Giustizia: inaugurazione dell’anno giudiziario, la Cassazione rilancia l’indulto di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2014 Nuovo anno giudiziario. Venerdì la relazione del primo presidente: al centro sovraffollamento delle carceri e custodia cautelare. Prescrizioni in calo (106mila) ma resta l’allarme per reati come la corruzione. I termini troppo brevi della prescrizione "vanificano la repressione e lasciano impuniti migliaia di corrotti e corruttori". Sono parole di Giorgio Santacroce, attuale primo presidente della Cassazione, pronunciate l’anno scorso, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013, quand’era presidente della Corte d’appello di Roma. Sono trascorsi dodici mesi, ma il problema della prescrizione che ghigliottina migliaia di processi, soprattutto per reati che si scoprono a distanza di tempo (tra cui quelli economici, e in primis la corruzione), non è stato risolto. È vero: il numero dei processi ghigliottinati è in costante calo da dieci anni e nel 2013 ha toccato il livello più basso, passando da 220mila a 106mila, ma il dato in sé resta allarmante e rappresenta una sconfitta dello Stato. Perciò venerdì prossimo, dallo scranno più alto della magistratura, Santacroce pronuncerà parole più o meno analoghe a quelle dell’anno scorso, chiedendo al legislatore di rivedere la disciplina della prescrizione, almeno per alcune tipologie di reato. Un problema dimenticato totalmente da questo governo, ma anche dalla maggioranza, visto che sulla riforma della prescrizione la commissione Giustizia del Senato è ferma da mesi alla discussione generale. Prescrizione, dunque, ma non solo. Nella relazione del primo presidente della Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario c’è un altro tema in primo piano, il sovraffollamento carcerario (su cui si soffermò anche il suo predecessore Ernesto Lupo) e le misure per arginarlo, compreso l’indulto, nonché il tema, connesso, dell’eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere. L’Italia continua ad avere il fiato sul collo della Corte di Strasburgo, che ci ha condannato per trattamenti inumani e degradanti chiedendoci di adottare, entro maggio 2014, misure strutturali per uscire dall’emergenza e garantire ai detenuti una carcerazione rispettosa della loro dignità e della funzione rieducativa della pena. Se questo termine non sarà rispettato, la Corte ci presenterà un conto salato, risultante dalla somma dei risarcimenti chiesti da migliaia di detenuti. Senza contare la ferita, per uno Stato di diritto, rappresentata dall’incapacità di garantire il rispetto dei diritti umani. In questo quadro si inseriscono le iniziative di governo e Parlamento sul carcere, approvate e in corso di approvazione. Iniziative giudicate "positive" da Santacroce e tuttavia insufficienti visto il poco tempo che resta fino a maggio (i detenuti sono 62mila e i posti regolamentari 47mila). Perciò il primo presidente, nel solco del messaggio sul carcere inviato alle Camere dal Capo dello Stato, chiederà di valutare anche il ricorso a misure di clemenza, in particolare all’indulto. Soluzione che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri non ha mai nascosto di auspicare, ma che finora non ha trovato una sponda politica robusta; piuttosto il muro di M5S e Lega, quest’ultima addirittura in assetto di guerra anche contro le misure svuota carceri del governo e della maggioranza. La settimana che si apre domani sarà scandita da una serie di cerimonie dì inaugurazione dell’anno giudiziario: comincia martedì il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri con le sue comunicazioni alle Camere; venerdì ci si sposta in Cassazione alla presenza del Presidente della Repubblica, del presidente del Consiglio, dei ministri, del Csm, di avvocati e Anm, e si finisce sabato, nelle Corti, d’appello. Quello del ministro è, tradizionalmente, un resoconto dell’azione di governo già intrapresa, che quest’anno avrà al centro prevalentemente il carcere. Peraltro, su questo tema e sulla giustizia in generale dovrebbe svolgersi alla Camera un dibattito in aula a distanza dì qualche giorno dalla relazione del ministro, anche alla luce del messaggio di Napolitano. Sarà il carcere a dominare la scena, quindi Sul fronte della custodia cautelare Santacroce ribadirà l’allarme lanciato l’anno scorso dal suo predecessore, e rivolto ai magistrati, per un uso più limitato delle manette e, al tempo stesso, darà atto al legislatore di aver avviato una riforma "positiva" che certamente ridurrà le presenze in carcere, sebbene il sovraffollamento sia anche il frutto di una politica penale troppo incentrata sul carcere: di qui la necessità dì una riforma anche sul versante delle pene, prevedendone di alternative al carcere fin dalla condanna. "Positivo" il giudizio sull’epocale riforma della geografia giudiziaria e sulla capacità del governo di aver saputo resistere alle pressioni localistiche. Quanto alla durata eccessiva dei processi, si farà notare che il problema, tuttora gravissimo, riguarda il ci vile e non il penale, che spesso, invece, finisce per essere l’oggetto principale dello scandalo. Al contrario, la durata dei processi penali in Italia è nella media europea, sia pure nella misura massima consentita dal Consiglio d’Europa, cioè cinque anni. Giustizia: la Lega contesta il decreto "svuota carceri", presidi in molte città del Nord Corriere della Sera, 19 gennaio 2014 Maroni: "Ho detto al Guardasigilli che quella norma è sbagliatissima". Presidio con Salvini davanti a San Vittore. Una delegazione di una decina di militanti della Lega ha raggiunto piazza della Scala per protestare contro il ministro della Giustizia Cancellieri e lo svuota-carceri. Il guardasigilli è andato a Palazzo Marino per la presentazione del bilancio sociale realizzato dal tribunale di Milano; il Carroccio ha quindi portato la propria protesta in piazza della Scala da San Vittore, dove questa mattina aveva organizzato un presidio per la stessa ragione. "Non ce l’abbiamo con la figura del ministro - ha spiegato il capogruppo della Lega in Consiglio comunale, Alessandro Morelli - ma con la politica che porta avanti. La Lega è contraria in modo assoluto allo svuota-carceri e c’è quindi un fil rouge che ci porta da San Vittore a qui". In piazza della Scala tra la delegazione che ha mostrato un cartello con scritto "Cancellieri vergogna", non c’era il segretario, Matteo Salvini, che invece era presente a San Vittore; secondo quanto spiegato dai presenti, sarebbe infatti impegnato in un appuntamento a Padova. Nessuna contraddizione, neanche con la presenza del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, in sala Alessi dove si sta tenendo il convegno. Secondo quanto sottolineato da Morelli, infatti, "Maroni è al governo della Regione e