Il carcere dell’attesa e della paura di essere dimenticati Il Mattino di Padova, 27 gennaio 2014 È così innaturale per un essere umano la condizione della prigionia, che fin dal primo giorno che uno entra in carcere, inizia una snervante attesa della libertà. Ma l’attesa diventa davvero faticosissima quando una persona entra nei termini previsti dalla legge per cominciare un graduale rientro nella società. Prima, quando i numeri nelle carceri erano accettabili, parecchie persone erano impegnate in percorsi di studio, di lavoro, di formazione, e cominciare a uscire con i primi permessi era parte fondamentale di quei percorsi, oggi invece l’attesa, con sempre più solitudine e sempre meno speranza, è diventata la caratteristica principale di condizioni di detenzione, che assomigliano sempre di più al "che stiano a marcire in galera fino all’ultimo giorno". Fin dai primi minuti in galera capisci che dovrai aspettare In carcere, la parola attesa è molto usata non solo nel relazionarsi con gli altri, ma anche con se stessi. In tutte le varie carcerazioni che ho fatto (17 anni) ho girato parecchi istituti e tra le cose comuni che si ritrovano in questi luoghi ce n’é una di cui non ho mai capito il significato, gli orologi sono tutti fermi. Se fossi una persona libera la parola "attesa", al primo impatto, la assocerei a una lunga fila. Quella coda che siamo abituati a fare per il pedaggio di un casello, quella a un ufficio postale nel giorno delle pensioni, oppure quell’attesa tanto dolce che rappresenta la nascita di un figlio. Purtroppo non sono libero, sono in carcere ed è così che questa parola assume un’importanza molto diversa da quella che le avrei attribuito in libertà. Sono proprio i primi minuti in cui ti ritrovi oltre a questo muro di cemento che capisci che dovrai aspettare. Questo verbo diventerà tuo, entrerà nel tuo animo e non ti abbandonerà mai. Dovrai sempre aspettare qualcosa, il tuo turno per qualsiasi cosa, anche per una doccia dovrai aspettare un agente che ti venga ad aprire. Dovrai aspettare ogni giorno consapevole che il giorno successivo sarà l’ennesima attesa. Io, oggi, mi ritrovo con tanti anni di carcere da scontare. Nei termini per avere qualche beneficio come i permessi premio potrò entrare tra vent’anni. Questa sarà la mia lunga coda che dovrò affrontare per provare a ritirare un biglietto che mi darà accesso alla libertà, forse. Non dovete credere che passati questi vent’anni la mia libertà sarà scontata, assolutamente no, anzi inizierà l’attesa più brutta, quell’attesa che potrebbe anche rischiare di farmi rovinare i progressi che la mia persona avrà fatto durante gli anni di detenzione. L’attesa provoca ansia. Provate a pensare a quanta ansia regna dietro a questi muri e il più delle volte si trasforma, o meglio si scarica con atti violenti, tipo risse o ritorsioni contro gli agenti penitenziari o altro ancora. Questa parola "attesa" inizia a diventare una tortura mentale dal momento che presenterai qualche istanza al magistrato di Sorveglianza per avere il primo permesso, ma non solo per te, anche per i tuoi cari, per quella famiglia che ti ha seguito per anni nell’attesa di poterti riabbracciare un giorno in libertà. In una delle tante carcerazioni che ho fatto, iniziai a presentare richieste di permessi premio. Un errore che oggi non commetterei più è quello di mettere al corrente la mia famiglia. Mi ricordo che non c’era una lettera dove non mi chiedessero se avevo avuto risposte dal magistrato, oppure non mi raccontassero i tanti progetti che fantasticavano di fare per quelle poche ore di libertà che ancora non mi erano state concesse. Questa situazione andò avanti per quasi un anno e quell’ansia che avevo si trasformò in rabbia. Volevo sapere una cosa molto semplice "SI o NO". Ma fu così che un giorno commisi una azione che compromise tutto il mio percorso, e una volta avvisato il magistrato di quello che avevo combinato la risposta alla richiesta di permesso non tardò ad arrivare. Passarono infatti pochi giorni e mi ritrovai in mano quella risposta, ovviamente era negativa. Ed ecco che tutti i sogni, tutte le speranze che la mia famiglia aveva costruito su quello che doveva essere uno dei momenti più belli e più attesi si trasformò in un incubo, e risanare queste ferite non fu semplice. È per questo che all’inizio ho scritto che l’attesa in carcere assume un valore completamente diverso da quella di una persona in libertà. Abbiamo commesso errori e li paghiamo con tutte le conseguenze che comportano, che non sono poche. Quando devi affrontare una carcerazione lunga devi mettere in preventivo che prima o poi i tuoi genitori verranno a mancare. Questa è un’altra attesa che devi essere pronto ad affrontare, e non avendo nessun appoggio psicologico devi farti trovare pronto anche per la notizia più brutta che un uomo può ricevere. Personalmente inizio ad essere sempre più stanco di questa lunga attesa. Ora sono le 19.30 e sono chiuso nella mia cella a scrivere e a breve mi sdraierò per dormire. Questo è l’unico momento della giornata che l’attesa si ferma e lascia spazio ai sogni di una vita diversa da quella vissuta fino ad oggi. Lorenzo S. La paura di essere dimenticati Da quando mi trovo in carcere, ho visto molti tipi di ingiustizie, una delle tante è quella di essere messo nel dimenticatoio. No, non è un posto che si chiama così, ma l’essere abbandonati a se stessi, questo è quello che sta succedendo a me personalmente, ma come me ci sono molti detenuti nella mia stessa situazione. Per essere un uomo cambiato all’interno del contesto carcere, dovresti fare determinati percorsi, tipo avere comportamenti corretti nei confronti dei compagni di sventura e degli operatori tutti, frequentare corsi di formazione, scuole, attività lavorative e tutto quello che è inerente al reinserimento sociale. Fino a qui tutto fila, fai quello che devi fare, non perché ti invogliano a farlo, ma perché vorresti dare una svolta alla tua vita, uscire al più presto e dare un futuro (quello che fino ad ora non hai potuto dargli, per i tuoi errori commessi) ai tuoi figli, riprendere un rapporto che devi ricostruire e cercare di andare avanti. Ma la Costituzione non dice che il carcere dovrebbe essere rieducativo? Io vi dico che se non hai forza di volontà, non ti rieduca nessuno, puoi contare solo su di te, ma anche questo ci potrebbe stare, perché io penso che il cambiamento deve nascere da dentro te stesso, ma quello che proprio mi fa rabbia è che troppo spesso non ti danno l’opportunità di fargli capire che sei veramente cambiato, ed allora nasce il reparto dimenticatoio. Già in questa situazione di sovraffollamento siamo stati dimenticati dallo Stato, ma mi pesa di essere dimenticato da chi dovrebbe valutare il mio percorso: specialmente quando hai l’opportunità di usufruire dei benefici, aspetti pazientemente l’arrivo di tale periodo, e poi ti viene detto che o non hai avuto ancora una relazione da parte del carcere o che ancora è presto e hai bisogno di eventuali periodi di osservazione, ma allora tutti questi anni di aspettativa a che cosa sono serviti, per sentirsi dire ancora "devi aspettare"? ma aspettare vuol dire anche che perdo la ultime tracce dei rapporti con i miei figli e i miei cari, e che rischio di uscire peggio di prima. Si parla tanto del sovraffollamento, del disagio di noi detenuti e degli operatori penitenziari, del trattamento disumano e degradante che dobbiamo subire giorno dopo giorno, non si potrebbe già iniziare a lavorare per fare uscire chi come me ha la possibilità di usufruire dei benefici? Parlano sempre che devono fare delle leggi per regolarizzare le carceri per renderle più vivibili, ma se si applicassero le leggi già esistenti, tipo la legge Gozzini, come si dovrebbe attuare normalmente, molti di noi leveremmo il disturbo e incominceremmo un percorso con le nostre famiglie per ritornare uomini liberi, appartenenti ed utili alla società. Io spero che tutto questo cambi, e che ognuno assuma il proprio ruolo con responsabilità, per attuare le leggi già in vigore e dare la possibilità alla gente reclusa, che è nei termini per iniziare un percorso di rientro nella società, i benefici di poterli avere, così da ridare speranze a noi e alle nostre famiglie e restituirci quel poco di dignità che ci hanno levato. Io ancora credo che prima o poi la situazione cambierà e il carcere diventi un posto che riabilita e non un dimenticatoio. Luca R. Giustizia: inaugurazione dell’Anno giudiziario 2014…. ovvero urla dal silenzio di Sergio Lorusso www.fanpage.it, 27 gennaio 2014 L’inaugurazione dell’anno giudiziario ripropone vecchie questioni irrisolte in un Paese nel quale i rapporti tra politica e magistratura appaiono sempre più confusi. Si è stancamente consumata - venerdì in Cassazione e sabato nelle Corti d’appello - la consueta cerimonia annuale di apertura dell’anno giudiziario, momento topico in cui tradizionalmente vengono denunciati gli ormai cronici e irrisolti mali della giustizia italiana, sempre più vittima di sé stessa e di lungaggini inenarrabili