Giustizia: un giorno in galera di Laura Arconti Notizie Radicali, 5 gennaio 2014 Quando si è più vicini agli ottantanove che agli ottantotto anni, e sono anni vissuti intensamente senza sprecare un’ora, attenti nel lavoro, attenti agli affetti, impegnati in ogni piccola cosa come se fosse la più importante… a un certo punto si pensa di aver vissuto e conosciuto tutto. E quando quaranta di quegli anni sono stati vissuti da radicale, masticando idee e ideali e bevendo la saggezza di tanti, migliori di sé… allora si è certi di sapere tutto sull’iniziativa in corso, e che non ci sia nulla più da scoprire, da capire, mentre si lavora per raggiungere l’obiettivo. Così, dopo aver detto di essere pronta - ed anche onorata d’esser chiamata - ad una visita ai due istituti penitenziari di Roma nel primo giorno dell’anno, ti ritrovi a levarti dal letto alle sei e mezza del mattino, a prepararti con la paziente lentezza del disabile e del vecchio, e a farti trovar pronta quando arrivano un paio di compagne con l’auto, a rilevare te e la tua carrozzina, due ore dopo. E da lì in poi cominci a scoprire che non sai tutto, che molte cose le sai ma non prevedevi che ti avrebbero commossa e coinvolta a quel punto… insomma, fai un mucchio di scoperte su di te e sugli altri, e ti avvedi di non essere quella vecchia corteccia rotta ad ogni prevedibile emozione che credevi, e ritrovi il tuo cuore fanciullo nutrito di speranza e meravigliato dell’altrui sorriso. È successo il giorno di Capodanno 2014, a Roma. Con Marco, Rita, Mina, Paola, Giulia, Isio, eravamo alla Lungara, davanti a Regina Coeli, alle nove del mattino. Ci fu un certo ritardo nel farci entrare, per l’inevitabile "disguido" di stampo burocratico (qualcuno era stato incaricato di trasmettere un fax dal Dap alla direzione del carcere e si era dimenticato di farlo); la cosa non ci meravigliò più di tanto, siamo gente di mondo, viviamo in Italia: che Italia sarebbe, senza un disguido di prima mattina? Io ero sulla carrozzina, e mi spingeva Rita. Davanti alla prima scala - larga e di pochi gradini - ci rallegrammo: c’era, di lato, una pedana elevatrice. Peccato che il comando per attivare la pedana mancasse delle pile interne, che si erano esaurite; ma via, che problema c’è, sono solo sette gradini... Ho contato quei sette, e poi i successivi dodici, ma poi ho smesso di contare: a Regina Coeli ci sono due ascensori, uno vecchissimo che ha smesso di funzionare molti anni fa, l’altro regalato dalla Regione Lazio in tempi più recenti, che però non è mai stato in funzione. La delegazione in visita non poteva dividersi, doveva restare unita, sicché mi sono inerpicata con le stampelle, un gradino alla volta, senza più contare; così, a occhio, direi che alla fine della giornata avrò collezionato una novantina di gradini (e "gradoni") in salita, ed altrettanti poi in discesa al ritorno dai vari reparti. Il carcere di Regina Coeli è una struttura molto vecchia, che sarebbe eufemistico definire "fatiscente", in cui convivono mura antiche e sovrastrutture di cartongesso e pressato di paglia: ci fa freddo, un freddo senza pietà, ci sono due reparti che vengono chiamati Siberia uno e due. Sentivo montare dentro di me qualcosa che non conoscevo: era rabbia, era senso di ingiustizia, era protesta, era vergogna: vergogna per la mia non voluta corresponsabilità, come cittadina, nell’ignominia di ciò cui stavo assistendo. In ogni reparto, un presepe ed un albero di Natale, fabbricati da mani pazienti artigiane, con materiali di risulta, ma pieni di poesia. Su molte pesanti porte di ferro chiuse, simbolo crudele di doppia punizione - la privazione della libertà e in più la sofferenza di un vivere disumano nella promiscuità di piccoli spazi - c’erano ghirlande di plastica colorata, di quelle che si usano per ornare l’abete della tradizione. E questa vecchia roccia, che credeva d’essere adusa a tutto, davanti a quegli ingenui ornamenti ha avuto una stretta al cuore e si è commossa, con una gran voglia di poter piangere liberamente, a singhiozzi, come quando si è bambini e il pianto è una liberazione; ma vergognandosi, al pensiero di non aver diritto al pianto, in quel luogo in cui la gente forse non aveva più lacrime e neppure più rabbia. Io me li ricordo, anni fa, i tempi in cui nelle galere i detenuti si ribellavano, aggredivano le guardie, incendiavano i materassi, salivano sui tetti; e siamo stati proprio noi Radicali, è stato proprio Marco Pannella, ad insegnar loro la nonviolenza. Loro, i colpevoli -ed anche quelli soltanto sospettati di esserlo - loro hanno imparato la lezione: là dentro, con la loro vita grama, li ho visti sorridere. Ho visto sguardi che cercavano i nostri occhi, mani tese per una stretta fraterna, gratitudine per quel nostro essere là dentro con loro, in un giorno che fuori è di festa per tutti. Di Regina Coeli ricordo soprattutto il freddo mordente, le mani di persone ammucchiate contro le sbarre, e la cura nello stringerle tutte, spesso sporgendomi verso di loro per arrivare alle mani di quello che stava dietro, in terza fila. Ricordo Marco fermo davanti a ciascuna cella, soffermandosi a scherzare e riuscendo a farli ridere; e uno dei suoi tratti di generosità delicata e piena d’amore, quando disse al nostro accompagnatore che voleva andare in tutti i reparti, voleva vedere tutti, perché se non andava da alcuni, questi si sarebbero sentiti ingiustamente esclusi. Ricordo Luigi, un ragazzo forse di trent’anni che viene da una infanzia disperata, che ha conosciuto il carcere minorile, la tossicodipendenza, che è in lista d’attesa per il trapianto di fegato: una coppia di zii lo vorrebbe con sé, per curarlo, ma il magistrato di sorveglianza non gli consente di lasciare la cella. Lo ricordo perché ha un viso bellissimo, con occhi luminosi, ed ha una tale fame di calore e di amore che gli è bastato sentirmi dire il suo nome (Rita mi aveva parlato di lui) per illuminarsi di felicità, e cercare l’abbraccio. E me lo son sentito vicino: figlio, fratello, corpo ed anima dolente, bisognoso di un calore così poco conosciuto durante la vita; e avrei voluto essere plenipotenziario di una divinità, per regalargli il miracolo di andare a casa dagli zii ad aspettare il trapianto. Per me, il ricordo di Regina Coeli è Marco chiamato a gran voce dalle celle, gli applausi dei detenuti ammucchiati contro la rete dei piani superiori; e poi la mia voglia di piangere, il sorriso e lo sguardo di Luigi e quell’orrendo freddo polare. Rebibbia è una struttura molto più moderna, nata nell’intento di dare ai reclusi più spazio, aria, verde: intento lodevole, fallito completamente. Tutto è all’insegna dello spazio, con enormi corridoi, rotonde, slarghi, e all’esterno vasti cortili ed alberi: ma le celle sono anguste, e ci vivono in due o tre nello spazio che a malapena basterebbe ad una persona. Solo un decimo dei detenuti ha un lavoro all’interno del carcere: gli altri stanno immobili, inattivi, annoiati. Aspettano l’amnistia, aspettano la fine della loro pena, aspettano di essere trasferiti, "avvicinati alla famiglia" come la legge prevede: aspettano, e intanto guardano la Tv. Nelle celle hanno un televisore, qualcuno ha anche una radiolina ed ascolta Radio Radicale, ma non tutti: quelli che sanno, mi hanno chiesto se i ricorsi alla Cedu procedono. Chiamavano Marco a gran voce, in coro, scandendo: Pannella, Pannella, Pannella. Lo ringraziavano, ringraziavano tutti noi: a Marco dicevano "grazie di non mollare", e lui rispondeva che non saprebbe come, che lui non è proprio capace di mollare, sicché non è gran merito, tener duro… Ma in quegli sguardi, in quei gesti del tender la mano e stringerla, in quei sorrisi (chi avrebbe mai pensato che potessero sorridere!) si leggeva davvero la speranza. Lì, in una cella affollata, uno di loro mi ha detto: "Ricordatevi anche di parlare degli agenti di custodia: sono meravigliosi, sono generosissimi e soffrono anche più di noi, perché noi abbiamo sbagliato e dobbiamo scontare, ma loro no". Gli ho assicurato che lo facciamo, che Marco lo fa sempre, e tuttavia lui continuava a raccomandarsi. In effetti a Rebibbia il personale penitenziario è stato molto più paziente ed attento nell’accompagnarci ed assisterci, rispetto a quello di Regna Coeli più burbero e portato a protestare per la nostra scelta di andar là "proprio a Capodanno, quando loro hanno turni più pesanti". A quello della Lungara ho spiegato che l’azione politica ha valore solo se è conosciuta, e che per noi l’unica speranza di avere un minimo di notorietà risiede nel fare "cose strane" a Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto; a quelli di Rebibbia ho detto quanto sono loro grata dell’aiuto anche materiale che mi hanno prestato, mentre andavo su e giù per le scale, dove non c’era ascensore. Qualcuno, che può farlo, sia cortese: faccia leggere queste mie righe a Renzi, a Salvini, a tutti quegli altri che non vogliono l’amnistia e sono convinti che "chi è in galera deve pagare". Chissà mai capiscano, finalmente. Giustizia: una Consulta di intoccabili e potenti di Rita Bernardini (Segretario dei Radicali Italiani) Il Tempo, 5 gennaio 2014 Il costituzionalista Di Federico mette a nudo i problemi della Suprema Corte "I giudici non rispecchiano la volontà popolare. E non sono soggetti a controlli". Fin dall’inizio degli anni 90 Marco Pannella ha definito ripetutamente la Corte Costituzionale come "la suprema cupola della mafiosità partitocratica", senza mai ritrovarsi denunciato per vilipendio. "Segno, disse Pannella in un’intervista del 2000, che anche i Presidenti emeriti hanno riconosciuto che non si è trattato di un insulto ma di accuse ben precise e motivate". Accuse che hanno riguardato soprattutto la giurisprudenza della Corte sui referendum: nel dichiararli o meno ammissibili al voto dei cittadini, come accaduto più volte con i referendum elettorali, con quello contro il Concordato tra Stato e Chiesa o con quello sulla smilitarizzazione della Guardia di Finanza; nel dichiararli "superati" dall’intervento