Giustizia: l’indulto si può e si deve fare di Danilo Leva (Deputato Pd) L’Unità, 26 gennaio 2014 Non possiamo voltare lo sguardo di fronte alla condizione inumana degli istituti di pena. L’inaugurazione dell’anno giudiziario, coincide quest’anno con una stagione di riforme e di innovazioni legislative capaci di incidere sul sistema giudiziario italiano. Per troppi anni la macchina della giustizia italiana è stata ferma producendo dilatazione e lentezza dei procedimenti ed aumenti dei costi di accesso. Tutti elementi di debolezza che hanno alimentato diseguaglianza sociale e scarsa tenuta competitiva del "sistema-Paese". La panoramica tracciata dal Presidente Santacroce nella sua relazione è devastante, soprattutto rispetto al sovraffollamento carcerario, all’uso disinvolto fatto negli anni della custodia cautelare e ai tempi del processo. Oramai si è diffusa la consapevolezza della improcastinabilità di una riorganizzazione del sistema giudiziario. Tocca alla politica rimuovere le contrapposizioni inutili e dannose e creare le condizioni di condivisione nella società, oltre che tra gli operatori, affinché le riforme abbiano le gambe per camminare. Il campo del diritto civile ha bisogno di interventi capaci di superare la filosofia del "costo zero", vale a dire l’illusione che sia sufficiente intervenire sulle regole del processo senza risorse o investimenti aggiuntivi per migliorarne la qualità. Si tratta di una impostazione sbagliata che, nel corso degli anni, ha prodotto solo guasti. Sempre in relazione al settore civile, poi è necessario superare la frammentarietà dei riti con l’affermazione, come rito ordinario, di quello del lavoro. Inoltre bisogna giungere all’affermazione del processo telematico sull’intero territorio nazionale, con un sguardo rivolto all’introduzione di istituti innovativi come quello della negoziazione assistita. Sul terreno del diritto penale, invece, occorre rimuovere innanzitutto le condizioni di inciviltà che caratterizzano il nostro ordinamento. Dunque, ben vengano la riforma della custodia cautelare, a cui il Partito democratico ha dato un contributo importante, l’introduzione di nuovi istituti come la messa alla prova, il potenziamento delle misure alternative e le nuove normative contenute nel Decreto Carceri. Tutte misure significative ma che non saranno, però, sufficienti ad allineare i nostri istituti penitenziari agli standard indicati dalla sentenza Torreggiani (emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’8 gennaio 2013). Abbiamo il dovere morale di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. Una forza riformista come il Pd, di fronte alla condizione inumana degli istituti di pena nazionali, non può girare lo sguardo da un’altra parte e cedere al canto delle sirene dei sondaggi o degli orientamenti popolari. È necessario riaffermare la legalità e la certezza del diritto nel nostro Paese, ed è una battaglia giusta da fare. Pertanto oggi, proprio alla luce dei provvedimenti strutturali in corso di approvazione, il Parlamento deve aprire la riflessione sulla necessità di un atto straordinario di clemenza. Tutto ciò non è più eludibile. Così come non può essere sottaciuta l’urgenza di riformare l’istituto delle intercettazioni ampliando la sfera di riservatezza dei cittadini senza svilirne la funzione di ricerca della prova. Ma ancora dobbiamo avere la forza di mettere in agenda la riforma della responsabilità civile dei magistrati o il tema dei magistrati fuori ruolo. In una fase di grande difficoltà come quella che stiamo attraversando, tutti hanno il dovere di dare una mano e non possono esistere argomenti tabù. Un’altra grande sfida a cui rispondere con immediatezza è quella della tutela effettiva delle vittime da reato, tema non derubricabile ad argomento secondario nel dibattito politico. Tutto questo impone, però, uno scatto di coraggio e di ambizione. Per cambiare la giustizia italiana servono cultura delle garanzie e passione per i diritti. Viviamo in un Paese in cui molto spesso in nome della certezza della pena si è finiti per abbattere le garanzie dei cittadini costituzionalmente riconosciute. Questo è un paradigma da rovesciare. Sisto (Fi): sosteniamo indulto e amnistia "Noi sosteniamo indulto e amnistia". Francesco Paolo Sisto (Fi), avvocato penalista e presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, ha toccato il tema del sovraffollamento delle carceri nel suo intervento in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Bari. "Parliamoci chiaro - ha detto Sisto - non siamo buonisti, ma è evidente che l’Europa ci ha bacchettato e costruire nuove carceri significa nuovi business e nuovi intoppi burocratici. Io penso innanzitutto che si debba svuotare le carceri in modo intelligente, con un provvedimento di clemenza che sia ragionevolmente capace di raggiungere l’effetto". Sisto ha parlato di "corto circuito": "Se i processi non funzionano - ha spiegato - c’è ovviamente un’inefficienza della giustizia e l’uso del carcere per sopperire all’incapacità di sentenze rapide". "Bisogna intervenire - ha concluso - sul processo e sulla base esecutiva della pena". Di Pietro (Idv): indulto non è soluzione "Con tutto il rispetto per il primo presidente della Suprema Corte, Giorgio Santacroce, non posso che essere critico su alcune sue posizioni". Lo scrive in un post sul suo blog il Presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che aggiunge: "Come si può ritenere che l’indulto sia l’unica soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri italiane? Rimettere in libertà i delinquenti è un’assurdità, un’offesa alle vittime dei reati che, in questo modo, verrebbero beffate due volte. Noi dell’Italia dei Valori lo abbiamo detto più volte: l’emergenza carceraria può essere risolta da un lato, con la creazione di nuovi istituti penitenziari, dall’altro intervenendo sulle strutture pronte ma non ancora utilizzate e su quelle dismesse, come le ex caserme, che potrebbero essere rese immediatamente operative. Inoltre si potrebbero depenalizzare alcuni reati minori, evitando così di affollare le carceri. Sono queste le misure che dovrebbero essere varate e non certo la messa in libertà di criminali incalliti". "Così facendo - spiega Di Pietro - oltre a mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini, lo Stato dà l’idea di essersi arreso ai delinquenti che, in questo modo, si sentiranno incentivati a commettere reati". "Vent’anni di Berlusconismo - prosegue Di Pietro - hanno prodotto solo danni al sistema giustizia: norme ad personam che hanno sbianchettato i reati rendendo lecito ciò che prima era illecito, mortificazione delle professionalità, tagli scellerati. Per questo, ribadisco che non si può proseguire su questa strada e che bisogna invertire la rotta immediatamente". Maroni (Ln): non rimettere in libertà delinquenti L’indulto "è sbagliato" perché per risolvere l’emergenza carceri in Italia "tutto si può fare tranne che rimettere in libertà i delinquenti". Così il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, ribadisce la contrarietà Lega Nord nei confronti delle misure contenute nel cosiddetto decreto ‘svuotacarcerì. Il problema, secondo Maroni, è che "con quest’indulto escono anche i mafiosi, addirittura quelli al 41 bis. Questa è una preoccupazione fortissima che ho da ex Ministro dell’Interno ma anche da cittadino. Se è così il Governo deve assolutamente fermarsi e il Parlamento deve bloccare questo provvedimento". Maroni chiede inoltre di "rendere più efficace le procedure di espulsione" per i cittadini extracomunitari. "È il governo - ha sottolineato - che deve fare molto in questa direzione per alleviare il peso nelle carceri". Giustizia: cronache inaugurazione Anno giudiziario nelle Corti di appello Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2014 Napoli: condizioni carcerarie disumane Ha denunciato "condizioni carcerarie disumane, penitenziari a dir poco sovraffollati, in condizioni strutturali pietose" il procuratore generale di Napoli Vittorio Martusciello nel suo intervento letto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. "Un sistema carcerario - ha detto Martusciello - che viola le più elementari regole di civiltà e che, ben lungi da rappresentare un adeguato strumento per il recupero e il reinserimento dei detenuti, rappresenta oramai un ambiente di vita con livelli di inciviltà e di violazione dei diritti umani, oggetto più volte di richiami condanne da parte di organismi sovranazionali. Una vergogna per il paese, una vergogna di fronte al mondo civile". Il pg si è poi soffermato sul recente decreto "troppo trionfalisticamente definito svuota-carceri". La previsione di una scarcerazione di circa 3000 detenuti "anch’essa eccessivamente ottimistica, altro non è che una goccia nel mare, un mero intervento tampone. Ancora una volta si è persa l’occasione di una riforma organica complessiva di carattere strutturale, mediante la realizzazione di nuove strutture penitenziarie e il potenziamento o adeguamento di quelle esistenti". Martusciello ha espresso "convinta contrarietà a provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto che avrebbero il risultato di vanificare gli effetti della giustizia penale in spregio anche agli interessi e alle aspettative delle vittime". "L’indulto poi, come è noto, determinando il solo effetto della cancellazione della pena impone di portare a termine, inutilmente, migliaia di processi". Roma: pene alternative, contro sovraffollamento carceri Non sono auspicabili interventi sulle carceri che si limitino ad affrontare l’emergenza, come i provvedimenti di clemenza: piuttosto si intervenga con uno "snellimento" delle ipotesi di reato introducendo "nuovi tipi di pena". Nella sua relazione alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, il pg della Corte d’Appello di Roma, Luigi Ciampoli, propone misure strutturali contro il sovraffollamento degli istituti di pena. Basta, dunque, riforme che "affrontano unicamente l’emergenza, che se pur risolta nell’immediato, fatalmente tende a ripristinare la situazione precedente", dice il procuratore generale. Sarebbe necessario "preoccuparsi di impedire, com’è più volte accaduto, che dopo poco tempo gli istituti di prevenzione tornino ad essere sovraffollati. Tanti provvedimenti di clemenza, dichiaratamente formulati con l’intento di diminuire la popolazione carceraria, hanno visto annullare l’evento voluto mediante un successivo e veloce ripristino del sovraffollamento degli istituti". Allora la strada più opportuna da seguire sarebbe, a giudizio di Ciampoli , "impedire abusi di provvedimenti cautelari" e operare "uno snellimento delle ipotesi criminose ormai considerate di diminuito allarme sociale, introducendo, eventualmente, nuovi tipi di sanzioni". Il pg ritiene, inoltre, necessaria una riflessione su quei reati che vengono definiti colposi, ma che sono conseguenza di "comportamenti deliberati e consapevoli", come, ad esempio, l’uso di stupefacenti. E, al riguardo, il magistrato chiede cautela anche sulle proposte di liberalizzare le droghe leggere: "Lascia perplessi - afferma Ciampoli - il rilevare che mentre si discute di una responsabilità incerta sotto il profilo del dolo e della colpa in presenza di assunzioni di sostanze stupefacenti, per altra via si affacci la proposta di liberalizzazione dell’uso della cannabis". Nella relazione c’è spazio anche per temi che periodicamente tornano nell’agenda della politica: intercettazioni e responsabilità civile dei magistrati. Sugli ascolti Ciampoli condanna le pubblicazioni finalizzate al "pettegolezzo" e alla "gogna mediatica" prima ancora che la giustizia si esprima: i magistrati - sottolinea - vigilino sugli atti da loro richiesti, per prevenire gli abusi. Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, il pg dice "no alla barricate difensive, inutili e dannose" che riversano su essi stessi "sfiducia e rivendicazioni da parte della pubblica opinione". Venezia: il Pg Calogero: no all’amnistia e all’indulto Venezia, l’intervento di Calogero all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il presidente della Corte d’Appello Mazzeo Rinaldi: "Sbagliati i tagli alle sedi". Buone le intenzioni ma bocciati nella sostanza i tagli alle sedi giudiziarie con i decreti legislativi 115 e 156. A sostenerlo il Presidente della Corta d’Appello di Venezia, Antonino Mazzeo Rinaldi, che ha dedicato al tema un ampio spazio nel suo intervento all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, oggi a Venezia. "Mi sembra doveroso puntualizzare" ha detto Mazzeo "come l’attuazione sulla nuova geografia giudiziaria sia partita con il piede sbagliato rischiando di naufragare in assenza di una idonea e tempestiva predisposizioni delle strutture logistiche e di un’equa distribuzione delle risorse umane con ripercussioni molto gravi per gli interessi dei cittadini e per i professionisti". Per Mazzeo, di fatto, si è tagliato senza rivedere però la distribuzione dei carichi di lavoro a fronte poi di una cronica assenza di personale. Sul caso Veneto ha poi definito le scelte governative "catastrofiche" come la chiusura del Tribunale e della Procura di Bassano del Grappa. Riforma giustizia. "È urgente una riforma della giustizia che oggi è in una crisi insostenibile attribuita, ingiustamente, ai magistrati". Lo ha detto il Procuratore generale della Corte d’Appello di Venezia Pietro Calogero, nel corso dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, lanciando un forte monito alla politica. "Ci vogliono riforme senza perdere tempo" ha detto "che vanno fatte dalla politica collaborando, nella distinzione dei ruoli, con magistratura ed avvocatura". "Le riforma" ha detto Calogero "non si fanno infatti con la separazione delle carriere o altro che non sia invece strutturale come, per i reati minori, la riduzione dei gradi di giudizio, e una radicale depenalizzazione". "Cambiare è una responsabilità politica" ha aggiunto "che va a toccare i diritti dei cittadini e i doveri verso la nostra Costituzione; alla domanda di giustizia va data una risposta perché oggi è una colpa la mancanza di rispetto dei giusti tempi di un processo: non si può pensare di dover attendere 10 anni per una sentenza". No all’indulto. "No all’amnistia e all’indulto ci sono altre strade". Il Procuratore generale della Corte d’appello di Venezia, Pietro Calogero è categorico sulle ipotesi di lavoro per svuotare le carceri. "È indubbio che vadano rispettati i diritti dei carcerati e la loro dignità" ha detto Calogero nel suo intervento per l’Anno giudiziario "ma questi diritti convivono con altri che sono l’espiazione della pena o quello della sicurezza dei cittadini". "Ogni persona ha diritto a libertà e sicurezza" ha sottolineato "e l’amnistia e l’indulto non rispondono a questi requisiti". "Le carceri si svuotano" ha sottolineato "con il differimento delle pene minori, anche fino a tre anni, con i domiciliari o con l’obbligo di firma". Zaia in difesa di Bassano. "Mi pare che il presidente della Corte d’Appello abbia posto drammaticamente l’accento sul disastroso effetto che sui cittadini e operatori della giustizia abbia avuto l’attuazione della riforma dei distretti giudiziari, e quindi il trasferimento a Vicenza del Tribunale e della Procura di Bassano". È il commento del presidente del Veneto, Luca Zaia. "Non si può considerare il Veneto la periferia dell’impero" conclude Zaia "mentre una buona e rapida giustizia, come quella che i magistrati di Bassano hanno sempre reso al territorio, è l’elemento principale della competitività di un territorio e delle sue imprese, è il principale elemento di attrattività dei capitali dall’estero. Ciò di cui il Veneto ha bisogno come l’aria. Per questo rimaniamo convinti che la battaglia per Bassano resta più che mai la nostra linea del Piave". L’ordine degli avvocati. "Le funeste previsioni dell’Avvocatura rispetto alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie si sono puntualmente verificate". È uno dei passaggi dell’intervento che Daniele Grasso, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, ha pronunciato. La nuova geografia giudiziaria per Grasso "lungi dal determinare le condizioni per un miglioramento del servizio ed una contrazione dei costi, ha provocato disfunzioni gravi ed inaccettabili, ricadute finanziarie onerose a carico dei cittadini". "La criticità maggiore sulla produttività delle cancellerie, è stata determinata da quello che si è concretizzato in un vero e proprio esodo del personale - ha rilevato Grasso - verso "sedi più appetibili di Venezia". La conseguenza è stata che, come accertato, la scopertura virtuale è pari al 29%, ma quella reale, dovuta a già persistenti carenze nella copertura dell’organico, si è stabilizzata al 40% del personale previsto". A proposito del Tribunale di Bassano, accorpato ora al Tribunale di Vicenza, Grasso ha sottolineato che la sua soppressione "ha creato problemi di gestione ai limiti dell’assurdità". Moraglia: Stato aiuti chi sbaglia a redimersi. "Uno Stato che non aiuta chi ha sbagliato a redimersi anche con l’onerosità di una pena è uno Stato che perde credibilità": lo ha rilevato il patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, commentando alcuni temi emerso oggi nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, come il sovraffollamento delle carceri. "A noi preoccupa tanto forse la credibilità europea - ha aggiunto - ma io direi anche la credibilità nei confronti di noi stessi, di queste persone che avrebbero bisogno di incontrare una realtà che sia in grado di far recuperare loro la stima di se stessi. La sovrappopolazione delle nostre carceri, per quello che comporta e determina, finisce poi per essere un alibi nei confronti di chi non ha ancora recuperato una serenità nei confronti della società e anche dello Stato". Ma l’indulto potrebbe essere una possibile soluzione? "C’è indulto e indulto - ha risposto Moraglia - ci potrebbe essere un indulto mirato che considera i percorsi delle persone che stanno scontando la pena e ci potrebbe essere un indulto posto in essere solo perché si ha la disperazione dell’abitabilità delle nostre carceri e questo forse non sarebbe bene". Firenze: i Radicali: detenuti e agenti torturati Protesta dei Radicali all’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Firenze: mentre fuori dal Palazzo di giustizia un gruppo di militanti manifestava a favore dell’amnistia, lo storico leader Marco Pannella ha criticato alcuni interventi dei relatori in aula per richiamare l’attenzione sulle condizioni di vita dei detenuti e degli uomini delle forze dell’ordine nelle carceri. Detenuti e agenti di polizia giudiziaria sono stati così definiti torturati da Pannella, che si è alzato al centro dell’aula (dove era presente anche il segretario nazionale di Radicali italiani Rita Bernardini) e ha continuato a seguire in piedi la cerimonia. Il leader radicale ha invece sorriso in segno di assenso quando il procuratore generale presso la Corte d’appello di Firenze, Tindari Baglione, ha prospettato nel suo intervento alcune pene alternative al carcere. "Nella vecchia fattoria, ia-ia-o, lui non vuole l’amnistia, ia-ia-o, cambia verso, Renzi, cambia verso!". Questa la canzoncina che i militanti Radicali hanno dedicato al sindaco di Firenze e segretario del Pd Matteo Renzi quando ha lasciato il Palazzo di Giustizia di Firenze, dove ha assistito alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario; Renzi, che parlava al cellulare, non si è fermato. I Radicali stanno dando vita a un presidio nei giardini davanti al Palazzo, con un grande striscione Amnistia. "Mentre noi parliamo qui, a Sollicciano un migliaio di persone sono sottoposte a questo trattamento", ovvero "si sta eseguendo nei loro confronti una pena illegale", con trattamenti "inumani e degradanti, cosa che vale per l’80-90% delle carceri italiane". Lo ha detto Rita Bernardini, segretario