che rendono inefficiente il servizio privandolo di quella legittimazione che dovrebbe costituire uno dei cardini dello Stato democratico. È un paradosso tutto italiano quello che vede, da un lato, i tempi della politica sempre più spesso scanditi da quelli della giustizia nelle sue declinazioni - dai processi del Cavaliere ai fenomeni corruttivi diffusi, dagli interventi dei tribunali in materia di elezioni regionali o di decadenza dei sindaci a quelli della Corte costituzionale sul Porcellum - e, dall’altro, la giustizia in costante affanno in casa propria, incapace di rispondere adeguatamente alle istanze dei cittadini. Taluni hanno parlato di Repubblica giudiziaria, in assenza di una politica degna di tale nome che - a dispetto del ricambio generazionale - non sembra offrire grossi elementi di novità rispetto al passato, come dimostrano in questi giorni le vicende della riforma elettorale o il metodo-De Girolamo made in Campania; resta il fatto che quello che sembra un potere forte, tale da supplire all’inerzia degli altri poteri dello Stato, appare poi asfittico e arrancante nell’esercizio delle proprie funzioni quotidiane. Quali rimedi è possibile prospettare per migliorare lo stato delle cose? Il primo presidente della Corte di Cassazione, nella sua relazione, dopo aver evidenziato la persistenza del conflitto tra politica e magistratura che, a suo dire, è fonte di una «delegittimazione gratuita e faziosa che ha provocato, goccia dopo goccia, una progressiva sfiducia nell’operato dei giudici e nel controllo di legalità che a essi è demandato», ha però riconosciuto che occorre interrogarsi «su ciò che non ha funzionato e continua a non funzionare nell’esercizio del potere diffuso, nel sistema di autogoverno e nell’associazionismo giudiziario», implicitamente richiamando gli effetti deleteri della politicizzazione della magistratura. Per altro verso, ha posto l’accento su quello che è il leit motiv dei dibattiti sulla giustizia degli ultimi tempi: l’emergenza-carceri, divenuta stringente anche a seguito dell’ultimatum dettato al nostro Paese a gennaio dello scorso anno dalla Cedu con la sentenza-pilota Torregiani per le condizioni inumane e degradanti di trattamento dei detenuti, contrarie all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo derivanti dal sovraffollamento degli istituti di pena. Il rimedio invocato dal Primo presidente, in attesa di riforme di sistema, è per la verità tutt’altro che rivoluzionario: il ricorso all’indulto, al fine di ridurre d’un colpo la popolazione carceraria ed evitare la pesante multa che ci attende a maggio 2014 in caso di inadempienza. C’è da dire che in passato la tenuta del sistema era garantita proprio dai periodici provvedimenti clemenziali, fino a quando non è stato modificato l’art. 79 Cost., introducendo una maggioranza qualificata - i due terzi dei componenti di ciascuna Camera, per ciascun articolo e per la votazione finale - per l’approvazione delle leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto. Correva l’anno 1992, e la novella è figlia dell’incipiente crisi della prima Repubblica. Oggi, alle soglie della terza (?) Repubblica, sembra che il tempo sia passato invano, a dimostrazione della progressiva caduta di valori dello Stivale incapace persino di dotarsi di un sistema carcerario degno e a misura d’Europa. D’altronde - altra anomalia tutta italiana - una cospicua fetta della popolazione carceraria è costituita da detenuti in attesa di giudizio, in conseguenza dei tempi irragionevoli della giustizia penale. Sono questi i veri fattori delegittimanti del nostro sistema giudiziario, che non essendo in grado di fornire risposte tempestive penalizza gli imputati innocenti e le vittime dei reati, sostituendo molto spesso - come ha ricordato il Presidente della Corte d’Appello di Bari nel suo discorso - alla certezza della pena un’impropria anticipazione della stessa attraverso l’istituto della custodia cautelare. I rimedi escogitati dal Governo a luglio e a dicembre scorso sono davvero poca cosa e, soprattutto, non risolvono problemi strutturali che hanno una precisa matrice culturale: un eccesso di fattispecie penali cui si ricorre ad ogni piè sospinto nel legiferare, nonostante la consapevolezza che tali norme ben difficilmente potranno essere concretamente applicate. Norme-manifesto, spesso, la cui deterrenza viene ‘spenta’ dalla constatazione che una condanna (forse) arriverà, prescrizione permettendo, a distanza di anni. È questo il codice penale ‘realè, contrapposto a quello scritto. E di tale contesto non può non risentirne anche la politica, incapace di rinnovarsi perché, tanto, ‘così fan tutti’ e gli strumenti repressivi del malaffare che la caratterizza a più livelli appaiono poco incisivi. È il gatto che si morde la coda, in un Paese al declino dove potere politico e funzione giudiziaria troppo spesso si sovrappongono e si confondono, dando vita ad un mix inestricabile del quale le più nefaste conseguenze, inutile dirlo, ricadono sul comune cittadino. Giustizia: sono 9 milioni i processi arretrati e 28 mila i detenuti in sovrannumero www.tgcom24.it, 27 gennaio 2014 Se l’Italia dovesse pagare i risarcimenti a tutti i carcerati costretti in celle non a norma, dovrebbe sborsare 420 milioni di euro. Processi in arretrato che ingolfano le cancelliere, carceri sovraffollati, errori giudiziari. Sono tanti gli indicatori che mostrano quanto stia male la giustizia italiana. Già il guardiasigilli Anna Maria Cancellieri aveva lanciato l’allarme nella "Relazione sull’amministrazione della Giustizia per l’anno 2013": "Alla data del 30 giugno 2013 si contano 5.257.693 di processi pendenti in campo civile e quasi 3 milioni e mezzo in quello penale". Un totale di quasi 9 milioni di fascicoli in attesa di giudizio. Sono 9 milioni i processi arretrati e 28 mila i detenuti in sovrannumero Secondo i dati del portale www.errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sull’ingiusta detenzione, dal 1989 anno dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, circa 25 mila italiani (e non) sono stati incarcerati ingiustamente. Per rimborsarli lo Stato ha pagato 550 milioni di euro. Se a questi aggiungiamo altri 30 errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni. Bisogna sommare poi le persone alle quali la richiesta di riparazione è stata negata: Eurispes e Unione Camere Penali parlano di una media di 2500 domande all’anno di risarcimento per ingiusta detenzione e sottolineano che appena un terzo (800) sono state accolte. Quindi possiamo stimare che da 25 mila casi si arrivi a circa 50 mila. Per il Censis durante la storia repubblicana 4 milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. E i giudici raramente hanno pagato. Dall’entrata in vigore della legge Vassalli (1988), che regolamenta la loro responsabilità civile, le cause contro le toghe sono state 406. Il rapporto dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti nelle carceri mette invece, in luce le criticità che riguardano i detenuti, a oggi 64.458. Il tasso di sovraffollamento è sopra il 140%, il più altro dell’area europea. Secondo Antigone, ci sono 170 detenuti ogni 100 posti letto. Circa 28 mila persone vivono in spazi ritenuti degradanti dalla Corte di Strasburgo. Sono molte centinaia i ricorsi pendenti per questioni legate proprio all’inadeguatezza dei luoghi di reclusione. Se tutti e 28 mila i detenuti in surplus e senza spazio vitale dovessero fare ricorso l’Italia dovrebbe sborsare una cifra intorno ai 420 milioni di euro a titolo di risarcimento. Infatti nella ultima sentenza la Corte ha assicurato una media di 15 mila euro di risarcimento a detenuto. Degli oltre 64 mila carcerati, il 53,41% è dentro per reati contro il patrimonio. Il 10,2% ha una condanna o una imputazione di mafia e dintorni. Il 36,8% è in carcere per reati contro la persona. Il 60,45% delle persone condannate deve scontare una pena residua inferiore ai 3 anni. Secondo Antigone le leggi sulla recidiva (ex Cirielli), sulle droghe (Fini-Giovanardi) e sulla immigrazione (Bossi-Fini) sono le cause della crescita della popolazione detenuta negli ultimi 22 anni. Dagli ultimi dati della Corte europea dei diritti umani, aggiornati al 28 ottobre di questo anno, l’Italia è seconda solo alla Russia per numero di ricorsi pendenti. I due Paesi hanno rispettivamente 14.550 e 18.750 ricorsi. Contro il malfunzionamento della giustizia, gli avvocati del Consiglio dell’Ordine di Napoli si sono presentati alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario con le mani legate e una fascia tricolore sulle toghe con la scritta "In difesa dei diritti". La protesta prima dell’inizio della relazione del presidente della Corte di Appello, Antonio Buonajuto. Giustizia: la situazione nelle carceri non migliora, ma la politica è sorda di Lucia Brischetto La Sicilia, 27 gennaio 2014 Società civile e operatori sociali richiedono da sempre che il sistema penitenziario sia coerente con i principi internazionali e costituzionali e che venga applicato quanto sancito dall'Ordinamento