rappresenta le istituzioni. È ragionevole - ha concluso - che sia presente". "Ho detto al ministro Cancellieri che lo svuota-carceri è una norma sbagliatissima". Lo ha affermato il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, parlando con i giornalisti al termine del convegno per la presentazione del bilancio sociale del Tribunale di Milano, a cui è intervenuto il ministro della Giustizia. "Stiamo contestando questo decreto davanti a tante carceri in diverse parti d’Italia - ha aggiunto riferendosi alla manifestazione organizzata oggi dalla Lega - è un provvedimento ingiusto, sbagliato e dannoso per la sicurezza. Il problema si risolve costruendo nuove carceri, non con indulti e sanatorie". Probabilmente non riusciamo a far comprendere i provvedimenti, evidentemente non riusciamo a spiegarli bene o non vogliono comprenderli, perché poi delle due è l’una". Così il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri a margine della presentazione del "bilancio di responsabilità sociale" del Tribunale di Milano, a Palazzo Marino, ha commentato le proteste organizzate dalla Lega fuori dalle carceri, contro il decreto svuota carceri. "Io cerco di essere chiara - ha proseguito - se non lo sono lo ripeto ancora, più di così non posso fare". Tensione a Padova, fango e uova dai Centri sociali Lega Nord sulle barricate contro il decreto svuota carceri. I militanti del Carroccio si sono mobilitati oggi in tutta Italia, con sit-in e gazebo davanti agli istituti di pena per contestare quella che Matteo Salvini ha definito "una porcheria romana approvata da quasi tutti i partiti". Manifestazioni di protesta si sono svolte a Milano, di fronte a San Vittore, a Verona, Padova, a Sollicciano, in Toscana, e davanti a quattro penitenziari nelle Marche, Pesaro, Ancona, Camerino e Ascoli Piceno. Ma soprattutto nelle città del Nord i gazebo ‘verdi’ hanno trovato l’opposizione, anche violenta, dei Centri sociali, protagonisti di lanci di uova e fango e di slogan offensivi verso il neosegretario leghista. Il risultato sono state ore di tensione, specie a Padova, con poliziotti in assetto anti-sommossa a frapporsi tra i manifestanti leghisti e i giovani della sinistra antagonista. Nessuno scontro duro, e nessun vero contatto tra le opposte fazioni. Salvini tuttavia ha definito "una follia" il fatto che decine di agenti siano stati costretti "a difendere un gazebo anziché essere impegnati nel garantire la sicurezza in giro per Padova". Sulla stessa linea il senatore Massimo Bitonci, che ha chiesto lo stop ai violenti e - fresco di candidatura per il Carroccio come sindaco nella città euganea - ha lamentato come "la democrazia a Padova sia messa a repentaglio da pochi violenti, legati agli ambienti del centro Pedro e del Gramigna". Appunto i centri sociali che si erano ritrovati davanti al Due Palazzi per boicottare il presidio del Carroccio. Circa venti esponenti del Gramigna hanno avuto dapprima un acceso scontro verbale con gli uomini della Lega, poi si sono ‘armati’ di uova e palle di fango, lanciandole verso i gazebo leghisti. In questo frangente la Polizia è stata costretta ad una carica di alleggerimento. La tensione è proseguita anche dopo, quando è arrivato Matteo Salvini, che i centri sociali hanno accolto con slogan e striscioni offensivi, "Salvini fannullone", e "Lega ladrona". Altri antagonisti prendevano nel frattempo di mira la sede del Carroccio nel quartiere Arcella, bloccandone l’ingresso con calcinacci, immondizie e banane. "Atti di violenza inaccettabili" li ha bollati il governatore veneto Luca Zaia. Poi, mentre a Padova tornava la calma, lo stesso Salvini dava conto con un post su Facebook di uno striscione ancora più duro mostrato dai centri sociali a Milano, durante il primo presidio a San Vittore: "Salvini boia è ora che tu muoia". "Aspetto l’indignazione di sinistra e giornali...", ha scritto il segretario leghista. Sul ddl svuota carceri, tuttavia, resta il muro contro muro tra il Carroccio e il guardasigilli Anna Maria Cancellieri. Il ministro della giustizia ha ribadito di non capire la posizione della Lega: "probabilmente non riusciamo a far comprendere i provvedimenti, non riusciamo a spiegarli bene o non vogliono comprenderli: delle due l’una". Il governatore della Lombardia Roberto Maroni è invece certo di non aver frainteso il decreto. E l’ha detto alla stessa Cancellieri, incontrandola stamane a Milano: "il problema delle carceri - ha sostenuto - si risolve con nuove carceri e non con indulti o sanatorie". Patriarca (Pd): giustizialismo Lega non passerà "Il giustizialismo d’altri tempi della Lega non passerà. Bisogna lavorare per far diventare presto realtà le pene alternative, garanzia per i detenuti e per i cittadini. Al contempo, il ministero della Giustizia deve pensare a un censimento per capire quanti detenuti siano in condizioni di salute gravi come Di Sarno". Lo afferma il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della commissione Affari Sociali. "È falso che il Parlamento stia approvando uno svuota-carceri. L’esperienza dimostra che laddove c’è recupero la recidiva cala drasticamente - conclude Patriarca - Le politiche securitarie hanno mostrato tutti i loro limiti". Giustizia: dopo sentenza Consulta e Cassazione, scarcerazioni per stop a ergastolo retroattivo Ansa, 19 gennaio 2014 Che sarebbe andata così, cioè che molti esponenti di spicco della criminalità organizzata, ergastolani in carcere per omicidio, sarebbero usciti a breve, si era capito a luglio, quando la Corte Costituzionale aveva bocciato il cosiddetto "ergastolo retroattivo", giudicando illegittima una norma che, in determinati casi, consentiva retroattivamente l’applicazione dell’ergastolo anziché della pena più favorevole dei 30 anni. Lunedì scorso la Cassazione ha dato il via libera alla commutazione del carcere a vita in 30 anni accogliendo il ricorso di un mafioso, e questa stessa strada ora si apre concretamente anche per molti altri detenuti che avendo già scontato diversi anni in carcere, sono ormai vicini alla soglia dei 30 anni di reclusione: sarebbero essere quasi cento - secondo una stima riportata oggi da La Stampa, che dedica alla vicenda un ampio articolo - coloro per i quali da qui a fine 2014 potrebbero aprirsi le porte del carcere a breve o potrebbe scattare la commutazione della pena. Tra i primi vi sarà Emanuele Zuppardo, arrestato nel 1992 e ritenuto uno dei killer delle cosche, condannato all’ergastolo nei processi "Autoparco" e "Count Down". Ma sorte analoga potrebbero avere, prossimamente, anche i mafiosi Giuseppe Dainotti, Giovanni Matranga, Giulio Di Carlo e Francesco Mulè, Andrea Ventura. Naturalmente ogni caso fa storia a sé, sia rispetto a quella che sarà la decisione finale sia per quanto riguarda l’eventuale computo dell’effettiva pena ancora da