nazionale di Radicali Italiani, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Firenze. Bernardini ha ricordato che oggi i detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano aderiscono alla protesta nazionale per la situazione di sovraffollamento delle carceri, rifiutando il vitto, e ha ricordato i severi giudizi della Corte di Giustizia Ue nei confronti degli istituti di pena italiani. "Cosa c’è di più grave per una democrazia - si è chiesta - che dire che se continuiamo così arriviamo a mettere in pericolo lo stato di diritto?". "Per fortuna sul territorio italiano abbiamo un’oncia di onestà all’improvviso, perché c’è lo Stato di Città del Vaticano, che in questo momento ha un capo che si impegna a rivoluzionare il proprio ordinamento nei comportamenti per non essere criminale". Lo ha detto Marco Pannella, storico leader radicale, a margine della cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario a Firenze. "Papa Francesco ha abolito l’ergastolo e, quello che è ancora più significativo, ha introdotto il reato di tortura", ha evidenziato Pannella, secondo cui "in Italia è noto, lo dicono i ministri e a suo modo il presidente della Repubblica, che abbiamo inventato delle strutture di tortura senza torturatori, se non torturatori a loro volta torturati", ha concluso riferendosi ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria. Catanzaro: nella regione situazione carceri gravissima La percentuale di sovraffollamento è al 91%. A maggio il suicidio di un cittadino straniero per il quale "era stata disposta l’osservazione psichiatrica e che, nelle more della relativa esecuzione ingiustificatamente ritardata, si toglieva la vita". "Gravissima", così il presidente vicario della Corte d’appello di Catanzaro, Bruno Arcuri, definisce la realtà degli istituti penitenziari del distretto. I numeri rendono la drammaticità della situazione: al 30 giugno 2013, negli otto istituti penitenziari, erano presenti complessivamente 2.128 detenuti, con una percentuale di sovraffollamento del 91%. A Castrovillari c’erano 253 detenuti con una percentuale di sovraffollamento del 90%; 557 a Catanzaro (157%); 81 a Lamezia Terme (172%); 325 a Cosenza (154%); 314 a Vibo Valentia (105%) e 343 a Rossano (54%). Il presidente evidenzia soprattutto le "allarmanti criticità" igieniche e sanitarie dei penitenziari calabresi. Il caso del carcere di massima sicurezza di Catanzaro diventa emblematico. L’Asp ha sospeso tutti gli incarichi specialistici lasciando quindi l’istituto senza assistenza psichiatrica, cardiologica, neurologica, odontoiatrica, urologica e pneumologica. Non si è realizzato, per quanto annunciato da tempo, il reparto destinato alla degenza dei detenuti nel policlinico universitario. Ormai da anni si attende l’apertura del centro diagnostico terapeutico con 34 posti: "Si tratta di ambienti - scrive Arcuri - assolutamente adeguati, perfettamente realizzati e arredati, con presenza di ampi spazi ben distribuiti; dotati perfino di piscina per la riabilitazione e soprattutto di numerose e preziose attrezzature inutilizzate". In attesa degli insopportabili tempi della burocrazia italiana succede, però, l’irreparabile. Arcuri sottolinea come "nel corso del periodo preso in considerazione si sono verificati tre suicidi, l’ultimo dei quali, il 2 maggio 2013, di un detenuto straniero, per il quale era stata disposta l’osservazione psichiatrica e che, nelle more della relativa esecuzione ingiustificatamente ritardata, si toglieva la vita". Giustizia: uccisero Federico Aldrovandi... sono indultati, liberi e di nuovo in servizio di Enrico Fierro Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2014 I quattro agenti condannati per omicidio colposo liberi dopo sei mesi. E la polizia non li ha espulsi. La "lunga notte" della famiglia Aldrovandi non finisce mai. Anche oggi, anche in questi giorni, il dolore si rinnova insieme all’indignazione. Lo sdegno per uno Stato pavido, ambiguo, prende il sopravvento. Il calendario impazzisce e salta all’alba di cinque anni fa, quando gli occhi del loro ragazzo Federico, diciotto anni e un futuro davanti, fissano per l’ultima volta il cielo di Ferrara. Federico muore nello squallore di un parco di periferia. Ammazzato di botte. Cuore e polmoni compressi dal peso di chi gli spinge faccia e torace sulla terra. "Bastonato di brutto". Con tanta, crudele forza che due manganelli, gli sfollagente, quelli lunghi, neri e duri, si rompono sulle sue ossa. Il padre: "L’ultima violenza inflitta a mio figlio" A picchiarlo quattro poliziotti. Tre uomini e una donna. Li hanno indagati, processati, condannati per omicidio colposo e eccesso colposo nell’uso delle armi. Ora, scontata la pena, in buona parte sfoltita grazie a sconti e indulti, tornano in servizio. Tesserino in tasca, pistola nel fodero, di nuovo con la divisa addosso a servire lo Stato. Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri, agenti delle volanti "Alfa 2" e "Alfa 3"presenti quella ma la notte del 25 settembre 2005, quando Federico urla inutilmente "basta" e implora "aiuto", sono tornati al loro lavoro. Non a Ferrara, fa sapere il Dipartimento della polizia di Stato, e neppure in altre città dell’Emilia Romagna. Ma in questure diverse. Uno schiaffo in faccia a Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, i genitori di Federico. "Signor Pontani - ha scritto in una lettera su Articolo21.org papà Lino rivolgendosi a uno dei poliziotti condannati - mi permetta di dirle che sia a lei che ai suoi tre colleghi, non vorrei mai più vedere una divisa così importante e preziosa addosso, per quello che dovrebbe rappresentare per tutti i cittadini di questo Stato: la legge". La madre: "Così vince la cultura dell’impunità" Patrizia Moretti vive in un dolore perenne, ma non è una donna sconfitta. Le lacrime le segnano il viso ogni volta che pronuncia il nome di Federico, ma lei ha imparato a ricacciarle in gola per continuare a riflettere e lottare. "Quelle persone io non voglio più vederle in polizia. Possono offendermi nei loro blog, come hanno fatto. Ma loro hanno distrutto la vita di un ragazzo di 18 anni". Ti fissa bene negli occhi, Patrizia, perché sa che sta per proporre un pensiero grave: "La giustizia, quella con la G maiuscola, ci ha dato ragione, quindi la democrazia, con tutti i suoi difetti, funziona. Ma poi, di fronte alla notizia che i quattro tornano in servizio, pronti a rappresentare di nuovo la legge, ti accorgi che c’è un’altra faccia dello Stato. Quella debole, ambigua, che cede a pressioni di un potere altro, incontrollabile dal normale cittadino con i normali strumenti della democrazia. È il muro di acciaio contro il quale ci siamo scontrati in questi anni. È la cultura dell’impunità che abbiamo incontrato. Le ricordo bene le pressioni, i depistaggi, le offese alla memoria di Federico bollato come un tossico. Le manifestazioni sotto il mio ufficio". "Faccia da culo, falsa e ipocrita", le ha scritto Paolo Forlani su Facebook. Lino Aldrovandi, Patrizia Moretti e il loro infaticabile avvocato, Fabio Anselmo, hanno chiesto di poter consultare tutti gli atti. Accesso negato, è stata la risposta. Le regole della burocrazia sono crudeli, i sentimenti offesi e le vite lacerate contano zero. Ai quattro poliziotti è stata inflitta la sanzione più dura, informano dal Dipartimento della polizia di Stato, la sospensione di sei mesi dal servizio, dopo c’è solo la destituzione. Ed è quindi "naturale" che, scontata la pena, sei mesi di detenzione, visto che tre anni sono stati condonati grazie all’indulto, tornino in servizio. Chi ha deciso di fermarsi un attimo prima della decisione più grave, l’espulsione dalla polizia? Le commissioni disciplinari, composte da funzionari di polizia e rappresentanti dei sindacati, delle questure dove nel frattempo i poliziotti erano stati trasferiti. Un guazzabuglio di regole, commissioni, pareri, dentro il quale precipita l’immagine della polizia e la credibilità dello Stato. Nessuno avvisò il magistrato di turno Perché "il caso Aldrovandi" non è una faccenda privata, la tragedia di un ragazzo morto e della sua famiglia. No. Quello che è successo all’alba di un settembre ferrarese di cinque anni fa, interroga lo Stato e la qualità della democrazia del nostro Paese. Una storia che parla di violenze di un corpo di polizia, di depistaggi, di tentativi di deviare il corso della giustizia e l’accertamento della verità. "Abbiamo avuto una lotta di mezz’ora con questo. Lo abbiamo bastonato di brutto. È proprio matto": parole a caldo di uno dei poliziotti condannati. Poi smentite nel corso del processo con maldestri tentativi di spiegare che "quello era il linguaggio". Federico urlava e si dimenava perché in preda a "excited delirium syndrome", la formula magica che doveva giustificare il pestaggio. Federico tossico abituale, insisteranno i poliziotti, "eroinomane" dirà l’impietoso onorevole Carlo Giovanardi. Le perizie si incaricheranno di dimostrare il contrario. Federico urlava perché picchiato. Schiacciato sull’asfalto, a terra, ormai morto, ma nessuno avvisa il magistrato di turno. La legge. Tutto lascia pensare, si legge nella sentenza di primo grado, "che quella presenza sul posto non fosse affatto gradita". Sul "posto", invece, arrivano una quindicina tra funzionari e dirigenti della Questura di Ferrara. Federico è ancora a terra, la sua famiglia non viene informata se non ore dopo, mentre decine di agenti bussano alle porte delle case vicine per le prime indagini. Il testimone: "Sono venuti a pararsi il culo" "Sono venuti a pararsi il culo", dirà una testimone. E i manganelli sequestrati cinque mesi dopo, "a genuinità dell’indagine inevitabilmente compromessa". La volante che Federico avrebbe danneggiato con pugni e calci, invece, non viene mai sequestrata. Quante stranezze e quanta crudeltà. Il cellulare di Federico che squilla, un poliziotto che risponde dopo minuti interminabili e solo dopo essere stato autorizzato da un