Penitenziario. Ordinamento coerente e rispettoso della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena. Richiesta che da troppo tempo ormai, per la grave situazione di sovraffollamento, non viene tuttavia garantita. Com'è noto, il personale tutto è infatti garante dei principi di legalità nell'esecuzione penale e garante del rispetto dei diritti della persona quale condizione essenziale senza la quale non può esistere giustizia, ma solo forme di arcaiche vendette sociali, incompatibili con lo stato di diritto. I detenuti e i dipendenti penitenziari tutti vivono quotidianamente la sofferenza e l'impossibilità di potere godere i diritti che l'ordinamento penitenziario sancisce. Pertanto, sia gli uni che gli altri (liberi e ristretti), si avvertono abbandonati e maltrattati dall'istituzione penitenziaria, si sentono derubati dei loro diritti e sfiduciati per non avere quella qualità della vita che l'Europa, ormai da tempo indica quale obbligo da ottemperare per la sopravvivenza di chi opera per ottenere un minimo di qualità della vita propria e degli altri, di chi è sottoposto alle restrizioni detentive dall'autorità giudiziaria. Ogni giorno chi è detenuto vive il risultato della quarantennale incoerente azione politica che, in una sorta di apparente preoccupazione schizofrenica, dichiara lo stato di emergenza delle carceri, prevede l'apertura di nuove strutture e indica l'ampliamento di quelle esistenti e l'incremento di tutto il personale. L'opinione pubblica è spaventata e dolorosamente disorientata dai gruppi di interesse che ruotano attorno al problema. Si grida da tutte le parti che occorre una depenalizzazione adeguata alle esigenze sociali ed una custodia cautelare che deve costituire l'extrema ratio riservata esclusivamente a reati gravi ed a pene "vivibili" anche se dentro gli istituti penitenziari. La scarcerazione deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato. Tempo fa, un detenuto durante la sua scarcerazione ebbe a dire: "Mi state buttando fuori in mezzo ad una strada: e ora dove vado senza casa e senza lavoro?". Tutto questo non dovrebbe continuare a succedere. Giustizia: direttori delle carceri, il decreto Cancellieri non scarichi emergenza su di noi Ansa, 27 gennaio 2014 Sindacato scrive a ministro e commissioni chiedendo modifiche. Il decreto "svuota carceri", secondo il Si.Di.Pe, sindacato dei dirigenti penitenziari, rischia di scaricare l’emergenza sui direttori degli istituti, ampliandone compiti e responsabilità. È quanto si legge in una lettera indirizzata dal sindacato ai Presidenti delle Commissioni Parlamentari competenti, al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ed al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino. "In verità - afferma il segretario Nazionale Si.Di.Pe. Rosario Tortorella - l’attuale situazione penitenziaria è gravissima ed è dovuta a fattori esterni all’Amministrazione penitenziaria, quindi è estranea alle stesse Direzioni degli istituti penitenziari, che sono chiamate a gestire un’emergenza che è frutto di politiche penali "carcerogene" e "carcerocentriche", ispirate cioè ad un ricorso indiscriminato al carcere come pena e come misura cautelare uniche". In particolare, il sindacato chiede di eliminare dal decreto la norma che vorrebbe ampliare le competenza del Magistrato di sorveglianza, esprimendo anche dubbi in ordine alla sua costituzionalità. Giustizia: Canzio (Corte Appello Milano); svuota-carceri non ha idonee misure di sostegno Tm News, 27 gennaio 2014 "Va peraltro rilevato che (ancora una volta) una riforma di così impegnativa portata applicativa non è accompagnata da misure di sostegno, organizzative e finanziarie, idonee a garantirne il successo". È quanto ha sostenuto il presidente della Corte d’appello di Milano Giovanni Canzio in un passaggio dedicato al decreto Legge 146 del 23 dicembre 2013 del discorso tenuto alla cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario al Tribunale del capoluogo lombardo. Analizzando positivamente il cosiddetto provvedimento "svuota carceri", concepito per "porre rimedio alla grave situazione di sovraffollamento nelle carceri e di inumano degrado delle condizioni di vita dei detenuti", Canzio spiega inoltre che "va accolta con favore l’istituzione della figura del Garante dei diritti del detenuto, oltre la previsione che il magistrato di sorveglianza, accertata ‘la sussistenza e l’attualità del pregiudizio’, possa ordinare all’amministrazione di porvi rimedio e, in caso inerzia, di adottare provvedimenti di ottemperanza". Torino: Radicali; non servono più carceri, meglio rimodulare la politica criminale Notizie Radicali, 27 gennaio 2014 Giulio Manfredi, membro della Direzione Radicali Italiani e Segretario Associazione radicale Adelaide Aglietta ha dichiarato: Al Procuratore generale Marcello Maddalena, che si è detto contrario all'indulto e propone in alternativa la costruzione di nuove carceri, muovo un'obiezione politica ed una pratica. L'obiezione politica è fondata sulla necessità ed urgenza di ripensare la politica del cosiddetto "ordine pubblico" attuata nel nostro Paese, puntando allo smantellamento di due leggi che hanno contribuito enormemente all'implosione degli istituti di pena e dei CIE: la legge "Fini-Giovanardi" sulle droghe e la legge "Bossi-Fini" sull'immigrazione. Come radicali ci abbiamo provato lo scorso anno, raccogliendo, con la sinistra alla finestra, le firme dei cittadini su due referendum abrogativi; le firme non sono state sufficienti. Ora, però, ci sono segni in Parlamento della volontà di voltare pagina, e l'11 febbraio la Consulta si esprimerà sulla costituzionalità della "Fini-Giovanardi", fatta passare nascondendola dentro un decreto-legge che in origine era dedicato al finanziamento delle Olimpiadi Invernali di Torino del febbraio 2006. L'obiezione pratica è che per costruire nuove carceri ci vogliono almeno quattro anni; l'ultimatum della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo all'Italia sulla situazione carceraria scade fra quattro mesi. E dove trovare sia i soldi per la costruzione sia quelli per il funzionamento dei nuovi istituti? Ha ragione il primo Presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce: l'unica soluzione è l'indulto. In attesa, aggiungono i radicali, di un provvedimento di amnistia che affronti i nove milioni di procedimenti pendenti nelle aule civili e penali. Giustizia: pochissimi detenuti per reati fiscali, l’Italia non punisce, la Germania si di Gian Antonio Stella Correre della Sera, 27 gennaio 2014 Nelle nostre carceri i detenuti 55 volte meno che in quelle tedesche. Da noi solo lo 0,4% dietro le sbarre. La media europea del 4.1 %. È solo una coincidenza se la Germania, il Paese di traino dell’Europa, ha le galere più affollate di detenuti per reati fiscali ed economici? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno? Non inciderà anche questo, sulle scelte di chi vuole investire in un Paese affidabile? È interessante mettere a confronto, dopo le denunce della Guardia di Finanza sulla stratosferica evasione fiscale italiana e lo scoppio dell’"affaire Angiola Armellini", i numeri del rapporto 2013 dell’ "Institut de criminologie et de droit pénal", curato dai docenti dell’Università di Losanna Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande, sulle statistiche del vecchio continente più alcuni Paesi dei dintorni come Azerbaijan e Armenia. Tanto più che non arriva mai in porto quella benedetta delega al governo, attesa e rinviata da anni, perché adotti "entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale" con un inasprimento delle pene compreso il ripristino delle manette. Dice dunque la tabella a pagina 96/97 di quel rapporto, dedicata alla ripartizione per tipo di reato dei detenuti condannati con sentenza definitiva (dati 2011) che nelle nostre carceri solo 156 persone, cioè lo 0,4% della popolazione dietro le sbarre, è lì per avere violato la legge in materia di criminalità economica e fiscale. Una percentuale ridicola. Tanto più rispetto alla media generale europea del 4,1%: il decuplo. Per non dire del confronto con due Paesi da sempre additati come paradisi fiscali o comunque assai ospitali nei confronti della finanza di moralità elastica. Dei detenuti del principato di Monaco, dove il 38% è dentro per furto e il 15% per stupro o aggressioni sessuali, il 23% è stato condannato per reati economici e finanziari. E questa quota sale addirittura, nel Liechtenstein, al 38,6%. Scrisse il grande Angelo Brofferio, poeta piemontese amato da papa Francesco, "Guai a col ch’a s’ancaprissia / ëd volèi giusta la giustissia!", Guai a colui che s’incapriccia / a voler giusta la giustizia. Parole amare. Ma giuste. Basti pensare alla sproporzione tra la condanna a 9 mesi di quel senegalese incensurato che, licenziato, aveva rubato al supermercato due buste di latte in polvere per il figlioletto e certi verdetti di manica larga. Un mese di carcere convertito in 1.500 euro di multa per aggiotaggio a un operatore finanziario dell’Umb, recidivo. Quattro mesi convertiti in 6 mila euro a due suoi colleghi di City Bank. Quattro mesi per insider trading al finanziere bresciano Emilio Gnutti. Due anni ma condonati al figlio di Licio Gelli, Raffaello, per bancarotta fraudolenta. Uno in meno di quelli che rischia l’immigrato etiope El Israel, rinviato a giudizio per aver colto un fiore per la fidanzata "spezzando i rami di un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa con l’aggravante di aver commesso il fatto su un bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede". Fatto sta che nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto, il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false. Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, "plebei". È la conferma di una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: "I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada "Oddio, c’è il falso in bilancio!" ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore". Sarà... Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri si sono pressoché dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del 2001 all’1,2% di oggi? Non va così, dalle altre parti. Se da noi i galeotti per reati economici sono un trentacinquesimo di quelli per rapina e un novantanovesimo di quelli per droga, nelle carceri tedesche l’ordine delle priorità è ben diverso. Evidentemente il famoso "giudice a Berlino" invocato dal mugnaio di Bertold Brecht considera lo scippo agli azionisti di qualche milione di euro più grave dello scippo di una borsetta sul bus. Certo è che in Germania i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari: 8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più. È un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del rispetto delle regole. Certo, ci sono anche lì truffatori e bucanieri della finanza e bancarottieri ed evasori. Ovvio. Quando li beccano, però, tintinnano le manette. Un caso per tutti? Quello di Klaus Zumwinkel: come amministratore delegato aveva fatto di "Deutsche Post" un gigante mondiale. Il giorno che l’accusarono di evasione fiscale aggravata, però, non gli fecero una garbata telefonatina per invitarlo a presentarsi in ufficio. No, per dimostrare che lì la legge è davvero uguale per tutti, decine di agenti della polizia tributaria, la Steuerfahndung, circondarono la sua lussuosa villa a Colonia e fecero irruzione all’alba. Né alcuno osò accusare Angela Merkel di avere istituito uno "Stato poliziesco". Lo "spread" tra la nostra quota di detenuti per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è vistoso non solo nei confronti della Germania. In rapporto agli abitanti, i "colletti bianchi" incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino all’abisso che ci separa dai tedeschi. E i francesi? Il dossier degli studiosi svizzeri non offre dati ufficiali esattamente coincidenti. Il sito web del ministero della Giustizia parigino, tuttavia, dice che nell’ottobre 2013 c’erano nei penitenziari d’oltralpe 4.969 detenuti per "escroquerie, abus de confiance, recel, faux et usage de faux" vale a dire frode, abuso d’ufficio, occultamento, falsificazione e uso di falsi. Reati da colletti bianchi. Colpiti da leggi molto più severe della nostra, come in tutti i Paesi seri. Quanto all’America, basti ricordare il solo Jeff Skilling, il potentissimo amministratore della Enron e principale finanziatore di George W. Bush che arrivò a guadagnare in un anno 132 milioni di dollari. Accusato della bancarotta della società, è stato condannato a 24 anni di carcere. Il pigiama color arancione della prigione di Waseca, nel Minnesota, potrà toglierselo solo nel 2028... Giustizia: Ass. Clemenza e Dignità; serve una soluzione, ce lo chiede la dignità dell’uomo www.imgpress.it, 27 gennaio 2014 “Più dell’Europa, penso che non possa proprio più attendere la dignità dell’uomo. Sulle carceri, non possiamo continuare a guadagnare tempo, contrapponendo eternamente la soluzione delle riforme, alla soluzione dell’amnistia o dell’indulto”. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, responsabile di Clemenza e Dignità, che aggiunge: “I cassetti del Ministero della Giustizia, sono già pieni di progetti di riforma del codice penale e di procedura penale. La verità è che le riforme sono molto più difficili da realizzare che un atto di clemenza. Questo perché - osserva - dietro il mondo della pena, gravitano anche delle diverse visioni politiche, ideologiche della società, nonché delle diverse concezioni della stessa società, in chiave religiosa oppure prettamente laica. Si prendano, a esempio, - conclude - il problema degli stupefacenti e la questione degli immigrati, e qualcuno provi a mettere d’accordo tutte le anime". Giustizia: Circolare Dap su “ricambio generazionale”, 450 psicologi penitenziali a rischio Il Friuli, 27 gennaio 2014 L’allarme lanciato dalla Sipp sulla Circolare emessa dal Dipartimento amministrazione penitenziaria. Sono 450 gli psicologi ed i criminologi che lavorano nelle carceri "in modo continuativo da 35 anni", che vengono "eliminati" con una circolare dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria. È l’allarme lanciato dalla Sipp (Società Italiana Psicologia Penitenziaria) che rappresenta, appunto, psicologi e criminologi. "Questa eliminazione - scrive in una nota il Segretario Sipp, Paola Giannelli - motivata con la nobile finalità di fare un ricambio generazionale e dare lavoro ai giovani, avviene quando la Magistratura di Sorveglianza chiede valutazioni qualificate ed attendibili ai fini dell’applicazione del decreto svuota carceri, applicazione che non è automatica ma richiede verifiche sul lavoro fatto e valutazioni aggiornate". Giannelli spiega che "il delicato compito di criminologi e psicologi è approfondire l’osservazione della personalità, promuovere ed accompagnare i detenuti in un percorso di consapevolezza, revisione dell’esperienza personale, elaborazione critica del reato, che concorre a una corretta applicazione delle misure alternative alla detenzione, al processo di riabilitazione della persona detenuta e, di conseguenza ed alla sicurezza alla collettività". I professionisti hanno presentato ricorso contro la circolare davanti al Consiglio di Stato che ha definito le motivazioni fondate ed "apprezzabili favorevolmente". Secondo Giannelli, "la circolare con cui l’amministrazione penitenziaria destituisce queste figure è la risposta data agli esperti in servizio poiché - dopo anni di trattative mai concluse - hanno avviato contenziosi, come tentativo estremo di avere di un contratto di lavoro dignitoso". Critiche sono state espresse nei confronti del provvedimento del Dap nei giorni scorsi anche dal Consiglio degli psicologi. Lettere: moratoria Circolare Dap e rinnovo convezioni degli “esperti” psicologi di Alessandro Bruni (Presidente Società Italiana Psicologia Penitenziaria) Ristretti Orizzonti, 27 gennaio 2014 Moratoria Circolare Dap e rinnovo convezioni degli “esperti” psicologi: nuova lettera del Presidente Consiglio Nazionale Ordine Psicologi. “Con riferimento all’Ordinanza del Consiglio di Stato del 14 gennaio 2014 (...) Si chiede alle SS.LL. di voler disporre, per quanto di competenza, una moratoria di un anno della Circolare Dap n. 3645/6095 dell’11 giugno 2013 “Impiego degli esperti di cui all’art. 80, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354” che ha determinato le nuove selezioni in corso da parte dei singoli Provveditorati Regionali, ciò al fine di sospendere l’esecutività delle selezioni stesse e, conseguentemente, disporre la proroga delle convenzioni in essere”. Così inizia la lettera che Giuseppe Luigi Palma, Presidente del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, ha inviato il 23 gennaio 2014 ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e per conoscenza al Ministro e ai Sottosegretari alla Giustizia. Anche il Presidente dell’Ordine, che da anni segue la vicenda degli psicologi penitenziari, è intervenuto ancora una volta per chiedere “La moratoria della Circolare e il rinnovo per il 2014 delle convezioni degli “esperti” permetterà di attendere gli sviluppi legati alla recente Ordinanza del Consiglio di Stato del 14 gennaio 2014 che, accogliendo il ricorso, ha evidenziato l’esistenza di un fondamento giuridico delle richieste avanzate ed ha chiesto al TAR di pronunciarsi a breve nel merito”. Palma rilancia la proposta di approfondire “ulteriori soluzioni non ancora esplorate” con l’obiettivo di “evitare futuri contenziosi” per l’Amministrazione Penitenziaria; “tutelare gli “esperti” psicologi che dal 1978 garantiscono gli interventi” evitando l’espulsione di circa 500 e “ampliare l’intervento inserendo nuovi psicologi ed eliminare il vincolo che limita a quattro anni il tempo massimo di lavoro entro lo stesso istituto penitenziario”. Inoltre, nella lettera viene ricordato ancora una volta che le nuove graduatorie che non tengono in considerazione esperienze specifiche pregresse “è in evidente contraddizione con il Protocollo d’intesa firmato tra Ministero della Giustizia, l’Associazione unitaria