Giustizia: carceri 2013, anatomia di un disastro di Arianna Giunti L’Espresso, 4 gennaio 2014 Novantanove morti dietro le sbarre negli ultimi mesi, metà dei quali per suicidio. Abusi di potere. Sovraffollamento record. Tagli lineari all’amministrazione penitenziaria. Scarsa applicazione delle misure che permetterebbero ai detenuti di lavorare. La situazione delle prigioni nel nostro Paese non fa che peggiorare. Eppure, qualcosa si potrebbe fare, e non si fa. Andrea, 44 anni, per un’intera settimana non riesce a camminare, a parlare né a mangiare. Vomita di continuo ed è in preda al delirio. I suoi compagni di cella chiedono aiuto - inutilmente - per 24 ore. Gli infermieri si limitano a misurargli la pressione. Dopo quattro giorni, Andrea è ricoverato al reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un "ictus ischemico esteso in sede cerebrale". Da allora è in coma irreversibile. C.G., 28 anni, italiano di origini brasiliane, detenuto nel carcere di Asti, viene accompagnato in infermeria per una visita di controllo. Un agente della penitenziaria lo deride per essersi recentemente convertito alla religione islamica. C.G., offeso, dà un calcio alla scrivania. Seguono dieci minuti di inferno: il detenuto viene preso a calci e pugni alla trachea e al torace, un uomo con il volto coperto da un passamontagna lo immobilizza, gli avvolge la testa con un sacchetto di plastica, gli tappa la bocca con il nastro da pacchi e poi lo appende alle grate dell’infermeria con i polsi legati dicendogli: "Dovreste fare tutti la fine di Stefano Cucchi". È la radiografia di un disastro quella fotografata dall’Osservatorio Antigone nell’ultimo rapporto nazionale 2013 sulla situazione carceraria italiana. Dai diritti violati alla mancanza di piani per il reinserimento sociale, i legali della più attiva associazione a tutela dei detenuti riportano dati e numeri ma anche alcuni degli episodi più gravi avvenuti nell’anno appena trascorso all’interno delle mura carcerarie italiane. Come i 99 morti in dodici mesi, i suicidi, gli abusi di potere, le inchieste giudiziarie, detenuti malati richiusi in cella anche ben oltre il compimento del settantesimo anno di età. E poi, ancora, un sovraffollamento da record che sfiora il 173% e che fa schizzare l’Italia fra i primi posti della classifica nera europea. Le migliaia di detenuti condannati a meno di un anno di carcere per reati di scarsa rilevanza penale ai quali non vengono applicate le misure alternative al carcere, percentuali sempre più basse di carcerati che riescono a lavorare negli istituti di pena. Infine, tagli poco lineari al bilancio dell’Amministrazione Penitenziaria, che riducono del 47% i costi di mantenimento, assistenza e rieducazione dei detenuti ma che invece fanno aumentare del 12,1% quelli destinati ai costi per il personale. Come bestie in gabbia Sono la Liguria (169,9%), la Puglia (158,1%), l’Emilia Romagna (155,9%) e il Veneto (153,4%) le regioni italiane dove si registrano le vette più alte di sovraffollamento. In totale, per 64.047 detenuti stimati dall’ultimo censimento a fine novembre, sono disponibili - secondo Antigone - solo 37mila posti letto. Una carenza ormai cronica che è stata recentemente confermata anche dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Il sovraffollamento dipende soprattutto dallo scarso uso delle misure alternative al carcere. "Tanto per fare un esempio, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe", spiegano da Antigone, "è fallita nel suo tentativo di pensare a ingressi nelle comunità terapeutiche". E così ben il 37,4% della popolazione detenuta si trova in stato di custodia cautelare. Un numero senza confronti in Europa. Mentre secondo gli ultimi dati disponibili resi noti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, la percentuale di tossicodipendenti in Italia ha raggiunto il 23,8% con punte più alte in Sardegna (34,1%), Puglia (32,3%) e Lombardia (30,4%). Ancora più alto il numero di persone detenute per violazione della legge sugli stupefacenti, che arrivano ormai al 38,4% dell’intera popolazione carceraria. Niente lavoro E così i detenuti si ritrovano a trascorrere 24 ore al giorno in celle fatiscenti di pochi metri quadrati senza ricambio d’aria né luce. Una condizione di "cattività" che accentua istinti violenti o stati depressivi, che aggrava le malattie e che toglie ai carcerati ogni possibilità di riscatto e recupero sociale. Anche perché le speranze di riuscire a lavorare durante la detenzione, sia per tenere la mente occupata che per costruirsi un futuro una volta liberi, continuano ad affievolirsi. Solo 11.579 detenuti (il 17,5% dei presenti) lavorano attualmente negli istituti per l’Amministrazione penitenziaria. E sono ancora di meno nelle carceri dove non si ricorre al "frazionamento". Ovvero, dove un tempo lavorava un solo detenuto, riuscendo a ricevere un discreto compenso, oggi sono impiegati in due, spesso per periodi di tempo molto brevi per poter consentire anche agli altri, a rotazione, di lavorare. A questi detenuti, poi, si aggiungono i 2.266 che lavorano per altri datori. Fra di loro, 882 lavorano in carcere, mentre 1.266 fuori dalle strutture. Numeri che però sono distribuiti in maniera molto eterogenea in tutto il Paese: il 39% in Lombardia, il 24,8% in Veneto e il 10% in Lazio. Nel resto d’Italia, invece, le aziende in carcere sono praticamente assenti. Morti in cella E così, in cella, si muore. Nel corso dell’anno 2013 - si legge nel rapporto di Antigone - i detenuti deceduti in carcere sono stati novantanove. Tra le cause, 24 decessi per malattia, 47 per suicidio e 28 per motivi che devono ancora essere accertati. Il primato della morti spetta a Roma Rebibbia (11 decessi in totale di cui 2 per suicidio, 3 per malattia e 6 per cause non accertate). Il detenuto più giovane aveva 21 anni, era marocchino e si è impiccato il giorno dopo Ferragosto nella casa circondariale di Padova. Il detenuto più anziano, invece, aveva 82 anni ed è morto per un malore a Rebibbia. Nonostante fosse affetto da gravi patologie e fosse stato recentemente colpito da un ictus, il Tribunale di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di scarcerazione. Era molto anziano (81 anni) anche Egidio Corso, detenuto nel carcere di Ferrara, morto durante uno sciopero della fame mentre stava protestando perché non gli avevano concesso una misura alternativa al carcere. In completa solitudine, invece, si è tolto la vita Pasquale Maccarrone, 27 anni, impiccandosi con il lenzuolo del letto nel carcere di Crotone, il giorno dopo il suo arresto. In carcere si muore anche per malattie non curate. È successo ad Alfredo Liotta, trovato cadavere nella sua cella di Siracusa nel luglio del 2012. C’è voluto un anno perché, dopo un esposto all’associazione Antigone, fosse aperta un’inchiesta, ancora in corso. Liotta, malato di anoressia, nei suoi ultimi tre mesi di vita era dimagrito 40 chili e riusciva a muoversi soltanto su sedia a rotelle. Eppure non solo dal suo diario clinico risulta che né la perdita di peso né i parametri vitali siano stati monitorati, ma anzi quando il difensore del detenuto ne ha chiesto la scarcerazione si è sentito rispondere che "Liotta assumeva atteggiamenti artefatti, teatrali, volti alla strumentalizzazione". Ora ad accertare la verità sarà la Procura di Siracusa, che lo scorso 29 novembre ha iscritto nel registro degli indagati dieci persone (dal direttore del carcere al personale medico competente) disponendo una nuova perizia. Senza cure è stato lasciato anche Andrea Angelini, 44 anni, attualmente ricoverato all’Unità Operativa Gravi Cerebrolesioni di Imola in stato di coma irreversibile. La notte del 3 marzo 2013, mentre si trovava detenuto al reparto G12 della casa circondariale di Rebibbia, ha un gravissimo malore. I suoi compagni di cella, spaventati, chiedono aiuto. Nessuno li ascolta per 24 ore. Altri quattro giorni devono trascorrere perché possa essere ricoverato in ospedale, dopo che gli infermieri del carcere si erano limitati a misurargli la pressione. La mattina del 13 marzo Angelini viene ricoverato al Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un ictus ischemico. Le sue condizioni peggiorano ancora e viene trasferito al centro rianimazione del San Filippo Neri di Roma e poi, ancora, a Imola. Un pellegrinaggio inutile, visto che da allora il 44enne non ha più ripreso conoscenza. Anche in questo caso la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo, contro ignoti. Sono in corso due inchieste (una amministrativa portata avanti dal Dap e una giudiziaria per omicidio colposo aperta dalla Procura di Napoli) per il caso di Federico Perna, un detenuto affetto da una grave patologia epatica e da disagi psichici morto lo scorso 8 novembre a Poggioreale. Perna era entrato in carcere il 20 settembre al Regina Coeli di Roma, poi era stato spostato a Velletri, quindi a Cassino, poi a Viterbo, ancora a Napoli Secondigliano e infine a Poggioreale. Secondo alcune testimonianze, "il detenuto sputava sangue da una settimana". Abu Ghraib ad Asti L’ultimo rapporto di Antigone fa luce, anche, su un mondo sottaciuto di violenze fisiche e psicologiche all’interno delle carceri italiane. Un caso di razzismo, violenza e sopraffazione si sarebbe verificato per esempio nel penitenziario piemontese di Asti, già scosso da un’inchiesta giudiziaria che due anni fa si è conclusa con la prescrizione di quattro agenti di polizia penitenziaria accusati di aver sottoposto a feroci pestaggi notturni quattro detenuti. Stavolta i fatti risalgono al 2010 e ad accusare due appartenenti alla polizia penitenziaria è C.G., italiano di origini brasiliane di 28 anni. L’uomo, durante una visita di controllo in infermeria, viene deriso per la sua fede islamica. "Mi hanno detto che Maometto puzzava", racconterà poi. Il detenuto, molto religioso, reagisce dando un calcio alla scrivania. In tutta risposta viene preso a calci e pugni, imbavagliato e legato alle grate dell’infermeria, il tutto accompagnato da macabri avvertimenti come "farai la fine dei tuoi fratelli ad Abu Ghraib" e "dovreste morire tutti come Stefano Cucchi". L’uomo molto tempo dopo riesce ad aggirare il muro di omertà inviando una lettera al suo avvocato a nome del suo compagno di cella e solo in seguito a una lunghissima indagine i due agenti sono stati portati a giudizio. Il processo inizierà il prossimo aprile davanti al Tribunale di Asti. Baby criminali Migliora leggermente, invece, secondo l’osservatorio di Antigone, la situazione dei minorenni in carcere. Negli istituti di pena minorili, infatti, ben l’85,6% dei ragazzi uscirà in seguito all’applicazione di una misura cautelare alternativa. Significativo anche l’andamento dei minorenni che saranno collocati presso le comunità sia ministeriali che private, tra il 2001 e il 2012 (ultimi dati disponibili) che sono passati da 1.339 casi nel 2001 a 2.037 nel 2012. Un tendenza che in questi anni ha contribuito a contenere le presenze in carcere. Un discorso molto simile quello della messa in prova ai servizi sociali. Si è passati da 788 provvedimenti nel 1992 a 3.216 nel 2011 con un incremento cresciuto di quasi quattro volte. Cosa fare? Da parte degli esperti di Antigone, nel rapporto 2013 arrivano anche suggerimenti concreti rivolti al ministero della Giustizia, che ha promesso una riforma carceraria in tempi brevissimi. I punti fondamentali sono dieci, tutti finalizzati a favorire la reintegrazione dei detenuti. Fra questi compaiono l’apertura delle celle e delle sezioni per almeno dieci ore al giorno, creare all’interno del carcere laboratori e aree verdi, introdurre il web nelle carceri per informarsi e partecipare alla vita pubblica e consentire - ovviamente a chi non è considerato socialmente pericoloso - di comunicare con i parenti attraverso posta elettronica. Per quanto riguarda la salute, una risposta efficace alla malasanità fra le mura carcerarie sarebbe quella di creare una figura che sia intesa come un medico di fiducia. Suggerimenti arrivano anche per quanto riguarda la vita quotidiana dei detenuti, che spesso si ritrovano a dovere fare i conti con i prezzi "gonfiati" del sopravvitto degli spacci interni alle carceri, più volte segnalati dalla Corte dei Conti. Importantissimo, poi, il fronte istruzione. Sono ancora troppo pochi - solo 316 - i detenuti che si sono iscritti nell’ultimo anno a corsi universitari. Mentre nel 2012 si sono contati solamente 18 laureati. "È importante incentivare ulteriormente gli studi superiori come tassello fondamentale anti recidiva per il percorso individuale", spiegano da Antigone, "il detenuto deve essere messo in condizione di sostenere un calendario di esami paragonabile a quello ordinario". Giustizia: decreto Cancellieri, un "intervento chirurgico" sul sovraffollamento carcerario di Marco Cafiero www.progettouomo.net, 4 gennaio 2014 La parola svuota-carceri mi porta alla mente un’operazione di pulizia che risponde più alle logiche di creazione di spazi abitabili che non di politica criminale. È per questo che preferisco non usare una terminologia tanto riconosciuta quanto inadeguata ad uno stato civile. Mi preme premettere questa riflessione per poter meglio parlare di questo ultimo provvedimento legislativo che sembra avere una maggiore incidenza sulla popolazione carceraria di quanto non ne abbiano avuti quelli precedenti, più demagogici che efficaci. L’intento del decreto legge 23.12.2013, n. 146 è quello di intervenire con l’obiettivo di diminuire in maniera selettiva e non indiscriminata, il numero di persone ristrette in carcere, a differenza di un provvedimento di clemenza collettiva. La persecuzione di questo obiettivo avviene attraverso una modalità che il Governo definisce "intervento chirurgico", specie per quanto riguarda la differenziazione tra spaccio e piccolo spaccio di cui diremo oltre. Questa volta il governo pare aver affrontato alcuni nodi cruciali che inficiavano veramente il dettato costituzionale che vede nella pena un momento rieducativo, eliminando quelle storture che da tempo chi opera nel campo del recupero dei tossicodipendenti aveva denunciato essere incompatibili con la volontà del legislatore di avvantaggiare il cambiamento, effettuando un’operazione di politica criminale lungimirante nel senso della prevenzione della recidiva. Infatti è proprio questo elemento che comincia timidamente a trasparire dalle norme appena licenziate, un intendimento che era rimasto stritolato da strategie di sicurezza spesso contraddittorie. Pensiamo, dunque, all’abrogazione del comma 5 dell’art. 94 Dpr 309/90 che inibiva la concessione dell’affidamento in prova speciale per tossicodipendenti per più di due volte. L’eliminazione di questo tetto consente a tutte le persone gravate da dipendenza in esecuzione dei pena detentiva di poter usufruire della misura dell’affidamento per un numero imprecisato di volte. Mi sembra una preziosa forma di incoraggiamento alla cura, proprio in ossequio al clamore determinato dalla considerazione che i nostri istituti penitenziari sono affollati da tossicodipendenti. In questo senso anche la norma che prevede che sia il Pubblico Ministero, qualora sopravvenga un nuovo titolo esecutivo nei confronti di persona in misura alternativa, ne dia comunicazione al Magistrato di sorveglianza affinché estenda la misura. Si tratta di una visione ampia della concezione di misura alternativa. Probabilmente il legislatore ha finalmente preso atto che il meccanismo della porta girevole si inceppa più felicemente a seguito della concessione di una misura che si erge al rango di soluzione per la prevenzione di comportamenti recidivanti. Infine permettetemi di spendere due parole sulla modifica dell’articolo che riguarda lo spaccio di sostanza stupefacente. Ritorna, come nella legge del 1975 la distinzione tra spaccio e piccolo spaccio che il legislatore del 1990 aveva voluto eliminare riducendo la seconda ipotesi al ruolo di circostanza. In realtà questa distinzione nell’immaginario