funzionario. È Lino, il padre. Vuole notizie del figlio. Gli chiedono i dati anagrafici del ragazzo. Poi troncano: "Stiamo effettuando degli accertamenti, le farò sapere, devo interrompere la comunicazione". Federico era già morto. E questo, in un mare di bugie e depistaggi, era l’unica, tragica verità. Campania: la Regione pensa a un carcere a Nola per risolvere il sovraffollamento Cronache di Napoli, 26 gennaio 2014 Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli c’erano anche loro, il Governatore della Regione Campania Stefano Caldoro e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che non sì sono sottratti alle domande dei giornalisti in materia di giustizia. "La giustizia è fondamenta}e nei processo di riforma dei Paese - ha affermato Caldoro - il sistema stesso della giustizia si interroga e fa proposte in una logica di interesse Paese occorre lavorare insieme per migliorare il sistema giustizia. È una richiesta generale". In merito al problema del sovraffollamento delle carceri. Caldoro ha fatto sapere di aver incontrato il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, una settimana fa. "Dovremmo intervenire con grande efficacia sulle strutture carcerarie - ha sottolineato il Governatore della Regione Campania. Al di là dei provvedimenti legislativi sul sovraffollamento, intanto miglioriamo il sistema". E il sistema, in Campania. potrebbe essere migliorato ipotizzando l’apertura di nuovo carcere. quello di Nola. Va comunque superato prima dì tutto il problema economico. "C’è un problema di carenza dì fondi, ma purtroppo vale in tutti i campi - ha aggiunto - come Campania quello che possiamo fare sono iniziative con i fondi strutturali, collaborazioni continue. Siamo in campo per fare il massimo possibile come istituzione regionale ". Per il sindaco di Napoli Luigi de Magistris invece "il tema principale è pensare a una depenalizzazione radicale e seria di alcuni reati. Il carcere è l’estrema ratio, non la soluzione a tutte le problematiche sociali ". "Poi - aggiunge - bisogna ridurre il numero delle persone in carcere prima della sentenza definitiva". Napoli: il presidente della Corte d’Appello "prescrizione certa, meglio l’amnistia" di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 26 gennaio 2014 Hanno voltato le spalle al rappresentante del governo, sventolando la maschera di Anonymus, quella che ormai campeggia un po’ dappertutto nei momenti di tensione sociale. Show degli avvocati nel salone dei busti di Castelcapuano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che lasciano l’aula in modo polemico nei confronti del ministro della giustizia Cancellieri, rappresentato a Napoli dall’ex pm Francesco Cascini, Toni coloriti a parte, arrivano critiche esplicite anche dai vertici del distretto di Corte d’appello, che puntano l’indice contro le ultime soluzioni in campo in materia di giustizia. Tocca al presidente di Corte d’Appello Antonio Buonajuto dare la prima stoccata, a proposito di geografia giudiziaria, in merito alla nascita di Napoli nord, Tribunale nato a carico zero che fa oggi i conti con vuoti organizzativi e di organico e che rischia di trovarsi di fronte a nuovi squilibri nei prossimi mesi. Più in generale - continua il presidente di Corte d’Appello -esiste una logorante lentezza, specie nel processo penale, "per le gravi scoperture di organico di magistrati e presidenti protrattesi per lunghi periodi in larga parte imputabili alla eccessiva mobilità dei magistrati e ai ricorrenti casi di incompatibilità che investono la stabilità dei collegi". Chiaro il riferimento a quanto avvenuto negli ultimi dodici mesi a Napoli, dove alcuni processi per camorra sono stati segnati da ripetuti cambi di collegio, puntualmente sottolineati dalle parti (come il gesto del penalista Gustavo Pansini, che due mesi fa ha rinunciato alla difesa di fronte al valzer delle toghe nella stessa sezione). Uno scenario di stallo, che spinge comunque Buonajuto a preferire una amnistia alla prescrizione (fenomeno che comporta inutile sperpero di risorse nel portare comunque a termine il processo). Tocca al rappresentante del governo, al vicecapo del Dap, ed ex pm anticamorra Francesco Cascini, che ha difeso a Napoli la riforma della geografia giudiziaria, ricordando che gli "uffici più efficienti sono quelli che vanno dai trenta ai sessanta magistrati", motivo per il quale si sono eliminati i Tribunali con numeri più modesti, oltre a sottolineare "la generosità della magistratura italiana", nel seguire il passo delle iniziative dell’esecutivo. Parla di fronte a una platea di avvocati mascherati da Anonymus e rigorosamente di spalle, tanto da ingaggiare una sorta di battibecco con il pubblico: "Presidente posso continuare? Anche perché non vedo nemmeno la folla", aggiunge il vicecapo del Dap. Ma l’affondo porta la firma del pg Vittorio Martusciello, che si rivolge ancora all’inviato di via Arenula: "Appare evidente che non è iniziata la stagione delle tanto evocate riforme strutturali". Poi, si toccano temi cruciali per l’emergenza carceri, su cui il pg è netto: "L’entrata in vigore del decreto troppo trionfalisticamente definito svuota carceri è accompagnata da una previsione troppo ottimistica: altro non è che una goccia nel mare, un mero intervento tampone, a fronte della dimensione del fenomeno del sovraffollamento". Scandito dagli applausi del pubblico di magistrati e avvocati, il ragionamento del pg si sposta poi sui provvedimenti di clemenza auspicati due giorni fa a Roma: "Esprimo la mia convinta estraneità a provvedimenti di clemenza (come amnistia o indulto) che avrebbero ancora una volta il risultato di vanificare in via generalizzata gli effetti della giustizia penale in spregio anche degli interessi e delle aspettative delle vittime di reato. E c’è spazio anche per un allarme, a proposito della terra dei fuochi (Martusciello cita un articolo su L’Avvenire di don Maurizio Patriciello), di fronte al "preoccupante tentativo di infiltrazione criminale nel settore delle bonifiche ambientali del territorio campano, tramite la Costituzione di una società, come emerso da una indagine di Santa Maria Capua Vetere". Ma il clou arriva con il presidente degli avvocati Francesco Caia, che parla di "oltraggio alla democrazia provocato da una serie di fattori, come i ripetuti interventi strutturali sul processo e sui diritti sostanziali attraverso decreti legge o decreti legislativi. Caia si è poi soffermato sulle discriminazioni dei cittadini "per questioni di censo", che trasformano "un diritto costituzionale nel privilegio dei più ricchi", mentre risultano "inaccettabili i continui aumenti per l’accesso alla giustizia, così come il taglio dei compensi dovuti per il patrocinio a spese dello Stato". Applausi a scena aperta. Altro punto affrontato dal presidente dell’Ordine partenopeo, il sovraffollamento delle carceri. "La totale assenza di idonee iniziative - ha detto - comporta la lesione della stessa dignità umana e ha determinato anche scelte suicide". Ovazione per il leader degli avvocati, protagonista di una sorta di strappo istituzionale: abbandona il Salone dei busti, mentre il presidente Anm Silvana Sica prende la parola. Una scelta duramente criticata dai magistrati, che ricordano "la mancanza di cultura del confronto da parte degli avvocati". Brescia: celle aperte per otto ore, così Canton Mombello è tornato a respirare di Giuseppe Spatola Brescia Oggi, 26 gennaio 2014 Da luglio, in piena emergenza per il sovraffollamento, le celle rimangono aperte per otto ore "Così garantiamo il movimento". Da dicembre, anche grazie al decreto svuota carceri ma soprattutto per l'apertura della nuova ala della Casa Circondariale di Cremona, Canton Mombello si è tolta la maglia nera delle celle italiane. Tutto anche se i dati non sono ancora sotto la soglia limite. Così al 14 gennaio i detenuti presenti erano 300, distinti tra 110 definitivi, 89 in attesa di primo giudizio, 169 stranieri e i restanti con posizioni giuridiche miste. Meglio del passato, ma la direttrice Francesca Gioieni nella sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha fatto capire che si può ancora andare oltre, migliorando le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti e quelle di vita dei detenuti. "Lo scenario della Casa Circondariale di Brescia, nel corso del mese di dicembre, è profondamente cambiato, registrando una sensibile e decisiva deflazione del numero dei detenuti, così che l'Istituto bresciano non primeggiasse più nelle classifiche delle carceri italiane a causa dell'endemico sovraffollamento che l'ha caratterizzato per decenni, ma scendesse alla centoduesima posizione - ha scritto la direttrice -. Grazie alla politica del ministro della Giustizia e del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria per la realizzazione dei circuiti regionali, nonchè all'apertura del nuovo padiglione della Casa Circondariale di Cremona, che ha reso possibile lo spostamento di 140 detenuti, il Carcere di Brescia ha raggiunto livelli di vivibilità mai registrati in passato. A ciò si aggiungono gli effetti delle recenti misure in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria introdotte con Decreto il 23 dicembre scorso, nate dall'esigenza di migliorare le condizioni di vita detentive e di giungere ad una riduzione del numero delle persone ristrette, al fine di consentire alle stesse un effettivo esercizio dei diritti fondamentali nonchè una reale applicazione della norma costituzionale ed ordinamentale". Il decreto di dicembre ha ampliato, in particolare, l'istituto di liberazione anticipata, estendendola dai precedenti 45 giorni per ciascun semestre di pena scontata agli attuali 75 giorni. "Corre l'obbligo di evidenziare che, in aderenza alle linee guida del Dipartimento, in materia di ampliamento degli spazi di movimento per la popolazione detenuta, già da luglio 2013 a Canton Mombello è stato introdotto il regime delle sezioni aperte per un periodo