psicologi italiani e il Consiglio Nazionale nel quale è stato assunto l’esplicito impegno a «non disperdere le professionalità createsi e non vanificare le legittime aspettative di futura stabilizzazione degli operatori oggi legati all’Amministrazione Penitenziaria con convenzioni di durata annuale”. Catanzaro: Montuoro (Asp); sempre garantita l’assistenza sanitaria ai detenuti www.calabrie.it, 27 gennaio 2014 Il dott. Antonio Montuoro, referente della sanità penitenziaria, interviene sulle notizie riportate dagli organi d’informazione, circa la mancata assistenza sanitaria a un detenuto per fornire chiarimenti in merito alla vicenda e dichiara: “Secondo quanto riferito dagli organi di informazione, durante un sopralluogo effettuato nei giorni scorsi dalla parlamentare Enza Bruno Bossio con altri esponenti politici, presso la Casa Circondariale di Catanzaro, il Sig. Alessio Ricco, ristretto in regime di media sicurezza, avrebbe riferito che “ad oggi non è stato sottoposto ad alcuna terapia farmacologica antireumatica e non viene seguito da nessuno”. Le cose non stanno esattamente cosi. Il Sig. Ricco, dal mese di agosto u.s., ha cominciato a lamentare artralgie diffuse ricorrenti soprattutto alle mani ed ai piedi. Gli veniva, pertanto, prescritta terapia con antinfiammatori e richiesti esami di laboratorio. Vista l’alterazione degli indici di flogosi e dei fattori reumatici, nonché la resistenza alla terapia attuata, in data 10 ottobre veniva eseguita visita reumatologica presso l’ospedale “A. Pugliese" di Catanzaro. Lo specialista richiedeva l’esecuzione di ulteriori accertamenti (radiologici e di laboratorio) dopo sospensione della terapia per almeno venti giorni. Completati gli accertamenti il 4 dicembre il detenuto veniva inviato di nuovo al reumatologo ospedaliero il quale richiedeva la visione diretta dei radiogrammi eseguiti, prima di pronunciarsi definitivamente sulla diagnosi sospettata. Dopo la visione dei radiogrammi, lo specialista ha richiesto di visitare nuovamente il paziente. La visita è prevista nei prossimi giorni. Comunque, in tutto questo periodo, il sig. Ricco è stato visitato con assiduità dai medici dell’Istituto che hanno prescritto terapia sintomatica ed antinfiammatoria con lo scopo di alleviare le sofferenze. Voglio rassicurare l’On. Bruno Bossio, che, pur in presenza di una situazione difficile della sanità calabrese, sottoposta ai vincoli del piano di rientro, vi è una particolare attenzione dell’Azienda Sanitaria di Catanzaro per la medicina penitenziaria, per il bisogno di salute dei detenuti, espressi o inespressi. L’assistenza sanitaria a favore dei detenuti viene quotidianamente fornita all’interno degli Istituti Penitenziari ricadenti nell’ambito territoriale, ed all’esterno del carcere, in caso di necessità, per l’attività specialistica non altrimenti eseguibile in sede intramuraria o per ricoveri ospedalieri. Nella nostra azione portiamo sempre nella mente e nel cuore l’alt. 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica garantisce la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della comunità, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Roma: Sindaco Marino; con il Dap stiamo realizzando un progetto per le mamme detenute Ansa, 27 gennaio 2014 "Stiamo realizzando con il Ministero e con il Dap un progetto per accogliere le mamme che stanno scontando la propria pena in carcere". Ad affermarlo il sindaco della Capitale Ignazio Marino a margine del Forum regionale degli scout Agesci alla Fiera di Roma. "Vogliamo mettere a disposizione di queste donne - ha aggiunto - delle case famiglia esterne alle strutture carcerarie dove stare con i propri figli per evitare ai bambini di vivere in condizioni di disagio e con il rischio di ferite psicologiche che si porteranno dietro per la vita. Saranno degli spazi in cui potranno scontare la loro pena crescendo i bambini senza penalizzarli. Pensiamo che nei prossimi mesi avvieremo il progetto", ha concluso il sindaco. Genova: Sappe; detenuto di Marassi ingoia 4 pile per non essere espulso in Tunisia Ansa, 27 gennaio 2014 Ancora un evento critico di una certa gravità nel carcere genovese di Marassi, dove negli ultimi giorni 3 detenuti stranieri si erano cuciti la bocca per protesta. "Ieri pomeriggio, un detenuto straniero destinatario di provvedimento di espulsione per la Tunisia, ha inghiottito 4 pile per non dare esecuzione al provvedimento, e cioè non essere espulso. È stato immediatamente portato in ospedale e questo ha ovviamente differito ad altra data l’esecutività del provvedimento. Un altro evento critico, dopo i tre detenuti che si sono cuciti la bocca, che ha visto protagonista uno straniero", comunica Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. Per il Sappe, che ha rinnovato l’appello ieri nel corso dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Genova, il Governo deve potenziare le espulsioni degli stranieri detenuti in Italia. Martinelli sottolinea però come siano "assai contenuti" i numeri relativi ai detenuti stranieri espulsi a titolo di misura alternativa alla detenzione: "Parliamo, a livello nazionale, di soli 896 espulsi nel 2011 e 920 nel 2012: rispetto ai 22mila detenuti stranieri in Italia sono una goccia nel mare. E sui numeri, la percentuale più alta di detenuti espulsi riguarda gli albanesi (262 per una percentuale del 28,5%), seguiti da marocchini (196, e cioè il 21,3%), tunisini (107, 11,6%) e nigeriani (40, pari al 4,3%). Altri 315 (il 34,2%) sono di altri Paesi. È ovvio che questi numeri limitati non producono alcuna efficacia ed alcuna miglioria al sistema penitenziario". Ragusa: incendio nel carcere della città, a renderlo noto il Sindacato Fns-Cisl www.ragusanews.com, 27 gennaio 2014 Nella giornata di sabato, nel penitenziario di Ragusa, intorno alle 15, subito dopo la chiusura del cortile passeggi e il rientro dei detenuti nelle rispettive camere detentive, in una di queste, a causa del malfunzionamento di un fornellino a gas regolarmente in dotazione, è scoppiato un incendio. A comunicarlo è la Federazione nazionale sicurezza della Cisl. I sindacalisti spiegano che "qualora l’incendio non fosse stato prontamente domato dai poliziotti penitenziari in servizio, avrebbe avuto conseguenze assai più gravi di quelle accertate, sia per i detenuti interessati sia per gli operatori di polizia penitenziaria". Sono state le urla dei detenuti ad attirare l’attenzione dei poliziotti addetti alla vigilanza. Gli agenti non hanno esitato ad azionare il dispositivo di allarme per richiamare i rinforzi e provvedere con prontezza all’evacuazione dei detenuti e a spegnere le fiamme con l’ausilio degli estintori in dotazione, evitando il propagarsi nell’intero Istituto penitenziario. "Fortunatamente tale incidente, oltre alla comprensibile paura, ha fatto registrare per i soli detenuti - spiega la Cisl - lievi ustioni e contusioni prontamente curate dal Personale sanitario dell’istituto stesso". La Fns Cisl, oltre ad esprime un plauso ai propri colleghi della Casa Circondariale di Ragusa, "che come sempre hanno operato con alto senso del dovere e spirito di servizio, vuole evidenziare come il Corpo di polizia penitenziaria nel proprio difficile e delicato compito istituzionale, troppo spesso e ingiustamente attaccato per fatti di cronaca, in realtà nel quotidiano salva tante vite umane in rispetto dell’imprescindibile principio di legalità e in ossequio alla Costituzione secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale". Lecce: progetto di "Antigone" nella Casa circondariale, musica e scrittura per i detenuti www.restoalsud.it, 27 gennaio 2014 "L’attività trattamentale è strumento irrinunciabile per la rieducazione del condannato e per il suo futuro reinserimento sociale: corsi come questi sono fondamentali per stimolare la socialità all’interno delle carceri". Patrizio Gonnella, presidente di Antigone onlus, associazione che da oltre venti anni è impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti, sintetizza così "Storie d’amore e libertà", il progetto formativo voluto all’interno della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Nato in collaborazione con l’associazione culturale leccese Bfake, prevede due corsi dedicati a quindici detenuti. Uno di Street Art rivolto alla sezione femminile e l’altro di Musica e scrittura creativa per la sezione maschile. "La passione per i diritti e l’impegno civico sono stati fondamentali per spingere il progetto all’interno del carcere leccese, struttura piuttosto grande che ospita circa 1.200 detenuti. L’obiettivo - illustrano dalle associazioni - è quello di creare un vero e proprio spazio neutrale, in cui i detenuti possono sentirsi liberi di esprimersi in discipline che notoriamente migliorano il benessere psicofisico della persona, obiettivo questo alla base della finalità della pena". Dopo una serie di proficui incontri con i detenuti all’interno della casa circondariale di Lecce, resi possibili grazie all’entusiasmo dimostrato nei confronti del progetto dal direttore Antonio Fullone, ben due