collettivo non è mai venuta meno, un po’ in considerazione della distinzione tra le pene edittali previste, un po’ perché si è sempre voluta differenziare la figura del tossicodipendente che cede per bisogno da quella del "reale spacciatore". Si tratta dell’introduzione di una nuova ipotesi di reato al posto della previgente circostanza attenuante che riduce, addirittura, da sei a cinque anni il massimo della pena edittale. Ecco che il provvedimento licenziato torna a far coincidere il diritto con quanto percepito, con notevoli vantaggi di natura tecnica che, invece, sfuggono ai più. Tali vantaggi riposano nei termini di prescrizione e nella eliminazione del bilanciamento di circostanze. Mi rendo conto che si tratta di un discorso appannaggio di pochi, ma sul piano sanzionatorio e sull’effetto deflattivo carcerario hanno un incidenza importante. Giustizia, intervista a Rita Bernardini; nelle carceri è ancora emergenza… non smettiamo di lottare di Vincenza Foceri www.italia.news.it, 4 gennaio 2014 Giustizia e carceri, due aspetti problematici della vita del nostro Paese: lunghezza atavica dei processi, burocrazia, facile ricorso alla carcerazione preventiva e dall’altra parte penitenziari stracolmi. La situazione non accenna a migliorare, per questo motivo i Radicali Italiani continuano con la loro battaglia sostenendo anche la diffusione del toccante docufilm "Enzo Tortora, una ferita italiana" di Ambrogio Crespi che presto sarà visionato in altre importanti realtà italiane. Abbiamo intervistato Rita Bernardini, segretario di Radicali Italiani, per capire cosa ci prospetta questo 2014 appena iniziato. Marcia per l’Amnistia a Natale e visite nei penitenziari italiani. Anche quest’anno Lei si è resa protagonista di una serie di iniziative che hanno al centro carcere e detenuti. Qual è la situazione che ha trovato nelle ultime visite? Abbiamo visitato con Marco Pannella e una delegazione di Radicali due carceri romane, Regina Coeli e Rebibbia. Due grandi istituti che soffrono il sovraffollamento, condizione che crea il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali. I disagi maggiori si registrano a Regina Coeli perché è una struttura più vecchia. Nell’ultima visita abbiamo trovato lavori in corso e due sezioni chiuse, e quindi i detenuti hanno ancora minore spazio. Abbiamo trovato una totale inattività delle persone recluse. Solo il 10% ha la possibilità di lavorare sia in un carcere che nell’altro. Molti detenuti hanno problemi di carattere psichiatrico, malattie anche molto gravi. Io adesso sto scrivendo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per far presente il caso di un giovane uomo in lista attesa per il trapianto di fegato. Lo stesso medico penitenziario parla di incompatibilità con il regime detentivo. Nonostante questo lui sta ancora in carcere. Si tratta di un caso emblematico ma sono molti coloro che si trovano in questa condizione di mancanza di cure. E poi abbiamo rilevato i problemi di sempre, già denunciati: dalla lontananza dalla famiglia alla mancanza di lavoro, di studio, di possibilità di riabilitazione. E poi resta il fatto che pochissimi detenuti conoscono la loro posizione e la possibilità di richiedere pene alternative. Molti hanno voluto spiegazioni sul decreto varato il 23 dicembre che prevede la liberazione anticipata. Possiamo definirlo, dunque, un mondo di totale illegalità. Nell’anno che è appena iniziato, secondo Lei, c’è la possibilità che qualcosa cambi, che l’emergenza finisca? Noi non siamo soliti guardare la situazione e a dire ci sono o meno le condizioni. Insieme a Marco Pannella siamo abituati a crearle le condizioni. Fino a qualche anno fa nessuno poteva immaginare che dalla Corte Europea arrivasse la sentenza che condanna l’Italia. Abbiamo fatto in modo che arrivasse. Chi poteva immaginare qualche anno fa che il presidente della Repubblica facesse il discorso alle camere sulle carceri che ha fatto? Eppure lo ha fatto. E ancora chi poteva immaginare che la ministra della Giustizia Cancellieri si pronunciasse in modo così esplicito per amnistia e indulto. Noi proviamo a cambiare le cose mentre altri stanno a guardare. Quanto all’amnistia, nonostante le aperture del presidente Napolitano e del ministro Cancellieri, quante possibilità ci sono di avere il provvedimento? Occorrerà lottare. So che è calendarizzato al Senato della Repubblica e che sui progetti di legge in discussione riguardanti indulto e amnistia è intervenuta dichiarandosi favorevole in commissione Giustizia al Senato la ministra Cancellieri. Però ha avuto ben poco risalto questa sua audizione. Questa nostra lotta, gli scioperi di Pannella, marcia di Natale, hanno fatto in modo, insieme alle proteste di questi anni, che in questo momento nelle carceri italiani non ci fossero gli stessi detenuti del 2009. Alla fine di quell’anno, infatti, i reclusi aumentavano al ritmo di mille al mese. Se non fossimo intervenuti come abbiamo fatto non sarebbero stati approvati quei provvedimenti che, seppur da noi considerati insufficienti, hanno permesso una drastica riduzione. Passiamo al capitolo Giustizia. Dopo il successo delle visioni in Sicilia, presto anche Milano ci sarà un’iniziativa appoggiata da Marco Cappato e dal Comune che permetterà un’ulteriore proiezione del docufilm "Enzo Tortora, una ferita italiana" di Ambrogio Crespi. Inoltre a febbraio ci sarà un altro appuntamento alla Bocconi dove parteciperà anche lei. Quanto è importante permettere che questo film verità su una terribile storia di malagiustizia circoli in tutto il Paese? Può secondo Lei la sua visione aiutare a cambiare le cose, sensibilizzando l’opinione pubblica? Di sicuro non mancherò all’iniziativa che si terrà alla Bocconi, ci tengo particolarmente l’ho già messa in calendario. Penso che la conoscenza e l’informazione siano fondamentali quando si parla di giustizia. La visione pubblica del docufilm di Ambrogio Crespi è necessaria ed importante. Serve comprendere il passato per fare in modo che certe cose non avvengano più. Noi Radicali abbiamo provato anche lo scorso anno a fare il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati ma purtroppo non ce l’abbiamo fatta a raccogliere le firme, anche per un brutale annullamento di sottoscrizioni operato dalla Corte di Cassazione. Adesso abbiamo intenzione di operarci per verificare il controllo che è stato fatto sulle firme. Lei che ha avuto modo di vederlo più volte, cosa pensa del docufilm "Enzo Tortora, una ferita italiana"? Ho già espresso la mia opinione più che positiva al riguardo. È un documentario che ti prende totalmente. Io ho conosciuto Enzo Tortora e la sua vicenda da molto vicino. Ricordo quanto sia stato difficile sostenere questa causa nel periodo in cui per tutti lui era "il criminale". I Radicali hanno deciso di lottare lo stesso al suo fianco, nonostante le difficoltà. Ci siamo studiati milioni di fascicoli e alla fine ce l’abbiamo fatta. Enzo è uscito a testa alta da questa brutta storia ma purtroppo lo strazio del diritto è stato anche lo strazio del suo corpo. La malagiustizia uccide le persone, in Italia succede ancora oggi. Per me che ho vissuto quegli anni intensamente, rivivere il tutto attraverso la sensibilità di Ambrogio Crespi espressa nel suo documentario mi emoziona. Ha avuto la capacità di farci rivivere quei momenti attraverso l’occhio di chi ha pagato sulla sua pelle i limiti di una giustizia che non riesce ad essere giusta, ad essere legale, a corrispondere alle norme della nostra Costituzione. Giustizia: intervista a Gianni Cuperlo (Pd) "L’amnistia? Non è una priorità…" di Alberto Maggi www.affaritaliani.it, 4 gennaio 2014 Il Partito Democratico proporrà nel 2014 l’amnistia? "Per la mia formazione personale non sono contrario e di principio non ho un’opposizione. Poi mi rendo perfettamente conto che parlare di un’amnistia senza affrontare complessivamente i problemi che determinano il sovraffollamento carcerario nel nostro Paese e le condizioni di sostanziale disumanità nel trattamento dei detenuti rischia di essere una deviazione rispetto alla responsabilità che governo e Parlamento hanno di affrontare in modo serio e strutturale questo fenomeno", afferma ad Affaritaliani.it Gianni Cuperlo, presidente dell’Assemblea del Pd. "Un provvedimento di questa natura per la sua delicatezza, per la sensibilità nell’opinione pubblica e per la necessità di combinare due principi altrettanto importanti - il rispetto della dignità di ogni detenuto e il diritto alla sicurezza dei cittadini - non si risolve in una presa di posizione individuale sì o no, ma si affronta dentro un ragionamento d’insieme su come gestire l’emergenza carceraria e, forse, nelle condizioni attuali, non è nemmeno la questione prioritaria", spiega Cuperlo. "Abbiamo bisogno di approntare subito riforme e risorse immediate per arginare le patologie del sistema carcerario che hanno un procedimento d’infrazione e una denuncia della Corte Ue dei diritti dell’uomo e anche nel 2013 diversi richiami del Capo dello Stato". Infine la domanda sulla riforma della Giustizia: si riuscirà a farla entro il termine della legislatura? "La risposta secca dovrebbe essere sì, servirebbe. Ma da 20 anni discutiamo di giustizia senza discutere veramente della riforma della giustizia, per le note ragioni. Abbiamo la necessità di affrontare i problemi che sono parte di quel ritardo che il sistema Paese ha accumulato. L’esempio più chiaro sono i tempi della giustizia civile, tali da disincentivare ogni buona intenzione di un investitore estero a venire in Italia. E il tutto si riflette sul sistema economico in modo drammatico in questo periodo di crisi. C’è da mettere mano anche ad una riforma della giustizia penale. Un complesso di riforme in un arco temporale limitato come anno solare è complicato dirlo e forse anche a prevederlo, ma segnali che si passi dalla preoccupazione di un solo cittadino a una preoccupazione per tutti i cittadini è un elemento da inserire nell’agenda politica". Giustizia: la Cancellieri (contro il rimpasto) le inventa tutte… di Sara Nicoli Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2014 Il possibile giro di vite nel governo fa tremare il Viminale. Il ministro pensa a nuovi reati per far scordare i Ligresti. L’ultima trovata è l’omicidio stradale. Si tratta dell’introduzione di un nuovo reato, con la modifica della norma sull’omicidio colposo, con l’obiettivo di colpire “gli autori di questi reati - ha sostenuto la Guardasigilli Annamaria Cancellieri - per fare in modo che le vittime abbiano la giustizia che meritano”. Era da tempo che si parlava di introdurre una sorta di “ergastolo della patente” per chi si fosse reso responsabile di incidenti stradali con vittime, ma tutto era rimasto inespresso. Ora, però, alla vigilia di una ripresa parlamentare che si annuncia piena di possibili colpi di scena e con un rimpasto di governo che sembra ormai inevitabile, si fa di più. Ed ecco che la ministra Cancellieri torna a calcare la scena con un annuncio a effetto seguito all’emozione destata da una serie di gravi incidenti con responsabili dei pirati della strada. Insomma, proprio mentre si torna a parlare di lei in virtù del possibile rimpasto di governo (è noto quanto Renzi voglia la sua testa, forse per far spazio all’uomo del Colle Michele Vietti oppure per il renziano Davide Ermini), la Cancellieri esce fuori con un annuncio a grande impatto mediatico che sembra, tuttavia, essere in contraddizione con la sua politica dello svuota carceri. Da una parte, cioè, si emanano provvedimenti per far uscire dalle patrie galere un numero consistente di detenuti per reati minori e dall’altra se ne inventano invece dei nuovi per metterne altri dentro, in nome della necessità di dare una risposta “popolare” a una richiesta che nasce, appunto, dalle vittime della strada che non riescono a trovare giustizia. Ma non per l’assenza di un reato, ma perché la macchina giudiziaria non funziona. Eppure, ora sembra che la giustizia stradale sia diventata l’emergenza giudiziaria del momento. Con la Cancellieri lì, pronta a risolverlo. Su questo tema, tra l’altro, proprio ieri la stessa ministra e Alfano si erano sentiti, concordando sul fatto che l’intervento non sia semplicissimo, ma le richieste sono numerose e pressanti e per questo la decisione “popolare” diventa improcrastinabile. Certo, nei primi 11 mesi del 2013 - riporta l’Asaps, l’Associazione sostenitori Polstrada - ci sono stati 902 episodi di pirateria con 105 morti e 1.089 feriti, ma davvero c’è la necessità di introdurre un reato ad hoc? La Cancellieri, invero, non è nuova all’uso dell’annuncio spot, specie nei momenti di difficoltà personale. Si ricorderà che, a fine novembre 2013, quando era al centro della scena per aver fatto pressioni per la scarcerazione dell’amica Giulia Ligresti, poi fotografata a Milano pochi giorni dopo a fare shopping, dai suoi uffici di via Arenula venivano quotidianamente veicolate notizie sul suo attivismo in merito alla riforma della Giustizia (per ingraziarsi Alfano e Berlusconi), ma anche sulla necessità di mettere mano all’indulto e all’amnistia come richiesto espressamente da Napolitano l’8 ottobre 2013, visto l’arrivo di una nuova “punizione” dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (entro maggio). Poi, però, guai a parlarle della modifica delle leggi massime responsabili del sovraffollamento carcerario come la ex-Cirielli sulla prescrizione, la Bossi-Fini sull’immigrazione irregolare e la Fini-Giovanardi sulle droghe leggere; terreno politicamente troppo scivoloso per essere affrontato di petto dalla Cancellieri, come un omicidio stradale qualunque, per dire. Si è preferito aggirare l’ostacolo con due decreti sulle carceri, anche se la situazione non è cambiata. A giugno, infatti, la Cancellieri ha firmato un primo decreto che ha introdotto meno automatismi nell’ingresso in carcere per favorire l’uscita dei detenuti di non elevata pericolosità, ampliando l’affidamento ai servizi sociali e i lavori di pubblica utilità per i detenuti e altre misure alternative al carcere. Mentre il 18 dicembre è stato approvato il nuovo decreto che prevede arresti domiciliari, rimpatri dei detenuti stranieri e uscite anticipate, l’uso del braccialetto elettronico, e introduce il reato di cosiddetto spaccio lieve per il reinserimento di tossicodipendenti e istituisce il Garante nazionale dei detenuti. In quell’occasione la ministra della Giustizia ha annunciato pomposamente anche 10 mila nuovi posti detentivi in strutture adeguate entro il 2015. Di cui, però - guarda caso - nessuno sa più nulla. Giustizia: Omicidio stradale? Le norme che ci sono bastano e avanzano di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 4 gennaio 2014 Qualche anno fa accaddero in sequenza alcuni drammatici fatti di cronaca, uno dopo l’altro. Fatti tutti uguali. Giovani e ragazzi si divertivano gettando sassi dal cavalcavia, mirando alle macchine che passavano sotto il ponte, nonché alle persone che erano dentro quelle macchine. Monica Zanotti morì per mano di qualche sciagurato il 29 dicembre del 1993 a Verona. Quando accadono fatti di questo genere chi ha un ruolo politico deve esprimere il dolore in silenzio; deve tacere per rispetto alle vittime e della giustizia. Incontrai nel 1996 nel carcere di Padova una parlamentare del centrosinistra di allora - se non ricordo male era della lista Dini - che promise la presentazione di una proposta di legge diretta a introdurre nel codice penale una nuova forma di omicidio, ovvero l’omicidio attraverso il lancio di sassi da un cavalcavia. Non riuscii a trattenere un sorriso amaro di fronte a quella proposta. Mi immaginavo le norme che a seguire avrebbero potuto essere approvate: omicidio con accoltellamento, omicidio con forcone, omicidio con pistola, omicidio con fucile, omicidio per lancio dalle scale o dal balcone. Una casistica infinita. La norma penale invece deve per sua natura essere generale e astratta. Se così non fosse dovremmo tipizzare tutte le azioni e tutti gli eventi in una follia normativa comunque incapace di coprire tutti i casi possibili che la fantasia criminale è capace di produrre. L’articolo 575 del codice penale prevede che: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Il successivo articolo 579 prevede che: “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni. Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da: 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica; 2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”. Esistono quindi già delle norme che si occupano di omicidio e di morte a seguito di incidente stradale. L’Istat ci racconta che “tra il 2001 e il 2010 il numero di pedoni morti in incidente stradale è diminuito di oltre il 40%, quello dei ciclisti del 28%,mentre per i conducenti e passeggeri di motocicli e ciclomotori la riduzione è stata più contenuta (pari a circa il 20%)”. Eppure dopo l’ennesimo fatto tragico di cronaca si evoca la nuova figura criminosa dell’omicidio stradale; si discute intorno a un ulteriore irrigidimento di pene, come se la cultura del rispetto si dovesse sempre conquistare con la sola minaccia di anni di galera. Perché invece non puntare sui più sicuri fattori educativi e civici? Perché non imporre limiti di velocità più bassi? Oggi chi ammazza una persona investendola con la propria auto, qualora sia in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze, rischia già fino a 10 anni. Il previsto aumento delle pene non avrà effetto dissuasivo sulle condotte al volante. Inoltre si determineranno ingiustificate disparità tra morti e morti. Non si vede perché un pedone investito, dal punto di vista penale, potrà valere di più rispetto a un malato che muore sotto i ferri per evidente colpa medica. Le norme ci sono già. Bastano e avanzano. Al limite si metta in discussione quella vecchia distinzione dottrinale tra dolo eventuale e colpa cosciente che tanto diverte i penalisti. Infine è bene ricordare a chi evoca la figura criminosa dell’omicidio stradale una proposta di Luigi Ferrajoli fatta nel nome del diritto penale minimo. Ferrajoli suggerisce la previsione costituzionale della riserva di codice: ogni norma penale nuova dovrebbe essere approvata a maggioranza qualificata e dovrebbe obbligatoriamente essere inglobata nel codice penale. In sostanza significa sottrarre la legislazione penale alle ondate emotive. Giustizia: dopo l’appello della Cei, iniziativa di solidarietà per le carceri da oltre 50 parlamentari Toscana Oggi, 4 gennaio 2014 Attenzione verso i detenuti. A chiederla era stato il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, nell’omelia della messa per i senatori e i deputati della Repubblica italiana, presieduta in preparazione al Natale nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, lo scorso 19 dicembre. Nel richiamare la "presenza pastorale e umana" dei sacerdoti-cappellani nelle carceri, il presidente della Cei aveva evidenziato "le condizioni precarie e penose" delle persone ristrette, "dovute al sovraffollamento, e alle strutture spesso inadeguate per una corretta e doverosa riabilitazione in vista dell’auspicato reinserimento nella società". E in occasione delle festività, da Natale all’Epifania, alcuni parlamentari stanno visitando gli istituti di pena di varie province italiane. Un’iniziativa promossa da "Argomenti 2000"- Associazione di amicizia politica, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su una drammatica emergenza del Paese e compiere un gesto di concreta vicinanza a quella parte della popolazione fatta di uomini e donne che, pur scontando una pena, rimangono a pieno titolo cittadini. Per l’occasione è stato redatto un documento che illustra le finalità dell’iniziativa cui hanno aderito oltre cinquanta parlamentari, d’ispirazione cristiana, presenti in diverse formazioni politiche. "La situazione carceraria costituisce nel nostro Paese un’emergenza aggravata dalla difficoltà di risolvere gli annosi problemi del sistema giustizia. Una gravità che ci ha fruttato un richiamo della Corte europea", spiega il deputato Ernesto Preziosi, che ha aderito all’iniziativa dell’associazione "Argomenti2000". "La convinzione - prosegue Preziosi - è che si debba ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione". Infatti, "la gravità della situazione carceraria emerge in tutta evidenza anche dai numeri". Al tema del sovraffollamento vanno aggiunti "la precarietà dello stato di salute della popolazione detenuta e l’inefficienza del sistema sanitario interno agli istituti di pena". A fronte di questa situazione, i deputati firmatari del documento "si sono posti il problema della depenalizzazione di diversi reati che avrebbe come effetto diretto un alleggerimento del carico della giustizia penale, senza che ciò costituisca una minore tutela delle collettività". In definitiva, "questa iniziativa, per noi, vuole essere un modo per esprimere, da credenti, insieme ad altri parlamentari di buona volontà, un gesto di vicinanza con i fratelli reclusi, dando testimonianza di ciò che può significare oggi, in tempi di pluralismo, la presenza in Parlamento dei credenti", sottolinea Preziosi. "Il gesto in occasione delle festività esprime l’attenzione agli ultimi e vuole essere una risposta alle parole espresse più volte dal Santo Padre, ultimamente parlando ai cappellani degli istituti di pena, richiamando tutti alla vicinanza con quanti vivono la condizione carceraria", conclude Preziosi. Oltre cinquanta i parlamentari che, a seguito dell’adesione al documento sulla questione carceraria, si stanno recando in varie carceri italiane. Tra gli altri, Marina Berlinghieri e Alfredo Bazoli a Brescia, Ernesto Preziosi al carcere di Villa Fastigi a Pesaro, Lia Quartapelle a San Vittore a Milano, il senatore Francesco Russo nel carcere di Trieste, Michele Nicoletti in quello di Trento, Angelo Senaldi a Busto Arsizio, Assunta Tartaglione all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, Mino Taricco al carcere di Cuneo, Rosy Bindi nel carcere dell’Ucciardone a Palermo e Renato Balduzzi al carcere di Alessandria, Giorgio Zanin a Pordenone, Emma Fattorini, Paola Binetti e Mario Marrazziti a Roma al Regina Coeli, Gian Luigi Gigli nel carcere circondariale di Udine, Roberto Speranza in quello di Potenza, Giorgio Santini e Margherita Miotto a Padova; Maria Amato alla Casa lavoro di Vasto (Chieti), Mario Sberna al carcere di Bergamo e Sandra Zampa al Pratello, carcere minorile di Bologna; Gianpiero Scanu al carcere di Tempio Pausania. Giustizia: via dall’ergastolo bianco… storie di internati in attesa della chiusura degli Opg di Laura Berti www.articolo21.org, 4 gennaio 2014 "Sono qui da… 20 anni e due mesi …" no, dice lo psichiatra, sono meno anni … "sì, ribatte con gli occhi persi e la bocca impastata, è come dice il dottore …". Così Andrea, ad Aversa, così Giuseppe a Barcellona Pozzo di Gotto che non ricorda quanti anni ha, così Carmine a Reggio Emilia, che non sa più perché è entrato in quel posto dal quale non sa quando e se uscirà. Questo è il tempo degli Opg. Un non tempo, speso trascinando i piedi in corridoi spogli e con una cicca in bocca, consumato sdraiati bocconi su letti dalle spalliere arrugginite aspettando che lo psicofarmaco abbassi la sua pressione opaca sul cervello. Un non tempo che doveva finire il 31 marzo del 2014, ma che non finirà. L’ergastolo bianco di tanti internati negli ospedali psichiatrici giudiziari continuerà. A dirlo è l’ultima relazione congiunta dei ministeri della Salute e di Giustizia al Parlamento. Le regioni non sono pronte per il progetto della chiusura degli OPG, dice la relazione. Il progetto che vorrebbe strutture alternative sui territori regionali non è attuabile se non fra molti mesi. Almeno 24 mesi per il Piemonte, fino a 32 per val D’Aosta e Lombardia. Continuerà la "stecca", come l’ha chiamata Salvo che di anni di galera ne ha fatti 20, ma i peggiori sono stati, dice, quelli chiuso nell’Opg di sant’Eframo a Napoli. "Ho visto un contenitore di disperazione e tanti compagni portati via avvolti in lenzuoli bianchi. Un inferno dantesco … gente che girava intontita dagli psicofarmaci … non è più galera, è un’altra cosa … nell’Opg ti senti abbandonato, pensi che il mondo ti abbia dimenticato e che da quell’incubo non uscirai mai più". Ancora circa 1000 le persone chiuse nei sei Opg (Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli Secondigliano, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto). Un numero non semplice da conteggiare perché, ci spiega padre Pippo Insana presidente dell’associazione Casa accoglienza e solidarietà di Barcellona P. G. e membro regionale del comitato Stop Opg, se è vero che in molti, in questi ultimi tre anni, sono usciti, tanti altri continuano ad entrare perché non ci sono alternative. Non solo. C’è da ricordare che negli Opg non entrano soltanto i soggetti prosciolti dal magistrato perché considerati infermi di mente. La maggior parte dei soggetti che oggi arrivano in questi istituti , provengono dalle carceri: non sono stati prosciolti, stanno scontando la loro pena, ma durante il periodo di detenzione hanno avuto problemi psichiatrici. Proprio come Salvo che tentava il suicidio e si autolesionava. Le carceri sono drammaticamente sovraffollate, dunque trattare detenuti problematici è praticamente impossibile. E siccome negli ultimi anni negli Opg è aumentato il numero del personale di assistenza, il magistrato si trova nella condizione di facilitare il trasferimento di chi, in carcere, non potrebbe mai essere sostenuto.. Questo è un altro dei punti dolenti: la nuova normativa prevede la creazione dei reparti psichiatrici negli istituti di pena, proprio dedicati a chi è stato condannato e presenta problemi durante la detenzione. Ma di reparti psichiatrici in carcere, ad oggi, ce ne sono pochissimi. Insomma, un problema complesso da affrontare e che richiede almeno altri due, tre anni di tempo, secondo la relazione dei ministeri salute e giustizia, perché le regioni si adeguino e preparino il territorio ad accogliere. Insomma, la legge prevede: 1) La creazione di reparti psichiatrici all’interno delle carceri 2) Per coloro che verranno considerati "pronti" i Dipartimenti di Salute Mentale disporranno servizi diurni di cura e riabilitazione e comunità terapeutiche e di lavoro . 3) Per i malati che invece sono considerati "a pericolosità sociale", alla cura e alla riabilitazione provvederanno strutture chiuse fino a quando sarà necessario. Detto così sembra tutto molto semplice e razionale. In realtà molte le contraddizioni e i problemi. "Troppo denaro viene investito in queste case di cura chiuse - dice Padre Pippo - così non risolviamo niente. Occorre finanziare di più le comunità, o le strutture aperte come quella che gestiamo qui in collaborazione con l’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona PG. Vivere in una casa insieme ad altri , fare piccoli lavori, andare a fare la spesa, avere a che fare con le persone, se pure in modo controllato dagli operatori … il tutto in un clima di famiglia … questo è il modo per preparare al reinserimento … Le regioni devono attrezzarsi per accogliere i soggetti che non sono più pericolosi." Ma anche sul concetto di pericolosità sociale è opportuno dire due parole. Non vi è alcuna certezza rispetto ai parametri valutativi su cui poggiarlo. Nessun articolo del codice penale, infatti, è legato in modo specifico a questo concetto. Esiste ad esempio un articolo che mette una relazione fra la pericolosità sociale e la possibilità di reiterazione del reato, ma questo può significare anche soltanto l’esistenza di una famiglia con parenti che delinquono … è chiaro dunque che si tratta di criteri extra sanitari. Ma a parte questa ennesima contraddizione, ammessa la possibilità di essere inseriti in una comunità aperta, Il problema può essere rappresentato proprio dal territorio: banalmente, in un condominio, come viene accolto chi ha commesso crimini anche gravi e che può far paura? E che futuro possono avere queste persone? "Non vogliamo illuderci, - dice padre Pippo - ma sicuramente questi soggetti possono vivere in ambienti diversi dall’Opg e avere possibilità . Nel nostro quartiere appena siamo arrivati, in molti erano sospettosi. Ma il vivere insieme, incontrarsi per le scale o a far la spesa, scambiare quattro chiacchiere, fa sì che si creino rapporti. Qualche tempo fa ad esempio, avevamo nella nostra struttura un ragazzo di Bergamo, … la mattina in cui è partito per tornare nella sua città, alle quattro del mattino, abbiamo trovato le famiglie del palazzo ad aspettarci sul pianerottolo perché lo volevano salutare … " Un’accoglienza, dunque, sì, è possibile, ma il recupero? "Un ragazzo - racconta ancora padre Pippo - era con misura di sicurezza provvisoria internato nell’Opg. Neanche I genitori non volevano più saperne nulla. Siamo riusciti a fargli avere la libertà vigilata ed è venuto a stare da noi nella nostra struttura aperta. Pian piano è riuscito a star meglio e adesso vive nella sua azienda agricola, produce e vende olio, ha avuto un bimbo dalla sua compagna … un passato drammatico ma ce l’ha fatta. Non sarà possibile per tutti, certo, ma almeno un’opportunità dobbiamo darla, penso a quell’internato che sta dentro per aver rubato, all’epoca, settemila lire. Proroga su proroga. E sta dentro da 14 anni". Giustizia: dalla Diaz ai domiciliari, la lezione incompresa di Genova G8 di Lorenzo Guadagnucci MicroMega, 4 gennaio 2014 Qualcuno l’ha definita "la retata di capodanno" e fa impressione scorrere l’elenco delle persone costrette agli arresti domiciliari: Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Spartaco Mortola, rispettivamente capo dell’Anticrimine, dell’Ufficio analisi dei Servizi segreti e della Polizia postale del Piemonte… Si aggiungono agli altri condannati per la mattanza alla scuola Diaz che il Tribunale di sorveglianza ha reputato immeritevoli di passare in affidamento ai servizi sociali i pochi mesi di pena che devono ancora scontare, una volta sottratti dalle condanne i tre anni di abbuono previsti dall’indulto. È il penoso epilogo di una vicenda gravissima, che il nostro paese non è riuscito ad affrontare e superare in modo degno. Finiscono ai domiciliari dirigenti altissimi della polizia di stato, mantenuti fino all’ultimo in carica da un potere politico superficiale e corresponsabile di una prepotenza istituzionale senza precedenti. Solo la Cassazione, con la sentenza definitiva del 5 luglio 2012, ha disposto la sospensione dei condannati dai pubblici uffici per 5 anni, senza però riuscire a scuotere il Palazzo dal suo torpore, sinonimo in questo caso di complicità con un vertice di polizia incapace di riconoscere i propri gravi errori e di agire in modo da porvi rimedio. Vedere agli arresti dirigenti così importanti, e così tutelati dal potere politico, aggiunge sale su una ferita aperta. Sono ai domiciliari, sebbene incensurati, perché hanno rifiutato di chiedere scusa per quanto accaduto alla Diaz, perché hanno dimostrato di non aver capito la gravità di quanto accaduto. In una parola: non hanno accettato la sentenza di condanna. Sapere che Gratteri, Luperi, Caldarozzi e gli altri condannati sono obbligati agli arresti domiciliari, non è una buona notizia per nessuno, a cominciare dalla polizia di stato, che avrebbe invece bisogno di recuperare la credibilità perduta. Non è una buona notizia perché testimonia ancora una volta che la lezione di Genova G8 non è stata capita, che è caduto nel vuoto il il grido d’allarme arrivato dai tribunali con le condanne di alti dirigenti per la mattanza alla Diaz e di decine di agenti e funzionari per i maltrattamenti e le torture nella caserma di Bolzaneto. Il Parlamento non si è chiesto se simili clamorose condanne non richiedano un approfondimento, una verifica della vita interna ai corpi di polizia, dei meccanismi di autocorrezione e sanzione degli abusi. Si è cominciato a discutere una legge ad hoc