pari ad otto ore al giorno - ha spiegato Francesca Gioieni. La misura è stata rivolta indistintamente a tutte le sezioni e a tutti i detenuti: il livello di sovraffollamento non consentiva più di procrastinare tale modalità di gestione dell'istituto che ha reso possibile una modalità di detenzione più dignitosa". Situazione che, nei giorni scorsi, aveva spinto Fabio Fanetti, presidente della Commissione speciale "Situazione carceraria" della Lombardia, ad interviene. "Le scarcerazioni facili - dichiara il consigliere camuno - non hanno mai costituito un valido antidoto al problema del sovraffollamento carcerario". Parole chiare che, però, si scontrano con i numeri nuovio di Canton Mombello. Brescia: indulto e reato di clandestinità, Radicali e Lega faccia a faccia di Irene Panighetti Brescia Oggi, 26 gennaio 2014 Da una parte la richiesta di amnistia, dall’altra la difesa del reato che punisce gli "irregolari" . Due iniziative di segno opposto, ieri mattina in Corte d’Appello, ma entrambe con l’intento di denunciare la situazione attuale e di protestare: radicali da una parte, leghisti dall’altra. Appena fuori dal palazzo di via San Martino della Battaglia, un gruppetto di radicali con cartelli al collo ha chiesto "l’amnistia per la Repubblica", ovvero, come ha spiegato Sergio Ravelli, presidente dell’associazione radicale Piero Welby: "Il rientro nella legalità da parte del nostro paese, sanzionato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con una sentenza che scade a fine maggio, obbliga l’Italia a rimuovere le cause strutturali che generano i trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri". Quattro le questioni sintetizzate dai cartelli al collo: 9 milioni di procedimenti pendenti, 28mila cittadini in attesa di giudizio, 170mila prescrizioni ogni anno e la crisi della giustizia che blocca la crescita del paese. Tutto ciò dà il senso dell’obiettivo generale che "è appunto quello dell’amnistia per la Repubblica per la fuoriuscita del nostro Stato dalla condizione indiscutibile e indiscussa di flagranza criminale per la sua reiterata, ultradecennale violazione di diritti umani fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana e tutelati dalla Convenzione Europea sui diritti umani relativi al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti e all’irragionevole durata dei processi", ha continuato Revelli, il cui intervento era stato calendarizzato anche nella cerimonia ufficiale dell’inaugurazione di ieri, in concomitanza con interventi analoghi che si sono tenuti, con il medesimo testo, alle Corti d’Appello di molte città italiane, tra cui Torino, Milano, Trieste, Venezia e Napoli. Sul confronto a distanza con la Lega i radicali hanno commentato: "abbiamo opinioni politiche diverse ma dalla nostra noi abbiamo anni di attività sulla questione, non siamo dei parvenus della politica; inoltre siamo supportati dalla sentenza della Corte Europea". ALL’INCROCIO tra via San Martino della Battaglia e via XX Settembre il presidio con gazebo della Lega, con una trentina di attivisti, bandiere e un piccolo striscione che riassumeva il messaggio: "Clandestino è reato". Dopo un’analoga iniziativa sabato scorso fuori da Canton Mombello la Lega si è ripresentata ieri "per protestare contro lo svuota carceri, che mette in libertà criminali rei di reati gravissimi", ha introdotto Paolo Formentini, segretario provinciale del partito, supportato dai parlamentari Davide Caparini e Stefano Borghesi. "Il decreto che sarà discusso la prossima settimana ha tante norme che non ci piacciono perché abbassa l’asticella della legalità del nostro paese: ci opporremo con una lotta senza esclusione di colpi", ha spiegato Caparini. "Barricate dentro e fuori l’Aula - sono state promesse anche da Borghesi contro quello che ha definito un provvedimento che - invece di pensare alle vittime dei reati si occupa di chi li ha commessi. Questo governo è il peggiore della storia, con già tre svuota carceri in pochi mesi. Per noi la questione va affrontata diversamente: costruire nuove carceri, e stipulare accordi bilaterali con i paesi da cui provengono gli immigrati, in modo da far scontare la pena dei criminali nei loro paesi d’origine". Il vero obiettivo critico della Lega, ripetuto in più occasioni, è l"abolizione del reato di clandestinità, cioè, ha concluso Caparini, "un colpo definitivo al sistema giustizia del nostro paese e alla sicurezza dei cittadini italiani". Il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, rispondendo ad una domanda dei giornalisti alla cerimonia milanese dell’anno giudiziario ha invece commentato: "Mi ha molto colpito l’intervento del consigliere Racanelli che ha lanciato un allarme sulle carceri, che condivido, dicendo che è sbagliato l’indulto e che bisogna aumentare le carceri, e facendo notare che con questo indulto uscirebbero i mafiosi, addirittura quelli condannati al 41 bis, e questa è una preoccupazione che avverto sia come cittadino che da ex ministro dell’Interno. Se così fosse il Governo deve assolutamente fermarsi e il Parlamento deve bloccare questo provvedimento". Sassari: morte in carcere di Marco Erittu, rispunta l’ipotesi del suicidio di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 26 gennaio 2014 La perizia dell’esperto nominato dalla corte d’assise apre ulteriori scenari sulla dinamica della morte del detenuto. Le parole contenute nella perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato sono complesse e sicuramente necessitano di un’interpretazione approfondita. Ma una prima lettura è sufficiente per capire che l’esperto nominato dal presidente della Corte d’assise di Sassari - nell’ambito del processo sul presunto omicidio del detenuto Marco Erittu - propende per l’ipotesi del suicidio. L’obiettivo dell’incarico affidato al medico legale era acquisire un parere super partes in grado di fornire ulteriori elementi chiarificatori sulla vicenda del detenuto trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. La storia. Una morte in un primo momento bollata come suicidio. Questa tesi, però, fu smontata dal pentito Giuseppe Bigella il quale raccontò agli inquirenti che Erittu in realtà venne ucciso: un omicidio commissionato - a detta del supertestimone - da Pino Vandi (ora in carcere, assistito dagli avvocati Pasqualino Federici e Patrizio Rovelli) che avrebbe voluto la morte di Erittu perché aveva paura che quest’ultimo parlasse: la vittima sarebbe stata a conoscenza di un presunto coinvolgimento di Pino Vandi nella scomparsa di Giuseppe Sechi, il muratore di Ossi il cui orecchio mozzato fu inviato alla famiglia di Paoletto Ruiu - il farmacista di Orune rapito nel 1993 e mai tornato a casa - come prova in vita del proprio caro. Ecco perché Erittu doveva sparire (a detta del pentito). La dinamica della morte. Alle 17.35 del 18 novembre 2007 due agenti addetti alla sezione promiscui trovarono Erittu riverso a terra con una coperta che copriva parte del volto e del dorso. Quando arrivarono i rinforzi scoprirono che il detenuto si era impiccato alla spalliera del letto usando una striscia probabilmente ricavata dalla stessa coperta. La tesi di Bigella. Il supertestimone, che come detto si è autoaccusato dell’omicidio, raccontò agli inquirenti di aver ammazzato Marco Erittu soffocandolo con un sacchetto di plastica. E aggiunse che, aiutato da altri, simulò il suicidio. La perizia. Ma la perizia del professor Avato (Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università degli studi di Ferrara) considera quest’ultima ipotesi (quella del sacchetto di plastica) "molto meno sostenibile" perché "le impressioni morfologiche riscontrate al collo del signor Erittu - scrive - documentano in modo netto l’applicazione di un mezzo stringente, cui ben si adatta la striscia di stoffa repertata". Riferendosi al sacchetto lo definisce "un mezzo teoricamente ipotizzabile, ma del quale sono assolutamente imprecisate e imprecisabili le caratteristiche tecniche. Un generico "sacchetto di plastica" che non viene neppure grossolanamente descritto". Nella sua relazione il professore sostiene che gli elementi da lui esaminati "permettono di affermare che a livello cervicale abbia agito un mezzo stringente di discreta consistenza, discretamente soffice, a superficie lievemente ruvida e di sezione ampia". E aggiunge poi un’altra considerazione: "Non si rilevano lesività derivabili dall’applicazione di mezzi naturali da parte di soggetti terzi, quali ecchimosi rotondeggianti, riconducibili alla pressione esercitata dai polpastrelli delle dita, o escoriazioni curvilinee da unghiatura". L’autolesionismo di Erittu. Il perito nominato dal presidente della Corte, Pietro Fanile, fa anche riferimento - perché gli è stato richiesto - "alla reale e concreta volontà di auto soppressione di Erittu". Spesso, durante questo processo, si è ricordato che la vittima si fosse procurata diverse ferite sul corpo in più di un’occasione. Lo fece persino il giorno della sua morte. "Nel periodo di detenzione - scrive il professor Avato - il signor Erittu si trovò numerosissime volte a concretizzare episodi di autolesionismo mediante applicazione di strumenti da taglio agli arti superiori e inferiori, al volto, nonché mediante asserita ingestione (quest’ultima in realtà mai confermata) di corpi estranei". La vittima per questo assumeva regolarmente ansiolitici. Un quadro psicologico che naturalmente la dice lunga sull’instabilità umorale del detenuto ma che, d’altra parte, non dà - e non potrebbe dare - una certezza assoluta sulla dinamica della morte. Milano: agguati, appalti e vendette per la "Sst", ditta che dà lavoro a 30 detenuti di Bollate Corriere della Sera, 26 gennaio 2014 Il motivo di vanto (quell’impegno nel "sociale" pubblicizzato sul sito internet) è il punto debole. La zona d’ombra dove cercare le ragioni di tre agguati. Prima del dipendente al quale venerdì sera hanno sparato a Cusano Milanino, la Sst ha avuto (ottobre 2012, via