classi composte da quindici detenuti si stanno confrontando con arte, musica, scrittura e creatività. "A fronte della attività per i detenuti già avviate all’interno del carcere, fra le quali ricordiamo un corso di teatro e i laboratori di sartoria e falegnameria, la scelta di traghettare all’interno della Casa Circondariale due corsi espressamente rivolti all’arte ed alla creatività non è affatto casuale - spiegano ancora -. Grazie al corso di Street Art i partecipanti potranno immediatamente confrontarsi con tutte le moderne tecniche artistiche proprie dell’arte di strada. Graffiti, stencil, disegni e collage, con la guida di insegnanti esperti e la presenza già confermata di ospiti illustri di fama nazionale, diverranno strumenti di libertà e partecipazione mentre, grazie al corso di musica e scrittura creativa, i mille pensieri che affollano la mente di chi vive all’interno di una cella potranno diventare, nell’ottica di un lavoro coordinato e corale, il testo di un brano rap da scrivere, registrare e condividere". Il progetto vede come partner principale il Garante dei diritti dei detenuti, dott. Piero Rossi che ha contribuito alla realizzazione dell’iniziativa. Il corso di Street Art sarà curato da Francesco Ferreri e Ania Kitela, mentre il corso di musica sarà gestito da Ennio Ciotta e Massimo Armenise. Sulmona (Aq): in carcere scatta l’allarme topi in carcere, divorati i sedili di un mezzo Il Centro, 27 gennaio 2014 Il carcere di Sulmona è invaso dai topi. La denuncia arriva dalla Uil penitenziari che sottolinea come il mancato conferimento in discarica dei rifiuti riciclabili, stia creando molti problemi igienici alla struttura carceraria. Soprattutto ai mezzi utilizzati per il trasferimento dei detenuti. "Il completo immobilismo da parte degli organi preposti allo smaltimento dei rifiuti", sottolinea Mauro Nardella, della Uil, "malgrado le reiterate richieste avanzate dalla direzione del carcere, oltre a offrire un’immagine indecorosa, sta permettendo il proliferare sempre più di topi". "Proprio l’altro giorno", riferisce Nardella, "due addetti al magazzino detenuti, nel prendere atto della condizione di un automezzo in dotazione al corpo di polizia penitenziaria, hanno notato la presenza di molti escrementi di topi i quali, da buoni roditori, hanno pensato bene di divorare parte dei sedili anteriori rendendoli inutilizzabili". Il timore è che ben presto i topi possano allargare il raggio d’azione invadendo anche le celle dei detenuti. "La Uil penitenziari", conclude il sindacalista della Uil, "sollecita quindi chi è preposto alla rimozione dei rifiuti, a farsi carico della situazione. Nel caso la questione non fosse risolta nel giro di qualche giorno, saremo costretti a rivolgerci all’ufficio igiene della Asl". Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria ancora bocche cucite per protesta di Jolanda Bufalini L'Unità, 27 gennaio 2014 "Perché siamo qui?", non riescono a capire perché siano stati rinchiusi, senza aver compiuto alcun reato, in un luogo che non è un carcere ma è peggio. E non sanno per quanto tempo ci resteranno. ll Cie di Ponte Galeria, Centro di identificazione ed espulsione. Che significa "trattenuto", "proroga", "convalida", parole intraducibili coniate dalla burocrazia di un paese sconosciuto? È una situazione che fa impazzire, che fa ammalare, è una incertezza senza fine, spiega Valentina Brinis che a Ponte Galeria è andata con Valentina Calderoni e Luigi Manconi, presidente della commissione parlamentare per i diritti umani. Sono in 15, di nazionalità marocchina, 13 di loro si sono cuciti le labbra, come fu anche alla vigilia di Natale. Ma non sono gli stessi di Natale. Il capo della protesta di allora è stato rimpatriato un paio di settimane fa, adesso il portavoce non ha le labbra cucite. Altri particolari li racconta Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio: nove di loro sono arrivati al Cie direttamente da Lampedusa, il viaggio nel barcone, con tutto quello che si può immaginare, con il rischio del naufragio, di affogare. E, prima, sembra che alcuni di loro abbiano fatto tappa in Libia, dove sono stati trattati come schiavi, come bestie. Hanno già conosciuto l’inferno, le vessazioni dei trafficanti che li hanno traghettati fino alle nostre coste. Avrebbero bisogno di tutto, di assistenza fisica e psicologica, di avviamento, di conoscere i rudimenti su come funziona il paese dove sono sbarcati. Invece sono chiusi in un non luogo che faticano a comprendere. Poi arriva la notizia, al Cie di Caltanissetta i loro connazionali, sbarcati insieme a loro a Lampedusa, sono stati "dimessi". Dimessi, che significa? Significa che sono usciti, sono liberi. Poco importa che in tasca abbiano un foglio di via e se non se ne andranno volontariamente potrebbero essere ripresi e rimpatriati forzatamente. Sei libero, una chance ce l’hai. La notizia da Caltanissetta - racconta Valentina Brinis - è stata la scintilla, l’esasperazione si è trasformata in rivolta. Khalid Chaouki, parlamentare Pd e coordinatore del gruppo interparlamentare sull’immigrazione, è appena arrivato a Strasburgo per il Consiglio d’Europa, dove si parlerà anche di queste problematiche, dell’accoglienza, del rispetto dei diritti umani. Spiega l’imbarazzo, la difficoltà di fronte a cui si troverà la delegazione italiana. È in programma, per il 13 febbraio, una relazione sulle condizioni nei centri di accoglienza e nei Cie in Italia: "L’Italia è già stata più volte condannata per violazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani". Ora la delegazione italiana vorrebbe "prevenire nuovi attacchi", "è certo un bene che il Consiglio d’Europa vigili ma è anche importante riuscire ad evitare, come paese, una nuova condanna". La situazione di Ponte Galeria è "il frutto di una indifferenza che dura da dicembre", quando Chaouki si rinchiuse volontariamente nel centro di Lampedusa, per raccontare a tutti le condizioni di cattività ed esasperazione. Il problema è "la lentezza " delle procedure, che possono portare a una conclusione diversa il percorso di chi è al Cie. A Ponte Galeria sono ancora rinchiusi "Giulietta e Romeo" tunisini, la ragazza perseguitata dalla famiglia fino alla tortura, per la contrarietà al matrimonio con il suo "Romeo". Eppure, nel loro caso, il giudice ha stabilito "una proroga del termine di rimpatrio". L’autorità giudiziaria si è mossa ma non sono seguiti atti concreti. Casi diversi, conclusioni diverse. Alcuni dei rinchiusi avrebbero diritto al permesso umanitario, altri dovrebbero essere rimpatriati. Ma le autorità diplomatiche di alcuni paesi, tunisine, nigeriane, non si muovono volentieri e non sono sollecitate adeguatamente dal Viminale. La legge prevede che, per chi è incarcere, l’identificazione avvenga lì. Invece anche i carcerati finiscono al Cie. E si crea una promiscuità e una gerarchie, in cui chi viene dalla scuola del carcere è un leader naturale. Le notizie da Ponte Galeria sono frammentarie e contraddittorie, in parte arrivano dalle delegazioni per i diritti umani, dalle Ong come "FateCIEntrare ", altre da qualche telefonata clandestina. Per paradosso, dice Chaouki, "in carcere, ci sono più garanzie". Una gestione già pessima che peggiorerà, si risparmia sui Cie con gare al massimo ribasso, come è appena avvenuto a Ponte Galeria. Forse si risparmierebbe di più chiudendoli: "Solo il 40% dei rinchiusi nei Cie - spiega Valentina Brinis - viene rimpatriato, quantità che corrisponde all’1 per cento degli stranieri irregolari in Italia". Immigrazione: Cie di Ponte Galeria, dopo un mese non è cambiato nulla Ansa, 27 gennaio 2014 "È evidente che il tempo della politica scorre molto più lentamente rispetto a quello di persone che sono passate dal dramma di un’immigrazione difficile e violenta a luoghi con pochissima dignità come sono i Centri di Identificazione ed Espulsione". Lo dichiara, in una nota, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la nuova protesta in atto all’interno del Cie di Ponte Galeria. Nei giorni scorsi, gli operatori del Garante che settimanalmente si recano nella struttura, avevano incontrato alcuni degli immigrati marocchini che ieri sera si sono cuciti la bocca, ed avevano raccolto la loro frustrazione ed il loro disagio per le condizioni di vita nella struttura e per i lunghi tempi di attesa. "È passato solo un mese dalla protesta choc di Natale - ha aggiunto Marroni - e siamo tornati di nuovo al punto di partenza. Spero che, dopo le promesse, il Parlamento approvi al più presto le norme necessarie a porre fine a questa vergogna". Campidoglio: Cie vergogna indegna Tredici marocchini si sono cuciti la bocca nel Cie di Ponte Galeria a Roma e hanno annunciato che faranno uno sciopero della fame, com’era già accaduto il mese scorso. Gli immigrati erano arrivati nel Cie da Lampedusa. Secondo il direttore del centro, la protesta nasce dal "protrarsi della loro permanenza" nella struttura, raccontando storie di altri immigrati che sono usciti prima di loro in altri punti dell’Italia. Nelle scorse settimane, parlamentari