del Parlamento, come nel caso della legge manicomiale; nel far finta di niente di fronte a leggi che hanno vanificato totalmente l’esito referendario, come ad esempio nel caso dell’abrogazione del Finanziamento pubblico dei partiti o dell’introduzione della responsabilità civile dei Magistrati. Proprio sul ruolo e sul funzionamento della nostra Corte Costituzionale ci fa capire qualcosa di più un recente scritto del Professor Giuseppe Di Federico, emerito di Ordinamento giudiziario all’Università di Bologna. Si sa, in Italia siamo "speciali" e il Professor Di Federico ci spiega il perché di questa nostra singolarità, confrontando il nostro "giudice supremo" delle leggi con quello di altri ordinamenti di Stati democratici, europei e non. Nel momento in cui la Consulta dichiara incostituzionale la legge che per 8 anni ha eletto ben tre parlamenti, la relazione di Di Federico è tanto illuminante quanto nascosta dal mondo dei media: è possibile rintracciarla, infatti, solo tra gli scritti d’appendice della relazione conclusiva della Commissione sulle riforme costituzionali, nominata dal Governo Letta il 4 agosto del 2013. Ecco perché Il Tempo - che ringrazio - la propone ai suoi lettori. La relazione di Giuseppe Di Federico Le Corti costituzionali esercitano uno dei poteri di maggior rilievo politico in democrazia: dichiarare illegittime le leggi approvate dalle assemblee legislative, cioè dalla maggioranza dei rappresentanti della sovranità popolare. Nello svolgere la loro attività le corti costituzionali giudicano utilizzando principi costituzionali spesso formulati in termini tali da consentire interpretazioni discrezionali. La nostra Corte Costituzionale non è seconda a nessuna nell’esercizio dei suoi rilevanti poteri: non solo ha dichiarato incostituzionali, come è suo compito, norme approvate dal nostro Parlamento ma ha anche, in alternativa, ricorrentemente stabilito quale dovesse essere la loro interpretazione da parte di tutti i poteri dello Stato. A volte ha anche incluso nel nostro sistema giuridico norme che il Parlamento non aveva mai votato. Alcune delle sue decisioni hanno persino determinato ingenti spese aggiuntive per l’erario. È quindi comprensibile, addirittura fisiologico, che in vari Paesi democratici si siano avute, ricorrentemente, reazioni più o meno palesi, più o meno dure, nei confronti della giurisprudenza delle corti costituzionali quando viene ritenuta il frutto di un uso partigiano della discrezionalità interpretativa dei giudici sia da parte delle minoranze, che non si sentono tutelate, sia delle maggioranze parlamentari e di governo, che vedono caducate le leggi attuative del proprio programma o che vedono aumentare le spese cui far fronte. Vari Stati democratici hanno quindi predisposto meccanismi istituzionali, più o meno efficaci, per favorire il corretto funzionamento delle loro Corti costituzionali ed evitare che si sviluppino tendenze partigiane pro o contro le opposizioni o le maggioranze del momento. Mi limito a ricordarne tre: il primo è che la designazione dei giudici costituzionali, proprio per il grande rilievo politico delle loro decisioni, avvenga in tutto o in buona parte a opera di istituzioni democraticamente elette; il secondo è che i meccanismi di nomina dei giudici prevedano procedure più o meno efficaci per far sì che nelle corti siano presenti giudici con orientamenti ideali diversificati, che rappresentino cioè, per quanto possibile, quelli presenti nella società; il terzo è costituito dai meccanismi intesi a stimolare l’autocontrollo dei giudici costituzionali, e cioè a stimolare in loro un equilibrato e contenuto esercizio del loro potere discrezionale. Sotto tutti e tre questi profili la nostra Corte costituzionale è quella che offre, a paragone di altre, minori garanzie. Sia per quanto concerne le modalità di nomina, sia per quanto concerne gli stimoli al "self restraint" dei giudici. Modalità di nomina Per quanto concerne le nomine dei giudici - a differenza di altri Paesi a consolidata tradizione democratica, ove la maggioranza o la totalità dei giudici costituzionali viene eletta dagli organi rappresentativi della sovranità popolare o comunque sottoposta al controllo di quegli organi (Germania, Spagna, Portogallo, Francia) - in Italia solo un terzo dei giudici costituzionali (5 su 15) vengono eletti direttamente dal Parlamento con un quorum che favorisce una pluralità di orientamenti. Gli altri due terzi vengono scelti in totale autonomia da organi non eletti dal popolo e senza che al Parlamento venga attribuito alcun potere di verifica delle scelte effettuate, né per quanto concerne le loro qualificazioni, né per quanto concerne il pluralismo dei loro orientamenti. Certamente questo non avviene per i cinque giudici eletti in piena autonomia dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, cioè con modalità del tutto svincolate dal processo democratico, ed eletti da organismi reclutati burocraticamente. Non dovrebbe quindi sorprendere che questa forma di nomina non sia presente in nessuno degli altri Paesi a consolidata democrazia. Non meno peculiare è la nomina dei 5 giudici effettuata in piena autonomia da parte del Capo dello Stato. È un sistema di nomina che può provocare, e ha in effetti generato, a partire dall’avvento della cosiddetta seconda Repubblica, vistosi squilibri nella composizione della corte. Basti ricordare che tutti e 9 i giudici nominati da Scalfaro e Ciampi sono stati scelti tra persone che chiaramente appartengono all’area politica del centro - sinistra. Quattro su nove (Contri, Flick, Gallo, Cassese) erano stati anche ministri nei governi presieduti da Ciampi e Prodi. In nessun altro Paese a democrazia consolidata è consentito che un singolo soggetto - per autorevole che sia - possa compiere una scelta tanto importante in piena discrezionalità e senza alcun controllo. Non nei paesi dell’Europa continentale. Non negli Usa dove i candidati scelti dal Presidente devono essere confermati da un voto favorevole del Senato secondo procedure col tempo sempre più stringenti. Il giudice Stone, uno dei più noti Presidenti della Corte Suprema degli Stati Uniti, era solito ricordare ai suoi colleghi che a differenza delle altre branche del governo, "tutte soggette al controllo di legittimità da parte dei giudici, l’unico controllo sul nostro esercizio del potere è costituito dal nostro self restraint". Non voglio certo affrontare il complesso tema del self restraint dei giudici e di quali siano le condizioni che possono favorirlo. Mi basti qui ricordare che per la nostra Consulta non sono comunque previsti quegli stimoli istituzionali all’autocontrollo, al self restraint, che sono presenti in altre corti costituzionali. Mi riferisco all’istituto delle opinioni dissenzienti con il quale si consente ai giudici che rimangono in minoranza di motivare il loro dissenso e di fornire circostanziate e diverse interpretazioni delle norme costituzionali. È un istituto previsto da tempo negli Usa e anche in Paesi europei quali Germania e Spagna. Rende palese a tutti, dall’interno stesso della corte, la plausibilità di interpretazioni diverse e alternative dei dettati costituzionali e rende evidenti gli eventuali eccessi di discrezionalità presenti nelle decisioni prese a maggioranza. La prospettiva stessa di vedere efficacemente e ufficialmente criticate le proprie scelte interpretative da altri giudici della stessa corte, induce tutti a un autocontrollo nell’uso della discrezionalità interpretativa. Aggiungo che le opinioni dissenzienti non servono solo a stimolare l’autocontrollo. Mettono in evidenza non solo i personali orientamenti interpretativi dei singoli giudici ma anche le loro capacità professionali. È una fortissima remora a proporre e scegliere candidati non sufficientemente qualificati. Va subito aggiunto che il voto dissenziente non è vietato dalla nostra Costituzione. Potrebbe essere introdotto anche da noi solo che i giudici della nostra Corte Costituzionale lo volessero. La maggioranza di loro non lo ha mai voluto. Preferiscono l’anonimato di decisioni che all’esterno appaiono unanimi anche quando non lo sono. Nella maggioranza di loro è sempre prevalsa la volontà di non assumersi personalmente e palesemente la responsabilità delle proprie decisioni. A mio avviso, non è rassicurante in democrazia che persone investite di poteri politicamente tanto rilevanti possano e vogliano esercitarli senza assumersene la personale responsabilità. Sulla base di quanto detto indico anche le riforme che io auspicherei a livello Costituzionale. La mia preferenza va al sistema di nomina dei giudici costituzionali previsto dalla Costituzione tedesca la quale assegna il potere di eleggere i giudici, in eguale misura, sia al Bundesrat che al Bundestag, e quindi nella nostra Costituzione lo assegnerei in egual misura alla Camera delle autonomie e alla Camera dei deputati (se si mantiene l’attuale numero di 15 giudici si potrebbe stabilire che una delle camere ne nomini 7 e l’altra 8). Sarei comunque favorevole anche ad altri sistemi di nomina che rispettino due condizioni: a) che la maggioranza dei giudici venga comunque eletta con un elevato quorum dai due rami del parlamento per garantire una equilibrata composizione della Corte ; b) che le nomine eventualmente assegnate ad altri organi siano comunque sottoposte, nel merito, al vaglio e al consenso del Parlamento. In ogni caso introdurrei in Costituzione la previsione del voto dissenziente e della pubblicazione delle sue motivazioni. Giustizia: Grillo contro ministro Cancellieri "il decreto-carceri è un indulto mascherato" Tm News, 5 gennaio 2014 Il Movimento 5 stelle torna all’attacco del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. In un post sul blog di Beppe Grillo firmato dal capo della comunicazione del gruppo M5S della Camera, Nicola Biondo, il decreto svuota carceri varato a dicembre viene bollato come "indulto mascherato". "L’ennesimo decreto della vergogna - accusa Biondo - è