Cristina Belgioioso a Milano) un altro lavoratore accoltellato e (gennaio 2013, viale delle Industrie a Monza) un altro ancora colpito da un proiettile. Le tre vittime sempre erano sole, in strada; e nei tre casi mai s’è trovato un responsabile. Da sei anni, grazie a un protocollo firmato con il ministero della Giustizia, la Sst, una società con base a Roma e uffici a Vimercate e Bellusco, ha un piano di sviluppo importante, clienti di peso e un laboratorio di prestigio. Coinvolgendo gli istituti di pena, la Sst ripara telefonini soprattutto per il colosso Samsung e lo fa con una trentina di detenuti nel carcere-modello di Bollate, orgoglio dell’amministrazione penitenziaria e di Milano. A volte però anche le realtà esemplari incappano, loro malgrado, in qualche problema. Per esempio si viene a sapere, ma naturalmente potrebbe essere solo una coincidenza, che a questo laboratorio di cellulari di Bollate è stata associata una storia di telefonini clonati. Il numero di un apparecchio che compariva di notte nel luogo di una rapina a Roma, era stato agganciato nemmeno quattro ore dopo all’interno dell’istituto. Difficile, senza aereo, coprire la distanza in così poco tempo, anche andando in macchina e assai veloce. Infatti i due telefonini erano due cose fisicamente diverse. Peccato avessero il medesimo Imei, il codice che identifica univocamente un apparecchio mobile. Il telefonino romano era un Samsung riparato; quello di Bollate un cellulare assemblato e dato dai carcerati a una guardia penitenziaria. Nella riparazione e nell’assemblaggio potrebbe esser stato copiato l’Imei. Eppure non c’erano stati insistiti approfondimenti d’indagine. Ora sarà certo più difficile lasciar cadere nel vuoto tre tentati omicidi contro personale della stessa azienda. E avranno forse meno margine, i responsabili della ditta, nel tacere e minimizzare. Il ferito di via Cristina Belgioioso aveva ripetuto di non avere idea di chi potesse prendersela con lui; l’uomo gambizzato a Monza aveva scosso la testa all’infinito, "ero fermo in coda in auto, il vetro del finestrino è esploso... non ho mai ricevuto minacce... La verità è che non so nulla"; quanto all’ultimo dipendente nel mirino, idem come sopra. A loro dire, sarebbero stati sbagli di persona. Hanno finora indagato polizia e carabinieri. L’episodio di Cusano Milanino è gestito dall’Arma. I militari non si sbilanciano su nessuna pista. La Sst, a Bollate, paga i dipendenti anche 1.200 euro al mese, e son sempre soldi, a maggior ragione per un detenuto che può inviare il denaro alla famiglia, pagarci l’avvocato, preparare il gruzzolo per l’uscita di cella. La postazione della Sst insomma rende e conviene. La società avrebbe ricevuto (e disatteso) pressioni da parte di carcerati e clan? Ma se sì, per quale motivo non denunciarlo mai apertamente? Oppure la Sst s’è cacciata in qualche guaio per una libera interpretazione dell’incarico da parte di uno dei trenta detenuti del laboratorio? L’episodio dei cellulari clonati, sempre se davvero collegato col carcere, potrebbe non esser stato un caso isolato ma nascondere un intreccio di accordi sottobanco? Il triangolo ministero di Giustizia-Sst-Bollate ha commesse per altri grandi marchi, tipo Alcatel. La Sst è nata nel 2004, ha cominciato l’attività nel 2007, conta 112 dipendenti e non presenta debiti. Maneggiando telefonini, i detenuti potrebbero aver accesso a molti dati personali in tutt’Italia. Catania: la protesta dei Radicali "a Bicocca un detenuto in tre metri quadrati" di Salvo Catalano www.ctzen.it, 26 gennaio 2014 Anche a Catania, come in tutti i Tribunali, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il partito guidato da Rita Bernardini protesta contro il sovraffollamento delle carceri e l’irragionevole durata dei processi. "Lo Stato italiano è fuori legge", denunciano ricordano le condanne e gli ultimatum della Corte europea per i diritti dell’uomo. Le soluzioni proposte? Amnistia e indulto. Provvedimenti su cui torna anche il presidente della Corte d’Appello: "Meglio l’amnistia, in modo da eliminare non solo la pena ma anche i processi". "Lo Stato italiano è in flagranza di reato". Mentre all’interno del Tribunale di Catania il presidente della Corte d’Appello legge la lunga relazione sullo stato della giustizia nella provincia etnea, in piazza Verga i Radicali italiani protestano contro "uno Stato fuori legge che prosegue nei trattamenti inumani all’interno delle carceri" e non riesce a mettere un argine "all’irragionevole durata dei processi". Amnistia e indulto - rispettivamente, rinuncia da parte dello Stato all’applicazione della pena con la prima e condono, in tutto o in parte, della pena inflitta senza cancellare il reato con il secondo - sono le soluzioni che da anni avanza il partito guidato dal segretario Rita Bernardini. Gli unici strumenti, secondo i Radicali, che potrebbero alleggerire il fardello di "nove milioni di procedimenti arretrati in tutto il Paese". Anche il presidente della Corte d’Appello, Alfio Scuto, dedica parte della sua analisi all’incredibile numero di processi "spinto verso l’alto dall’elevato indice di litigiosità in campo civile, dalla diffusa illegalità in campo penale, dalla farraginosità di un rito fin qui normalmente articolato su tre gradi di giudizio e da una legislazione compromissoria e alluvionale". Cita quindi fonti del ministero di Giustizia per ricordare come "il totale delle cause sopravvenenti in Italia, rapportati alla popolazione, è di poco inferiore alla somma di quelli sopravvenenti, tutti insieme in Francia, Germania e Spagna". La Corte europea per i diritti dell’uomo ha più volte imposto severe condanne all’Italia. "Da ultimo - ricorda Scuto - la pronuncia dell’8 gennaio 2013 nel procedimento Torregiani, in cui sono stati riconosciuti al detenuto 23mila 500 euro a risarcimento per l’inosservanza del divieto di tortura. La sentenza pone il termine di un anno per adottare opportuni provvedimenti". Tortura che, nel caso Torregiani, viene praticata mettendo insieme tre detenuti in nove metri quadrati. Ma anche nelle carceri catanesi la situazione non è migliore. "Ho visitato sia la struttura di piazza Lanza sia quella di Bicocca: i detenuti sono diminuiti e qualche miglioramento c’è stato, ma non basta", spiega Gianmarco Ciccarelli, dei Radicali. "Molti continuano a vivere in meno di tre metri quadrati, questa è tortura - continua. Anche se l’immobile è più nuovo, a Bicocca i problemi strutturali sono perfino peggiori rispetto a piazza Lanza: in alcune celle mancano le docce, mentre nella sala colloqui c’è il muretto divisorio. Due elementi vietati dal regolamento carcerario del 2000. Per non parlare dell’umidità e dei muri scrostati". Amnistia o indulto? "Nel caso si adottassero provvedimenti emergenziali - sottolinea il presidente della Corte d’Appello - sarebbe opportuno optare per soluzioni più radicali, quali l’amnistia rispetto all’indulto, in modo da eliminare non solo la pena ma anche i processi. Ma la soluzione - precisa - non può non passare da modifiche legislative in materia di sospensione dell’esecuzione della pena, con messe alla prova e pene detentive alternative alla carcerazione". Roma: a Rebibbia progetto con l’Università "La Sapienza" permette a detenuti di laurearsi Ansa, 26 gennaio 2014 Ai blocchi di partenza presso il carcere di Rebibbia un progetto innovativo che permette ai detenuti di studiare e laurearsi presso l’Università La Sapienza di Roma. Il progetto vede la luce unicamente grazie all’impegno di un gruppo di volontari tra docenti, avvocati e tutor e non si avvale di alcun finanziamento pubblico. "Nonostante il riconoscimento ormai unanime della valenza dello studio nel percorso di reinserimento dei condannati - spiega Giovanni Iacomini, docente di diritto della scuola superiore di Rebibbia e referente del progetto "Libertà e Sapere" - anche per abbattere il tasso di recidiva dei reati, la scuola in carcere è ancora una realtà piuttosto contrastata e i corsi di studi sono irti di difficoltà. Conseguire la laurea è un’impresa difficile, proprio per l’impossibilità di seguire le lezioni e mantenere i rapporti con le segreterie e gli uffici dell’Università. Per una concomitanza favorevole, assai rara in questi tempi di crisi, si è creata una sinergia positiva: da un lato ci sono la Direzione, il Comando di Polizia penitenziaria e tutto lo staff dell’Area educativa e trattamentale della Casa di Reclusione, che mettono a disposizione, oltre ai loro servizi, gli spazi e i mezzi materiali, un’aula attrezzata con computers collegati in rete a quello della cattedra, lavagna e schermo proiezioni; dall’esterno opera l’associazione "Libertà di studiare", che fornisce un qualificato pool di avvocati, ex magistrati, docenti universitari, tra cui il presidente e gli studenti della Scuola Forense, che terranno le lezioni e faranno attività di tutoraggio". A fare da collegamento tra il gruppo di studenti universitari e il mondo esterno è appunto Giovanni Iacomini, che da anni cerca di promuovere lo scambio di saperi tra mondo recluso e società esterna, attraverso le sue migliori espressioni culturali, istituzionali, politiche, artistiche. Il progetto prevede che anche i più meritevoli tra gli studenti detenuti dei suoi corsi potranno unirsi ai 7 iscritti alla facoltà di Giurisprudenza e seguire come auditori le lezioni di livello universitario. Genova: Sappe; un altro detenuto si cuce la bocca, è il terzo in pochi giorni Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2014 L’ultimo evento critico in un carcere è accaduto giovedì mattina, dove un detenuto nordafricano, un marocchino appellante per il reato di omicidio ristretto nella I Sezione del carcere di Marassi, ha prima dichiarato lo sciopero della fame e si è poi completamento cucito la bocca con del fil di ferro. È il terzo caso accaduto in pochi giorni nel carcere di Genova (che ha visto protagonisti tutti detenuti stranieri) e ne ha dato