del Pd come Luigi Manconi avevano sollevato il problema dei Cie, dopo il video degli stranieri e delle "docce all’aperto" a Lampedusa. Il deputato del Pd Khalid Chaouki si era rinchiuso nel centro di Lampedusa per protesta. "Spero che dopo le promesse il parlamento approvi presto le norme necessarie a porre fine a questa vergogna", ha detto il Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, mentre per il vicesindaco di Roma bisogna "mettere fine a una vergogna indegna del nostro Paese. Non si possono trattenere persone che non hanno commesso alcun reato in strutture degradate e insalubri come i Cie". Ora, che i Cie siano in fase di chiusura in tutta Italia andrebbe ricordato come pure dovremmo ricordare che il ministero dell’Interno ha avviato una indagine conoscitiva sulle strutture come pure che alcuni degli stranieri che si sono cuciti la bocca a Ponte Galeria il mese scorso avevano commesso dei reati; almeno in teoria, infatti, nei Cie dovrebbero esserci persone che devono essere espulse dal nostro Paese. Ora si può dire che i tempi di permanenza dei Cie vanno ridotti, tornando ai trenta giorni della Turco-Napolitano. Ma sull’ultimo punto che abbiamo toccato, chissà perché, se si parla di Cie, il silenzio di chi s’indigna è assordante. India: il mistero buffo dei marò, così i media italiani hanno creato due falsi eroi di Matteo Miavaldi Il Foglio, 27 gennaio 2014 Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie a un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei "nostri ragazzi", promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata - andiamo di eufemismi - parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. È il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony e uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina a Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano - che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito - asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della Cisf (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare dal Giornale, quotidiano che, citando un’amica, "mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra". Che il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi: 1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre - stavolta sì, nostre - forze armate, impegnate a "difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo" anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, sennonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è - parzialmente - un’altra storia. 2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi vent’anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. È il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi. Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane. La querelle sulla posizione della nave e una curiosa "controperizia" La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate "rilevazioni satellitari". Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal Gps della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta "zona contigua". Il diritto marittimo internazionale considera "zona contigua" il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane - che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà - è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati e analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale - non è il mio mestiere - e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3D. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: "Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?". Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Unghie sui vetri: "Non sono stati loro a sparare!" Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: "La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo". I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che: 1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione. Secondo la legge italiana e i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati. La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana - come la St. Antony - deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali. A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (Sua Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India. La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale. In oltre dieci mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti al limite della legalità che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per "riportare a casa i nostri marò". In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Descritti come "prigionieri di guerra in terra straniera" o militari italiani "dietro le sbarre", Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan sull’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, "dietro le sbarre" non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: "I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole Cisf Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa". Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali e arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale "spirituale" con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di "immischiarsi in un caso penale", convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di "una donazione", di "un atto di generosità slegato dal processo". Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300 mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda "va contro il sistema legale indiano, è inammissibile". Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo- Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo otto mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello del Giornale e alle "migliaia di lettere" che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: "[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana". La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: "Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo". Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che "testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò", la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina "non ha e non vuole avere alcuna valenza politica". In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-il Giornale, accolta in India da polemiche più che ampiamente giustificabili, il racconto dei marò - precedentemente "dietro le sbarre" - è poi continuato imperterrito con toni a metà strada tra un romanzo di Charles Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che "i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro". L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di informare preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa. In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere "come un fogliaccio del Kerala "; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto "l’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!"; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come "Eroe") ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo - in Italia o in India, speriamo che sia giusto - sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. Svezia: carceri vuote e detenuti reinseriti senza colpi di spugna di Paola Porciello Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2014 Un sistema detentivo che non si basi solo sulla pena, ma sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale. É il modello svedese che, numeri alla mano, dimostra che senza indulti o svuota carceri può incidere lì, dove sarebbe opportuno: il rischio di reiterazione del reato una volta usciti. È quanto accade in Svezia, dove il numero dei detenuti invece che aumentare, diminuisce. A novembre il paese scandinavo ha deciso di chiudere quattro istituti. Dal 2004 il numero dei carcerati è infatti calato dell'1 per cento annuo fino a precipitare a un meno 6 nel biennio 2011-2012, con la stessa previsione per i prossimi due anni. Ma non è una favola: la criminalità esiste. La certezza della pena e il reinserimento però portano a quello che, in tutto il mondo civile, iniziano a prendere come esempio sulla detenzione. Sulla reiterazione dei reati Le ragioni? Dietro uno degli indici di recidiva più basso d'Europa (30-40% nei primi tre anni) ci sono veri programmi di riabilitazione, prevenzione e pene non carcerarie per i reati minori. Il possesso di piccole quantità di droga, ad esempio, viene punito con multe o affidamento ai servizi sociali territoriali che si sono dimostrati molto più efficaci nello scongiurare la reiterazione del reato. In Svezia il recupero e il reinserimento sociale non sono solo parole, ma reali obiettivi della pena detentiva. Si cerca di dare all’individuo la possibilità di capire quali sono state le conseguenze dei suoi gesti sugli altri e soprattutto su se stessi, mentre si lavora, si studia e ci si prepara al rientro in società. La privazione della libertà, secondo questo modello, è l'unica vera pena detentiva che va perpetrata. In sostanza, un approccio al crimine e alla carcerazione di natura liberale e progressista. Diametralmente opposto a quello