scontare, al netto degli effetti dell’indulto e della liberazione anticipata in caso di buona condotta. Ma perché questo avviene? Tutto discende dalla legge Carotti che entrata in vigore nel gennaio 2000 consentiva ai colpevoli di reati per cui era previsto l’ergastolo di vedere commutata la pena in 30 anni di carcere se chiedevano il rito abbreviato. A questa legge, nel novembre 2000 seguì un decreto interpretativo, il 341, che di fatto all’art. 7 ne cancellava i contenuti, stabilendo che chi chiedeva l’abbreviato aveva diritto solo a non fare l’isolamento diurno. Ma questa lettura della legge è stata prima respinta dalla Corte di Strasburgo, poi dalle sezioni unite della Cassazione nell’aprile 2012 e quindi dalla Corte Costituzionale nel luglio scorso. "Di conseguenza - spiega l’avvocato Roberto Afeltra, che ha in carico come legale una decina di posizioni - coloro i quali sono stati giudicati in primo e secondo grado tra il gennaio e il novembre del 2000, avevano chiesto il rito abbreviato e anziché i 30 anni hanno avuto l’ergastolo senza isolamento diurno, ora possono fare istanza e, se ricorrono i presupposti, possono vedersela accolta". Certo, la situazione fa un certo effetto e rischia di essere letta come un colpo di spugna. Ma "il diritto è diritto - sottolinea Afeltra - e va applicato". Giustizia: Cassazione; la dieta vegetariana, un diritto per i detenuti buddisti di Marco Trinchieri www.wired.it, 19 gennaio 2014 Diritti e detenuti. Il rischio è quello di pensare che chi è ristretto in carcere non sia meritevole di ricevere alcuna tutela giurisdizionale. Non è così e a dircelo è la prima sezione penale della Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. I, ud. 25 settembre 2013, dep. 7 ottobre 2013, n. 41474) destinata a fare scuola. Un Magistrato di sorveglianza di Novara non aveva assunto una vera e propria decisione sul reclamo proposto da un detenuto buddista, sottoposto al regime detentivo di cui all’art. 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Al recluso non era stata concessa sia la possibilità di far accedere all’interno del carcere di Novara il suo maestro buddista Zen, sia quella di ottenere la somministrazione di vitto esclusivamente vegetariano. Il Magistrato di sorveglianza, anziché decidere sul reclamo presentato dal detenuto, si era limitato a suggerire al carcere di Novara di rimpiazzare la società che provvedeva a fornire i pasti e a non risolvere la questione sull’ingresso del maestro buddista Zen perché andava "affrontata con modalità tecniche che non dipendevano dal Magistrato di sorveglianza" ma dal Ministero (il riferimento è alla lista ministeriale che elenca i ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie). La sentenza della Corte di Cassazione ha imposto al Magistrato di sorveglianza di decidere sul reclamo formulato dal detenuto. Non solo: ha anche chiarito che deve essere garantito ad ogni detenuto "il diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale". Il tema è di grande interesse anche per Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte europea con la sentenza n. 18429/06 (Jakobski contro Polonia) ha sanzionato la Polonia per la violazione degli artt. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) e 14 (divieto di discriminazione) in quanto riconosciuto responsabile di non aver fornito pasti vegetariani a un detenuto buddista. In questo caso, come in quello deciso dalla nostra Corte di Cassazione, il diritto ad un pasto vegetariano è strettamente correlato al fatto di rappresentare una conseguenza del proprio credo religioso. D’altronde la Raccomandazione sulle regole penitenziarie europee è chiara nell’affermare che ad ogni detenuto deve essere garantita un’alimentazione compatibile con la propria religione. Una conferma ancor più recente di tale orientamento europeo arriva dalla condanna alla Romania (caso Vartic contro Romania) riconosciuta colpevole di non aver fornito a un detenuto moldavo una dieta vegetariana. In breve il principio europeo, confermato dalla Suprema Corte italiana, vuole che ogni limitazione alimentare spiegata da una scelta religiosa sia consentita dagli Stati aderenti alla Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. E in Arizona? In circa otto carceri della contea dello sceriffo Joe Arpaio la dieta vegetariana è per tutti, ma la spiegazione sta in esigenze di bilancio. Una dieta senza carne pesce garantirebbe un risparmio intorno ai 100mila dollari che potrebbero essere reinvestiti in attività di assistenza e di reintegro per i detenuti. Lettere: perché non utilizziamo i carcerati per tenere pulite le città? di Piero Robba Il Piccolo, 19 gennaio 2014 Il Comune di Muggia, come tutti gli altri Comuni d’Italia, vive giornalmente una sofferenza monetaria causa il patto di stabilità, la recessione e la spending review che ne riducono il normale svolgimento di tutte le sue attività allo stretto necessario per la sopravvivenza giorno dopo giorno. Da questi "allarmi" ne emerge uno, e cioè quello della pulizia della città e delle sue periferie. Anche se non si può dire che ultimamente Muggia sia estremamente sporca (a parte le pipì dei cani...), anche se gli operatori ecologici sono pochi. Il Comune, in carestia di proprio personale causa il blocco delle assunzioni e la recessione in atto, chiede aiuto alla Regione la quale - dopo aver fatto un bando di gara - assegna alla cooperativa vincente la gestione di lavoratori socialmente utili, che poi vengono impiegati per un certo tempo ma in numero "insufficiente" per pulire strade e quant’altro a Trieste e a Muggia. L’assessorato di Muggia che gestisce un certo numero di questi operatori, fa i salti cercando di destinarli a coprire i vari punti del territorio con il risultato di farli lavorare a macchia di leopardo. Il guaio è che per il poco personale impiegato ed essendo tante le zone da pulire, quando hanno finito di pulire l’ultima zona devono nuovamente ripartire dalla prima e passa molto tempo: così l’erba ricresce e le immondizie si accumulano creando scontento fra i cittadini. Il Comune però non può fare granché di diverso. Forse una piccola "soluzione" ci sarebbe, e cioè quella di impiegare i detenuti del carcere del Coroneo con pene e reati minori: in questo modo non rimangono inattivi tutto il giorno in cella, e - mettendoli a disposizione della comunità - si risveglia in loro quella dignità e umanità che hanno nel loro dna. Il famoso decreto Svuota carceri dell’estate dell’anno scorso ha introdotto la possibilità per i detenuti di fare volontariato in realtà no profit e amministrazioni pubbliche, per quello che ne so. Il sindaco di Trieste, Roberto Cosolini, ha avviato un iter burocratico in questo senso per trovare il modo di migliorare la pulizia della sua città. Auspico che anche il sindaco