stato licenziato dal governo il 23 dicembre e battezzato in neolingua "svuota carceri". In realtà, è il solito indulto mascherato che riguarderà mafiosi, stupratori, assassini e compagnia bella. Basta - recita il decreto - che "abbiano dato prova di partecipare all’opera di rieducazione". Immaginiamo che partecipazione", è il commento dello scettico articolista. "Quindi, con l’obiettivo di svuotare le carceri, il governo - spiega il blog di Grillo - vara un principio che non ha eguali al mondo: "il rimedio compensativo". Come a dire: "Io, Stato italiano, ti ho fatto vivere in carceri fatiscenti, ho leso i tuoi diritti di detenuto, non ho fatto nulla per farti vivere decentemente? E allora ti libero prima!". Un mazzo di fiori per scusarsi non è ancora previsto, ma confidiamo nella sensibilità del governo. E non finisce qui: qualsiasi detenuto che presenti un esposto causerà l’immediata apertura di un procedimento che, viste le condizioni di quasi tutte le carceri, costringerebbe lo Stato a pagare un indennizzo. Quasi quasi farsi arrestare conviene". "Aumentando le liberazioni anticipate - sostiene il rappresentante del M5S - si produrrà effettivamente un indulto mascherato, liberando pericolosi criminali prima del tempo. Addirittura peggio dell’indulto, perché applicabile a tutti i reati e non suscettibile di revoca". "Tutto ciò - si sostiene ancora sul blog di Grillo a proposito del decreto svuota carceri - per tamponare le condanne dell’Europa per le condizioni delle carceri italiane. Ma soprattutto per mascherare le inefficienze del Piano carceri del Governo con 470 milioni di euro bloccati da 4 anni in una contabilità speciale (1500 posti di lavoro nel settore dell’edilizia in meno) e continuare a insabbiare i dati truccati e falsi già forniti dal Commissario straordinario per le carceri - nominato da Napolitano - e dalla Cancellieri al Parlamento. Un piano carceri che ha a disposizione 500 milioni di euro e che in due anni ha inaugurato zero nuovi posti - come più volte denunciato dal M5S. I loro disastri li pagheremo noi. Sarà un indulto mascherato per migliaia di pericolosi criminali e per la prima volta, questa liberazione anticipata speciale riguarderà i mafiosi". "Ovviamente - prosegue il post di Nicola Biondo - il governo non ci mette la faccia se qualcuno di questi scarcerandi commetterà un reato dopo l’uscita, perché tutto è scaricato sui giudici di sorveglianza: colpa loro se non liberano, colpa loro se liberano un futuro delinquente. Con la nuova formula infatti, a gioire saranno anche i picciotti arrestati a partire dal gennaio 2010: in 6 anni, fino al 2015 come prevede il decreto, accumuleranno uno sconto di ben 900 giorni, quasi due anni e mezzo! E uscirà prima anche Totò Cuffaro, con un ulteriore sconto di oltre un anno". Secondo il blog a 5 stelle "il decreto permetterà anche una serie infinita di favoritismi ai soliti amici, il che non guasta mai. Lavoro esterno dei detenuti esentasse, di cui godranno quasi totalmente imprese vicine a Comunione e Liberazione; e poi i ‘braccialetti d’orò, quei prodigiosi arnesi tecnologici per impedire la fuga che ci sono costati finora un occhio della testa, tramite succosi appalti a quella Telecom che ha poi magicamente assunto il figlio della Cancellieri. Un appalto da 512 milioni di euro sottoscritto proprio dalla Cancellieri, quando occupava il Viminale, e annullato dal Tar secondo cui la convenzione con la Telecom restava efficace fino al 31 dicembre 2013. Capito? Il decreto del ministro di Giustizia Cancellieri salva l’appalto deciso dal ministro dell’Interno Cancellieri nel 2011". "Perché - spiega ancora il blog - con lo svuota carceri i braccialetti diventano adesso uno strumento necessario per i quali si chiede "una maggiore disponibilità". E, probabilmente, senza questo decreto dal primo gennaio 2014 Telecom avrebbe perso il contratto del "braccialetto d’oro". Ma almeno un’ingiustizia con questo decreto è stata sanata: per fottersene della giustizia non serve più il cellulare della Cancellieri, basta applicare il suo decreto", conclude Biondo. Giustizia: Ncd; su reato di omicidio stradale introdurre aggravanti per alcol e droga Agi, 5 gennaio 2014 Inserire aggravanti al reato di omicidio stradale per chi viene trovato sotto effetto di alcol o di droga. È quanto chiede al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri il senatore di Nuovo Centrodestra Antonio Gentile. "Alla Cancellieri chiediamo ancora - aggiunge - di inserire norme che prevedano pene severe e cioè ritiro della patente e carcere per quanti vengano trovati in ogni caso sotto l’effetto di alcol, cannabis e ogni altra droga". Per Gentile il modello deve essere quello americano "con sospensione della patente in caso di violazione dei limiti di velocità superiori ai 10 km nelle strade interne e ai 20 km in autostrada. Se si agisce all’italiana e cioè gridando nell’immediato e non facendo nulla - sottolinea - si fa l’ennesima pessima figura. Così com’è doveroso applicare le sanzioni automaticamente attraverso i tutor, le telecamere, i rilevatori: qualsiasi genitore preferisce un figlio senza patente e in galera a un figlio morto". Giustizia: Ucpi; omicidio stradale, pessimo esempio di legislazione a furor di popolo Ansa, 5 gennaio 2014 In una dichiarazione alle agenzie il presidente dell’Unione esprime la contrarietà dei penalisti italiani alla paventata introduzione della figura dell’omicidio "stradale" nel nostro codice. La norma rappresenterebbe l’ennesimo esempio di legislazione simbolica ed emergenziale contro la quale le Camere Penali, da tempo, fanno sentire, spesso in solitudine, la propria voce. "L’ipotesi del reato di omicidio stradale torna ciclicamente, quasi sempre in concomitanza c incidenti che si impongono all’attenzione della cronaca, ma rischia di essere solo una risposta demagogica". È l’opinione del presidente dell’Unione camere panali, Valerio Spigarelli, scettico sulle novità annunciate ieri dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Il rappresentante dei penalisti italiani parte da una prima distinzione: "Per comminare pene più elevate, o si agisce sull’omicidio volontario con dolo eventuale, operando però una forzatura del concetto giuridico sottostante, perché il dolo eventuale presuppone che chi agisce metta in conto le conseguenze della propria condotta ma se ne disinteressi; oppure, evitando fughe della giurisprudenza, si rafforzano le pene previste per l’omicidio colposo, che non presuppone cioè la volontà di uccidere. Il problema, però, resta quello di usare lo strumento penale in maniera complessiva, evitando irrazionalità. Se introduci l’omicidio stradale irrobustendo le pene per l’omicidio colposo - spiega Spigarelli - devi anche prevedere che non sia punito in maniera parossistica rispetto ad altri reati colposi, altrimenti il sistema sanzionatorio diventa irrazionale, discrezionale, senza proporzionalità tra un certo tipo di reato e un altro. Le attuali sanzioni già prevedono pene da tre a 10 anni per l’omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale con le aggravanti per la guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di droga". Un sistema sanzionatorio troppo duro può diventare controproducente e forse non è un caso, osserva Spigarelli, che "mentre gli omicidi colposi sono in calo, c’è un aumento delle omissioni di soccorso: di fronte a una sanzione molto alta, molti soggetti sono indotti ad aggravare il proprio comportamento scappando". E l’ergastolo della patente? "Dipende a cosa la ancori: teniamo conto che ritiro e sospensione della patente sono già previsti. Il fatto che tu non la possa più riavere per tutta la vita, è davvero una cosa logica? Il rigore sanzionatorio svincolato dalla ragione per cui infliggiamo la pena si traduce in vendetta sociale". Giustizia: Uno Bianca; mamma Cc, "se killer usciranno uccideranno ancora" Ansa, 5 gennaio 2014 Nessuna clemenza per i killer. È quello che continua a chiedere - a 23 anni dalla strage del Pilastro - Anna Maria Stefanini, madre di Otello, carabiniere ucciso a Bologna con i colleghi Mauro Mitilini e Andrea Moneta dalla banda della Uno Bianca. "Neanche ne voglio sentire parlare di clemenza - ha detto tra le lacrime, al termine della messa nella chiesa di Santa Caterina, dopo la commemorazione al cippo che ricorda il delitto - io sono cristiana e cattolica, ma quello non è un perdono che si può dare". I componenti della banda guidata dai fratelli Savi, dunque, devono restare in carcere "tutti i giorni, fino all’ultimo. Non meritano niente". Per spiegare perché secondo lei non devono uscire, la madre di Stefanini ha fatto l’esempio di Angelo Izzo, uno degli autori del "massacro del Circeo" del 1975, che poi, ottenuta la semilibertà, uccise due persone a Ferrazzano, nel 2005. "Qualcuno dice che si devono reinserire? Facciamo la fine di Izzo. Lo hanno reinserito e ne ha ammazzati altri due. Loro ne hanno ammazzati 24, ne ammazzeranno 48". "Ogni anno è peggio - ha detto ancora la donna - adesso vedrei mio figlio grande, con figli e moglie. E invece non mi rimane altro che andare su una tomba a portar fiori e preghiere". Nel 1991 Stefanini aveva 22 anni. Alla cerimonia era presente anche Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, gruppo responsabile di 105 crimini e 24 omicidi tra Bologna, Romagna e Marche dal 1987 al 1994. "Gli assassini - ha ribadito - non possono venir fuori, specialmente se sono reo confessi". In carcere, "loro stanno bene, lo posso assicurare, li ho visti a Rimini: Fabio Savi a giugno, a novembre Roberto Savi, sono ingrassati. Sembra che abbiano rimosso tutto, perché sono tranquilli. Ho visto anche Eva Mikula, anche lei sembrava una diva. Siamo noi che stiamo male perché ci ricordiamo sempre di quello che hanno fatto". Il riferimento è alle udienze del processo a Rimini all’ungherese Tamas Somogyi, ritenuto il fornitore di armi della banda, dove i due Savi e Mikula hanno testimoniato. Alcuni dei condannati hanno avuto permessi: "Occhipinti - ha