statunitense, dove la percentuale di recidiva oscilla tra il 40 e il 70% e dove le prigioni sembrano più mirate a infliggere una sofferenza per "pareggiare i conti", eliminando i bisogni fondamentali dell'individuo. Uno studio pubblicato dal sito dropoutprevention org che mette a confronto il sistema detentivo statunitense con quello dei paesi scandinavi, evidenzia come questi ultimi raggiungano più efficacemente l'obiettivo di ridurre il tasso di "ricaduta". Quando la Norvegia ha deciso di implementare il sistema carcerario svedese, ha visto diminuire il proprio numero di detenuti da 200 (nel 1950) a 65 (nel 2004) per ogni 100mila abitanti. Nella prigione modello di Bastoy, si cerca di sviluppare tra i reclusi il senso di responsabilità dando loro opportunità di lavoro in base alla loro comprovata capacità di costruire e mantenere comportamenti sani e rapporti di fiducia con l'amministrazione carceraria. Si possono programmare autonomamente le proprie attività scegliendo tra diverse opzioni: un laboratorio di pittura, o di lettura, magari di ceramica. In questo modo si cerca di sviluppare l'indipendenza della persona. In un recente articolo del Guardian , il giornalista Erwin James ha chiesto al responsabile del servizio carcerario svedese Nils Oberg quali fossero i motivi della diminuzione dei loro detenuti. Non sapendo dare una risposta precisa, Oberg ha ipotizzato che il fenomeno fosse appunto una conseguenza diretta dell'applicazione dei programmi riabilitativi perfezionati nel corso degli anni. Inoltre, in Svezia, l'età per poter essere giudicati è fissata a 15 anni, e fino a 21 niente ergastolo. Kenneth Gustafsson, direttore del carcere di Kumla, il più sicuro del paese situato 130 miglia a Ovest di Stoccolma, ha raccontato al giornale inglese: "Nella mia esperienza, la maggior parte dei detenuti ha voglia di cambiare e dobbiamo fare tutto quello che possiamo per far sì che questo accada". Gli obiettivi che si propone il dipartimento di Giustizia per gli anni a venire vanno nella direzione di un ulteriore perfezionamento dei programmi di recupero: "La nostra priorità saranno i giovani detenuti e gli uomini con accuse legate a comportamenti violenti. Per molti anni ci siamo dedicati ai tossicodipendenti, mentre adesso ci stiamo concentrando sullo sviluppo di programmi specifici per far fronte ai reati di aggressione e violenza. É di questo che si preoccupano i cittadini al momento del reintegro in società dei detenuti". Associazioni di volontariato Un'altra spiegazione di questo fenomeno potrebbero essere le tante associazioni di volontariato formate da ex-detenuti che mettono a disposizione un'efficace rete di supporto per chi entra o esce dal carcere, provvedendo non solo a una costante supervisione ma garantendo programmi di trattamento per chi deve scontare reati collegati all'abuso di sostanze, o ad atti violenti. Peter Soderlund ha scontato quasi tre dei quattro anni di detenzione per una storia di droga e armi prima di essere rilasciato nel 1998. "Quando ero dentro - racconta al Guardian - sono stato fortunato. Il direttore della prigione di Osteraker, dove ho scontato la mia sentenza, era illuminato. Venivamo trattati bene. Ho incontrato molte persone che avevano bisogno di sostegno e dopo essere stato aiutato dall'associazione Kris ho capito che volevo fare lo stesso per gli altri. Con la nostra associazione X-Cons, incontriamo i detenuti al loro ingresso e li seguiamo nel processo di inserimento offrendo una rete di supporto". Entrando in una prigione svedese potreste anche non accorgervi di essere in un istituto di pena. Specie nelle fasi avanzate della detenzione vedrete detenuti che escono per recarsi a lavoro, o per studiare, indossando i propri vestiti. Alcune celle somigliano più a stanze di campus universitari con televisori a schermo piatto, cellulari e mini-frigo. Niente impenetrabili barriere, né condizioni punitive inflitte al solo scopo di rispondere al bisogno di giustizia delle vittime. Ma un'organizzazione mirata al recupero di chi vuole davvero essere aiutato a tornare nella società. Svizzera: nelle carceri elvetiche ci sono 7.072 detenuti, a fronte di 7.048 posti www.cdt.ch, 27 gennaio 2014 Ben 7072 detenuti a fronte di una capacità ufficiale delle carceri svizzere di 7048 posti: questa la situazione al 4 settembre 2014, giorno di riferimento. Lo comunica lunedì mattina l’Ufficio federale di Statistica. Altri dati: il 51% dei detenuti è rappresentato da condannati all’esecuzione di pene e misure; il 30% si trova in carcere preventivo; 141 persone sono in internamento. Il numero di detenuti minorenni, invece, è calato di circa un quarto dal 2011. Tra il 1999 e il 2013 il numero di condannati all’esecuzione di pene e misure è salito del 35% e ha raggiunto un nuovo record: 3667 persone. L’aumento è riconducibile all’incremento di detenuti con provvedimento stazionario (+172 persone) e di persone che scontano una pena detentiva al posto di una pecuniaria (+262 persone). Il numero di detenuti per esecuzione anticipata della pena è salito del 55% (+273 persone). Nessuna grande variazione, invece, per i casi di carcere preventivo (2%) e di altre forme detentive. Sempre nel giorno di riferimento (4 settembre 2013), 575 minorenni erano detenuti in istituti idonei secondo il codice penale minorile, ovvero il 9% in meno del 2012 e il 24% in meno del 2011. Di queste, il 91% erano di sesso maschile e il 9% di sesso femminile. Il 61% dei minorenni collocati era di nazionalità svizzera, il 32% di origine straniera con domicilio in Svizzera e il 5% erano richiedenti l’asilo o stranieri con domicilio all’estero. Nel giorno di riferimento, l’85% dei giovani detenuti (491 persone) stava scontando provvedimenti cautelari o ordinari e 21 (4%) erano i casi di privazione della libertà. Siria: dopo fallimento scambio prigionieri si discute sul corridoio umanitario per Homs Nova, 27 gennaio 2014 Dopo il fallimento ieri della discussione sullo scambio di prigionieri, i delegati del regime siriano di Bashar al Assad e quelli dell’opposizione riuniti a Homs discutono oggi dell’apertura di un corridoio umanitario per i cittadini di Homs. Lo riferisce l’inviato dell’emittente televisiva "al Arabiya". La delegazione del regime siriano ha accolto le richieste dell’opposizione che partecipa alla conferenza Ginevra II di aprire corridori sicuri per permettere l’uscita in sicurezza delle donne e dei bambini dalla città di Homs. Lo ha reso noto ieri l’inviato internazionale per la Siria, Lakhader Brahimi, il quale ha confermato che si riunirà anche oggi con le due delegazioni per incontri separati. Sono ripresi ieri i negoziati diretti raggiungendo un’intesa minima che prevede l’apertura, da parte del regime, di un corridoio umanitario per permettere un’uscita in sicurezza dei bambini e delle donne dai quartieri della città di Homs assediati da mesi dalle forze governative. Eppure l’opposizione siriana parla del "tergiversare del regime" che ostacolerebbe il raggiungimento di una prima intesa su detenuti e aiuti umanitari alla città di Homs. Per l’opposizione "la delegazione del governo è venuta a Ginevra per tergiversare". La prima intesa realizzata direttamente nella conferenza Ginevra II affronta la prova dei fatti nella giornata di oggi, con l’incontro fissato dall’inviato internazionale Brahimi per far muovere i convogli umanitari verso la città di Homs assediata dalle forze governative. Già verso la serata di ieri il ministro dell’Informazione siriano Omran al Zoby in una dichiarazione ai giornalisti ha detto che il suo governo non permetterà l’ingresso dei convogli nella città senza avere raggiunto prima un accordo sulle misure di sicurezza. Kuwait: Hrw; cinque anni di carcere ed espulsione per un Tweet, condanna scioccante Ansa, 27 gennaio 2014 L’organizzazione Human Rights Watch (Hrw) ha definito oggi "scioccante" la condanna a cinque anni di carcere e all’espulsione dal Paese inflitta in Kuwait a un cyberattivista che aveva postato un tweet diffamatorio. Un tribunale ha emesso la sentenza il nove gennaio scorso contro Abdallah Faizouz Abdallah Abd al-Karim, 30 anni, accusato di avere pubblicato un testo su Twitter giudicato offensivo nei confronti dell’emiro del Kuwait. Il giudice ha ordinato l’espulsione dal Paese dell’accusato una volta scontata la pena, anche se l’uomo è un cittadino del Kuwait. Russia: Khodorkovsky; Putin aveva dato ordine di non uccidermi in carcere Adnkronos, 27 gennaio 2014 "Putin ha proibito di ammazzarmi". È quanto ha affermato, in un intervista pubblicata oggi da due giornali svizzeri, l’ex magnate russo, Mikhail Khodorkovsky, spiegando che il presidente Vladimir Putin si era espresso personalmente per impedire che fosse ammazzato durante i dieci anni trascorsi in prigione. "Non ne sono stato subito cosciente, ma dopo sei mesi mi sono accorto che vi era un ordine esplicito che impediva di toccarmi" ha detto nelle interviste pubblicate da "Le Matin Dimanche" e "Sonntags Zeitung" l’ex magnate russo che è stato scarcerato poco prima di Natale per decisione di Putin.