di Muggia cerchi di informarsi su questa opportunità. Un’altra soluzione sarebbe quella che hanno adottato i Comuni di Milano, Bologna e Firenze che hanno creato una forma di volontariato no profit per la cura dei beni dei Comuni, compresi gli spazi verdi. Sardegna: tour nelle carceri di Patrizio Rovelli (Rossomori) e dossier alla Cancellieri Ansa, 19 gennaio 2014 Patrizio Rovelli, candidato al bis in Consiglio regionale con i Rossomori (già componente del gruppo Modes-Giustizia Giusta), ha iniziato un tour di visite negli istituti di pena della Sardegna per valutare le condizioni delle nuove e vecchie strutture, e per accertarsi delle condizioni di vita all’interno delle carceri. La prima tappa è stata la casa circondariale di Lanusei. Al termine della sua ricognizione, consegnerà un dossier al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la cui presenza in Sardegna è annunciata nelle prossime settimane. Conclusa la visita a Lanusei, Rovelli ha indicato nel sovraffollamento e nell’affievolimento delle garanzie costituzionali i problemi più gravi delle carceri sarde. "Al ministro Cancellieri - ha affermato l’esponente dei Rossomori - indicheremo una serie di proposte che possano contribuire a migliorare le condizioni dei carcerati e di chi lavora nelle strutture penitenziarie". L’inaugurazione delle tre nuove case circondariali di Nuchis (Tempio), Massama (Oristano) e Bancali (Sassari) "non ha contribuito - a detta di Rovelli - a risolvere i problemi del sistema penitenziario sardo, né ha fatto progredire il progetto di rieducazione e reinserimento dei condannati dettato dall’articolo 27 della Costituzione". Prossime tappe del tour, la nuova struttura carceraria di Uta e il carcere sassarese di San Sebastiano, ormai dismesso. "Sarà occasione - ha sottolineato il consigliere - per affrontare anche il tema legato ai vecchi e ai nuovi modelli di edilizia e architettura penitenziaria". Assegnati 12 neocommissari negli istituti sardi L’Amministrazione penitenziaria ha assegnato agli istituti del Distretto Sardegna 12 neocommissari che hanno concluso il terzo Corso del ruolo direttivo ordinario. Giungeranno così nelle carceri dell’isola, uno per ogni istituto, a Lanusei, Cagliari, Tempio Pausania, Nuoro, Iglesias, Oristano, Sassari, mentre tre andranno a Mamone, e due a Is Arenas. Il segretario generale aggiunto della Cisl-Fns, Giovanni Villa, che ha espresso un plauso per il rafforzamento del personale nelle carceri dell’isola , ha reso noto che dopo questa assegnazione seguirà quella dei commissari capo che presumibilmente avverrà alla fine di gennaio o nei primi di febbraio. Sicilia: "Centro Borsellino" propone Osservatorio sulle scuole presenti negli Ipm Ansa, 19 gennaio 2014 Un osservatorio regionale sulle scuole presenti negli istituti penali minorili. Questa la proposta lanciata dal centro studi Paolo Borsellino in occasione dell'iniziativa "Buon compleanno Paolo" organizzata con i ragazzi del carcere minorile Malaspina di Palermo, nel giorno della nascita del giudice Paolo Borsellino. "Vorremmo lanciare la proposta di attivazione di un osservatorio regionale sulle scuole negli istituti penitenziari minorili - spiega Maria Tomarchio, presidente del centro - all'interno di un'intesa da mettere a punto tra i diversi soggetti ed enti interessati che possa essere strumento utile per dare voce ai diversi bisogni ed esigenze delle strutture, oltre che punto di partenza per attivare forme di scambio e rielaborazione delle esperienze educativo - didattiche sperimentate all'interno delle varie strutture". Un percorso di "analisi e monitoraggio - ha aggiunto Tomarchio - che permetta al centro di fare da interlocutore tra il mondo della scuola e i ministeri dell'Istruzione e della Giustizia per avviare azioni concrete e dare opportunità di riscatto e crescita ai giovani detenuti". A portare un messaggio di speranza e un sorriso ai ragazzi del Malaspina, nel ricordo del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio, gli attori Ficarra e Picone, ma anche Salvo Piparo e Costanza Licata che, insieme al giornalista Daniele Billitteri, hanno preparato un momento di animazione e uno spettacolo teatrale intitolato "Un cunto e una vicariota". Oristano: a Massama svuotate le celle, arrivano altri detenuti di Alta Sicurezza di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 19 gennaio 2014 Tra ieri e oggi sono andati via in diciannove. Domani altri sette saluteranno le mura e le sbarre che li hanno ospitati. Il totale è di ventisei e il fatto che vadano via non può che essere interpretato in un’unica maniera. A Massama si stanno svuotando le celle per fare posto ad altri detenuti speciali che sono in arrivo nei prossimi giorni. In tutto dovrebbero essere un’altra quarantina, forse anche cinquanta, e andranno ad aggiungersi a quelli che già sono stati trasferiti nella casa circondariale nelle scorse settimane. Erano un’ottantina, si arriverà ad avere centoventi o poco più di quelli che, qualcuno degli addetti ai lavori ha ribattezzato come "I bravi ragazzi". Stanno infatti tutti scontando pene con la misura dell’Alta sicurezza 3 e hanno un passato da affiliati a cosche mafiose o in celle terroristiche. L’annuncio che, dopo il carico di dicembre, i trasferimenti sarebbero ripresi a gennaio verrà quindi rispettato. I prossimi giorni saranno quelli in cui altri ospiti prenderanno possesso delle celle nel carcere di Massama che sarà a tutti gli effetti un carcere di massima sicurezza. Tanto più che l’imminente apertura del carcere di Uta sarà il semaforo verde per l’arrivo da Cagliari e Tempio di un’altra cinquantina di detenuti speciali. A quel punto, sempre richiamandosi al gergo carcerario e con buona pace di qualche politico che ha sbandierato a ripetizione la sua volontà di fermare il piano del Ministero, la casa circondariale di Massama sarà "a regime". Quel che invece non sembra affatto a regime è il numero di varie figure professionali, indispensabili perché tutto funzioni. Se gli agenti iniziano a mugugnare, di certo il malcontento non è più solo latente tra gli educatori che rimangono appena tre. Non ci sono psicologi, mancano i criminologi e quegli esperti che sono decisivi per l’osservazione della personalità del detenuto e nel riferire ai giudici sul percorso di "revisione critica" sui reati commessi. Eppure il disegno, sempre negato nelle stanze dei bottoni, ma portato avanti con rapidità estrema, è ormai avviato alla conclusione. In carcere a Massama altri 44 detenuti speciali Sono quarantaquattro, come i gatti della famosa canzone. Non sono certo pochi, ma la previsioni della vigilia sono state ampiamente rispettate. Da ieri pomeriggio, il carcere di Massama ha nuovi ospiti, tutti detenuti che stanno scontando la pena nel regime di detenzione dell’Alta Sicurezza 