aggiunto Zecchi - li ha avuti, lo so per certo. Non possiamo fare nulla. La giustizia glielo permette e loro, praticamente, fanno quello che vogliono". Legale Alberto Savi: ordinamento prevede recupero "È comprensibile l’atteggiamento dei familiari delle vittime, i quali vorrebbero che persone che si sono macchiate di gravi crimini non uscissero dal carcere. Ma occorre tenere conto che i cardini dell’ordinamento penitenziario sono il reinserimento sociale e il recupero. Ed è un parametro che dovrà valere per tutti". Lo dice l’avvocato Antonio Piccolo, difensore di Alberto Savi, il fratello minore di Roberto e Fabio, che come loro sta scontando l’ergastolo per i delitti della Uno Bianca. Alberto Savi è in carcere a Padova e lavora nel call center del penitenziario. I termini per richiedere benefici, ha spiegato il legale, "sono maturi". Saranno i giudici di sorveglianza a valutare "quando e come concederli". Reinserimento e recupero previsti dall’ordinamento, ha proseguito, sono "graduali" e devono tenere conto delle gravità delle condotte. In tal senso, l’avvocato Piccolo ha ricordato che i vertici della banda erano Roberto e Fabio e non il suo assistito, che non partecipò a tutti i crimini. Nel 2006 Alberto scrisse una lettera alla madre del carabiniere Otello Stefanini, chiedendo perdono. Liguria: Sappe; altro che leggi svuota-carceri, ci sono più detenuti oggi del 2010 www.savonanews.it, 5 gennaio 2014 Più detenuti oggi in Liguria che nel dicembre 2010. E questo nonostante ben 3 provvedimenti legislativi impropriamente definitivi svuota-carceri. È quel che emerge da uno studio sulle presenze nelle carceri della Liguria realizzato dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri del Corpo. "Ogni tanto si varano provvedimenti che impropriamente si definiscono svuota-carceri ma la realtà è che la situazione di affollamento dei penitenziari è sempre drammaticamente grave, a tutto danno del lavoro dei poliziotti penitenziari che in Liguria sono circa 400 meno rispetto al previsto", spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). "Basta un dato: il 31 dicembre 2010 i detenuti in Liguria erano 1.675 e, nonostante tre leggi presunte svuota-carceri i detenuti, lo scorso 31 dicembre 2013, erano 1.703. Ed altri 1.125 scontano una pena sul territorio attraverso le misure alternative alla detenzione, tra i quali 279 ammessi ai lavori di pubblica utilità in alternativa a carcere per violazioni al Codice della strada. E va sottolineato che della legge sulla detenzione domiciliare che permette di scontare ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di pena se ne sono avvalse 499 persone, 332 uscendo dal carcere e 167, giudicate colpevoli, direttamente dalla libertà". Dai dati diffusi dal SAPPE emerge che resta sempre alta la percentuale di detenuti tossicodipendenti e stranieri in Liguria mentre bassissima è la percentuale di coloro che lavorano durante la detenzione. "Questo è anche il risultato delle politiche penitenziarie regionali degli ultimi 10 anni sbagliate, che hanno lasciato solamente al sacrificio ed alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle sovraffollate carceri liguri. Politiche che, ad esempio, non hanno favorito il lavoro in carcere e l’impiego dei detenuti per il recupero del patrimonio ambientale ligure - pulizia spiagge, sentieri ed alvei dei fiumi - e la formazione e l’aggiornamento professionale della Polizia penitenziaria (come l’insegnamento delle lingue stranieri) rispetto ad una popolazione detenuta prevalentemente extracomunitaria. Ma va anche detto che il Parlamento, su questo scandalo delle sovraffollate carceri italiane nelle quali il 40% dei detenuti è in attesa di un giudizio definitivo, ignora persino l’autorevole messaggio alle Camere del Capo dello Stato dell’8 ottobre scorso sulla situazione carceraria. Noi, come Sappe, ribadiamo di non credere che amnistia e indulto, da soli, possano risolvere le criticità del settore carceri. Quello che serve sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: lavoro in carcere per i detenuti, espulsioni degli stranieri, detenzione in comunità per i tossicodipendenti ed alcool dipendenti che hanno commesso reato in relazione al loro stato di dipendenza. La realtà oggettiva è che le carceri restano invivibili, per chi è detenuto e per chi ci lavora. Non si può pensare, come invece ha fatto l’Amministrazione Penitenziaria, che per migliorare la vivibilità in carcere basta consentire loro unicamente di girare liberi nel carcere perché al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa". Firenze: la lettera dei detenuti a Betori: "Urli con noi, altrimenti non c’è speranza" di Marzio Fatucchi Corriere Fiorentino, 5 gennaio 2014 Nel testo dato all’arcivescovo, e che lui ha citato durante l’omelia nella giornata per la Pace, anche critiche sui progetti in carcere. "Ora la discarica è collassata". Ha toni drammatici la lettera che i detenuti di Sollicciano hanno consegnato all’arcivescovo Giuseppe Betori durante la Messa che lui ha officiato in carcere per Natale. Un testo cha ha toccato Be tori, portandolo a citarla nella liturgia per la Giornata mondiale della pace. Brani che denunciavano il "sovraffolla mento delle carceri e la loro organizza zione" che rende "crudeli e barbare le pene inflitte ai detenuti, che il carcere dovrebbe non annientare nella loro umanità" ma portare ad un "reinserimento positivo nella società", ha letto Betori, dichiarando di far proprie "le parole di denuncia e di volontà di riscatto" della lettera, dopo che già in passato aveva rivolto appelli in questo senso: "Troppe promesse sono annegate nel nulla. Non questa volta, per favore!" aveva esortato Betori. Ma in quelle due pagine c’è di più. "La luce da seguire è sempre più piccola e più lontana" per chi vive in car cere "che funziona come discarica", aveva letto in Duomo Betori da un passo della loro lettera. "Ora la discarica è collassata" scrivevano i detenuti nel te sto non citato: "La situazione è davvero drammatica e le istituzioni rimanda no continuamente, bloccate da sterili logiche clientelari ed enormi interessi economici". Di qui l’appello a Betori, per "colmare questa vuoto con una presa di posizione coraggiosa e con delle azioni concrete, seguendo l’esempio del nostro Papa Francesco". Ancora: "Chiediamo a lei di farsi interprete della nostra voce soffocata, di dare lei voce alla nostra "rinascita", che per noi significa il superamento della "non vita" per "non persone". Noi non abbiamo sindacati, non abbiamo partiti, nessuno che sia in gradi effettivamente di urlare per noi che non abbiamo più fiato. Se la sente? Ha voglia di farlo, di vestire i nostri stracci e la nostra sofferenza, di entrare davvero nella nostra periferia di vita?". È un testo intenso, che ha sicura mente toccato l’Arcivescovo, che lo ha citato (in modo non usuale) per rivolgere un appello alle istituzioni a migliorare le condizioni del carcere. Nel la lettera si possono però leggere an che altri problemi. Come quando si far riferimento al fatto che Betori a Sollicciano "è entrato in occasioni liete, come la promozione di interessanti in contri musicali. Grazie ma non basta! Ha voglia questa volta di fare un po’ più di fatica per noi? Di urlare per noi, di farsi nostra voce?". Un riferimento che "Radio Carcere" interpreta così: i progetti che vengono fatti per i carcerati (anche ma non solo da associazioni di volontariato cattoliche), sono a volte "spot" o su temi che poco toccano la vita dentro la mura o non forniscono strumenti per la vita futura, finita la pena. È di Betori che hanno bisogno i carcerati, della sua "autorevolezza per vestire i panni di Gesù nel tempio". Perché sia lui a gridare per loro, perché i progetti di formazione ed educazione durino nel tempo. E resta la vergogna "dei piccolissimi cuccioli d’uomo nati reclusi", i figli delle carcerate che rischiano di stare dietro le sbarre fino a 6 anni. "Se questo non merita il Suo grido, allora vuol dire che non c’è speranza concludono i carcerati. Ci aiuti lei che può". Nicosia (En): Casa Circondariale a rischio, decreto di chiusura non è stato revocato La Sicilia, 5 gennaio 2014 Il decreto di chiusura del carcere di Nicosia non è stato revocato. A ricordarlo in una nota il provveditore regionale delle strutture penitenziario Marcello Veneziano. La nota ha riacceso i timori per il destino della casa circondariale di Nicosia per la quale era stata disposta la chiusura il 30 giugno del 2013, poi sospesa dal ministro della Giustizia Anna maria Cancellieri. Sospesa ma non revocata torna a sottolineare Veneziano e Giuseppe Trapani, coordinamento provinciale Uil Penitenziari ieri ha diffuso un comunicato stampa nel quale sottolinea la necessità di non abbassare la guardia. «La soppressione del carcere di Nicosia sembra imminente - dice Trapani - e sembra che stia calando il sipario. Il sindacato da solo, senza l’appoggio politico, non potrà affrontare le disposizioni della Spending review e le disposizioni europee che impongono all’Italia la riorganizzazione dei penitenziari. Disposizioni che non tengono conto dei parametri di efficienza. Altro versante di cui poco ci si sta occupando è la preoccupante situazione della polizia penitenziaria, il cui personale ha carichi di lavoro insopportabili». Trapani aggiunge che le piccole strutture come Nicosia sono quelle che, a fronte della carenza di figure educative e di programmi di riabilitazione, permettono al personale di polizia penitenziaria di sopperire a queste carenza. «L’amministrazione comunale si è impegnata a intervenire nella struttura per poterla mantenere - aggiunge il rappresentante sindacale - senza per altro ottenere risposta alcuna. A oggi il Comune attende ancora le indicazioni per elaborare un progetto di ammodernamento e messa in sicurezza del carcere che permetta di quantificare i costi a carico dell’Ente. Da sindacalista non mi stancherò di ribadire l’importanza delle piccole strutture che devono essere mantenute e messe in condizione