sulla tortura il cui contenuto sembra piovuto da marte, teso com’è a non irritare gli "ambienti delle forze dell’ordine", come se a Bolzaneto non fosse accaduto niente. Sembra che i condannati nel processo Diaz, sospesi per 5 anni dai pubblici uffici, non siano stati nemmeno sottoposti a provvedimento disciplinare, ma è impossibile avere notizie precise: la polizia di stato non ne dà, come se non fosse cosa di interesse pubblico. Si è solo saputo che in qualche caso i procedimenti sono effettivamente cominciati, come richiesto dalle istituzioni europee, ma si tratterebbe di procedure in cui si contesta la colpa e non il dolo, come se la polizia di stato si sostituisse al giudice e cambiasse la sentenza di condanna, rendendola più lieve. Non è così che deve comportarsi un corpo di polizia in un paese democratico. Le sentenze della magistratura, in casi delicati come questi, devono essere accolte e comprese con grande attenzione e con spirito riformatore. Sono state invece considerate - di fatto - come una fastidiosa interferenza. I magistrati che hanno condotto l’inchiesta con rigore esemplare nonostante boicottaggi continui - Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini - sono stati considerati dei disturbatori, anziché dei funzionari dei funzionari dello stato da prendere ad esempio. Domandiamoci allora che tipo di democrazia stiamo costruendo (ossia deformando) nel nostro paese. Chiediamoci perché tutti i maggiori media abbiano tanto imbarazzo nell’affrontare casi come questo. Perché quasi non faccia notizia l’esito inglorioso, con gli arresti domiciliari di dirigenti un tempo stimatissimi e lodatissimi, di una vicenda tremenda, qual è stata la mattanza alla scuola Diaz. Chiediamoci se non stiamo per passare quella linea rossa oltre la quale una società è pronta ad accettare che i diritti e le libertà civili siano considerati poco più che un lusso, immeritevole di rigorosa tutela. Toscana: emergenza carceri, strutture inagibili dove manca perfino la carta igienica di Fabrizio Ciuffini (Cisl-Fsn) www.nove.firenze.it, 4 gennaio 2014 È terminato un anno difficile per il sistema penitenziario italiano ed anche quello della Toscana non fa eccezione; ma il 2014 nel quale siamo appena entrati, se non ci saranno interventi concreti e strutturali, non si preannuncia come un anno migliore del precedente. Prima dello scorso Natale, a Firenze, il Ministro della Giustizia ha firmato un accordo con il Presidente della Regione per alcuni interventi da realizzare in Toscana, utili per alleviare i disagi e portare miglioramenti della situazione. Certo, si tratta di una iniziativa positiva, ma da questo a dire che si risolveranno i problemi del sovraffollamento detenuti ce ne corre e parecchio. Nella nostra regione sono presenti circa 4.200 detenuti che sono ospitati/stipati in Strutture Penitenziarie che però - se fossero agibili al 100% delle previsioni - potrebbero contenerne circa 3.000. Invece almeno il 30% dei posti previsti non sono disponibili per mancata agibilità delle Strutture, per ristrutturazioni in corso e/o per Reparti ormai chiusi ed interdetti dalle attività da anni. Non esageriamo quindi nel dire che i detenuti in Toscana sono "stipati" in misura di circa il 70-80 % in più dei posti realmente disponibili. Con questi numeri si capisce che anche l’ipotesi di fornitura di 500 materassi da parte della Regione può coprire solo 1/8 del bisogno. Così come parlare di progetto per 300 detenuti tossicodipendenti, a fronte di circa il 40% della popolazione detenuta con problemi di quel tipo, è poca cosa. Nessuno dice che mancano orami cose basilari quotidiane per la gestione dei detenuti. Un banale esempio ? Mancano i soldi per fornire la carta igienica e visto che quella serve ogni giorno che fare ? Anche i provvedimenti approvati all’ultimo istante dal Governo, che qualcuno definisce "svuota carceri", serviranno praticamente a niente. Se per caso con questi provvedimenti usciranno in Italia circa 3.000 detenuti, basteranno un paio di mesi per vederne rientrare almeno la metà (numericamente parlando). Nessuno spiega che talvolta, la stessa Magistratura, dispone misure alternative (che creano in certi casi anche lo sdegno della Pubblica Opinione, a fronte di reati che hanno un forte impatto percettivo sociale) perché sono i Magistrati stessi che sanno quali difficoltà possono esserci a disporre la carcerazione di certi soggetti… in poche parole che non c’è più posto dove allocare le persone condannate, oltre a quelle arrestate e/o solo fermate. Intanto sul sistema penitenziario incombono pesanti decisioni della Corte Suprema Europea di Giustizia, che ignorando il fatto che l’Italia è costretta ad organizzarsi per custodire in carcere circa 30.000 detenuti stranieri su 67.000 totali, sanziona il nostro Paese perché non assicura alle Persone detenute gli spazi necessari al requisito minimo previsto (7 metri quadrati per Persona). Quindi lo Stato cosa fa ? Per evitare i ricorsi e le sanzioni economiche, decide di avviare nuove modalità di gestione dei detenuti in carcere, disponendo di lasciare i detenuti aperti fuori dalle celle almeno 8 ore al giorno (aspetto che si doveva già fare da sempre per quanto previsto dai regolamenti, ma che non si fa perché impossibile in questa situazione di sovraffollamento conciliare diritti, attività e sicurezza) esponendo così ad ulteriori rischi l’ordine e la sicurezza interna agli Istituti di Pena e con essi anche e soprattutto il Personale Penitenziario. In aggiunta si propongono forme di vigilanza dei detenuti definita "dinamica", nel senso che, mancando Personale di Polizia Penitenziaria (ne sono in servizio 38.000 invece dei 45.000 previsti) un singolo Operatore controlla più spazi e/o più Reparti contemporaneamente. Su questo il Sindacato ha chiesto garanzie, perché nessun investimento è stato fatto ed è previsto a breve su quanto servirebbe per cambiare le modalità di gestione interna così come ipotizzato: nessuna automatizzazione di cancelli e sbarramenti, nessun nuovo idoneo sistema di video-sorveglianza, nessuna modifica alle normative penali e regolamentari circa la responsabilità del Personale sulle attività custodiali. Insomma si sbandierano novità all’insegna del "buonismo" verso la gestione delle Persone detenute mentre con il Personale le cose vanno diversamente. Si pensi che in un anno si registrano in Italia oltre 70.000 procedimenti disciplinari sul Personale di Polizia Penitenziaria (una media di 2 a testa) per i motivi più disparati e tra questi, ad esempio: l’uniforme in disordine (tra l’altro le divise vengono rinnovate solo a distanza di anni), 10 minuti di ritardo nell’assumere servizio, il mancato saluto ad un superiore gerarchico, i capelli o la barba non curati. Questo si trasforma per il Personale in una sola cosa. Sanzioni con la decurtazione per motivi disciplinari sullo stipendio. Nel frattempo il clima in carcere tra Operatori e Persone recluse non è sempre idilliaco. Le aggressioni al Personale non sono più fatti isolati, così come il fatto che il Poliziotto Penitenziario è esposto a vedersi gettare addosso ogni cosa: dagli escrementi, all’olio caldo di chi si prepara i pasti in cella, sputi, fino al sangue conseguente a comportamenti autolesionistici (se uno pensa che il 40% della popolazione detenuta ha problemi di tossicodipendenza e che di questi è altissima la percentuale di quelli che hanno correlate patologie sanitarie infettive è comprensibile in quale situazione si opera). Da tempo sono passate in secondo piano le vertenze per il mancato pagamento delle prestazioni straordinarie del Personale, così come delle missioni fuori sede per effettuare - ad esempio - le Traduzioni dei detenuti da un carcere all’altro e/o per la partecipazione ai processi nelle Aule di Giustizia. Ormai i Poliziotti Penitenziari sono più attenti a come terminare il turno di servizio senza che accadano fatti gravi, che non incorrano in sanzioni disciplinari, che non rischino finanche la loro vita. In questa situazione è per il Sindacato inaccettabile parlare quindi di sperimentazioni fantasiose, come quella di riportare fino a 100 detenuti sull’isola di Pianosa, una Struttura chiusa da oltre 15 anni, carcere che venne chiuso proprio perché incompatibile proseguire a tenerlo in quel contesto ambientale dove non assicurare dignità né ai reclusi che al Personale di Polizia. Quindi invece di pensare a progetti di rilancio agroturistico e ambientale di Pianosa, scaricando anche questo sull’impegno organizzativo di una Amministrazione (quella Penitenziaria) che non è in grado di assicurare dignità e rispetto delle regole neanche negli Istituti collegati e bene sul territorio con gli Enti Locali, la situazione potrà migliorare se le priorità di Spesa Pubblica saranno tenute ben presenti, abbandonando scelte di facciata. C’è da migliorare l’assistenza sanitaria in carcere, che la Regione Toscana tanto ha spinto perché fosse trasferita dal Ministero della Giustizia al Ssn (che poi non è più "nazionale" ma bensì concretamente "regionale") e che a distanza di anni mostra ancora pesanti lacune verso quanto deve essere assicurato alle Persone detenute. Noi confidiamo che la Politica voglia davvero occuparsi di un gravissimo problema di questa nostra Società, del Carcere, così come ogni giorno il Presidente della Repubblica invita a fare. Se però i segnali, le risposte, sono quelle dell’accordo di Firenze di pochi giorni fa, la soluzione resta lontanissima. Lazio: il Provveditore alle carceri incontra il personale; penitenziario, l’Ugl annuncia sit-in Il Tempo, 4 gennaio 2014 Dopo i "fattacci" di Capodanno che hanno visto protagonista l’utenza detenuta a Viterbo in una rissa che ha coinvolto decine di ristretti e che è terminata con il ferimento di 6 detenuti, tutti ricoverati presso l’Ospedale cittadino, quattro presso la U.O.M.P. e due in corsi stante le gravissime condizioni di salute, dovute con tutta probabilità all’utilizzo di manufatti atti ad offendere tra cui una lama rudimentale e un coltello a serramanico, il Provveditore Regionale del Lazio Maria Claudia Di Paolo, si è presentata presso l’Istituto Viterbese in segno di vicinanza al personale di Polizia Penitenziaria che ancora una volta e con la massima professionalità è riuscita a far fronte ad una gravissima criticità non del tutto nuova da queste parti. Il personale che ha avuto modo di partecipare all’incontro con il Provveditore, rimarcando il fatto che mai in passato fatti analoghi erano accaduti all’interno del Penitenziario Viterbese, ha lamentato il fatto che il mutato regime penitenziario sta permettendo alla popolazione ristretta di porre in essere simili atti, chiedendo il ritorno ad una gestione più rigorosa. Il Provveditore, pur apprezzando e ringraziando il personale per l’opera che svolge tutti i giorni presso l’Istituto situato sulla Teverina, ha tentato di smorzare i toni auspicando comprensione. Il Delegato Regionale Danilo Primi, a termine dell’incontro con il personale, ha chiesto al Provveditore e ottenuto un ulteriore colloquio nel quale ha ribadito la linea intransigente dell’Ugl, che ritiene che parte del problema sia attribuibile all’attuale gestione che ha perso quel piglio deterrente che una volta aveva, auspicando il ritorno al vecchio modello. Ha inoltre informato il Provveditore che a seguito di questo fatto e di altri occorsi nel recente passato, l’Ugl - Polizia Penitenziaria indirà un sit-in di protesta avanti alla Prefettura di Viterbo, con l’intento di informare la cittadinanza sui rischi che corre quotidianamente il personale di Polizia Penitenziaria di Viterbo, grazie ad una politica gestione della Direzione del tutto incondivisibile. Al Provveditore il Delegato Regionale, ha inoltre rappresentato che l’atteggiamento posto in essere da questa Federazione, non è assolutamente volto alla totale chiusura. Per questo di fronte a evidenti cambiamenti di rotta, si è data la disponibilità ad annullare la manifestazione programmata. "Il Provveditore - si legge nella nota del delegato Ugl Danilo Primi - pur esprimendo la propria contrarietà circa la manifestazione, ha preso atto della nostra volontà, totalmente tesa a tutelare il lavoro, la professionalità e la dignità dei Poliziotti Penitenziari di Viterbo. Riteniamo comunque che sia doveroso porgere al Provveditore i nostri più sentiti ringraziamenti per la tempestività con cui si è recato presso l’Istituto, per ascoltare la voce di chi onora giornalmente il Corpo di Polizia Penitenziaria a Viterbo. Nel frattempo siamo venuti a conoscenza che a seguito dei fatti successi ultimamente, anche un’altra O.S. ha indetto lo stato di agitazione. Ciò non fa che confermare la bontà della nostra decisione di mantenere le promesse prese con tutti voi nel luglio scorso e rinnegate da tutti gli altri. Ivrea (To): carceri assassine, è avvenuto oggi il primo suicidio del 2014 di Roberto Malini www.imgpress.it, 4 gennaio 2014 Le galere italiane, come tutta la macchina della giustizia, sono le membra di un mostro che produce desolazione, violenza, esclusione, umiliazione e morte. Sentenze fatali - e comunque quasi sempre sproporzionate rispetto alle colpe dei condannati, visto che il carcere, in Italia, è l’inferno - risuonano in tutti i tribunali, luoghi lontani anni luce dalla vera giustizia, che significherebbe recupero, reinserimento e - sempre - rispetto dell’essere umano. È già suonata la prima campana a morto nelle prigioni. Un altro detenuto, il 42enne Francesco Scarcella, originario di Castellamonte, annientato dal mostro, ha scelto la morte per sottrarsi all’orrore. È accaduto nel primo pomeriggio di oggi, all’interno del carcere di Ivrea. Si è suicidato nel carcere di Ivrea (Torino) Francesco Scarcella, 42 anni, originario di Castellamonte. È successo oggi, intorno alle 14,30. L’uomo, in carcere per estorsione, è stato trovato impiccato alla grata del bagno della cella con un sacchetto di cellophane attorcigliato e fatto passare attraverso le sbarre . Secondo quanto si apprende non avrebbe lasciato alcun biglietto per spiegare il suo estremo gesto. Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, nell’osservare che si tratta del primo suicidio in carcere del 2014, aggiunge: "Purtroppo dimostra quanto la polizia penitenziaria, grazie alla sordità della Guardasigilli rispetto alle esigenze organiche del Corpo, possa fare sempre di meno per prevenire gesti estremi". Verona: morto detenuto malato psichiatrico a pochi giorni dalla fine pena L’Arena, 4 gennaio 2014 La fine sfortunata di una vita che la buona sorte non l’ha quasi mai frequentata. La si può raccontare così la morte, per cause naturali, di una persona che stava per rivedere finalmente la luce dopo un lungo periodo vissuto fra pene detentive e cure psichiatriche: una "reclusione" che si stava concludendo nel Basso veronese. L’uomo, 67 anni, originario del Padovano, aveva scontato la sua pena all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia prima di venire trasferito a Ronco, nella comunità Casa don Girelli. Una struttura che costituisce una delle prime realtà con le quali è stata data applicazione alle normative che prevedono il superamento dei cosiddetti Opg e la loro sostituzione con luoghi volti alla cura e alla riabilitazione di chi ha compiuto reati essendo affetto da problemi psichiatrici. Proprio in questa comunità innovativa, i cui ospiti non sono certo considerati detenuti, tanto da affrontare al suo interno percorsi di recupero personalizzati, l’uomo era arrivato qualche tempo fa. Alla Casa, infatti, doveva trascorrere la parte finale della sua condanna, realizzando un percorso che l’avrebbe presto visto reinserirsi nella società. L’opportunità di dare una svolta alla sua vita, l’uomo non è però riuscito a coglierla, proprio quando era ormai alla sua portata. La sorte ha stabilito che la morte precedesse la sua liberazione. Agrigento: carceri "stracolme", un sit-in davanti al carcere di Contrada Petrusa Giornale di Sicilia, 4 gennaio 2014 "Dopo aver partecipato alla marcia di Natale di Roma torneremo davanti alle carceri siciliane già dagli inizi del 2014 per chiedere al Parlamento indulto e amnistia subito. Due provvedimenti di clemenza che dopo la condanna della Corte di Strasburgo sono urgenti e necessari e che rappresentano solo un primo passo, e non la soluzione definitiva, al problema del sovraffollamento carcerario in Italia". A parlare è Antonello Nicosia, di Sciacca, direttore del centro studi "Pedagogicamente" e candidato come Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia. "Ad Agrigento faremo un’iniziativa davanti al carcere di contrada Petrusa tra Capodanno e L’Epifania, poi andremo a fare dei sit-in davanti alle carceri di Sciacca e Castelvetrano. A indulto e amnistia però vanno accompagnate misure che puntino alla rieducazione dei detenuti ma anche alla modifiche di leggi come la Bossi-Fini sull’immigrazione clandestine o la legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere". Sollecitiamo al presidente della Regione siciliana la nomina del Garante dei diritti dei detenuti, l’ufficio risulta scoperto dallo scorso settembre. Il presidente Rosario Crocetta non si è mai occupato da governatore delle carceri siciliane pur essendo più volte sollecitato - afferma Nicosia". "In questo senso - aggiunge il direttore del centro studi "Pedagogicamente" - il 2014 però potrebbe essere l’anno della svolta in Sicilia, perché l’assessore alla Formazione Nelli Scilabra, in un incontro avuto nei giorni scorsi, ci ha detto che si impegnerà per istituire un tavolo scientifico". Firenze: carcere di Sollicciano, la protesta dei materassi buttati a terra nei corridoi allagati Corriere della Sera, 4 gennaio 2014 Perfino dormire è diventata una condanna. È questo il messaggio che hanno voluto lanciare stamattina i detenuti di Sollicciano, gettando fuori dalle celle i materassi dei loro letti, consumati dal tempo e ritenuti inadatti al riposo. Una protesta non nuova per l’istituto penitenziario fiorentino - nonostante gli investimenti per materassi nuovi effettuati recentemente dalla Regione - cui ha assistito anche Alessia Petraglia, senatrice di Sel che proprio si trovava in visita al carcere. Amaro il suo commento: "I materassi hanno etichette risalenti al 2005, sono gialli, sottilissimi e sporchi". I materassi sono stati buttati dai carcerati in mezzo ai corridoi, allagati dalla pioggia caduta ieri: "Era tutto bagnato - ha continuato Petraglia - le pareti verdi per l’umidità, gli agenti penitenziari costretti a portare i cappellini di lana per ripararsi dal freddo". E poi i bagni: "Arrugginiti, impresentabili, alcuni senza acqua calda a detta dei detenuti". E ancora, "i pasti scadenti preparati in cucine inadeguate rispetto al numero di detenuti. Qualcuno può permettersi il lusso di acquistare il cibo e prepararselo per conto proprio, ma sono sempre meno quelli che possono farlo a causa di un prezzario altissimo rispetto alle reali possibilità economiche". A questo, prosegue la senatrice, "si aggiunge l’assenza di occasioni di lavoro offerte ai detenuti, un modo per guadagnare qualcosa, ma anche e soprattutto per prepararsi al reinserimento nella società". Per tutti questi motivi, Petraglia nei prossimi giorni scriverà alla ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri "per chiedere provvedimenti immediati e concreti per Sollicciano che vadano oltre le buone intenzioni. Occorre intervenire subito, perché quanto sta accadendo nelle nostre carceri è intollerabile ed indegno di un Paese che voglia dirsi civile". Napoli: 139 giorni in carcere da innocente, Enzo Mascia racconta l’inferno di Poggioreale Primo Piano Molise, 4 gennaio 2014 "Sono morto 139 volte. Sono morto ogni giorno trascorso dietro le sbarre di Poggioreale. E ancora non so perché, qualcuno dovrà prima o poi spiegarmelo". Un inferno quello vissuto da Enzo Mascia, dipendente della Provincia di Campobasso originario di Cercemaggiore, che il 2 febbraio del 2013 è finito in carcere con un’accusa infamante, una "macchia" che rende la cella molto peggio di quello che è: violenza sessuale su minore. Pedofilia. Enzo oggi chiede giustizia, chiede che il suo nome venga riabilitato. Sì, perché il 16 dicembre scorso (il pm aveva chiesto 10 anni di reclusione), il Gup del Tribunale di Napoli lo ha assolto "per non aver commesso il fatto". Una sentenza che rende giustizia ad un uomo, un padre, a cui un giorno il mondo è crollato addosso senza ragione. Ma che non potrà mai cancellare l’umiliazione subita e quei quattro mesi e mezzo trascorsi nel carcere partenopeo, "dove - ricorda tra le lacrime - quando mi andava bene erano sputi e insulti. Altrimenti botte. Botte da orbi, dal primo all’ultimo giorno". È la legge dei penitenziari, regole non scritte ma subito messe in chiaro dai detenuti: se entri con l’accusa di aver approfittato di una bimba non hai scampo, "ti trattano come una larva umana, peggio di un appestato". Il 2 febbraio è sabato, fa freddo. Enzo riceve una telefonata dalla Questura di Campobasso. Gli agenti gli chiedono di raggiungerli in fretta in via Tiberio e gli consigliano di presentarsi con l’avvocato perché devono notificargli un atto. Lui esegue alla lettera. Trova i poliziotti di Campobasso che conosce ma ci sono anche quelli di Napoli, in particolare ricorda due donne. Quando gli comunicano che stanno per arrestarlo, e le ragioni del mandato, pensa ad uno scherzo. Ma in pochi istanti realizza quanto sta accadendo. Legge in fretta l’ordinanza di custodia cautelare, capisce che probabilmente c’è un errore. Ma non basta. La Polizia di Campobasso lo conforta, gli agenti gli spiegano che avrà modo di chiarire la sua posizione al gip in occasione dell’interrogatorio di garanzia, ma l’arresto va eseguito. Lo fanno salire in auto e lo trasferiscono a Benevento dove altri poliziotti lo prendono in consegna per portarlo fino alla Questura di Napoli. Qui resta il tempo necessario agli adempimenti e poi agenti in borghese lo accompagnano a Poggioreale. L’accoglienza non è delle migliori, già la Penitenziaria lo tratta in malo modo. Appena varca il portone del carcere arrivano le prime sberle in volto perché "il carcere cammina così". Il primo impatto con la cella è devastante: 24 metri quadrati (6 metri per 4), 12 letti, 10 sgabelli, tre tavoli e un bagno (si fa per dire), da dividere in nove. Con sé ha un rotolo di carta igienica e una coperta. La temperatura è rigida. "Non conosco parole per descrivere quell’inferno" - ma al solo accenno le lacrime scendono di nuovo. In 139 giorni Enzo riempie 370 pagine di block notes. Scrive. Mette nero su bianco tutto quello che gli passa per la testa. Scrive tutto quello che gli accade. Gli insulti, le botte. "Tra i miei compagni di cella ce n’era uno che pretendeva che mangiassi a terra. Perché per lui ero un lurido che aveva approfittato di una bambina". A questo punto occorre fare un passo indietro. Enzo Mascia viene arrestato (insieme ad altre persone) perché secondo l’accusa ha avuto rapporti sessuali con una 34enne di Napoli. La donna, pare tossicodipendente, sempre secondo la ricostruzione della procura partenopea, è solita far partecipare la figlia, 7 anni, agli incontri con i suoi clienti. Secondo l’accusa la piccola avrebbe riconosciuto tra i clienti della madre e tra coloro che abusano di lei anche il dipendente della Provincia di Campobasso. Riconoscimento avvenuto attraverso una foto (presente nel fascicolo), ovvero, una vecchia fototessera (probabilmente di una carta d’identità vecchia più di 10 anni) peraltro fotocopiata e poco nitida. "Ad avvalorare la tesi - racconta Enzo - un tabulato dal quale risultano alcune telefonate tra me e la donna. Attenzione - evidenzia - risulta agli atti processuali che dalla sua utenza sono partite telefonate verso il mio cellulare, ma non è mai stato trascritto il contenuto delle conversazioni". Va ulteriormente detto che la 34enne per un lungo periodo ha vissuto insieme alla figlia a Cercepiccola ed è molto conosciuta a Campobasso. Nulla di strano dunque: magari la donna chiama Enzo per un saluto o per bere una birra. O, perché no, per proporgli una serata galante (non è reato). Ma secondo gli inquirenti non è così: Enzo Mascia, 52 anni, ha approfittato della piccola. Lui è certo che qualcuno ha preso un abbaglio. Insieme al suo legale, Domenico De Rosa del foro di Napoli, prepara la strategia difensiva e aspetta l’interrogatorio di garanzia. Arriva il tanto atteso giorno, ma il gip non vuole ascoltare ragioni: "La bambina ti ha riconosciuto", gli dice e lo rispedisce in cella. Il legale di Mascia acquisisce intanto nuovi elementi e propone appello alla decisione, ma la risposta è la medesima. I giorni passano sempre più lentamente. Tra insulti e botte. "In quattro mesi e mezzo sono uscito dalla cella solo quattro volte e l’ho fatto perché mi hanno costretto. Incontrare altri detenuti equivaleva all’inferno nell’inferno. Tutti avevano qualcosa da rimproverarmi e nessuno sembrava voler comprendere le mie ragioni, ascoltare la verità. La cosa che mi faceva più male di tutte era come giustificare a mia figlia quanto mi era accaduto, avevo paura che potesse non credermi. Un giorno, poi, mi hanno consegnato una sua lettera". La mostra con orgoglio, legge le prime righe e le lacrime scendono di nuovo giù copiose: "Torna presto papà, torna ad abbracciarmi, lo so che sei innocente". "Quelle parole mi hanno dato fiducia, mi hanno ridato la forza". Adesso le speranze convergono tutte nell’incidente probatorio. La procura lo fissa per i primi giorni di marzo. Si svolge in un ambiente protetto. Ci sono, tra gli altri, l’assistente sociale che si occupa della bimba (la stessa che pare abbia fatto partire le indagini), i consulenti di tutte le parti, i legali. "Eravamo più o meno 35/40. Ognuno di noi aveva in mano un numero. Sfilavamo uno alla volta dietro un vetro". Su circa 40 persone la bimba riconosce quattro volte l’uomo che abusava di lei: nessuno di quelli che indica, però, è Enzo Mascia. E peraltro riconosce quattro persone molto diverse fisicamente l’una dall’altra. Il quadro accusatorio, dunque, comincia a traballare. Ma non è tutto, poiché alla bimba viene chiesto nella stessa circostanza di fornire una descrizione di Enzo: "È alto (il nostro misura un metro e 67 centimetri), ciccione e pelato (Enzo Mascia è magrissimo e ha i capelli), ha peli e tatuaggi su tutto il corpo (lui non ha tatuaggi, né peli). E - dettaglio non trascurabile - le sue mani sono grandi". Particolare importantissimo perché Enzo, in conseguenza di un incidente avvenuto 30 anni fa, ha una mano menomata, ovvero, gli mancano tre dita. E non è tutto, perché il nostro ha pure una vistosissima cicatrice dallo sterno all’inguine di cui la bimba non fa menzione, nemmeno dietro sollecitazione. L’esito dell’incidente probatorio rincuora Enzo Mascia e il suo legale, che avanza immediatamente un’altra istanza di scarcerazione. Ma niente da fare. "Ci hanno risposto che le ferite sono successive ai fatti contestati e che se la piccola non ricorda alcuni particolari è perché i bimbi sono portati a rimuovere le cose brutte". A questo punto non resta che il Tribunale del Riesame, ma anche qui gli esiti non sono positivi per il 52enne di Cercemaggiore. L’avvocato fa appello alla decisione e gli fissano una nuova udienza per il 28 maggio. Enzo chiede tuttavia la cortesia di non essere presente "perché ogni volta che ti cacciano da Poggioreale è uno strazio. Devi essere pronto la mattina alle 6. Vengono a prenderti le guardie e ti portano in una cella dove resti fino alle 9. Mentre sei lì chiunque passa ti insulta. Poi ti ammanettano e ti trasferiscono in una stanzetta di sicurezza del tribunale dove resti fino all’udienza. È anche lì è un inferno. Dopo i 10 minuti di confronto con i giudici ti ritrasferiscono nella celletta del Palazzo di giustizia e ti fanno aspettare fino a sera tardi, fin quando qualcuno viene a riprenderti per riportarti in carcere. Allora il mio avvocato si fece autorizzare, venne a Poggioreale e mi fotografò la mano invalida e la cicatrice sul petto". E qui pare che la sfortuna si sia davvero accanita con il 52enne. "Il presidente del collegio guardò le foto, ma al legale disse di non fidarsi troppo della tecnologia. Portatemelo qui, disse a De Rosa, voglio vedere da vicino. Tuttavia acquisì agli atti processuali le cartelle cliniche ritrovate a Campobasso dopo una lunga e complicata ricerca che certificavano sia l’incidente alla mano e sia l’operazione subita allo stomaco, entrambi risalenti a circa 30 anni fa". Nuova udienza il 13 giugno (giovedì). Altri 17 giorni d’inferno e angoscia. "Pensavo che se mi fossi presentato il 28 maggio davanti ai giudici del Riesame probabilmente mi avrebbero rimesso in libertà. Non riuscivo a perdonarmi l’imprudenza commessa". Intanto, dopo ulteriori e dolorosi giorni trascorsi in cella, arriva pure il giorno della seconda udienza. Fatta tutta la trafila, Enzo arriva davanti ai giudici. Nota subito che l’avvocato è avvilito, è scuro in volto: hanno cambiato il collegio. I magistrati - il nostro ne conta sette - sono donne, tutte. "In quel momento ho capito che ormai l’unica via di salvezza era il processo. Pure il legale al termine dell’udienza mi chiede di avere pazienza, coraggio e di attendere con fiducia il rinvio a giudizio e la data dell’udienza". Enzo rientra in cella e si capacita che ha il destino segnato. Il mercoledì successivo, è il 19 giugno, vanno a trovarlo i suoi familiari che nel frattempo hanno incontrato l’avvocato Domenico De Rosa. Pure loro lo invitano ad avere pazienza ed aspettare il processo. Sono istanti interminabili in cui l’uomo cerca di farsene una ragione, ma è complicato. "Mi sentivo impotente, è come se il mondo fosse finito. Pensavo ad un brutto incubo, ma era tutto vero". È ancora il 19 giugno, sono le 20.30 circa. Un agente del carcere lo chiama. Lo fa uscire dalla cella e lo porta al posto di guardia. Gli chiede le generalità, si accerta della sua identità. Lui pensa a nuovi guai, pensa che lo hanno fatto uscire per l’ennesimo pestaggio. Sta per chiedere pietà quando l’agente gli comunica che il Riesame ha deciso che può lasciare Poggioreale. "Vai a prendere la roba che torni a casa", gli dice. "Ho pianto come un bambino. Sentivo brividi di freddo nell’anima ma sudavo come fosse il mese di agosto. Sono scappato verso la cella, ho salutato i compagni e sono fuggito via da qual postaccio". Particolare di non poco conto: il Riesame non stabilisce alcuna misura restrittiva (alternativa al carcere) per Mascia. In buona sostanza, nonostante le gravi accuse mosse dal pm, l’uomo viene rimesso in completa libertà. Per intenderci, fino alla data del processo non ha alcun obbligo, nemmeno quello di non allontanarsi dal paese di residenza. Dopo un paio di rinvii, il 20 novembre si presenta davanti al gup del tribunale di Napoli avendo scelto il rito abbreviato (confortato anche dalla decisione del Riesame), che lo ha assolto per non aver commesso il fatto. La sentenza arriva il 16 dicembre scorso e porta la firma della dottoressa Cimma. Adesso Enzo e il suo legale sono in attesa di leggere le motivazioni, ma è intuibile che qualcuno dovrà pagare per il torto subito e per il danno arrecato. Un torto terribile e molto difficile da giustificare. Lui non si capacita. Non si è trattato di uno scambio di persona e la pratica nemmeno può essere liquidata facendo ricorso all’errore giudiziario. E poi è lecito chiedersi: perché tanto accanimento? Perché dopo l’esito dell’incidente probatorio non è stato rimesso in libertà nonostante era evidente che mancavano gli indizi di colpevolezza? Tutte domande per le quali la vittima di questo assurdo caso aspetta una risposta. "La devono a me, la devono a mia figlia, ai miei fratelli e alle mie sorelle. La devono a mio padre che è morto mentre ero in carcere e non mi hanno consentito nemmeno di partecipare ai suoi funerali". Enzo un’idea di massima se l’è fatta, ma preferisce tenerla