3. Sono affiliati alle cosche mafiose o componenti di celle terroristiche e hanno preso il posto di quei detenuti comuni che due giorni fa erano stati trasferiti verso altre case circondariali isolane. Prosegue così a passo di carica il trasferimento di detenuti speciali nel nuovo penitenziario oristanese, che ora ne ospita oltre centoventi. E non saranno gli ultimi perché secondo le previsioni, a breve, la struttura sarà a regime con il numero che salirà a duecento. E non è detto che in seguito non ne arrivino altri, visto che le celle, se adattate, potrebbero anche ospitarne un numero superiore. Il trasferimento, anticipato da quello dei detenuti comuni verso altri lidi, si è completato con la solita trafila. Dalla penisola è partito l’aereo poi atterrato ad Elmas. Da qui i cellulari hanno fatto rotta verso Massama nel primissimo pomeriggio. Firenze: Ermini (Pd); a Sollicciano sovraffollamento inaccettabile Adnkronos, 19 gennaio 2014 Visita a sorpresa questa mattina all’istituto penitenziario fiorentino di Sollicciano del deputato Pd David Ermini, membro della Commissione Giustizia della Camera e relatore del decreto sulle carceri, e dei consiglieri regionali toscani Pd, Enzo Brogi e Nicola Danti. "Ci siamo trovati di fronte a una situazione inaccettabile per un Paese civile: sovraffollamento, carenza di personale e inadeguata manutenzione della struttura - spiegano Ermini, Brogi e Danti - A Sollicciano ci sono il doppio delle persone rispetto ai posti effettivi, il tasso di sovraffollamento tocca il 187 per cento. Qui potrebbero starci circa 400 persone e invece ce ne vivono circa mille". "Ci pare chiaro - aggiungono - che di fronte a un dato del genere o si interviene in modo strutturale o è impossibile fare qualsiasi cosa. È impossibile lavorare, tenere le celle aperte, avere personale e manutenzione adeguati. Questo perché le capacità della struttura non possono rispondere positivamente al numero di persone che ci vivono. I detenuti potrebbero lavorare, impiegare il tempo, e invece niente. Nessuno fa niente. Anche il discorso delle celle aperte in alcune sezioni, lo consideriamo un palliativo, insufficiente a risolvere il problema. Manca la manutenzione ordinaria, anche la più banale, abbiamo addirittura trovato una cella senza luce. Ci domandiamo se tutto questo è civile". "E sappiamo bene che non lo è - continuano Ermini, Brogi e Danti - Per questo torniamo a ribadire che l’impegno deve essere portato al massimo, sia da parte delle istituzioni nazionali, sia da parte di quelle locali. Ci facciamo carico di affrontare nelle sedi opportune l’istanza di Sollicciano, al quale, ricordiamo, il rapporto Uil-pa assegna il primato per casi di tentati suicidi. E dove nel giro di circa due settimane ci sono state ben due risse che hanno provocato feriti. Inoltre, è fondamentale intervenire sulla Fini-Giovanardi, una normativa che negli anni non ha portato altro che al sovraffollamento, riempiendo le carceri di persone con problemi di tossicodipendenza, le quali dovrebbero intraprendere percorsi di recupero differenti", concludono Ermini, Brogi e Danti. Alessandria: i detenuti del carcere di San Michele diventano panificatori www.tuononews.it, 19 gennaio 2014 "Pane libero", "pane quotidiano": questi i nomi, non a caso, delle fragranti pagnotte che vengono sfornate ogni giorno nella Casa di Reclusione di Alessandria San Michele. Da alcuni mesi il forno a legna rotante di cinque metri di diametro (uno dei più grandi del Piemonte) lavora a pieno ritmo nella Casa di Reclusione. Furgoncini partono per la consegna del pane biologico, lievitato naturalmente con lievito madre da farine macinate a pietra, nei 24 supermercati Coop di Piemonte, Liguria e Lombardia che hanno già aderito al progetto. In un prossimo futuro la produzione si moltiplicherà per appassionare i buongustai delle tre regioni. L’ambizioso progetto, ideato e realizzato con la Casa di Reclusione dalla Cooperativa Sociale Pausa Café in collaborazione con Eataly e Coop Consorzio Nord Ovest e finanziato dalla Compagnia di San Paolo di Torino, ha coinvolto tutto il personale dell’Istituto. La Dottoressa Elena Lombardi Vallauri, direttore della Casa Circondariale di San Michele, evidenzia il fatto che la realizzazione del progetto ha animato positivamente i detenuti, sia quelli coinvolti personalmente nel lavoro sia quelli che semplicemente ne sono a conoscenza, perché da sempre il pane è il segno della condivisione sotto molti punti di vista, che all’interno di una struttura penitenziaria non può che sollevare gli animi con proficui effetti educativi. L’organizzazione prevede il lavoro, anche notturno, per 5 detenuti assunti dalla Cooperativa, che appresa l’arte, sono adesso in grado, autonomamente, di produrre, secondo le istruzioni del maestro d’arte Giovanni Mineo il pane. "La Cooperativa Sociale Pausa Café promuove il lavoro intramurario come strumento di dignificazione della pena e di riscatto personale e sociale. In carcere si possono valorizzare competenze e formare professionalità, restituendo persone al territorio e prevenendo la recidiva" sostiene il Presidente Marco Ferrero. L’obiettivo ancora da realizzare è l’assunzione di altri tre detenuti per il lavoro al forno (preparazione, cottura e confezionamento) e aumentare le ore di lavoro e la produzione in misura adeguata a rifornire tutti i punti vendita Coop di Piemonte, Liguria e Lombardia. La notizia di questo i progetto, finalizzato a conciliare l’attività rieducativa dei detenuti con un lavoro che porta frutti evidenti con favorevoli ricadute economiche a pioggia che coinvolgono tutti i soggetti interessati, ha attirato l’attenzione di Rai 1 e della sua nota giornalista Anna Scafuri che ha realizzato, all’interno del penitenziario alessandrino, un reportage che sarà trasmesso la sera di venerdì 7 giugno alle 23.00 circa nel programma di approfondimento TV7. La Dottoressa Elena Lombardi Vallauri, ringraziando la Polizia Penitenziaria e tutti i suoi collaboratori, sottolinea che è questa una preziosa occasione per conoscere e comprendere il carcere e la molteplicità di azioni utili che, tra le sue mura, tendono alla sicurezza della società attraverso la diretta sperimentazione dei valori che sono il fondamento del vivere civile responsabile, dando vita allo slogan "lavoro serio e onesto per un carcere migliore" . Genova: Sappe; detenuto si cuce la bocca per protesta, espulsione per detenuti stranieri Ristretti Orizzonti, 19 gennaio 2014 Drammatico gesto autolesionistico quello compiuto l’altro ieri da un detenuto algerino nel carcere di Genova Marassi. L’uomo, con una condanna a 30 anni per omicidio, era arrivato a Marassi da qualche giorno, proveniente dal carcere di Sanremo: si è cucito la bocca per protestare contro il trasferimento con ago e filo di