di operare al meglio, e non soppresse». Il sindaco Sergio Malfitano dopo la sospensione del provvedimento di chiusura ha più volte chiesto al ministero della Giustizia ed al Dap, le indicazioni per potere avviare le procedure di impegno di spesa per i necessari lavori sul carcere nicosiano, ma ad oggi non ci sono stati riscontri in questo senso. «Comprendo i timori degli operatori e del personale di polizia penitenziaria che lavorano nel nostro carcere - ha dichiarato il sindaco Malfitano - e comprendo la preoccupazione dei cittadini, che ovviamente condivido. Tuttavia voglio sottolineare che ad oggi non ci sono novità negative, nel senso che il decreto di chiusura rimane sospeso. Nei mesi scorsi ho avuto un incontro con il prefetto Angelo Sinesio, commissario ministeriale per il Piano delle carceri con il quale ho già concordato un incontro per il mese di gennaio. Martedì chiederò all’ufficio del prefetto Sinesio che venga fissata la data». Genova: arriva l’effetto "svuota - carceri", il carcere di Marassi libera oltre 50 detenuti La Repubblica, 5 gennaio 2014 Già nella prima settimana di gennaio scarcerata una decina di persone. Senza l’evasione, il serial killer Gagliano sarebbe uscito ad agosto. Né un indulto, tantomeno una grazia, ha detto il ministro della Giustizia, ma il decreto svuota - carceri nel primo fine settimana di gennaio comunque ha già aperto le celle di Marassi ad una decina di detenuti ed altri 50 dovrebbero lasciarle il prima possibile. Il fine - pena ha interessato anche una donna reclusa nel carcere di Pontedecimo e riguarderà altre cinque persone, entro pochi giorni. Anzi, prima possibile, precisano al Tribunale di Sorveglianza, "perché non si può ledere un diritto a chi rientra nei benefici della legge". A chi è recluso dal 2010, ha dato prova di buona condotta, comportamento esemplare durante la detenzione e può godere dell’ulteriore sconto di 30 giorni per ogni sei mesi di carcere già scontato. Il decreto, infatti, prevede che dai 45 giorni di riduzione di pena, prevista dalla precedente normativa, si passi a 75 giorni. Ovvero, si ha diritto a cinque mesi di sconto all’anno. E non è poco. Peraltro, la valenza è retroattiva di 4 anni, perciò dovrà essere ricalcolato lo sconto dal 2010 ad oggi. Così, chi sarebbe dovuto rimanere in carcere ancora per 8 mesi o per frazioni inferiori, con il decreto proposto dal Guardasigilli Anna Maria Cancellieri di colpo si ritrova in libertà assoluta. Inoltre, lo stesso provvedimento stabilizza l’istituto degli arresti domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena. Si calcola l’uscita dalle carceri per 1.700 detenuti in tutta Italia. Una sessantina nelle due case circondariali di Genova. Per Marassi è una bella boccata di ossigeno, in linea con lo spirito del decreto legge approvato dal governo, che lo ha motivato con la necessità "di calmare una situazione esplosiva". Le "Case Rosse" sono una di queste: al momento ospitano 780 reclusi, rispetto ad una capienza massima di 550. Per svuotare in fretta le celle, si lavora sodo in questi giorni nelle direzioni delle due carceri genovesi e soprattutto presso il Tribunale di Sorveglianza. Nel primo fine settimana post - festivo di gennaio dalle scrivanie dei magistrati sono transitati circa dieci fascicoli, ma secondo quanto trapela dagli uffici matricola di Marassi e Pontedecimo un’altra cinquantina di richieste sarebbe stata inoltrata dagli avvocati difensori e in attesa di ricevere la relazione della direzione del carcere. Dopodiché, dovrà esprimere il suo parere anche la Procura Repubblica. Già, perché il decreto svuota carcere prevede che i pm (Sabrina Monteverde, Luca Scorza Azzarà, Vittorio Ranieri Miniati e Mario Morisani) che si occupano dell’esecuzione delle custodie cautelari, debbano dare un giudizio rispetto al comportamento dei detenuti all’interno del carcere. Ovvero, a loro spetta vagliare se durante il regime di detenzione nelle condotte di ciascuno si ravvisino aspetti di carattere penale, tali da pregiudicare il diritto al godimento dei benefici. La decisione finale spetta al giudice della Sorveglianza, il quale, se lo ritiene, potrà firmare l’uscita agevolata o la facoltà di trascorrere gli ultimi mesi di pena ai domiciliari. Per la cronaca, il decreto legge è stato approvato il 17 dicembre scorso, lo stesso giorno in cui da Marassi è evaso il serial killer Bartolomeo Gagliano. O meglio, non è più rientrato in carcere dopo 48 ore di permesso - premio, dovuto alla sua buona condotta. La sua detenzione, secondo il vecchio ordinamento, sarebbe dovuta finire nell’aprile del 2015. Con l’aggiunta dell’ulteriore sconto di 8 mesi (calcolati dai 2010 ad oggi), già dal prossimo agosto sarebbe stato libero. Adesso, "dopo quello che ha fatto", sia alla Procura della Repubblica, sia al Tribunale di Sorveglianza, dicono che "può scordarselo". Gorizia: "un tetto per chi dorme nei parchi", l’impegno del Garante di detenuti e immigrati di Francesco Fain Il Piccolo, 5 gennaio 2014 "Il Tavolo per l’emergenza freddo che ha dato un tetto temporaneo a 48 persone deve essere un punto di partenza, non di arrivo". Lo scandisce chiaramente don Alberto De Nadai, garante del carcere di Gorizia, del Cara e del Cie di Gradisca. "Il freddo arriva ma anche passa e il problema resta", scrive nella sua relazione. Tutto nasce nell’estate del 2012 quando la Comunità cristiana di base segnala all’amministrazione Comunale di Gorizia la mancanza di attenzione alla dignità di quelle persone che giorno e notte stazionano nel Parco della Rimembranza perchè prive non solo di un’abitazione ma anche dei servizi igienici. "Dopo un anno di silenzio, la scorsa estate - spiega don De Nadai - la comunità è tornata ad affrontare il problema. La Croce rossa italiana, attenta a queste persone che, provenienti dai Paesi del terzo mondo non trovavano accoglienza al Cara di Gradisca "per mancanza di posti liberi", mi ha coinvolto al problema. Sono state così individuate 48 persone che, non essendoci posto al Cara, erano costrette a dormire nei parchi cittadini e di Gradisca, sotto i ponti, all’aperto. Il 20 dicembre scorso, la svolta: l’onorevole Giorgio Brandolin, in un incontro A Roma con il funzionario del ministero degli Interni incaricato per l’immigrazione ha ottenuto la soluzione per i 48 in lista d’attesa per il Cara: sono stati immediatamente ospitati, per un mese, all’hotel Internazionale di via Trieste a Gorizia. La Prefettura ha ottenuto, sempre dal ministero, l’assicurazione per le spese (30 euro al dì pro capite). Si sono liberati così dei posti - letto al dormitorio della Caritas e nella parrocchia della Madonnina". Ma sarebbe sbagliato abbassare la guardia. "Il Tavolo - le parole del garante dei detenuti - non deve fermarsi all’emergenza freddo ma, con la Prefettura, bisogna mirare ad un progetto più ampio. L’ospitalità in hotel avrà presto termine. È opportuno muoversi per individuare altre strutture di accoglienza: il Pacassi? Il Nazareno di via Brigata Pavia? Il convento dei frati di Cormons? Il Contavalle? L’albergo "Al Pellegrino" di Gradisca? La casa di via IX agosto? Don Paolo Zuttion della Caritas è stato incaricato di verificare le suddette opportunità, quindi ci ha ragguagliato sugli sviluppi. Il Contavalle è impossibilitato ad ospitarli: ci sono difficoltà insuperabili di natura strutturale per separare maschi e femmine; al Nazareno ci possono essere delle possibilità di ospitalità ma solo per un certo numero, sia con qualche modifica nella struttura maggiore, sia nelle tre casette libere del parco. Il discorso è aperto, non, però, per 50 persone; l’albergo "Al Pellegrino" di Gradisca potrebbe ospitare una decina di persone; per la casa di via IX agosto di proprietà dell’Azienda sanitaria bisogna aspettare il rientro dalle ferie del direttore Cortiula: da notare che in quella struttura c’è solo un bagno; l’hotel Trieste di Gradisca sta per chiudere ma si potrebbe chiederlo in affitto". Rivela don De Nadai: "La canonica della parrocchia Santo Spirito in Gradisca ha aperto una forte discussione. Tra i componenti del Tavolo c’era un po’ di confusione tra "emergenza freddo" e "ospitalità a bassa soglia" non riservata a quelli del Cara ma per coloro che vivono all’addiaccio. Si è deciso che la canonica potrà accogliere queste ultime persone. L’edificio ha bisogno però di una lieve ristrutturazione: impianto elettrico, stufe per il riscaldamento, un servizio igienico. Dopo aver stipulato i relativi documenti, contratto e recepito i soldi per i lavori, la struttura potrebbe essere gestita da volontari come succede già per il dormitorio della Caritas. La cittadinanza, però, dovrebbe essere messa subito al corrente di questa iniziativa riservata a quelle persone che già vivono sul territorio. Attualmente nell’emergenza freddo ci sono tre persone le quali, però, non rientrano nelle 48 che il Cara non può ospitare. Il problema, allora, coinvolge i Comuni. Da qui l’opportunità di interessare i due ambiti della Provincia. Bisogna partire da questa esperienza di Gradisca per poi coinvolgere anche Gorizia". Un’osservazione finale: "I 48 ospiti dell’hotel si stanno comportando molto bene: sono educati, rispettosi, curano la loro persona e la loro stanza. Hanno un buon rapporto con il personale della Cri e anche con tutte le persone che si occupano di loro". Oggi in carcere ci sono 22 persone Don Alberto De Nasai affronta anche un altro problema nella sua approfondita relazione di garante dei detenuti e degli immigrati di Cie e Cara: ed è relativo alla carcere di Gorizia. "Da ottobre - scrive - sono iniziati i lavori di ristrutturazione di parte della casa circondariale di Gorizia. Quasi tutti i detenuti definitivi sono stati trasferiti in altre carceri del Triveneto per terminare la pena. Sono rimasti una ventina (ad oggi sono 22). Questi trasferimenti non permettono agli operatori di svolgere il loro lavoro di rieducazione e di reinserimento dei detenuti, come prevede la Costituzione, ma anche taglia dei diritti fondamentali