notizia Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, a margine della cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario che si è tenuta oggi a Genova. Martinelli, che ha preso la parola nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia genovese, ha tra l’altro sottolineato come "oggi in Liguria ci sono più detenuti in Liguria che nel dicembre 2010: il 31 dicembre 2010 erano 1.675 e lo scorso 31 dicembre 2013, nonostante tre leggi cosiddette svuota-carceri dal 2010 a oggi, i detenuti erano 1.703". Sempre alta la percentuale di detenuti tossicodipendenti in Liguria (quasi il 29% dei presenti rispetto alla media nazionale del 22%) e quella degli stranieri (non meno del 50% e fino ad arrivare al 65% di Marassi). Bassissima è la percentuale di coloro che lavorano durante la detenzione: il 15%, prevalentemente poche ore al giorno e in servizi interni d’istituto. "Perché non impiegare i detenuti per il recupero del patrimonio ambientale ligure, per la pulizia delle spiagge, dei sentieri, dei giardini e degli alvei dei fiumi?", si è chiesto il sindacalista dei Baschi Azzurri, che ha valorizzato il lavoro dei poliziotti penitenziari. "Svolgiamo quotidianamente il servizio in carcere con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. E negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". In conclusione, per il Sappe quel che serve per superare l’emergenza penitenziaria sono "vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: lavoro in carcere per i detenuti, espulsioni degli stranieri, detenzione in comunità per i tossicodipendenti ed alcooldipendenti che hanno commesso reato in relazione al loro stato di dipendenza". Larino (Cb): Befana del detenuto, la lettera di ringraziamento ai parrocchiani www.primonumero.it, 26 gennaio 2014 In occasione dell’Epifania, la comunità parrocchiale di San Timoteo ha organizzato, su iniziativa del parroco, don Benito Giorgetta, la "Befana del detenuto" per raccogliere generi di prima necessità, in particolare prodotti per l’igiene personale da destinare alle persone recluse nella casa circondariale di Larino. I detenuti hanno scritto una lettera per ringraziare tutti coloro che hanno condiviso questa bella iniziativa; il testo è stato letto dal parroco durante le messe di oggi - domenica 26 gennaio, peraltro festa liturgica di San Timoteo, compatrono di Termoli: "Anche quest’anno, grazie alla generosità e alla sensibilità di tutti voi, pure per noi detenuti della casa circondariale di Larino è arrivata la befana. A nome di tutti i detenuti vi inviamo un vivo ringraziamento dal più profondo dei nostri cuori. La vostra attenzione nei nostri confronti non potete immaginare che gioia ci da’. Specialmente in queste occasioni ci fate sentire più che mai parte integrante della vostra comunità e questa è una cosa per noi tutti veramente bella che riempie i nostri cuori di un’ immensa felicità. Sapere che al di là di questi cancelli, di queste mura (oltre ai nostri cari) ci sono persone speciali come tutti voi che ci stanno vicino e soprattutto che mettano da parte tanti pregiudizi, senza guardare i nostri errori. Questa vostra vicinanza sincera e gratuita ci trasmetta tanta fiducia e, credeteci, ci proietta nel futuro con più ottimismo, con la voglia di cambiare ed essere persone normali. Aiuta tantissimo a farci sentire meno soli in questo luogo di sofferenza e dove quotidianamente lottiamo con la nostra coscienza consapevoli, dei nostri errori ma, soprattutto, consapevoli che, questi nostri errori non fanno soffrire solo noi ma ancora di più i nostri familiari i quali, "poverini", pur di poterci stare vicino il più delle volte sono costretti ad affrontare lunghi viaggi non poco stressanti, e naturalmente soffrono tanto per questa nostra lontananza forzata. Ancora tanti affettuosi ringraziamenti a tutti voi. Non potendo ricambiare questa vostra immensa generosità con altrettanti gesti preghiamo il buon Dio affinchè assista tutti voi, le vostre care famiglie e i nostri cari Don Benito e Don Michele (il nostro cappellano) i quali giorno per giorno, con l’aiuto della Direttrice, fanno tanto per poter portare in questo posto di sofferenza un po’ di luce e felicità. Preghiamo affinchè anche altri sfortunati come noi, i quali si trovano in altri istituti di pena, possono avere la fortuna di incontrare una comunità parrocchiale speciale come la vostra che gli sia vicino. Noi sappiamo molto bene quanto è importante avere vicino (oltre ai nostri cari) persone speciali come voi e personalmente pensiamo che questo contribuisce tantissimo a farci riflettere e ripensare ai nostri errori . L’altruismo di persone speciali come voi fa’ breccia nei cuori e aiuta ad indirizzare molte persone sulla retta via. Grazie, grazie, grazie! Con affetto i ragazzi dell’università di Larino , così come ci chiama il nostro amato Don Benito". Immigrazione: Cie Ponte Galeria; nuova protesta choc, tredici immigrati si cuciono la bocca Andkronos, 26 gennaio 2014 Nuova protesta choc nel Cie di Ponte Galeria, a Roma. Tredici immigrati, tutti marocchini, ieri sera si sono cuciti la bocca, proprio come fecero altri immigrati tempo fa, per protestare contro le condizioni e i tempi di permanenza nel Cie. La maggior parte dei tredici marocchini che ieri sera si sono cuciti la bocca, in segno di protesta, nel Cie di Ponte Galeria, proviene da Lampedusa. In nove infatti, dalla Libia sono arrivati a Lampedusa con un gommone e poi dall’isola sono stati trasferiti a Ponte Galeria. L’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio li aveva incontrati alcuni giorni fa e gli immigrati avevano espresso il loro disagio. Sette sono gli stessi che si cucirono la bocca poco prima di Natale. A confermarlo è il direttore del Cie di Ponte Galeria Vincenzo Lutrelli. "È evidente che il tempo della politica scorre molto più lentamente rispetto a quello di queste persone, passate dal dramma di un’immigrazione difficile a luoghi con pochissima dignità come i Cie. Spero che dopo le promesse il parlamento approvi presto le norme necessarie a porre fine a questa vergogna". È quanto affermato dal Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, in riferimento alla nuova protesta nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, dove tredici immigrati si sono cuciti la bocca. India: caso marò; oggi parte delegazione italiana. Cirielli (Fdi): Italia al loro fianco Il Velino, 26 gennaio 2014 Partirà oggi alle 18,30 dall’Italia, destinazione New Delhi, la delegazione parlamentare bicamerale che andrà personalmente a verificare la situazione dei due marò italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, detenuti da quasi due anni in India. Arrivo previsto alle 7,30 di mattina (ore locali) e ritorno a Roma il giorno dopo. La missione si svolgerà interamente all’interno dell’ambasciata italiana, dove i parlamentari incontreranno i due fucilieri della Marina e il nostro ambasciatore, Daniele Mancini, mentre non è previsto alcun incontro istituzionale. Oltre ai presidenti delle commissioni Esteri e Difesa del Senato, Pier Ferdinando Casini e Nicola Latorre, e della Camera, Fabrizio Cicchitto ed Elio Vito, partirà un componente delle rispettive commissioni secondo il gruppo parlamentare di appartenenza. La lista comprende, per il Senato: Luis Alberto Orellana (M5S), Antonio Scavone (Gal), Maurizio Gasparri (Fi), Riccardo Nencini (Psi), Marcello Gualdani (Ncd). Per la Camera i componenti sono: Gian Piero Scanu (Pd), Daniele Del Grosso (M5S), Gianluca Pini (Lega), Edmondo Cirielli (Fdi), Donatella Duranti (Sel), Andrea Causin (Sc), Domenico Rossi (Per l’Italia). Svizzera: detenuto dà fuoco a cella, due intossicati e 100mila franchi di danni www.swissinfo.ch, 26 gennaio 2014 Un detenuto della prigione di Cazis (Gr) stamani alle 8.30 ha dato fuoco al letto nella sua cella. Lui e un dipendente del carcere sono stati ricoverati all’ospedale di Coira per sospetta intossicazione da fumo. I danni ammontano a circa 100mila franchi, indica un comunicato della polizia cantonale. Le fiamme sono state rapidamente domate dai due collaboratori della prigione. Per gli altri detenuti non vi sono stati inconvenienti. Cina: Jiang Chengfen è tornata a casa dopo un anno e tre mesi passati in un "laojiao"… di Giampaolo Visetti La Repubblica, 26 gennaio 2014 "Dovevamo stare sempre in silenzio. La notte con le luci accese ci guardavamo per vedere chi di noi si ammalava". Jiang Chengfen è da poco tornata a casa dopo un anno e tre mesi passati in uno dei campi di "rieducazione attraverso il lavoro". Che Pechino ha promesso di chiudere entro la fine di questo mese. Preferirei essere morta. Se resisti a certe umiliazioni, la vita poi non ha più senso". Jiang Chengfen ha quarant’anni, ne dimostra settanta ed è appena tornata a casa a Neijiang. Tra pochi giorni passerà il capodanno lunare in famiglia, nel Sichuan. "Ma ho conosciuto l’inferno - dice - e ho abolito la felicità". Era una contadina, ha osato protestare contro i funzionari che le avevano requisito la risaia per costruire un palazzo. È una tra gli ultimi prigionieri liberati dei laojiao cinesi. I "campi di rieducazione attraverso il lavoro" furono aperti da Mao Zedong nel 1957 per punire "controrivoluzionari" e "sovversivi". Nell’immenso arcipelago gulag cinese, in cinquantasei anni, sono stati rinchiusi senza processo circa 1,7 milioni di cittadini. Gli "inghiottiti" finiti nelle fosse comuni, secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero decine di migliaia. In novembre il plenum del Partito comunista ha annunciato la chiusura dei laojiao. A fine dicembre il Congresso nazionale del popolo ha ratificato la decisione. Entro gennaio i trecentocinquanta campi, prigioni per torture e lavori forzati, saranno ufficialmente chiusi. "Sono rimasta nel campo della contea di Zhizhong - racconta Chengfen - un anno e tre mesi. Avrei dovuto starci quattro anni. Altri prigionieri erano lì da quasi dieci. L’altra mattina una guardia mi ha portato