fortuna "e solo il pronto intervento dell’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio, che ha avvisato tempestivamente infermieri e Preposto di sorveglianza di turno, ha scongiurato peggiori conseguenza al ristretto". Lo evidenzia Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Il rappresentante del primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri della Penitenziaria torna a sottolineare come "pur essendo il trasferimento del detenuto avvenuto secondo le ordinarie e periodiche procedure di sfollamento delle strutture penitenziarie, è inevitabile che ciò possa essere vissuto male dal diretto interessato. A nostro avviso bisogna potenziare le procedure legislative e diplomatiche per fare in modo che gli stranieri detenuti e condannati in Italia scontino la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza, cosa che oggi avviene per numeri davvero minimi: a livello nazionale sono stati infatti solamente 920 i detenuti stranieri espulsi dall’Italia nell’anno 2012 a titolo di misura alternativa alla detenzione. E 896 erano stati nel 2011. La tensione n una struttura sovraffollata come quella genovese di Marassi (con circa il 63% dei presenti che sono stranieri) è purtroppo all’ordine del giorno e determina eventi critici come i tentati suicidi, le risse, le colluttazioni e gli atti di autolesionismo: tutti episodi che determinano stress e pericolo costante per chi nelle sezioni detentive deve lavorare ogni giorno, rappresentando lo Stato, come i nostri Agenti di Polizia Penitenziaria, eroici a gestire i molti eventi critici con senso del dovere, abnegazione e professionalità nonostante a Marassi siano più di cento in meno rispetto all’organico previsto". Proprio ieri aveva fatto visita al carcere di Marassi il sindaco di Genova, Marco Doria. Il primo cittadino ha affrontato con il direttore del penitenziario, Salvatore Mazzeo, l’andamento delle collaborazioni in corso tra il Comune e il carcere per il lavoro dei detenuti in attività di pulizia di parchi e cimiteri e per diversi progetti di inclusione sociale. Il SAPPE, al riguardo, auspica un incremento di detenuti in attività lavorative. "Scontare una pena in carcere senza far nulla, nell’ozio e nell’apatia - prosegue Martinelli - alimenta una tensione detentiva nelle sovraffollate celle. E i detenuti che lavorano a Marassi, peraltro in servizi interni d’istituto e poche ore a settimana, sono davvero una percentuale irrisoria: forse il 10% dei circa 800 presenti. Ora, dopo l’incontro tra il Sindaco Doria e il direttore Mazzeo, attendiamo fatti concreti per impiegare i detenuti con pene brevi da scontare e con reati di minore allarme sociale in progetti per il recupero del patrimonio ambientale, occupandosi della manutenzione e della pulizia dei parchi e delle ville comunali della città e della pulizia dei greti dei torrenti". Enna: proclamato lo stato di agitazione della Polizia penitenziaria La Sicilia, 19 gennaio 2014 Proclamato lo stato di agitazione della Polizia penitenziaria del carcere di Enna, con u sindacati che annunciano un sit-in di protesta per il 15 febbraio. Una protesta che è portata avanti dalle segreterie provinciali si Sappe, Uil Pa, Ugl Fnpp, Cnpp Fsa che in una nota inviata al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano ed ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sottolineano di avere più volte chiesto l’intervento delle segreterie nazionali dei rispettivi sindacati. Il tavolo negoziale sulle rivendicazioni sindacali portate avanti dal personale, si è interrotto definitivamente lo scorso 10 gennaio quando i sindacati non hanno partecipato, lamentando la mancata convocazione in diverse occasioni, quali ad esempio la predisposizione degli incarichi di lavoro per l’apertura del nuovo padiglione del carcere o la collocazione del personale negli uffici. La convocazione del 10 gennaio è stata disertata perché in i sindacati avevano ribadito le ragioni dello stato di agitazione. "Le segreterie di Enna esprimono la volontà di mettere in atto una protesta pacifica - si legge nella nota congiunta - per il 15 febbraio se entro quella data non verranno ripristinate le garanzie sindacali. Si diffida da ogni adempienza amministrativa che non sia stata concordata con i sindacati maggiormente rappresentativi e le scriventi sigle chiedono l’immediato annullamento dell’ordine di servizio del 14 gennaio". La nota, firmata dai segretari Navarra per il Sappe, veneziano per la Uil-Pa, D’Antoni per Ugl-Fnpp e Lo Dico per la Cnpp-Fsa, è indirizzata anche ai segretari nazionali informati della situazione che si è creata al carcere ennese, con una richiesta dei segretari regionali di intervento da parte delle segreterie nazionali presso i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Il sit - in di protesta annunciato per le prossime settimane, spiegano i sindacati, sarà pacifico ma avrà la massima visibilità. Ragusa: solidarietà ai detenuti, progetto per il carcere sostenuto dai Club service www.ondaiblea.it, 19 gennaio 2014 I Club service di Ragusa tutti uniti per un progetto di solidarietà e per un segnale di speranza. I presidenti Ammi (Associazione Mogli di Medici Italiani) (Elisa Marino Criscione), Kiwanis (Gaetano Inturrisi), Fidapa (Anna Di Cesare), Lions (Giovanni Nicosia), Inner Wheel (Carmela Firrincieli), Rotary (Giambattista Schininà) e Rotary Hybla Herea (Marcello Ficicchia) hanno portato tra le mura della Casa circondariale di contrada Pendente. Un progetto che sarà contrassegnato da parecchie tappe e che, in questa prima fase, è stato caratterizzato dalla consegna di biancheria intima, sulla scorta delle richieste più frequenti provenienti dagli stessi ospiti della struttura. La consegna dei capi di abbigliamento è avvenuta alla presenza del capo area trattamentale, Rosetta Noto, che ha espresso il proprio apprezzamento per il percorso avviato dai club service cittadini. Ulteriori incontri sono previsti nei prossimi giorni allo scopo di garantire il raggiungimento di altri piccoli traguardi. Roma: a Regina Coeli da padre Renato, in carcere un dono di Dio di Maria Amato (medico e parlamentare Pd) Il Centro, 19 gennaio 2014 Padre Renato Salvatore, il superiore generale dell’ordine dei Camilliani originario di Ripa Teatina arrestato il 5 novembre per concorso in sequestro di persona, è rinchiuso a Regina Coeli da 74 giorni, in attesa che venga accolta l’istanza di scarcerazione presentata una decina di giorni fa dai suoi legali, gli avvocati Massimiliano Domenico Parla e Annarita Colaiuda. Coinvolto nell’inchiesta romana che vede al centro il fiscalista dei Camilliani Paolo Oliverio, dai cui controlli stanno emergendo file e dossier su politici, 007, manager, militari e personaggi come Sabina Began, "l’Ape regina" di Silvio Berlusconi, padre Renato Salvatore