per sé. "Avremo modo di riparlarne" - dice prima di lasciare la redazione. Il suo è un urlo di dolore a cui è giusto dare voce. Allo Stato l’onere di capire perché ciò è accaduto e di restituire dignità a un uomo che non ha nemmeno la colpa di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ha solo subito un’accusa di quelle che lasciano il segno. Sul corpo e nell’anima. Perugia: assistenza sanitaria in carcere; medico e infermieri 24 ore su 24, consulenze e screening Ansa, 4 gennaio 2014 Garantisce assistenza sanitaria 24 ore su 24, con medico e infermieri, ma anche consulenze specialistiche e screening per alcuni tumori la Usl Umbria 1 grazie al suo presidio all’interno del carcere di Capanne, a Perugia. Un "modello di eccellenza in tutto il centro Italia, in termini di qualità e quantità delle prestazioni erogate e in termini di attenzione a 360 rivolta all’utente" sottolinea l’azienda in una nota. "L’assistenza sanitaria fornita al detenuto dal presidio sanitario penitenziario - spiega il direttore generale della Usl Umbria 1 Giuseppe Legato - è accurata e capillare e viene garantita al pari del cittadino libero. Tutto il personale è addestrato a far fronte ad evenienze di emergenza-urgenza e collabora attivamente con l’amministrazione penitenziaria, con l’area cosiddetta trattamentale e con le associazioni di volontariato che vi operano, con lo scopo non soltanto di garantire un’assistenza adeguata ma anche di rendere meno opprimente la permanenza in carcere". Nel carcere di Capanne, che attualmente ospita 437 detenuti di cui 57 donne, di età media 35-40 anni, tutti i giorni tre medici di sezione ricevono in ambulatorio i detenuti. Inoltre vengono fornite consulenze specialistiche interne (per odontoiatria, cardiologia, ecografia, tele radiologia, ortopedia, infettivologia, oculistica, chirurgia generale, ginecologia e ostetricia, pediatria), attività diagnostico-terapeutiche, assistenza protesica e farmaceutica, attività vaccinale e consulenza pediatrica ai bambini di età compresa tra zero e 3 anni, quando presenti in istituto con la madre. Molto curato è anche l’aspetto della prevenzione. L’Usl garantisce infatti screening dei tumori femminili e del colon retto. Inoltre - prosegue la nota -, "grande attenzione" è dedicata alle attività che riguardano la consulenza psichiatrica e il sostegno psicologico e, nell’ambito delle attività del Sert, la consulenza e il sostegno per le dipendenze patologiche da alcol e droghe. Attivo anche il servizio di mediazione culturale per venire incontro alle esigenze dei numerosi detenuti stranieri. "Tutto il personale del nostro servizio è impegnato a fornire assistenza sanitaria nel migliore dei modi, senza trascurare nessuno e indipendentemente dal tempo di permanenza in carcere degli utenti. Non esistono pregiudizi legati alle cause della detenzione, alla religione o alle diverse culture" sottolinea Simona Castoldi, responsabile per il Sitro (Servizio infermieristico tecnico riabilitativo e ostetrico) del presidio sanitario. "Un ruolo importante - aggiunge - è rivestito dagli infermieri che, oltre ad occuparsi di attività meramente tecniche (ad es. la somministrazione delle terapie, la cura delle ferite, il controllo dei parametri vitali e altro), con il loro operato contribuiscono ad attenuare lo stress psicologico legato alla detenzione". Taranto: il Consigliere regionale Fabiano Amati visita il carcere "celle di 3 metri quadri" Gazzetta del Mezzogiorno, 4 gennaio 2014 "Nonostante gli sforzi del personale penitenziario, alla fine il problema è sempre lo stesso: il sovraffollamento. Tre detenuti, generalmente, in celle non più grandi di tre metri quadrati. Non penso proprio che l’Italia riuscirà entro maggio, così come è stato intimato dall’Unione Europea, a riportare a legalità il proprio sistema carcerario". Lo dichiara il Consigliere regionale Fabiano Amati, che questa mattina ha visitato il carcere di Taranto, accompagnato dalle Radicali pugliesi Annarita Di Giorgio e Maria Rosaria Lo Muzio. "Non è la prima volta - ha continuato Amati - che visito le carceri pugliesi esercitando le mie prerogative di Consigliere regionale. In passato ho già visitato le carceri di Brindisi e Lecce. Non mi sembra tuttavia che vi siano grandi differenze. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: edifici strutturalmente idonei, il più o il meno è relativo alla data di costruzione, rese difficilmente vivibili da sovraffollamento e dalle necessità mai tempestivamente appagate di manutenzione straordinaria. Nel caso di Taranto capita, in più, che le necessità di dotarsi di nuovi padiglioni vengano appagate sacrificando gli spazi aperti. Insomma, ciò che si recupera da una parte si perde dall’altra. Continuerò le mie visite nelle altre carceri pugliesi, proponendo l’iniziativa al mio gruppo politico, ma sono ormai convinto che sia necessaria una scelta non più procrastinabile tra due soluzioni: o un piano straordinario di edilizia carceraria o due leggi, una di clemenza e l’altra di riduzione del ricorso alla custodia cautelare, che riportino a legalità europea i nostri standard, escludendo dai destinatari dei provvedimenti, ovviamente, i soggetti particolarmente pericolosi e che si siano macchiati di gravi delitti." Parma: Roberto Cavalieri nominato Garante comunale per i diritti dei detenuti Parma Today, 4 gennaio 2014 Con una delibera di giunta approvata il 31 dicembre 2013 l’Amministrazione ha stabilito di assegnare per un anno le funzioni al coordinatore dello Sportello informativo e di mediazione culturale rivolto ai detenuti. Il Comune di Parma ha istituito la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Con una delibera di giunta approvata il 31 dicembre 2013 l’Amministrazione ha stabilito di assegnare, in via sperimentale e per la durata di anni 1 dall’avvio, le funzioni del Garante del Comune di Parma al dott. Roberto Cavalieri, coordinatore dello Sportello informativo e di mediazione linguistico-culturale, un servizio rivolto ai detenuti che si pone l’obiettivo di far conoscere alla popolazione carceraria le norme per l’accesso ai servizi del Comune di Parma. Per questo ruolo ha un incarico professionale da parte di Mediagroup fino al 2016. Termini Imerese (Pa): Magistratura di Sorveglianza accerta violazioni dei diritti umani in carcere Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2014 "Accertate dalla Magistratura di Sorveglianza le violazioni dei diritti umani nel carcere di Termini Imerese, esposte dal Garante per i diritti dei detenuti, On.le Salvo Fleres, e dal Presidente dell’Associazione Nazionale Forense, Avv. Vito Pirrone". Il Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Siciliana, On.le Salvo Fleres, con l’Associazione Nazionale Forense, ha presentato un ricorso alla Magistratura di Sorveglianza di Palermo, avverso le condizioni di vita inumane e degradanti all’interno del Carcere di Termini Imerese, ricorso che è stato accolto. L’ordinanza ingiunge alla Direzione della Casa Circondariale di Termini Imerese, al Provveditorato regionale e al Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria di adottare gli opportuni provvedimenti per rimuovere le riscontrate violazioni dei diritti dei detenuti concernenti il rispetto dello spazio vitale all’interno delle celle, il diritto ad occupare le celle con compagni non fumatori, il diritto ad adeguati periodi di tempo all’esterno delle celle, fruendo della c.d. socialità, il diritto all’uso adeguato dei bagni e docce e gli altri oggetti necessari alla cura e alla pulizia della persona, e le altre circostanze meglio indicate nella parte motiva del ricorso, e di assumere tutte le iniziative necessarie a garantire condizioni di detenzione conformi ai parametri previsti dal quadro normativo di riferimento. "Si tratta di un provvedimento, afferma l’Avv. Pirrone, che conferma l’operato dell’ex Garante a tutela dei diritti dei detenuti, On.le Salvo Fleres, che si allinea ai precedenti pronunciamenti della Magistratura di Sorveglianza siciliana, in relazione ai ricorsi da noi proposti". Conclude l’avv. Pirrone che "l’assenza del Garante in Sicilia bloccherà l’attuale percorso, e non si potrà seguire l’effettiva attuazione di tali provvedimenti. Sarebbe auspicabile che il Presidente della Regione voglia confermare l’On.le Salvo Fleres nell’incarico di Garante dei diritti dei detenuti, al fine di proseguire il percorso intrapreso per una effettiva applicazione dei diritti umani all’interno delle strutture penitenziarie". Larino (Cb): prodotti per igiene personale, biancheria e vestiario per la Befana dei detenuti www.termolionline.it, 4 gennaio 2014 "Soccorrere è un atto di giustizia prima ancora che un atto di carità" (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima, 2008). Ormai sta diventando una felice tradizione annuale: la Parrocchia di San Timoteo, in collaborazione con la Iktus Onlus, organizza "La Befana del Detenuto". Durante la giornata del 6 gennaio i fedeli che si recheranno alla celebrazione delle messe: ore 08,30 - 11,00 - 18,00 potranno portare prodotti per l’igiene personale (sapone, dentifricio, dopo barba, shampoo, ecc.) biancheria intima e vestiario nuovo da destinare alla popolazione carceraria della Casa circondariale di Larino. Stimolati dal desiderio di fare del bene, di rendersi presenti ed operativi per il sollievo di chi soffre o è in difficoltà, chi vorrà potrà consegnare il segno della personale sensibilità depositandolo, durante la messa, al momento dell’offertorio, ai piedi dell’altare. Ad immagine dei primi cristiani, che come raccontano gli Atti degli Apostoli. "Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano il ricavato fra tutti, secondo le necessità essenziali di ciascuno."; "La comunità dei credenti viveva unita e… tutto quello che avevano lo mettevano insieme… Tra i credenti nessuno mancava del necessario, perché quelli che possedevano campi o case li vendevano, e i soldi ricavati li mettevano a disposizione di tutti…, e poi venivano distribuiti a ciascuno secondo le sue necessità." (Atti 2, 44-45; 4, 32.34-3). Fare del bene bonifica se stessi e benefica i fratelli, ristabilisce la giustizia che diventa amore condiviso e attenzione donata. San Paolo scriveva a Timoteo suo figlio prediletto nella fede: " A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere; così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera." (1Tm. 17-19). La vera economia è la gratuità. Modena: il Garante regionale dei detenuti Desi Bruno “ora l’ex Cie ai detenuti” La Gazzetta di Modena, 4 gennaio 2014 Chiuso il Cie di Modena, ora "sarebbe ragionevole" sfruttare la struttura per le misure alternative al carcere, a partire dal lavoro per i detenuti. a chiederlo è Desi Bruno, il Garante regionale dei detenuti, che in una nota commenta con soddisfazione la decisione del ministero degli interni. “La chiusura a Modena è un fatto positivo - afferma Bruno - e costituisce la presa d’atto di una situazione non più sostenibile per le persone trattenute e per coloro che vi lavoravano”. Ora dunque “sarebbe ragionevole che la struttura, per la vicinanza al carcere, fosse utilizzata per favorire l’accesso a misure alternative mediante la creazione di alloggi o impiegata per attività lavorative”. La Garante ricorda le “condizioni di degrado e di violazione dei diritti umani” all’interno del Cie modenese, “in particolare dopo l’assegnazione all’ultimo ente gestore a seguito di una gara al massimo ribasso con base d’asta fissata in 30 euro pro-capite, che ha provocato un netto peggioramento del clima all’interno, con incremento degli atti di autolesionismo e aumento della conflittualità”. Per la garante, dunque, è “doverosa la chiusura a Modena, se a queste persone non si riesce ad assicurare un trattamento umano e rispettoso della dignità”, ovvero “cibo, vestiario, assistenza medica e psicologica, mediazione culturale, come prevede la legge”. Secondo Bruno è giunto il momento per una “riflessione" più ampia "sul tema dei migranti e sulla funzione e utilità di questi centri”. La Garante insiste sulla necessità di "lavorare su altri fronti, come il rimpatrio assistito, la corretta identificazione delle persone da espellere in carcere, come prevede l’ultimo decreto cancellieri, espulsioni che si realizzano se e in quanto esistano e siano operanti gli accordi di riammissione con i paesi interessati. Ma soprattutto- avverte bruno- bisogna ripensare il meccanismo di ingresso previsto dalla legge Bossi-Fini”. Catania: a Piazza Lanza Sartre parla siciliano, i detenuti mettono in scena “Racconto di Natale” di Giuseppe Di Fazio La Sicilia, 4 gennaio 2014 Alfio, Davide, Gianluca, Aneta, Salvatore, Mirko, Giovanni e Francesco attori per un giorno, in un teatro d’eccezione: il carcere di Piazza Lanza a Catania. Le repliche si susseguono, per permettere a tutti i reclusi di poter assistere. Fino all’ultima, la più toccante, quella realizzata in parlatorio e destinata ai familiari degli attori. Questi, in carcere ci vivono. Alcuni in attesa della prima sentenza, altri dell’appello. Il testo rappresentato è un’opera teatrale poco conosciuta di Jean-Paul Sartre: “Bariona o il figlio del tuono”, che l’intellettuale francese scrisse, e rappresentò, nel 1940 per i suoi compagni di prigionia a Treviri. Il tema è la possibilità della speranza nella condizione della sottomissione a un potere straniero, ma anche nella condizione del carcere paradigma della vita. Il racconto di Sartre è ambientato in Giudea, sotto l’oppressione romana, al tempo della nascita di Gesù. Il protagonista, Bariona, è un capo villaggio ribelle e disperato, che riconoscendo l’impossibilità del suo popolo di contrapporsi all’Impero, indica una estrema forma di resistenza: non fare più figli, così si assottiglierà sempre più il numero di quanti pagheranno le tasse. Il Bariona della rappresentazione di Piazza Lanza è Salvatore, detenuto con una condanna pesante, ma che nel carcere paradossalmente ha ritrovato speranza: ha cominciato a studiare, a usare il computer, a riprendere consapevolezza della propria dignità. Salvatore s’immedesima nel personaggio, perché, in fondo, Bariona è un leader che ha anche un cuore. Può vivere a Betlemme, come a Paternò. Può ordinare di non far nascere più figli, ma la scelta diventa per lui drammatica quando scopre che sua moglie è incinta. E, ancor di più, quando vede il Bambino Gesù nella grotta di Betlemme. I vari quadri del dramma di Sartre sono accompagnati, nella rappresentazione messa in scena a Piazza Lanza, da canti in siciliano della novena di Natale. “Ni mancaunu palazzi/ pilure di la natura - cantano gli attori - E nasciu ‘nta li strapazzi/ di na povera manciatura. / ‘Nti dda povira manciatura/ parturiu la gran Signura/ ‘mmenzu u voi e l’asineddu / fici a Gesu Bammineddu”. Nel ruolo di Sara, moglie di Bariona, recita una eccellente Aneta, polacca. Che, nell’ultima parte del racconto, dà voce in maniera commovente anche alla Vergine Maria: “Questo è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e la forma della bocca è la mia. Il racconto di Sartre messo in scena a Piazza Lanza Nella foto in alto il momento finale della rappresentazione con il protagonista Bariona, “ribelle-disperato”, che s’inginocchia davanti al Bambino Gesù. Al centro, il monologo di Maria (Aneta). Qui sopra, la direttrice dell’Istituto di Piazza lanza, Elisabetta Zito e il comandante delle guardie carcerarie Salvatore Tramontana (Le foto sono di Davide Anastasi) Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia”. Di fronte al Bambino, Bariona-Salvatore si commuove e s’inginocchia. E la sua disperata ribellione si traduce in speranza. “Lloria, lloria a Diu ch’è natu, lu Bambinu disidiratu”, cantano gli attori in conclusione e il pubblico, fatto in gran parte da detenuti, s’accoda. Alla fine un grande applauso saluta gli attori e il gruppo dei volontari che ha permesso la rappresentazione. Il regista è Alfio Pennisi, preside del liceo “Spedalieri” a Catania, i chitarristi