ai detenuti stessi quali il rapporto con i propri familiari. Senza dimenticare la stanchezza dei familiari causata dal disagio di un lungo viaggio e dalle lunghe attese, con bambini piccoli e poi le umiliazioni delle perquisizioni. I colloqui sono un diritto per i detenuti e, per i familiari, anche una risorsa possibili. Così al detenuto resta soltanto da scontare la pena". Cuneo: deputato Pd Mino Taricco in visita al carcere, dopo quelle di Fossano e Saluzzo www.targatocn.it, 5 gennaio 2014 Una iniziativa per conoscere la realtà locale delle Case circondariali per poter meglio intervenire. Giornata di visite istituzionali, quella di venerdì 3 gennaio, per il deputato del Pd Mino Taricco: il parlamentare cuneese si è infatti recato, durante la mattinata, alla Casa circondariale di Cuneo. Un’iniziativa, questa, che Taricco ha voluto compiere allo scopo di approfondire la conoscenza della realtà carceraria locale in vista dell’ormai prossima discussione parlamentare per la conversione in legge del decreto del governo in materia penitenziaria. Durante la visita, il deputato ha così avuto modo di osservare l’organizzazione complessiva del carcere: da un lato, ha visionato le strutture in cui risiedono i detenuti e si è a lungo confrontato con il personale di Polizia penitenziaria in esso operante, dall’altro è entrato a contatto con le attività di istruzione e formazione professionale promosse dalla struttura e riservate ai medesimi detenuti. "Ho deciso di recarmi personalmente alla Casa circondariale di Cuneo, così come in precedenza avevo visitato anche quelle di Fossano e Saluzzo, - afferma Taricco - perché ritengo che il migliore strumento possibile per intervenire a livello politico sulle varie realtà territoriali, di cui le istituzioni carcerarie fanno parte, sia rappresentato da una loro conoscenza diretta. Durante la mia visita ho avuto comunque modo di osservare da vicino un’istituzione che, nonostante il periodo di difficoltà, crisi e carenza di personale, si è dotata della chiara volontà di affrontare in maniera propositiva il proprio compito: lo dimostrano le numerose attività in grado di organizzare proficuamente il percorso di detenzione e reinserimento sociale dei carcerati. Nelle prossime settimane porterò con me queste informazioni e questa esperienza al fine di partecipare e di contribuire, per quanto mi sarà possibile, al miglioramento e alla definizione di norme che vogliamo possano migliorare e meglio finalizzare l’attività di questi istituti". Il testo del decreto legge in questione, contenente numerose misure in materia detentiva, è stato infatti approvato dal Governo lo scorso 17 dicembre, e approderà in Parlamento nelle prossime settimane per la discussione intorno ai suoi contenuti e alla definitiva conversione in legge. "È assolutamente necessario - conclude Taricco ritornando sul tema - che quando si affrontano percorsi di riforma che riguardano settori delicati quali quello della giustizia e della detenzione carceraria si abbiano chiari gli obiettivi finali e la posta in gioco legata alle singole scelte, per evitare che approcci semplicistici e forse affrettati e superficiali risolvano alcuni problemi creandone però altri. Quando parliamo di riforme necessarie, credo dobbiamo avere consapevolezza che queste dovrebbero essere capaci di durare nel tempo, non muovendosi quindi soltanto in logica di urgenza e di straordinarietà. Se riformiamo, dobbiamo fare riforme buone e non soltanto in fretta. Per questo ho voluto osservare da vicino la realtà delle carceri locali e confrontarmi con chi opera al suo interno". Viterbo: Fns-Cisl; il carcere di Mammagialla ospita 700 detenuti, la capienza è di 400 www.clandestinoweb.com, 5 gennaio 2014 L’Istituto viterbese di Mammagialla allo stato risulta uno degli Istituti della Regione Lazio dove più è marcata la presenza dei detenuti presenti, 700 circa, rispetto alla capienza regolamentare che può ospitare di 440. Quanto accaduto lo scorso 1 gennaio (Capodanno) è un segnale senza precedenti che va affrontato nelle sedi competenti, poiché è impensabile che in istituto del genere, tra l’altro dove vi sono variegate tipologie di detenuti tra cui anche quelli sottoposti al 41 Bis, dove un Programma Territoriale Unitario, prevede modifiche affinché i detenuti, solo alcuni reparti possono effettuare l’ apertura cella di almeno 8 ore giornaliere, senza preventivamente confrontarsi con le Organizzazioni sindacali sia a livello locale che Provveditoriale su materie negoziali. Il Personale di Polizia Penitenziaria, anche se con carichi di lavoro più che raddoppiati in questa situazione cosi anche in altre, è sempre riuscita a far fronte ad una gravissima criticità con la massima professionalità al fine di riportate la situazione allo stato naturale. La Fns Cisl Lazio esprime al personale coinvolto vicinanza e gratitudine. La Fns Cisl Lazio per quanto sopra esposto ha chiesto agli uffici competenti urgenti interventi in merito alle problematiche segnalate. Vicenza: negata estradizione per detenuto ucraino, in patria diritti umani a rischio Giornale di Vicenza, 5 gennaio 2014 È accusato di rapina. È la terza volta che la Corte d’Appello nega l’ok La difesa ha sollevato la questione legata al caso Julia Tymoshenko. L’artigiano ucraino non si può estradare: le celle del suo paese sono tutt’altro che sicure perché non vengono garantiti i diritti umani. Non si sa fra l’altro quanto possa durare la custodia cautelare, e il caso dell’ex premier Julia Tymoshenko lo dimostra. È quanto ha stabilito nei giorni scorsi la terza sezione della corte d’Appello di Venezia, presieduta da Michele Bianchi, che per la terza volta ha accolto le ragioni della difesa con l’avv. Marco Dal Ben. E la storia di un imbianchino ucraino sta diventando un caso giudiziario su scala europea. Da un lato c’è un artigiano che vive da anni a Vicenza che teme come la morte di tornare in patria. Dall’altra c’è uno Stato, l’Ucraina, che non riesce a farselo consegnare. In mezzo c’è l’Italia, che non riesce ad espellere, o estradare, un uomo ritenuto un pericoloso rapinatore. Al centro di una sorta di intrigo internazionale c’è l’immigrato ucraino Anatoliy Anatoliyovych Lytvynyuk, 34 anni, residente in città, al momento "obbligato" per legge a restare in libertà. Catania: quando l’arte rende... liberi, stand dei lavori "Made in Jail" dei detenuti di Giarre La Sicilia, 5 gennaio 2014 La cultura e l’arte rendono liberi. Anche dentro un carcere. Il percorso di riscatto parte dal lavoro e dalla manualità creativa, come integrazione e partecipazione dei detenuti, ma soprattutto come lotta alle dipendenze. Questo l’obiettivo di "Made in Jail", un progetto per i tossicodipendenti ospiti della Casa circondariale di Giarre. Un’oasi "felice" nel panorama delle carceri italiane, un sito a quattro stelle, per una struttura nuova e adeguata al numero delle persone della sezione delle custodie attenuate per il recupero e l’inclusione sociale di soggetti a non elevato indice di pericolosità. E nel quale il percorso rieducativo viene effettuato attraverso una serie di attività che servono anche a creare delle professionalità utili all’esterno. Lavoro e produzione di fattura concreta, quindi, con il supporto team di operatori sociali, l’amministrazione penitenziaria e i magistrati di sorveglianza a tutoraggio. Oltre mille metri quadri di serre e laboratori di ceramica per la produzione di manufatti in terracotta e un laboratorio di decorazione e ceramizzazione del cotto. Uno stand è stato presente ai mercatini di Natale di "Trecastagni in Centro" su iniziativa del fotoreporter Joe Faro: "Un veicolo di promozione del lavoro di questi artigiani e fioristi e un modo per far emergere, una volta tanto, storie di riscatto in realtà complesse". Griffate rigorosamente dall’artigianato "Made in Jail", nelle casette in legno di piazza Marconi sono stati in mostra manufatti e oggettistica in fine ceramica, spezie, erbe, piante e stelle di Natale del vivaio dei detenuti, coltivato con vera passione. Spoleto: Festa patrono Polizia Municipale dedicata a detenuti e operatori penitenziari www.spoletonline.com, 5 gennaio 2014 La festa di San Sebastiano per esprimere la vicinanza della città ai detenuti e agli operatori degli istituti di pena. In occasione delle celebrazioni del Santo Patrono della Polizia Municipale il Corpo della PM della Città di Spoleto per il 20 gennaio 2014 ha deciso di organizzare una giornata di appuntamenti culturali in collaborazione con la Casa di Reclusione di Maiano per sottolineare il legame tra le "due città". Si intitola infatti "La Polizia Municipale dentro la città invisibile" ovvero: quelli che dare la parola agli esclusi è una sicurezza per tutti, oh yes!". Il sottotitolo è una sorta di perifrasi ai versi celebri di Enzo Jannacci, che ha espresso nella sua carriera di cantautore una visione contraddistinta da una pietas profonda per personaggi al margine, per i dimenticati o i derelitti. A Jannacci sono dedicati diversi iniziative del San Sebastiano 2014. Con il programma del San Sebastiano 2014 viene data continuità all’operazione dello scorso anno quando, per rimarcare, sempre in occasione delle celebrazioni del patrono della PM, anche la dimensione socio-culturale della Municipale, venne organizzata una giornata di appuntamenti aperti all’intera città che ruotavano attorno alla figura di Gianni Rodari, poeta che ha saputo tratteggiare la figura del vigile urbano con suo popolare e delicato lirismo. Proprio a Gianni Rodari sarà dedicata, venerdì 17 gennaio, una piazza della città di Spoleto. La festa di San Sebastiano 2014 prevede molti appuntamenti. Dopo la Santa Messa, ore 10, con la partecipazione del Coro dei Laudesi Umbri nella Palestra "Rocco D’Amato" della Casa di Reclusione di Maiano è prevista, alle 11, la presentazione del Report annuale della Polizia Municipale. Alle 12 verranno proiettati due video: il primo dal titolo "La Storia siamo anche noi", realizzato dai detenuti, l’altro è una sorta