aspetta anche di essere ascoltato dagli inquirenti. Dopo più di due mesi passati in silenzio infatti, e di fronte alla serie di scatole cinesi che l’inchiesta sta portando alla luce, ampliando di molto il raggio d’indagine degli investigatori, il religioso si è deciso a parlare. E nei giorni scorsi, dopo più di due mesi di silenzio, ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, di essere pronto a collaborare. Ma sono passati più di dieci giorni e padre Renato è ancora in attesa, in questo caso di essere convocato dal pm Giuseppe Cascini. La visita in un carcere anche se fatta con finalità ispettive, fruendo del privilegio che hanno i parlamentari, senza preavviso, di vedere, entrare nelle celle, girare nella struttura, sentire gli operatori, scambiare qualche parola con i detenuti in merito alla loro salute e la loro vita, è ogni volta una storia a sé. Di Regina Coeli colpisce immediatamente la struttura poderosa di palazzo storico, poi lo guardi dal Gianicolo e ti rendi conto che era un convento. Un carcere storico nel cuore di Roma vicino al Tevere, davanti all’ingresso due stolpersteines lucide, messe a dimora lunedì: inciampi di memoria per Jean Bourdet e Paskvala Blesevic, rastrellati, imprigionati e deportati, due dei tanti "diversi" ingoiati dalla storia dei campi di sterminio e tornati sul cammino dei nostri giorni grazie alle pietre di inciampo. L’atrio è grande, i corridoi sono grandi, gli spazi dove vivere no: è la strana contraddizione che accomuna le strutture che ho visto finora. Mi accompagna nella visita il comandante delle guardie di polizia penitenziaria. È del Salernitano, parla a voce bassa, lentamente, mi racconta del carcere, della sua storia. Gli spazi per il passeggio sono angusti anche da vuoti, accolgono 80 persone normalmente, una folla guardata dall’alto nella speranza che non succeda nulla, mi viene da dire "ma non è rischioso?" E il comandante con una franchezza disarmante mi risponde "quando va tutto bene diciamo: è passata un’altra giornata!" C’è tanto in questa frase: c’è il numero di detenuti che supera i mille in una struttura che ne dovrebbe accogliere 700, ci sono le 153 unità di polizia penitenziaria che mancano, c’è un lavoro di ore e ore a contatto con ogni forma di disagio sociale. Un lavoro complesso, a fianco agli educatori, in situazioni per cui non sempre si è adeguatamente formati e con un burnout altissimo. Parlando della polizia penitenziaria il comandante dice due cose interessanti: descrive la complessità di un lavoro difficile, nascosto, ignorato salvo per esaltare la negatività: la quotidianità non fa notizia; e poi gli stranieri, tanti, il 65%, albanesi, rumeni, magrebini, nordafricani, georgiani, ognuno con le sue specificità culturali. E torna sulla formazione, perché bisogna sapere comprendere ed è difficile andare oltre una lingua, una religione, abitudini e costumi diversi. Pochi spazi comuni e una grande capacità di riconvertire le funzioni di quelli a disposizione. Non c’è una palestra, non c’è un campo sportivo. C’è invece una biblioteca storica e uno spazio per l’attività teatrale. La cucina è grande, stanno sistemando i carrelli, quelli termici sono per gli ospiti del padiglione clinico. La cucina non è uno specchio, ma stanno lavorando: vapori, verdure tagliate, confezioni sigillate di mozzarelle, buona qualità e i detenuti per il cibo non si lamentano. Il problema vero è la mancanza di lavoro, come ci si rieduca a una vita normale senza lavoro? C’è una squadra di pittori all’opera, stanno ridipingendo le pareti di una piccola aula. Il livello di scolarità è medio basso, anche se qualche laureato ogni tanto capita, ma non è frequente: Regina Coeli è un carcere di transito, la permanenza media è di un anno e mezzo circa. Le celle sono affollate, in molte ci sono 6 persone, due serie di letti a castello, un tavolino, i servizi di due piani addirittura hanno la doccia. Un vero lusso, una doccia per 6 persone e in cella! Gli altri piani però rientrano nella normale struttura della maggior parte degli istituti: 4 docce per 50 persone, e nelle celle sevizi con un lavabo, il wc e un lava piedi; devo trovare qualcuno che mi spieghi perché il bidet non è mai compreso nell’arredo. Mi ero messa di impegno in questa visita a guardare la struttura, ma prepotentemente le persone hanno preso il loro spazio: uno nell’ala dei guardati a vista, lo tengono sotto gli occhi per timore di atti di autolesionismo. In una cella trovo un russo, un romano e un marocchino, parlano tutti romano. Non hanno da protestare. La picccola televisione è accesa in tutte le celle, anche dove non la guardano, rumore di sottofondo, come a casa, un segno di normalità. In un’altra in tre seduti a un tavolino, concentratissimi costruiscono un modellino di barca, per la verità uno fa il modellino e gli altri guardano, apparentemente tranquilli. Delinquenti così sereni? In massima parte sono dentro per piccoli reati, droga, truffe, piccoli furti, per il comandante è difficile dirmi le caratteristiche percentuali della popolazione carceraria: c’è una grossa variabilità perché li arrestano anche a gruppi di venti o trenta, in genere si arrestano a gruppi gli stranieri o per spaccio. Ci sono tossicodipendenti, circa il 15%, in carico al Sert che ha un servizio permanente in carcere. Poi incontro la persona che cercavo, padre Renato Salvatore, il superiore dei padri Camilliani in carcere da quasi tre mesi. È in cella con altri due. È in branda a leggere. Indossa un cardigan, camicia e pantaloni. Non lo conosco e non si aspettava di vedermi, occhi vivaci e un bel sorriso quando gli dico che sono abruzzese, della provincia di Chieti. È in buona salute, molto sereno, mi dice, ancora di più adesso che le sue questioni giudiziarie si stanno chiarendo, è ottimista, non entro nel merito della sua vicenda perché sta nelle regole: con i detenuti non si parla delle loro vicende giudiziarie particolari. Un uomo di fede e me lo sottolinea, dicendo che questa esperienza è stata un dono di dio, una bella esperienza illuminante. Tutta questa serenità non mi mette a mio agio, e come sempre penso con una punta di invidia che la fede è una grazia. Alla ricerca di una crepa in quel sorriso chiedo ai suoi compagni di cella: e voi invece come state? Mi rispondono che vorrebbero ringraziare il giudice perché la presenza di padre Renato è stata di sollievo per tutti. Una visita con minore inquietudine delle altre, in fondo solo 300 detenuti di più, in fondo solo una struttura inadeguata, in fondo solo 6 per cella e con tutto questo un prete sereno che ringrazia Dio della conoscenza del carcere. Mi dice che faccio bene ad usare questo privilegio da parlamentare, perché il dolore lo devi guardare da vicino e non devi avere paura. E il dolore è arrivato alla fine con tutta