e tecnici del suono sono due studenti universitari Pietro Cagni e PaoloTorrisi. Nello spazio temporale tra una rappresentazione e l’altra abbiamo l’opportunità di conversare con la direttrice dell’istituto, la dottoressa Elisabetta Zito e con il comandante della polizia penitenziaria, Salvatore Tramontana. E di visitare il carcere, conosciuto negli anni passati come una delle “vergogne d’Italia”. I numeri fotografano da soli una novità: a fine 2011 i detenuti presenti erano quasi 600 a fronte di una capienza regolamentare di 155. Oggi i detenuti sono 460, con una capienza di 300. Da 10-12 reclusi per cella, di due anni fa, oggi ne troviamo 6-7. Resta aperto il problema della carenza del personale di polizia penitenziaria, che avrebbe bisogno di altri 180 agenti. Ma, oltre ai numeri, è cambiato il clima dentro il carcere. Grazie a tanti volontari (fra di loro insegnanti, ingegneri, dirigenti scolastici, universitari), al lavoro assiduo del cappellano don Francesco Ventorino, alle iniziative del Centro Astalli, che gestisce la biblioteca e un Banco Vestiario, e all’attività encomiabile scolastica istituzionale. Il tutto, in una sinergia, che è difficile riscontrare altrove. Il cambiamento di Bariona non tocca solo il personaggio di Sartre, si incarna anche nelle storie concrete di Alfio, Davide, Gianluca, Aneta, Salvatore, Mirko, Giovanni e Francesco attori per un giorno, in un teatro d’eccezione, e di tanti loro compagni di pena. “Per noi - ci dice congedandoci la direttrice Zito - poter recuperare alla speranza e a una vita futura dignitosa anche un solo detenuto è sempre una vittoria”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): derubata a colloquio in carcere, scassinata cassetta sicurezza Adnkronos, 4 gennaio 2014 Si reca nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a trovare un parente detenuto e mentre è a colloquio con questi viene derubata della borsa che aveva lasciato in una delle cassette di sicurezza per il deposito degli effetti personali, ubicate all’esterno del perimetro della struttura carceraria. Autrici del furto con scasso, sono due donne, anch’esse in quella struttura per un colloquio con familiare detenuto, che sono state arrestate dai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere. Recuperata la refurtiva del valore di 300 euro. Le due ora dovranno rispondere del reato di furto aggravato in concorso. Il fatto ha lasciato increduli anche i militari dell’Arma: le due donne, di 47 e 38 anni, entrambe di Cancello ed Arnone, sono rispettivamente sorella e cugina di un detenuto in carcere per un omicidio commesso nel 2011 a Pozzuoli, nel corso di una rapina in abitazione. Le due donne, che con ogni probabilità avevano premeditato il furto, hanno terminato anzitempo il colloquio con il proprio familiare per recarsi prima degli altri nel luogo dove i familiari dei detenuti depositano gli effetti personali nelle cassette di sicurezza. Una volta di fronte alla cassetta di sicurezza in cui una 48enne di San Nicola la Strada, in carcere per un colloquio con proprio familiare, aveva depositato la sua borsa con tutti gli effetti personali e denaro contante, non hanno esitato a forzarla impossessandosi del contenuto. Le arrestate sono state poste agli arresti domiciliari in attesa del giudizio per direttissima. La refurtiva è stata interamente ritrovata e restituita alla donna che nel frattempo aveva denunciato tutto ai carabinieri. Libri: “Borgata Gordiani”, di Aldo Colonna, esplora il “Far West” alla periferia di Roma Recensione di Giovanni Gava L’Unità, 4 gennaio 2014 Skira pubblica un racconto lungo di Aldo Colonna, “Borgata Gordiani”, scritto in età post-adolescenziale e che, esattamente come un messaggio affidato alle onde (le redazioni attraverso le quali è passato negli anni), vede oggi la luce grazie alle indicazioni di Raffaele La Capria e alla sensibilità di Eileen Romano. Borgata Gordiani è la storia di un apprendistato criminale laddove, in un meticciamento di culture, i protagonisti della storia risultano essere allo stesso tempo vittime e carnefici. Appartengono ad un’esperienza datata e quindi fissa nel tempo, quello delle borgate e della incursione pasoliniana nel tessuto degradato di una realtà geografica collegata al centro cittadino da una sorta di tradotta che separa la città ubertosa dai senza legge di un immaginifico Far West. Ad una più attenta lettura filologica il racconto si arricchisce di un lessico proprio di quei moderni selvaggi colti in una improbabile metamorfosi (“bacocco”, “martufo”). E infatti sarà proprio Pasolini, unitamente a Moravia, a riconoscere successivamente al racconto dignità d’arte. L’io-narrante, Colonna, è un ragazzo di vita divenuto tale - ci par di capire - malgré soi, unico della teppaglia cui si accompagna ad abitare in un palazzo moderno munito di servizi igienici. Lui, riconosciuto come appartenente alla stirpe dei cow boys, deve venire a patti con gli “sporchi” indiani. Una tregua che regga nel tempo per poter sopravvivere alla canea. C’è, tra questi devianti, un codice d’onore che mette al primo posto lo jus iurisdictionis insieme all’affetto virile che lega i complici. Il sesso sodomitico è quello che consente alla donna di conservare la propria verginità, ancora un valore, ma anche coprire un “froscetto” non assimila a comportamenti omosessuali al contrario si configura in atto di preminenza, di possesso e di potere come accade in certa iconografia classica indiana allorché il leone-drago coprendo un elefante prono ristabilisce una gerarchia. Sicuramente è “la molto ricca strumentazione letteraria” già ravvisata da Franco Fortini nel racconto il sostrato di una narrazione senza cedimenti. C’è Truman Capote negli stilemi del racconto vérité, forse Gadda sicuramente Gioacchino Belli nella definizione di un dialetto, il romanesco, non ancora contaminato dalle brutture sintattiche e lessicali dei coatti che verranno. Borgata Gordiani è un documento sulla desolazione delle banlieues, sull’adolescenza violata, sulle speranze negate, sui sommersi e i salvati. Qualcuno di questi eroi di cartapesta, ci dice l’autore, si salvò rientrando nei ranghi, altri come Cola perse per sempre l’innocenza attraverso il carcere pur rimanendo l’alfa che giganteggia nel racconto. E fu proprio uno dei salvati, quasi novello Tacito, a raccontare poi una stagione irripetibile, nel bene e nel male, prima della cementificazione selvaggia che rase al suolo la borgata e i suoi anfratti. Non può essere sottaciuta la postfazione sulla frequentazione dell’autore di Moravia e Pasolini, godibile come un documento sulla vita letteraria e culturale di quegli anni con le speranze e gli aneliti di un novello Chardon di balzachiana memoria. Libri: "Giustizia e persona", di Stefano Filippi... il vero nemico è la "prigione" dell’anima di Guido Brambilla www.ilsussidiario.net, 4 gennaio 2014 "Giustizia e persona" (Bietti, 2013), un testo curato da Stefano Filippi e dall’Associazione di volontariato "Incontro e Presenza", è un volumetto che raccoglie vari interventi di "addetti ai lavori" del mondo penitenziario, nonché testimonianze di persone detenute. Il titolo è volutamente provocatorio: la questione delle carceri e delle attuali problematiche di sovraffollamento viene infatti affrontata come tema centrale della stessa concezione della giustizia e della persona. Come sosteneva, infatti, il noto giurista Francesco Carnelutti, il recupero, l’abbraccio finale da parte della società civile, di un detenuto positivamente cambiato nel corso dell’espiazione della pena, è lo scopo ultimo dello stesso processo penale: è ciò che gli dà valore e senso. Sicuramente le relazioni svolte dai vari autori e le accorate testimonianze di alcuni detenuti sono innanzitutto orientate al problema dell’attuale sovraffollamento e alle inerenti difficoltà che si interpongono, in tale difficile contesto, ad un serio ed efficace recupero della persona detenuta. Anch’io, del resto, nell’ articolo da me redatto, ho sostenuto la necessità di un provvedimento di clemenza, che, se accompagnato da interventi significativi sullo stesso sistema processuale e sanzionatorio, avrebbe l’utile scopo di deflazionare le carceri e di rimodulare, in modo ragionevole, i percorsi dei flussi in entrata e in uscita. Senza voler quindi sminuire l’importanza di tali interventi, oggi più che mai indifferibili, anche per ottemperanza alle pronunce della Corte di Giustizia europea e ai conseguenti appelli dello stesso nostro presidente della Repubblica, vorrei, tuttavia, evidenziare come il cuore del problema sia in realtà un altro, più profondo e, significativamente espresso, come detto, nel titolo del libro. Come, ad esempio, ha affermato Luigi Pagano (attuale vicecapo del Dipartimento dell’ Amministrazione penitenziaria) nel suo intervento, "…l’uomo può cambiare anche nelle situazioni più drammatiche, come può essere quella della reclusione in cella in condizioni disumane…", o Francesco Maisto (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna): "…Si può scoprire che le ferite di una persona detenuta diventano feritoie che si aprono sul suo mistero di essere umano. Tutto è possibile, ma questo non dipende da noi: non tutto è nelle nostre mani, e meno male che è così…". L’articolo 27, 3° comma, della Costituzione italiana afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ma nessuna legge, nessuna sentenza sono mai intervenute per spiegare cosa significa la parola "rieducazione". Certo, il nostro ordinamento penitenziario, accogliendo l’orientamento della scuola positiva, prevede che il detenuto sia sottoposto ad un’osservazione scientifica della personalità con la predisposizione di un trattamento individualizzato mirante ad un percorso di recupero ed emenda. Con ciò, prevedendo anche la partecipazione, in questo percorso, di soggetti esterni al carcere, appartenenti alla comunità civile, al mondo del lavoro o dell’impresa, alle associazioni, ecc. India: l’intrigo dei marò imbarazza l’Italia di Ruggiero Capone L’Opinione, 4 gennaio 2014 La via per l’assoluzione dei due marò detenuti in India è ormai bloccata dal cosiddetto “tappo di gomma istituzionale” (almeno secondo fonti referenziate). Poi gli ultimi fatti di cronaca non fanno certo salire il gradimento, nell’opinione pubblica mondiale, per la giustizia indiana: per decenni favoleggiata come una sorta di propaggine gandhiana, oggi si rivela al rimorchio politico d’esecuzioni sommarie, per nulla a tutela dei testimoni (i casi di violenza sulle adolescenti ne sono triste esempio), accusata di corruttele di vario tipo e per nulla aperta al giusto processo. Il 4 dicembre 2013 L’Opinione pubblicava un articolo dal titolo “Condanna dei marò, l’omissione italiana”: il contenuto segnalava ai lettori la pubblicazione su “you tube” d’un video realizzato da un ufficiale della Marina italiana, il “capitano di fregata” Diego Abbo, persona molto stimata, ritenuta da molti fin troppo precisa e diligente. Il video contiene un’analisi approfondita, inoppugnabile, su come s’è svolta la vicenda dell’Enrica Lexie. Abbo dimostra che per i colpi sparati dai Marò s’è avuto un caso di “spiattellamento”, ossia di rimbalzo sull’acqua dei proiettili. Lo studio del comandante Abbo era già stato, preventivamente e formalmente, notificato ai suoi superiori: era stato doverosamente osservato il “naturale iter gerarchico”, mediante richiesta di colloquio sia allo Stato Maggiore della Marina Militare che direttamente al ministro della Difesa. Notifiche e richieste giunte sui tavoli dei vertici militari e politici già dallo scorso settembre. Abbo prospettava ai propri superiori e al ministro della Difesa una concreta opportunità per risolvere la vicenda dei marò: permettendo di mantenere alto l’onore dell’Italia, ma basandosi su fatti incontrovertibili. Logica avrebbe voluto che il comandante Abbo venisse sentito dai superiori e dal ministro della Difesa, soprattutto da una commissione parlamentare facilmente costituibile. Tutti i vertici istituzionali dovrebbero dimostrarsi proiettati alla soluzione della vertenza, e senza lasciare nulla d’intentato. Ma siamo in Italia, e qualcuno ritiene politicamente più opportuno i marò rimangano detenuti in India. Negligenza o furbizia? L’inerzia istituzionale spinge molti ad invocare l’unica autorità che ha dimostrato attenzione alla vicenda, ovvero la Presidenza della Repubblica. Ma potrebbe mai l’Italia riguadagnare in un sol colpo quel prestigio internazionale venuto meno con la gestione dilettantesca di varie vertenze internazionali? Non dimentichiamo che la vicenda dei marò capitava appena due mesi dopo l’uccisione dei tecnici italiani da parte dei ribelli del Delta del Niger? Nel caso dell’incidente nigeriano ci rivolgemmo agli inglesi che, di tutta risposta, ci dissero di non voler più intermediare per gli italiani. Ecco perché molti vedono la perizia Abbo come una risorsa, da utilizzare anche con una certa urgenza: perché basata su riscontri scientifici e perché con gli indiani non c’è tempo da perdere. Attualmente la linea difensiva italiana si basa sul fatto che, il barchino dei pirati che ha attaccato l’Enrica Lexie fosse altra cosa dal peschereccio St. Anthony. Una valutazione risibile, ma strombazzata dai media: tra l’altro contrasta palesemente con le testimonianze e col rapporto di Massimiliano La Torre, che fa fede in qualsiasi tribunale e sino a querela per falso. La difesa indica le posizioni della Lexie e del St. Antony non compatibili con quanto formalizzato nel rapporto di La Torre (team leader DELL’NMP, Nucleo Militare di Protezione) calpestando anche ogni principio della navigazione. Certo la pressione mediatica ha sedotto l’opinione pubblica. Poi sono state amplificate le opinioni di troppi periti delle procure italiane, tutti pareri non rispondenti al vero: hanno parlato di tracciati radar scomparsi, accusando (grande prova di raffinata diplomazia) la procura indiana d’aver manipolato le prove balistiche. Non avendo concrete argomentazioni, sono arrivati ad accusare il governo indiano d’aver appositamente manipolato la morte dei due pescatori, avvenuta a parer loro in altre acque. Le tesi traballanti poggiano sulle dichiarazioni a caldo del comandante del St. Anthony, che forniva un orario dell’evento che poi risulterà erroneo: poi c’è la questione del “rigor mortis” valutato da esperti e opinionisti in base ad un filmato della Cnn. Compici le tivù, una congerie d’argomentazioni discordanti finiscono per ingarbugliare ancor più la vicenda. Necessita che la difesa dei marò e lo stesso Parlamento ascoltino il comandante Abbo: la sua perizia contribuirebbe a sminare lo scenario processuale dalle fumosità pregresse, da discutibili asserzioni, aprendo la strada a una valida difesa. Le tesi del comandante possono essere utilizzate nell’arena internazionale, che fa capo alla “sicurezza marittima”, senza far sfigurare l’Italia. Doverose alcune premesse sia sullo sconosciuto ufficiale di Marina che su chi gli ha commissionato l’incarico di tutela dei marò. Il “capitano di fregata” Diego Abbo è un normale ufficiale di Marina, però le sue credenziali sono tante. Ha operato in scenari terrestri internazionali molto caldi (ex Yugoslavia , medio oriente, paesi dell’est) e in situazioni operative sul mare nazionali e non (controllo immigrazione, embarghi di varia natura, missioni di pace), raggiungendo così il ruolo di esperto in conflitti navali asimmetrici (come è appunto il contrasto alla pirateria nelle zone ad alto rischio). In virtù della sua esperienza come comandante del Comos (Comando motosiluranti) ha sviluppato uno studio “sull’impiego insidioso dei barchini trasportati da navi madre”: argomento poi evidenziato dalla Agenzia Marittima Internazionale (Imo) come “dottrina operativa degli attacchi dei pirati”. Ci dicono il comandante Abbo sia consulente di “intelligence e security” per vari gruppi aziendali, corporate ed altri organismi, con prevalenza nei settori della sicurezza marittima e