al cancello. Mi ha fatto uscire, senza una parola. Ho capito che ero libera". I laojiao sono arrivati a essere oltre seicento, disseminati ovunque. Nel 2011 i prigionieri della polizia erano ancora 450mila. Ai primi oppositori anti-maoisti, si sono aggiunti dissidenti, fedeli di varie religioni, cristiani del Falun Gong, firmatari di petizioni contro le autorità. A essi sono stati mescolati ladri, prostitute, tossicodipendenti, criminali comuni, giocatori d’azzardo e persone definite "malate di mente". La "rieducazione" consisteva nei lavori forzati: tra 12 e 15 ore al giorno in miniere, fabbriche, laboratori artigianali, aziende agricole. La Cina, per oltre mezzo secolo, si è assicurata una massa di schiavi che potevano essere sfruttati, torturati e uccisi, lasciati morire di fame e di freddo. "La sveglia nei dormitori - dice Chengfen - suonava alle 6. Eravamo in dodici, in celle di nove metri. Dieci minuti per lavarci, in bagni per 200 prigionieri, mezz’ora a piedi per arrivare alla mensa. Altri dieci minuti per un panino al vapore, in sale per 900 detenuti, in silenzio. Tra le 8 e le 20 dovevamo assemblare parti di televisioni, o di automobili. Chi apriva bocca veniva picchiato, o condannato a stare in piedi fino a mezzanotte". È la prima volta che l’ex prigioniero di un laojiao, non coperto da pseudonimo, racconta la giornata-tipo nei campi comunisti ispirati ai lager nazisti. Chi non è morto sconta il senso di colpa di un destino meno spietato rispetto a quello dei compagni: migliaia di fosse comuni, in tutta la Cina, ospitano i resti di chi non ce l’ha fatta. "A pranzo mangiavamo una zuppa o una fetta di zucca. Il cibo era sporco, emanava un odore strano, l’acqua era scura, piena d’insetti". Le guardie passavano il tempo a giocare a mahjong, o davanti alla tv. L’ordine era assicurato dall’esercito dei dujin, gli "individui d’oro". "Venivano registrati come drogati - dice Chengfen - ma erano gangster, o criminali. Per assicurarsi un trattamento di riguardo davano ordini impossibili e punivano. Chi resisteva veniva pestato, condannato al digiuno, privato del sonno. Per ottenere pietà non restava che la corruzione. Qualcuno riusciva a farsi mandare soldi da casa". Da anni i laojiao non erano più prigioni politiche, ma centri di sfruttamento e ricatto appaltati a funzionari locali e polizia. Le vittime dei lavori forzati pagavano fino a 1650 dollari, ogni sei mesi, per vitto e alloggio. La libertà costava settemila dollari: i parenti dei prigionieri si consegnavano agli usurai, complici dei carcerieri. "Alle 20 venivamo messi davanti a un programma tv scelto dalle guardie. Altri scrivevano alla famiglia. Ho scoperto poi che le lettere servivano per accendere le stufe. Non si poteva parlare: il silenzio è stato il simbolo del nostro annullamento personale. Alle 21 dovevamo sederci sulle brande. La luce restava accesa tutta la notte. Ci guardavamo per capire chi veniva aggredito dalle malattie". Negli ultimi trent’anni la crescita economica cinese è esplosa anche grazie al basso costo del lavoro. Gli arresti di decine di migliaia di cinesi, ridotti in schiavitù, sono stati condannati invano. Pechino ha definito le accuse "ingerenze indebite in affari interni". La scintilla che ha costretto i nuovi leader a chiudere i campi è partita nell’agosto 2012 a Yongzhou, nello Hunan. "Mia figlia di undici anni - ricorda Tang Hui - era stata violentata da sei uomini. La obbligarono a prostituirsi. Li ho denunciati. Non ricevemmo alcun risarcimento, i funzionari cittadini insabbiarono il caso. Ho chiesto giustizia a Pechino: la polizia mi arrestò, diciotto mesi di laojiao". Grazie al web, anche la Cina è insorta. La storia della madre perseguitata dal partito-Stato per aver difeso la figlia stuprata divenne uno scandalo mondiale. "Fu allora - dice l’avvocato Li Fangping, difensore di dissidenti e povera gente - che le autorità compresero che la repressione era sfuggita di mano". Chiudere i campi di lavoro ideati da Mao non era facile. Gli schiavi sono stati una miniera d’oro per la polizia e per i colossi pubblici, l’arma istantanea del regime. "Mio marito - dice Lui Fengming, professoressa in pensione - aveva postato su internet un appello per la legalità. Fu rinchiuso in una fattoria- prigione della Mongolia interna. Per avere notizie sono rimasta in piedi cinque giorni davanti al cancello di un laojiao. Alla fine uscì il capo delle guardie. Scorreva con il dito i nomi scritti su un quaderno. Si fermò, pronunciò il nome di mio marito. Pensavo stesse per rivelarmi dov’era. "Morto - disse - un mese fa". Ora che i campi chiudono, affiorano i racconti della grande tragedia ignorata. Le strutture smantellate restano inaccessibili. I funzionari tacciono. Ogni giorno migliaia di prigionieri vengono liberati e accompagnati a casa dagli ex carcerieri, con l’ordine del silenzio. Anche i governi stranieri evitano di chiedere la verità: la nuova forza economica dell’autoritarismo cinese spaventa le democrazie occidentali in crisi. I laojiao ufficialmente sono in corso di "riconversione": diventano comunità di recupero dalla droga, prigioni per condannati dai tribunali, istituti psichiatrici. Avvocati e organizzazioni internazionali lanciano l’allarme. "Pechino cambia le insegne - dice Shen Tingting, direttrice di Asia Catalyst - e smantella gli edifici più vecchi. La repressione violenta, necessaria alla stabilità del regime, però non finisce. Invece che nei campi di lavoro, chi pone problemi scompare in carceri nere e comunità per prostitute. Il rischio è rendere abusi e torture formalmente tollerabili". I nuovi "campi di custodia e di educazione" sono luoghi per il lavaggio del cervello. Ren Jianyu, 27 anni di Chongqing, è finito in un ex laojiao per aver diffuso in Rete "informazioni negative". Il tribunale lo ha giudicato "malato di mente". Ha trascorso un anno in un blocco di cemento a Xinhe, a nord di Pechino. "Per guarire - dice - dovevamo stampare biglietti d’auguri di Natale, esportati in Europa e negli Usa. L’altra mattina una guardia vestita da infermiere mi ha portato fuori e mi ha lasciato alla fermata della metropolitana perché non ho più una casa". Per il governo ciò che conta è aver abolito detenzioni prive della sentenza di un tribunale. I giuristi ricordano però che in Cina la magistratura non è indipendente. È al servizio del potere: ognuno può essere arrestato e condannato per un’accusa qualsiasi. "Chiudere i campi - dice Yang Xiangui, autore della storia censurata sulla strage di Jiabiangou, dove sono morti 1.500 detenuti - apre un vuoto. Non credo che il Partito pensi realmente di colmarlo con qualcosa di legale, di trasparente, o rispettando le persone". I laojiao chiudono, ma a nessuno è permesso di visitarli. Presentare domanda espone alla rappresaglia dei funzionari. Gli ex detenuti vengono minacciati: raccontare comporta il rischio di una condanna nelle nuove strutture. Anche migliaia di ex carcerieri, in queste ore, vengono trasferiti e riformati, come "assistenti medici e custodi dei penitenziari". La Cina di miserabili e schiavi resta off-limits. Guo Qinghua ha 46 anni e fino a marzo puliva le latrine del comitato permanente del Congresso del popolo. Un buon posto, a Pechino. Ha avuto problemi per la paga ed è stata l’ultima a essere ufficialmente deportata in un laojiao. È finita a Daxing, sei edifici per settecento prigionieri. Li hanno chiusi martedì. "Ora sono libera e posso scegliere tra la disoccupazione e l’assemblaggio di giocattoli nel nuovo centro anti-droga. Sono comunque condannata a morte. L’inaccettabile è diventato presentabile, vince sempre il più forte". Non esistono dittature cattive che si trasformano in dittature buone. Ci sono soli nomi che fanno vergognare che all’improvviso diventano nomi pronunciabili senza vergogna. Anche Guo Qinghua, come Jiang Chengfeng, resta una prigioniera libera, vittima dell’eterna giornata cinese nell’ultimo ex laojiao. Cina: condanna a 4 anni di carcere per l’avvocato Xu Zhiyong, attivista anti-corruzione Agi, 26 gennaio 2014 Si è battuto per il diritto dei bambini delle campagne a ricevere una scolarizzazione adeguata nelle città e perché i "bonzi" del regime comunista cinese rendano pubblici i loro beni: ma Xu Zhiyong, un avvocato 40enne figura centrale del Movimento Nuovo Cittadino - una rete di attivisti che organizzano proteste di piazza o cene in casa per discutere di pari opportunità educative piuttosto che della corruzione del regime- è stato condannato a 4 anni di carcere per "sovvertimento dell’ordine pubblico". Gli Stati Uniti si sono detti "profondamente delusi" dalla sentenza emanata dal Tribunale Intermedio num.1 di Pechino e resa pubblica sul suo sito ufficiale. Il processo a Xu, avvocato di professione e cattedratico all’Università delle telecomunicazioni di Pechino, si è svolto mercoledì a porte chiuse, nonostante fosse stato annunciato come pubblico, tra imponenti misure di sicurezza, e non sono potuti comparire i testimoni della difesa. Per questa e altre irregolarità, come il fatto che non è stato permesso l’ingresso dei diplomatici all’udienza, Xu ha deciso di rimanere in silenzio per tutte e 6 le ore del processo, al cui inizio ha tentato di leggere una dichiarazione, che gli è stata negata. L’incarcerazione dell’avvocato-attivista è un pesante monito per la dissidenza in Cina, dove il Partito Comunista sembra intenzionato a schiacciare ogni sfida al suo potere; diminuiscono anche le speranze di un significativo cambiamento politico, in una Cina che ha avviato significative riforme economiche. L’avvocato di Xu Zhang ha detto che incontrerà il suo assistito nei prossimi giorni per esaminare l’opportunità di presentare un ricorso. Xu è il primo di una decina di attivisti sotto processo per aver "radunato folle al fine di turbare l’ordine pubblico", un reato che comporta fino a cinque anni di carcere; ed è probabile che, dopo la sua condanna, anche gli altri saranno giudicati colpevoli.