. "L’ho trovato in un ospedale pubblico - spiega suor Claudia - L’avevano messo tra i matti, dove finiscono le persone di cui nessuno vuole occuparsi. Ma non sono mica matti, eh. Era legato mani e piedi, sporco dei suoi bisogni, pieno di piaghe. L’avevano bruciato e torturato. L’ho portato via con un’ambulanza". Il bambino tace. Nessuno sa se, un giorno, vorrà parlare. Turchia: Erdogan apre a nuovo processo per ufficiali accusati di golpe anti-islamico Agi, 6 gennaio 2014 Il premier turco Tayyip Erdogan ha affermato che non si opporrebbe a un nuovo processo per i 237 alti ufficiali condannati a pene durissime con l’accusa di aver messo in atto una strategia della tensione in vista di un golpe anti-islamico. Dopo che a ottobre una Corte d’appello ha confermato le condanne, la settimana scorsa i legali delle forze armate hanno presentato un ricorso sostenendo che le prove portate in tribunale erano false. "Non c’è problema per noi per nuovi processi, purché si fondino su basi giuridiche. In termini di regole, siamo pronti a fare ciò che possiamo", ha assicurato Erdogan prima di partire per un viaggio in Asia. Il premier turco ha incontrato i vertici della magistratura e ha fatto sapere che del caso si sta interessando il ministro della Giustizia. Il ricorso dei militari è arrivato proprio mentre il governo Erdogan è investito da uno scandalo di corruzione che ha portato alle dimissioni di tre ministri. Egitto: 1 anno di carcere con pena sospesa a 12 attivisti, attaccarono sede Shafiq La Presse, 6 gennaio 2014 Dodici attivisti egiziani, tra cui i due particolarmente noti Alaa Abdel-Fattah e la sorella Mona, sono stati condannati ciascuno a un anno di detenzione con sospensione della pena, per aver attaccato la sede elettorale dell’ex candidato presidenziale Ahmed Shafiq, premier durante il potere di Hosni Mubarak. Lo ha stabilito un tribunale del Cairo. La sede di Shafiq fu incendiata nel maggio 2012, nel periodo precedente al ballottaggio con l’islamista Mohammed Morsi. Shafiq, sconfitto, aveva ritirato le accuse contro gli attivisti, ma il procuratore capo incaricato dall’allora presidente Morsi ha riferito il caso a un tribunale penale. Abdel-Fattah, che non era in aula, è intanto in custodia alla polizia per l’accusa di aver violato una recente legge che impone rigidi vincoli alle proteste di piazza. Egitto: ex 007 "el Shater organizza attacchi dei Fratelli musulmani dal carcere" Nova, 6 gennaio 2014 La figura di spicco dei Fratelli musulmani egiziani, Khairat el Shater, sta conducendo dal carcere una battaglia segreta per rovesciare il governo dell’Egitto, coadiuvato dalle intelligence di Qatar e Turchia. A dirlo è stato oggi l’ex agente segreto egiziano, generale Tharwat Joda, durante la trasmissione del programma televisivo "Al Bedaya". Secondo l’ex agente egiziano, el Shater starebbe emettendo ordini ai membri del gruppo dal carcere dove è detenuto con l’accusa di incitamento alla violenza, omicidio e sabotaggio degli avversari politici. Per l’ex 007 egiziano, la strategia della Fratellanza Musulmana è sempre stata basata, fin dalla sua fondazione nel 1928, su una guerra psicologica e sull’utilizzo di militanti armati e atti terroristici. "Il ministero degli Esteri del Qatar ha inviato 250 milioni di dollari a Ismail Haniya, capo del governo di Gaza, per rafforzare il governo egiziano di Mohammed Morsi e per contribuire a stabilizzare Fratelli musulmani presso le istituzioni del Cairo. Si tratta di una somma esigua se consideriamo che il Qatar ha finanziato il terrorismo della Fratellanza per molto tempo", afferma Joda. "El Shater, il cui patrimonio era di 2 miliardi di dollari prima dell’entrata in carica di Morsi nel giugno 2012, ha ricevuto sia segretamente che pubblicamente ingenti somme di denaro dal Qatar e Turchia. La sua ricchezza è cresciuta di dieci volte durante il governo di Morsi, ammontando a 20 miliardi di dollari, che sono stati spesi per promuovere la diffusione del caos dopo che l’esercito del generale Abdul Fatah El Sissi ha deposto Morsi lo scorso 3 luglio 2013", ha detto ancora Joda. Secondo l’ex agente dei servizi egiziani, "un grande numero di militanti di Hamas ha raggiunto l’Egitto con l’aiuto di Morsi e dei Fratelli Musulmani: questi militanti sono guidati dal fratello del leader di Al Qaeda, Mohamed Al Zawahiri". Joda ricorda che "Morsi ha ordinato la scarcerazione di 810 terroristi a 19 giorni dal suo insediamento, come richiesto da Ayman al Zawahiri, il leader internazionale Al Qaeda". Il blogger e attivista Ahmed Spider ha recentemente denunciato che una pubblicità della società di telecomunicazioni Vodafone-Egypt conterrebbe messaggi in codice della Fratellanza Musulmana per elencare i siti degli attacchi. "Gli elementi a disposizione ci dicono che ci sarà un grande attentato ad un centro commerciale dopo che un’unità cinofila non riuscirà a trovare dell’esplosivo in un auto", sostiene il blogger.