cibernetica. L’efficacia delle tesi elaborate da Abbo è suffragata dalla valutazione di numerose criticità nelle misure di “contrasto alla pirateria”. Tra queste ultime, il rischio di “danno collaterale” (se così può essere definito l’incidente dei marò, e solo per rispettare le regole di ingaggio) applicando le attuali regole antipirateria. O il rischio da giurisdizione, che dovrebbe prevedere un adattamento mirato del sistema giudiziario internazionale, che afferisce alla convenzione di Montego Bay per le zone di alto rischio di pirateria. Le tesi argomentate da Abbo produrrebbero certo effetti benefici al prestigio internazionale dell’Italia, oltre che alla sorte dei due fucilieri (non colpevoli ma trattenuti). Utilizzare questa perizia, apparsa anche su “youtube”, fornirebbe senza dubbio una migliore soluzione giudiziale rispetto a quanto si sta prospettando. Ma il mistero rimane tutto. E cioè perché il comandante Abbo è stato costretto ad uscire allo scoperto, postando su “youtube” la perizia? Per quali motivi le autorità ministeriali insistono nel non volerlo ascoltare. Magari i motivi sono anche validi, e sappiamo come un contratto commerciale possa passare anche sulla testa del prestigio dell’Italia e dell’onore e, soprattutto, della libertà per i marò. Stati Uniti: caso "datagate", il tempo della clemenza per Edward Snowden di Fabio Chiusi Il Trentino, 4 gennaio 2014 Il 2014 comincia bene per Edward Snowden. Due editoriali, uno del Guardian e uno del New York Times, chiedono a Barack Obama di concedergli "clemenza" per aver sottratto migliaia di documenti riservati agli archivi della National Security Agency. Entrambi sono non firmati: significa che riflettono la linea dei due quotidiani. Ma se l’appoggio del giornale britannico era scontato, molto meno lo era quello del Times, mai prima d’ora espressosi con tanta nettezza a favore della fonte del Datagate. Anzi, lo scorso giugno aveva dovuto affrontare infinite e comprensibili critiche per aver ospitato un commento di David Brooks in cui si sosteneva fosse stato Snowden, e non il governo USA, a "tradire la privacy, la Costituzione" e i principi di una governance trasparente. Per l’ex contractor Nsa, in Russia grazie all’asilo politico concesso per un anno, è un successo incontestabile. Difficile infatti, alla luce di quanto emerso nei sette mesi dello scandalo, dubitare dell’"enorme valore delle informazioni" che ha rivelato e "degli abusi che ha messo in luce". Difficile se non impossibile ribattere al principio enunciato dal Times: "Chi rivela che il governo ha abitualmente e deliberatamente violato la legge non dovrebbe trascorrere la sua vita dietro le sbarre per decisione di quello stesso governo". Specie quando è proprio quest’ultimo a non pagare per i propri errori. La conclusione sembra tratta dai tweet degli attivisti che regolarmente incalzano il presidente degli Stati Uniti: Obama dovrebbe "mettere fine alla denigrazione di Snowden, e incentivarlo a tornare a casa". In quegli Usa che lo vorrebbero incriminato per spionaggio secondo una norma antiquata, risalente al 1917. E che non hanno dimostrato alcuna sensibilità verso i suoi precursori, tra cui l’ultimo è la fonte di WikiLeaks, Chelsea Manning. Per cui, va ricordato, il Times non si è mai espresso in questi termini, e sarebbe interessante capire perché. Certo, non manca chi continua a considerare Snowden un traditore che ha "diffuso teorie del complotto" (il repubblicano Marco Rubio), una "spia dei cinesi" (Dick Cheney) o che ha fatto un grosso favore ai terroristi (è la posizione dei vertici dell’intelligence Usa e britannica). Restando entro i confini nostrani, c’è il presidente del Consiglio Enrico Letta, che ritiene quella di Snowden "non sia un’attività utile e positiva", ma anzi foriera di "molti problemi". Ma con il passare dei mesi le prove del servizio reso al pubblico si moltiplicano, e quelle a sostegno degli argomenti dei detrattori restano appese a speculazioni senza alcuna conferma. Per questo un funzionario dell’NSA, Richard Ledgett, ha detto alla Cbs - subito smentito dalla Casa Bianca - che sarebbe disponibile a vagliare un’amnistia per Snowden. E del resto, senza di lui un dibattito globale serio e informato sugli eccessi della sorveglianza digitale non sarebbe stato possibile. E invece ce n’era bisogno, perché l’erosione della privacy che comportano è oramai accertata anche dal gruppo di esperti che ha formulato 46 proposte di riforma dell’NSA a Obama, dalle richieste in parte analoghe di otto dei maggiori colossi di Internet (tra cui Google, Facebook e Apple), dalle ammissioni dello stesso Obama. E da un’opinione pubblica sempre più insofferente. Ancora, come nota il Guardian, se la Corte Suprema dovesse giudicare che i programmi dell’NSA sono in violazione della Costituzione (come suggerito dal giudice federale Richard Leon), sarebbe ancora possibile definire Snowden un "criminale"? Ma ridurre la vicenda all’aspetto legale sarebbe comunque errato. Come ha scritto Mark Ames su Pando, la "più importante rivelazione" di Snowden è infatti che "non sappiamo più cos’è il potere". E, di conseguenza, non riusciamo a controllarlo. Il Datagate è anche e soprattutto un aprire gli occhi su questa formidabile sacca di resistenza allo scrutinio pubblico, basata essenzialmente sulla segretezza: solo in un mondo alla rovescia può definirsi un crimine portarla alla luce. Turchia: il Vicepremier Arinc; nessuna amnistia per "golpisti" caso Ergenekon Nova, 4 gennaio 2014 Nessuna amnistia dovrebbe essere prevista in casi di colpo di stato: lo ha affermato oggi il vicepremier turco Bulent Arinc. "Nessuno dovrebbe essere in attesa di una amnistia generale", ha detto Arinc durante un incontro con i giornalisti nel parlamento di Ankara, rispondendo alle domande sulla posizione del governo sulla mossa dei militari di avviare un’azione legale nell’ambito del processo Ergenekon che ha portato alla condanna di numerosi alti membri delle forze armate turche, accusati di aver organizzato un colpo di stato. "Amnistia è una parola molto pericolosa. Se un membro del governo o del parlamento ne parla puo’ nascere una grande attesa. I detenuti andranno a dormire con la speranza di un’amnistia. Il governo non ha questo tipo di pensiero", ha aggiunto Arinc. Nell’ambito del processo Ergenekon, il tribunale di Istanbul ha comminato, lo scorso 5 agosto, pesanti condanne al carcere nei confronti degli ex ufficiali e altri cittadini turchi coinvolti. Nel processo sono stati condannati al carcere a vita il giornalista Tuncay Ozkan, i generali in pensione Veli Kucuk, Hursit Tolon, Hasan Ataman Yildirim, Hasan Igsiz e Nusret Tasdelen, i colonnelli in pensione Fikri Karadag, Fuat Selvi, il leader del Partito dei lavoratori Dogu Perincek e l’avvocato Kemal Kerincsizm. Il tribunale ha comminato una sentenza pesante anche per Alparslan Arslan, noto per aver ucciso il membro del Consiglio di stato, Mustafa Yucel Ozbilgin. L’ex presidente della Camera di commercio, Sinan Aygun, è stato invece condannato a 13 anni e sei mesi di carcere. Condanna pesante anche per il colonnello in pensione Arif Dogan che dovrà scontare 47 anni: quest’ultimo, insieme al generale Kucuk, è stato accusato di aver fondato e guidato un’organizzazione terroristica e di aver cercato di rovesciare il governo. Il tribunale ha condannato il tenente colonnello Mustafa Donmez a 49 anni di carcere, mentre lo scrittore Yalcin Kucuk dovrà scontare una pena di 22 anni e sei mesi di carcere. Fra le persone coinvolte nel caso Ergenekon ci sono anche l’ex direttore del Consiglio nazionale dell’istruzione, Kemal Guruz, che è stato condannato a 13 anni e undici mesi, lo storico Mehmet Perincek a sei anni e il presunto capo mafia Sedat Peker a dieci anni. I giornalisti Erol Manisali e Guler Komurcu sono stati condannati, rispettivamente, a nove e sette anni e sei mesi, mentre allo scrittore Ergun Poyraz è stata comminata una condanna di 29 anni e quattro mesi. I dirigenti del Partito dei lavoratori, Hayrettin Ertekin e Hikmet Cicek dovranno scontare 16 e 21 anni e nove mesi, mentre il rappresentante legale del partito Emcet Olcaytu 13 anni e due mesi. L’ex capo della polizia, Adil Serdar Sacan, è stato condannato a 14 anni di prigione, mentre l’ex sindaco del distretto Esenyurt di Istanbul, Gurbuz Capan, sconterà la pena di un anno. Il generale in pensione Ismail Hakki Pekin è stato condannato a sette anni, il giornalista Adnan a sei, mentre sono 21 i sospettati che sono stati assolti dalle accuse. Il procedimento è stato archiviato per tre sospetti che sono deceduti durante il corso delle indagini. Il vicepresidente del Partito repubblicano del popolo, Mehmet Haberal, precedentemente condannato a dodici anni e sei mesi è stato rilasciato: Haberal ha infatti concluso il suo periodo di reclusione. Il caso Ergenekon rientra nella disputa, in corso dal 2002, tra le forze armate turche, baluardo della laicità del paese, e il governo filo-musulmano di Erdogan. Come riferisce il quotidiano "Hurriyet", nella seconda metà del secolo scorso in Turchia si sono verificati tre colpi di stato militari. Dal 2002, il partito di governo "Giustizia e sviluppo" si è costruito un’ampia maggioranza in parlamento, ha riformato il sistema giudiziario e usato la sua autorità, rafforzata dal successo economico del paese, per ridurre il potere dei militari. Il processo Ergenekon è iniziato nel 2008 con 275 imputati, 66 dei quali si trovavano in carcere in attesa di verdetto. Tra le persone accusate di far parte del gruppo Ergenekon vi sono, oltre ai militari, esponenti politici, accademici e giornalisti. Siria: Ong; 12 muoiono per malnutrizione, tra loro anche 8 detenuti della prigione di Aleppo Ansa, 4 gennaio 2014 Almeno 12 persone sono morte per malnutrizione e mancanza di cure nelle ultime 48 ore in Siria. Lo riferisce oggi l’Osservatorio siriano per i diritti umani, precisando che tra le vittime ci sono anche otto detenuti delle prigione di Aleppo. L’ong ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie a recarsi nel penitenziario per portare cibo e aiuti medici. Le ultime quattro vittime si sono registrate nel campo rifugiati di Yarmuk a Damasco (tre, persone tra cui una donna incinta) e ad Homs Cina: negato rilascio per motivi di salute a nipote dell’attivista cieco Chen Guangcheng La Presse, 4 gennaio 2014 Le autorità cinesi hanno respinto una richiesta della famiglia di Chen Kegui, nipote dell’attivista cieco Chen Guangcheng, di rilasciarlo dal carcere per motivi di salute. La madre di Chen Kegui, Ren Zongju, ha fatto sapere che il figlio 34enne, detenuto in una prigione nella provincia orientale di Shandong, soffre di dolori acuti allo stomaco. La situazione del nipote dimostra le difficili condizioni che la famiglia di Chen deve affrontare a quasi due anni dalla sua fuga dagli arresti domiciliari. Chen, avvocato autodidatta noto per il suo attivismo contro gli aborti forzati, riuscì a raggiungere gli Stati Uniti a seguito di negoziati ad alto livello tra funzionari statunitensi e cinesi. Secondo la madre, Chen Kegui soffre di emicranie da quando fu colpito alla testa durante lo scontro con gli agenti. Il medico del carcere, ha riferito la donna, ha deciso che Chen non ha alcun problema e non deve essere sosttoposto ad alcuna terapia. L’anno scorso l’uomo si era ammalato di appendicite, ma anche quella volta le autorità rifiutarono di rilasciarlo per motivi di salute. Verso la fine del 2012, Chen Kegui era stato condannato a tre anni e tre mesi di carcere per aver affrontato gli ufficiali locali che fecero irruzione nella sua casa dopo la fuga dello zio. Secondo i familiari, l’uomo agì in autodifesa e Chen Guangcheng, che vive negli Usa, ha fatto più volte appello per il suo rilascio. Myanmar: per Festa indipendenza, rilasciati duemila detenuti, tra cui tre prigionieri politici Adnkronos, 4 gennaio 2014 Il Myanmar celebra il Giorno dell’indipendenza, che cade domani, rilasciando duemila detenuti, tra cui tre prigionieri politici. Lo hanno annunciato fonti della presidenza birmana, precisando che 1.800 detenuti sono usciti oggi dal carcere di Insein, a Yangon, mentre altri 230 dalla prigione di Mandalay. Bo Kyi, portavoce dell’Associazione di assistenza per i detenuti politici, ha ricordato che il presidente Thein Sein aveva promesso di rilasciare tutti i prigionieri politici entro la fine del 2013, ma in realtà nelle carceri birmane ne restano ancora una quarantina. Dal 2011, le autorità del Mynmar hanno rilasciato circa duemila detenuti politici, tra cui il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, per anni agli arresti domiciliari, così come richiesto da Europa e Stati Uniti per la revoca delle sanzioni economiche imposte negli anni scorsi. Domani di festeggia il 64mo anniversario dell’indipendenza della Birmania dalla Gran Bretagna. Spagna: Governo non muta politica verso detenuti dell’Eta, allontanamento da Paesi Baschi Tm News, 4 gennaio 2014 Il governo spagnolo non muterà politica nei confronti dei detenuti dell’organizzazione terroristica basca dell’Eta: lo ha dichiarato il ministro degli Interni Jorge Fernandez Diaz, rispondendo così alla proposta del collettivo dei detenuti, che per la prima volta aveva ipotizzato l’abbandono di una richiesta di amnistia collettiva in favore di "iniziative legali individuali". Madrid non intende in particolare rinunciare alla politica di allontanamento dei detenuti, che invece chiedono da sempre un avvicinamento ai Paesi Baschi per facilitare le visite delle proprie famiglie; va notato che fino ad oggi i prigionieri dell’Eta si sono in gran parte rifiutati di accettare i benefici previsti dalla legge perché ritengono la loro detenzione illegale. Nel corso dell’ultimo anno sono stati arrestati oltre una ventina di militanti dell’organizzazione terroristica basca, che potrebbe contare solo su alcune decine di membri ancora in libertà: l’Eta aveva annunciato il 20 ottobre 2011 la fine della lotta armata, rifiutando però lo scioglimento e la consegna delle armi chiesto da Spagna e Francia. Stati Uniti: O.J. Simpson, in carcere per rapina, chiede la grazia "ho un tumore al cervello" Ansa, 4 gennaio 2014 L’ex campione di football americano ed ex attore O.J. Simpson, da quattro anni detenuto in carcere con le accuse di rapina a mano armata e sequestro di persona, ha scritto una lettera al Presidente Barack Obama in cui chiede la grazia. Simpson ha riferito nella lettera di essere ammalato di un tumore al cervello e quindi ha chiesto di non morire in carcere. Secondo il National Enquirer, Simpson ha manifestato i sintomi tipici di chi ha il cancro al cervello: mal di testa, amnesie, spaesamento. Anche se per un certo periodo ha cercato di tenerlo nascosto. Il suo avvocato invece ha detto di non saperne niente. O.J. Simpson fu un campione del football nei San Francisco 49ers e nei Buffalo Bills. Finita la carriera di giocatore, ebbe una parte in alcuni film con Leslie Nilsen (la serie "Una pallottola spuntata") e in un telefilm su una squadra di football americano gestita da una donna. Ma la sua notorietà giunse al massimo con episodi di cronaca nera: prima venne coinvolto nell’omicidio della sua ex moglie Nicole e del suo fidanzato, ma dal processo uscì assolto. Poi la rapina e il sequestro di persona, reato per cui fu condannato a 33 anni di reclusione, con prima udienza per il rilascio dal carcere (per andare agli arresti domiciliari) fissato nel 2018. Messico: uomini armati assaltano carcere, restano uccisi cinque assalitori e quattro detenuti Tm News, 4 gennaio 2014 Uomini armati hanno assaltato una prigione nel sudovest del Messico, in un attacco che ha provocato la morte di nove persone, cinque aggressori e quattro detenuti. Lo hanno annunciato le autorità. Sei uomini armati sono entrati nel penitenziario di Iguala, nello stato di Guerrero, fingendosi autorità di pubblica sicurezza prima di sparare a detenuti e secondini. Lo ha reso noto l’ufficio del procuratore dello stato in una nota.