di trailer per presentare un progetto su Enzo Jannacci. Alle ore 14.30 nella palestra interna del Carcere è prevista la prima di "Nessuno Escluso" spettacolo realizzato dai detenuti della casa di Reclusione di Maiano. Nel pomeriggio un evento aperto alla cittadinanza con la proiezione alla Sala Frau alle 17.30 del film "Cesare deve Morire" di Paolo e Vittorio Taviani. Saranno presenti Cosimo Rega e Giovanni Arcuri, i detenuti di Rebibbia protagonisti della pellicola che ha vinto l’orso d’oro a Berlino nel 2012. Modena: chiusura del Cie, una riflessione del Gruppo Carcere-Città Ristretti Orizzonti, 5 gennaio 2014 Nei giorni di fine anno siamo rimasti positivamente sorpresi da due notizie che riguardano Modena. La prima è la chiusura definitiva del Centro di identificazione e espulsione (Cie). Noi speriamo si tratti di un passo importante verso una diversa soluzione, più rispettosa dei diritti umani, dei problemi dei migranti e di quelli legati alla sicurezza dei cittadini, a partire dall’abolizione del reato di clandestinità. La seconda è un appello alla città, agli imprenditori della città, da parte della garante regionale dei diritti dei detenuti, Desi Bruno, a formare una cordata per offrire lavoro alle persone ristrette nel carcere di Modena. Nell’appello agli imprenditori di scommettere su un progetto di lavoro in carcere Desi Bruno dice: "Ci sono gli spazi, gli sgravi fiscali, una manodopera meno costosa e con voglia di fare…" Noi volontari però sappiamo che "gli spazi" non ci sono. Non sono nemmeno stati pensati nel progetto per il nuovo padiglione. (La direttrice però dice con convinzione: "voi portatemi il lavoro e io gli spazi li trovo"). Ma ora si apre un’opportunità nuova: la struttura ex CIE è molto vicina al carcere. Non è difficile creare un collegamento tra i due edifici, niente si frappone tra loro e "sarebbe ragionevole, dice Desi Bruno, che la struttura fosse utilizzata per favorire l’accesso a misure alternative mediante la creazione di alloggi o impiegata per attività lavorative". Noi appoggiamo con convinzione questa proposta ed esprimiamo la nostra piena solidarietà alla garante per la tempestività e chiarezza del suo intervento. Con l’attuazione di un progetto articolato di questo tipo, Modena, oltre a recuperare una struttura che altrimenti rischia di andare in rovina, si porrebbe all’avanguardia nella soluzione dei problemi carcerari ormai sentiti dalla parte più avvertita e consapevole della società. Si introdurrebbe nei fatti quella rivoluzione copernicana che da tanto si attende: la pena non più funzionale solo alla punizione del reo, ma soprattutto alla sua presa di coscienza per il pieno reinserimento nella società. Da ultimo un’osservazione che non riteniamo irrilevante: le misure alternative, così come l’affidamento ai servizi, richiedono un luogo dove scontarle; ne possono usufruire quelli che hanno una famiglia alle spalle o mezzi economici sufficienti e questo discrimina in modo pesante i più poveri. "E poiché sempre più poveri, inevitabilmente sempre più pericolosi". Si concludeva infatti così, provocatoriamente, un convegno tenuto nella Casa di lavoro di Castelfranco venerdì 25 ottobre sulla condizione delle persone lì internate. Introdurre misure di uguaglianza anche nel trattamento delle persone detenute potrebbe rivelarsi molto utile anche per la sicurezza collettiva. Immigrazione: Legacoop; il Cie di Lampedusa è un lager e va chiuso Giorgio Salvetti Il Manifesto, 5 gennaio 2014 Il Centro di "accoglienza" di Lampedusa è un lager e va chiuso. Ormai lo sanno tutti e lo hanno detto tutti. Le immagini dei migranti nudi in fila all’aperto innaffiati col disinfettante anti scabbia hanno fatto il giro del mondo. Ieri lo hanno ripetuto anche i commissari inviati dalla Legacoop dopo l’azzeramento dei vertici della cooperativa "Lampedusa Accoglienza" che finora ha gestito il centro e che il Viminale ha deciso di liquidare. Ieri sera, dopo la visita sull’isola, si sono riuniti con il nuovo amministratore di Lampedusa Accoglienza, il professore Roberto Di Maria, per decidere le prossime mosse. Legacoop non poteva non sapere cosa succedeva là dentro, ma neppure lo Stato può lavarsi la coscienza scaricando tutte le responsabilità sugli operatori che lavoravano in un contesto difficilissimo che certo non dipende da loro ma da una precisa e disumana politica dell’immigrazione. "Un centro da chiudere. Un centro che sembra un lager. Un centro accoglienza senza i requisiti minimi richiesti in un carcere", hanno detto al Corriere.it la responsabile di Legacoop Sociali in Sicilia Angela Maria Peruca, il direttore regionale di Legacoop Pietro Piro e il vicepresidente regionale Filippo Parrino che ieri hanno varcato i cancelli di Contrada Imbricola. Hanno incontrato la vice direttrice Paola Silvino, i medici e gli operatori, gli stessi apparsi nel video. All’interno sono rimasti 17 stranieri, ma per mesi sono stati centinaia, ammassati come topi, molti dei quali sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre che causò 366 morti annegati. Dopo quella tragedia e le passerelle dei vertici delle istituzioni italiane ed europee tutti conoscevano perfettamente la situazione, ma nulla si è fatto. Fino alla messa in onda del famoso filmato e al gesto eclatante del deputato del Pd Khalid Chouki che ha deciso di passare il natale chiuso nel centro. Adesso la struttura è quasi vuota, ma i segni di quello che è avvenuto dietro quei muri sono ancora evidenti. I commissari raccontano di aver visto baracche, materassi ammassati, camerate allagate, serrande divelte, docce e bagni rotti e arrugginiti, sporcizia ovunque, l’infermeria senza brandine né lavandino. "La grave responsabilità dei nostri uomini è di non avere alzato la voce denunciando per primi la vergogna e l’indecenza in cui operavano", dice Filippo Parino. E Pietro Piro aggiunge: "Il vero scandalo non è quel video, mail silenzio che da mesi è calato sulle condizioni di vita di chi è stato accolto. E questo doveva essere chiaro ai potenti, alle autorità, a quanti hanno avuto libero accesso in una sorta di prigione dove nessuno poteva entrare senza autorizzazione". Angela Maria Peruca spiega: "Dopo il video era necessario fare una operazione - verità. Abbiamo trovato giustificazioni perché il disastro dei locali, quel giorno affollati da 500 migranti, costringeva a praticare le docce all’aperto, ma c’erano 18 gradi, una parete di vecchi materassi come precaria privacy. La familiarità fra alcuni operatori e i migranti può essere stata male interpretata come arroganza. Non esiste invece alcuna giustificazione per lo sconcio di materassi sfatti e servizi peggio di un lager. È questo che dovevano vedere anche polizia e carabinieri, l’ufficiale sanitario, ministri e autorità che si presentavano per fittizie solidarietà mediatiche...". I tre ricordano anche le tante richieste fatte al Viminale e mai ascoltate. La lettera di rescissione del contratto è arrivata l’altro ieri. Adesso che succederà? "Abbiamo tempo 30 giorni per valutare quali cambiamenti possiamo adottare e capire con il Viminale se c’è un margine per evitare la recessione del contratto - spiega al Manifesto il professore Di Maria - un eventuale contenzioso giuridico non rientra nel mio ruolo. Noi però possiamo cambiare ciò che è di nostra competenza, non certo il contesto con cui qualunque gestore deve fare i conti. Questo dipende dal ministero degli interni". Spagna: gli ex detenuti dell’Eta scelgono la via politica di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 5 gennaio 2014 "Il nostro impegno nei confronti del nuovo scenario politico è totale". Ad affermarlo ieri, nella cittadina basca di Durango (provincia di Bilbao), è stato José Antonio López Ruiz, noto come Kubati, ex detenuto dell’organizzazione armata Eta. Una dichiarazione fatta non a titolo individuale, ma a nome del gruppo di ex reclusi recentemente scarcerati dalle prigioni spagnole dopo aver scontato interamente le condanne. In realtà, dopo aver scontato ben più del dovuto, come stabilito lo scorso ottobre dalla Corte europea dei diritti umani in una sentenza che ha obbligato la Spagna a porre in libertà decine di etarras (membri di Eta) a cui era stata ricalcolata (ovviamente al rialzo) la pena molti anni dopo che le condanne a loro carico erano già state emesse in via definitiva dai tribunali. Di fronte a numerosi giornalisti, in un atto pubblico caricato di una certa solennità, gli ex detenuti si sono resi protagonisti di un gesto di grande importanza: accettare apertamente il "nuovo scenario politico", e cioè la fine della lotta armata da parte dell’organizzazione terrorista e la scelta a favore di vie legali e non - violente da parte dell’ex braccio politico dell’Eta, la izquierda abertzale. Oltre a ciò è venuto anche il riconoscimento, per la prima volta, di "avere causato sofferenza". Una mossa attesa, dopo che la scorsa settimana a fare lo stesso passo era stato il collettivo dei circa 500 detenuti che tutt’ora scontano le loro pene. Una presa di posizione, quella degli etarras in carcere, di enorme rilievo, perché ha dimostrato che una parte fondamentale dell’organizzazione armata non metterà i bastoni fra le ruote al processo di pacificazione in corso. La paura dei settori impegnati nel dare linfa al "nuovo scenario politico", apertosi nell’ottobre 2011 con la dichiarazione di "cessazione delle attività" da parte dell’Eta, è sempre stata, infatti, che dal collettivo dei detenuti venissero opposte resistenze tali da compromettere gli sforzi per chiudere una pagina dolorosa della storia di Euskadi e della Spagna. Resistenze che avrebbero rischiato di offrire pretesti utili al governo conservatore del premier Mariano Rajoy per continuare a restare completamente immobile, limitandosi solo a ripetere il mantra: "L’Eta si deve sciogliere". In questo modo, invece, gli etarras in carcere tolgono alibi all’esecutivo del Partido popular (Pp), che ora non potrà più giustificare l’inazione che su questo tema lo contraddistingue - mentre è attivissimo a smantellare i diritti civili e sociali. Un aspetto sul quale il processo di pace rischia di incagliarsi è proprio il destino dei detenuti, molti dei quali devono scontare ancora lunghe condanne. La izquierda abertzale, insieme ai settori più moderati del nazionalismo basco e ad esponenti del Partito socialista (Psoe), chiede che finisca la cosiddetta "dispersione penitenziaria", e cioè che i membri dell’Eta in carcere vengano trasferiti in istituti di pena dei Paesi baschi. Attualmente, infatti, la gran parte è reclusa in prigioni molto lontane, rendendo molto difficile le visite dei familiari. Il riavvicinamento a casa potrebbe essere il primo passo di un possibile graduale reinserimento sociale, da attuarsi in un’ottica di elaborazione condivisa del passato traumatico sul modello di altri conflitti di simile natura. Nonostante le novità di questi giorni, dalle reazioni del Pp non si intravedono novità. Dopo il comunicato dei detenuti era stato il ministro degli interni, Jorge Fernández Díaz, a dire che non cambiava nulla, mentre ieri sono stati esponenti di rango inferiore a tacciare l’iniziativa degli ex reclusi come "un’offesa alle vittime" da parte di persone che "continuano ad essere semplicemente dei terroristi". Per il Psoe, invece, la scelta compiute dai detenuti "rappresenta un passo importante", anche se nei confronti dell’iniziativa pubblica di ieri i socialisti avevano espresso delle riserve. Che si tratti di "un evento impensabile fino a poco tempo fa" è sicuro il giornalista Luis Aizpeolea, storica firma del quotidiano liberal - progressista El País e profondo conoscitore delle cose basche. In un commento pubblicato sull’edizione online del principale giornale spagnolo, Aizpeolea sottolinea che con il comunicato degli ex detenuti ieri si è compiuto definitivamente ciò che da sempre veniva chiesto all’Eta: "che facessero le loro rivendicazioni indipendentiste con gli strumenti della politica e non con il terrorismo". Libano: morte sospetta in carcere del leader qaedista, potrebbe essere stato torturato di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 gennaio 2014 È una morte piuttosto misteriosa quella di Majid al Majid, il leader del gruppo qaedista "Brigate Abdullah Azzam" arrestato dalle forze armate libanesi a inizio settimana. Al Majid sarebbe morto per un blocco renale. Le autorità militari libanesi hanno fatto sapere che era ammalato. Tuttavia questo improvviso peggioramento delle sue condizioni, avvenuto mentre era detenuto, suscita qualche sospetto. A Beirut qualcuno non esclude che il leader qaedista sia stato torturato durante gli interrogatori. Altri arrivano ad ipotizzare l’eliminazione di Al Majid, personaggio che sapeva troppo e che forse avrebbe potuto rivelare sostegni e coperture di cui godrebbe il suo gruppo in Libano tra le formazioni sunnite più radicali avversarie di Hezbollah. Le "Brigate Abdullah Azzam" hanno rivendicato il duplice attacco kamikaze compiuto lo scorso 19 novembre contro l’ambasciata iraniana a Beirut. Attentato che, secondo Hezbollah e gli alleati del movimento sciita, sarebbe stato pianificato nell’area del Golfo. Al Maji d ufficialmente era ricercato da Riyadh ma forse anche usato a distanza dall’intelligence saudita nella battaglia, sempre più aspra, che Iran e Arabia saudita combattono in Libano attraverso i rispettivi alleati. Esperti americani dicono che al - Majid raccogliesse fondi nei paesi del Golfo per i jihadisti e qaedisti che combattono in Siria contro il presidente Bashar Assad. E proprio Al Qaeda in Siria e in Iraq - mentre ieri le autorità libanesi riferivano della morte di Majid al Majid - ha rivendicato l’attentato suicida compiuto giovedì scorso nella periferia sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah. Nel suo comunicato Al Qaeda sostiene di "essere riuscito a violare la sicurezza del Partito del Diavolo... è soltanto un primo anticipo del conto salato che dovranno pagare quei criminali", in riferimento a Hezbollah che in arabo vuol dire "Partito di Dio". Per l’attentato suicida di giovedì, nel quale sono morte cinque persone compreso il kamikaze, la magistratura libanese ieri ha confermato l’identità dell’attentatore: un giovane di 19 anni, Qutayba Satem, originario della regione nord - orientale di Wadi Khaled, al confine con la regione centrale siriana di Homs, dove si concentrano gruppi militanti libanesi che appoggiano i ribelli anti - Assad. I genitori di Satem hanno detto agli inquirenti che il figlio era scomparso il 28 dicembre scorso. Stati Uniti: "The Pulse", il giornale che nasce dietro le sbarre di San Quentin di Maurizio Molinari La Stampa, 5 gennaio 2014 È Arnuldo Garcia, 65 anni di prigione da scontare, a dirigere la redazione composta da giornalisti detenuti nel carcere californiano. Esce in carta, ha una solida base di lettori, le prospettive di crescita si moltiplicano e il costo del lavoro è praticamente zero: uno dei giornali più in salute degli Stati Uniti è "The Pulse of San Quentin", frutto dell’opera di una redazione di detenuti nell’omonima prigione della California. "The Pulse" è stato fondato negli anni Trenta, in più occasioni ha interrotto le pubblicazioni e l’ultima ripresa di attività risale al 2008 grazie ad Arnulfo Garcia, 61 anni di età e 65 da scontare, che ha i gradi di direttore e coordina una redazione di ergastolani e pluricondannati, accomunati dalla passione di scrivere. Le regole a cui attenersi sono dovute ai rigidi regolamenti penitenziari: l’unico telefono attivo è una linea fissa che comunica con gli uffici del carcere, i computer non hanno collegamenti a Internet, gli articoli dei collaboratori vengono consegnati su flash drive e la stampa avviene all’esterno, grazie ad un’azienda che non ha alcun contatto con i detenuti-redattori. Ma ciò non toglie che scrivere articoli su quanto avviene dentro San Quentino, che si tratti di attività sportive o culturali, garantisce una diffusione in crescita. Anche perché "The Pulse" è gratuito. Rahsaan Thomas, caporedattore dello Sport, ha avuto il proprio momento di gloria quando è apparso in divisa da basket sulla prima pagina e si è affrettato a far avere una copia di "The Pulse" alla mamma "perché per una volta il mio nome non è associato sul giornale a quello di un assassinato". Le pagine contengono notizie, foto, commenti, recensioni di libri, cruciverba e Sudoku: la distribuzione nella prigione va a gonfie vele e 16 prigioni della California si sono abbonate per essere al corrente di cosa avviene a San Quentin. L’obiettivo di Garcia è di arrivare ad essere presente in "tutte le 34 prigioni della California" puntando ad una circolazione complessiva di 120 mila copie, nella speranza di trasformare "The Pulse" nel giornale di tutti i detenuti dello Stato riuscendo magari anche a raccogliere pubblicità. Non è un’opera facile da realizzare perché il divieto di contatti fra detenuti di carceri differenti sembra un ostacolo insormontabile ma Garcia ribatte che "abbiamo grandi sogni e nessuna fretta nel realizzarli". Visto che il tempo a disposizione non gli manca. Nord Corea: zio di Kim Jong-un in pasto ai cani, macabri dettagli dell’esecuzione di Paolo G. Brera La Repubblica, 5 gennaio 2014 Il messaggio è chiaro: ecco che fine fanno a Pyongyang i miei traditori, la «feccia umana» dei cospiratori filo-cinesi come mio zio Jang Song-Thaek, uno che era «peggio di un cane» e dai cani l’ho fatto sbranare. Così è morto, un mese fa, lo zio 67enne del dittatore nordcoreano Kim Jong-un: gettato nudo insieme a cinque collaboratori in mezzo a un branco di 120 cani affamati da tre giorni di digiuno. Una tortura senza via di scampo che ha anche un nome proprio, il quan jue, l’esecuzione affidata al migliore amico dell’uomo. C’è voluta un’ora perché lo strazio finisse. Lui, il nipotino Kim, assisteva insieme a trecento alti funzionari di regime, ai quali stava tentando di impartire la sua lezione di fedeltà politica. I dettagli sulla prima grande purga dell’epopea di regime del giovane leader - che in passato si era sbarazzato di nemici di minor cabotaggio, fucilando persino una sua ex fidanzata - sono stati pubblicati tre settimane fa dal quotidiano cinese Wen Wei Po, stampato a Hong Kong e molto legato al partito comunista cinese. È così filo governativo da essere giudicato 24esimo su 29 media locali per credibilità, praticamente un inaffidabile megafono di Pechino; ma proprio per questo la storia - ripresa successivamente da altri media cinesi, e infine rilanciata ieri dai quotidiani internazionali - diventa anche più intrigante: i terribili dettagli dell’esecuzione, secondo il quotidiano di Singapore The Straight Times, sono filtrati da fonti cinesi proprio per avvertire Kim che sta tirando troppo la corda. «La maggioranza del pubblico qui ha un atteggiamento negativo verso i recenti avvenimenti di Pyongyang. Ciò può imporre restrizioni ai legami sino-nordcoreani, e gli aiuti cinesi possono essere messi in discussione», avvertiva un duro editoriale pubblicato dal cinese Global Times. L’anziano e potente generale Jang Song-Thaek, considerato in Occidente un riformista incline ad aprire il paese verso un’economia più libera, è stato accusato da Pyongyang di cospirare contro il regime al soldo di Pechino: avrebbe svenduto (ai cinesi) carbone e risorse minerarie, avrebbe ceduto al ribasso riserve auree e concesso terreni per cinquant’anni nella zona speciale di Rason, una piccola Macao nordcoreana. Pyongyang non ha mai fatto mistero di essere pronta a girare verso Pechino le sue armi nucleari destinate ai troppo lontani Stati Uniti; e la Cina, pur avendo aiutato il Nord nella guerra delle due Coree, mantiene prudenza verso il piccolo, potente e intrattabile vicino. Le buone relazioni sono una realpolitik economica che il quan jue di Pyongyang ha rischiato di mettere in forse. Ammesso che sia davvero accaduto: l’unica fonte sono in pratica i servizi cinesi, per i quali il giovane Kim è un gran bel problema irrisolto.