la sua potenza nell’ala storica, quella che ha ospitato Pertini, i dissidenti politici, i deportati delle Fosse Ardeatine, quelli partiti con i treni da Stazione Tiburtina verso la Germania. Una vetrata alta, antica, le porte pesanti, i ballatoi stretti, le ringhiere basse, le reti, le porte di legno con i chiavistelli, come allora. È qui che arriva il segnale piè forte: questo posto, oggi come ieri, è una prigione. Libri: "Cronache di un manicomio criminale", di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito L’Unità, 19 gennaio 2014 La testimonianza di Aldo Trivini detenuto per anni nell’Opg di Aversa. Un libro racconta la tragedia degli Ospedali psichiatrici giudiziari. La denuncia di un paziente portò ad accertare una realtà da lager fatta di abusi e vessazioni. Nel 1974 un internato, Aldo Trivini, denunciò con un memoriale redatto in prima persona gli abusi, le violenze, le morti che avvenivano tra le mura del manicomio criminale di Aversa. Questo documento, straordinario nella sua unicità, viene qui pubblicato integralmente per la prima volta. Da esso scaturì un processo che rese nota una terribile realtà. Tra passato e presente, a quarant’anni di distanza, due ricercatori ricostruiscono la vicenda di quelli che oggi sono chiamati Ospedali psichiatrici giudiziari. Il 6 dicembre 1974 un esposto denuncia viene depositato presso la Pretura di Aversa. Quarantotto fogli, dattiloscritti da mano inesperta, ma con parole nette e dure. "Il sottoscritto, Trivini Aldo, espone alla S.V. ill.ma quanto segue: nel periodo di oltre un anno in cui il sottoscritto è stato rinchiuso nel Manicomio Giudiziario di Aversa egli è stato sottoposto ad ogni genere di maltrattamenti e abusi da parte dei pubblici ufficiali addetti alla custodia. Ed analoghi abusi ha dovuto osservare commessi a danno di altri internati, dei quali molti hanno voluto rilasciare denunce scritte o registrate su nastro magnetico con il desiderio di ottenere la giusta punizione dei responsabili. Il sottoscritto, pertanto, allega al presente esposto (di cui fanno parte integrante) un memoriale, firmato in ogni pagina, che riporta fatti ed avvenimenti riferibili soprattutto al 1972 e 1973, di cui egli è stato personalmente vittima o testimone". Comincia così la storia che svelerà l’orrore quotidiano di quelli che allora si chiamavano manicomi giudiziari e oggi Ospedali psichiatrici giudiziari. Hanno cambiato acronimo ma non sede, i manicomi criminali, aperti ad Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Napoli. Oggi, come allora, vi finiscono internati sofferenti psichici autori di reato, condannati ad una misura di sicurezza detentiva che può essere prorogata senza limiti. La denuncia è una puntuale e diretta ricostruzione delle condizioni inumane cui erano costretti gli oltre mille internati di Aversa. Un inferno che comincia appena si varca l’ingresso. "Il detenuto, appena entra in matricola, viene posto davanti ad un brigadiere e una guardia; il brigadiere, finito di leggere la cartella personale del detenuto, rivolge a costui alcune domande di carattere psichiatrico, come ad esempio queste domande: Quanto è lungo un serpente dalla coda alla testa, se dalla testa alla coda è lungo 3 metri?", "Se tua sorella ti piace e la vedi nuda, cosa le fai?", poi secondo la risposta data dal detenuto vanno avanti "E a tua madre, e a quello, e a quella?", "Hai mai camminato con tre scarpe?", ecc., ecc. Se il detenuto risponde, con l’aria di essere preso in giro per queste zozze domande, è facile che si prenda anche qualche cazzotto in faccia o un calcio negli stinchi, mentre il più delle volte volano le schicchere sul naso, o sulle orecchie, tutto questo perché le guardie ti considerano come una bestia e ciò che essi fanno è lecito". Sistematica coercizione Un sistema diffuso di piccole violenze e sistematica coercizione. Nel letto di contenzione si finisce per la più insignificante delle ragioni. "Venne il brigadiere, mi disse "dove vuoi andare, in altro reparto?" "sì" e gli spiegai i fatti. Lui mi rispose: "tu più che al cimitero, non puoi andare" mi prese e mi legò di nuovo per 2 giorni in un’altra stanza. Lì mi fecero delle punture, trattato male e sempre umiliato, con la sete. Chiedevo acqua e non mi veniva data. Cibo pessimo e neanche bastava per tutti. Per fare i bisogni c’è un buco nel letto: devo fare tutto lì. Poi quando fai la cacca, dopo un’ora, due ore viene lo scopino con una scopa grande con due zeppi, con un secchio, ti scopre, allarghi le gambe e lui ti pulisce in mezzo. Ti raschia in mezzo alle gambe e ti fa uscire pure il sangue. La spazzola è fatta di zeppi e non è pulita perché pulisce altri detenuti: è sempre sporca di cacca". Al letto di contenzione, appurerà in seguito il processo nato da questa denuncia, è morto un ragazzo di soli 19 anni, stroncato da una polmonite. Tra tutte c’è una scena che meglio descrive le condizioni di "bestialità" cui sono costretti gli internati, rinchiusi come in uno zoo. "Chiesi a Chirico dove bisognava andare egli mi rispose "allo zoo". "Come allo zoo? (perché le guardie chiamavano il cortile esterno lo zoo)". Con Chirico mi avvicinai agli altri e (da) come le guardie ci spingevano, facendoci vedere il bastone, capii perché lo chiamavano lo zoo. Non mancava nulla alla scena: oltre alle bestie e ai domatori, c’erano pure i cani, rappresentati dagli scopini che, come cani ammaestrati, rincorrevano quei detenuti sparpagliati o che tardavano a mettersi in fila. Una volta dentro lo zoo, mi parve chiaro come il nome fosse indovinato. I detenuti, dentro, attaccati alla rete, rappresentavano gli animali, le guardie e i servi erano i guardiani. Sporchi, laceri, sozzi, con fagotti sulle spalle, giravano per il cortile, uno dopo l’altro, alcuni che erano più decenti sedevano sulle panchine, altri sdraiati per terra come cose morte. (...) quando sulla strada che fiancheggiava il cortile passavano i lavoranti o qualunque persona che vestisse abiti borghesi (...) come gli animali del giardino zoologico si avvicinavano per ricevere le noccioline dai visitatori, (i detenuti) si aggrappavano alla rete per ricevere qualche cicca: solo che i visitatori danno alle scimmie, alle giraffe, agli elefanti qualunque cosa, ma se capitava qualcuno che dava la cicca, la faceva volare oltre la rete e "gli animali", cercando di prenderla, si azzuffavano fra loro". Questo esposto, unico nel suo genere, e corredato da un video clandestino girato dallo stesso Trivini con una super8, contribuì a svelare la violenza istituzionale dei manicomi criminali, contro le cui mura si infranse anche la riforma Basaglia. Le perizie e le inchieste della procura confermarono le parole di Trivini. Gli esiti processuali furono molto blandi rispetto allo scenario di morti e abusi, ma si affermò una verità innegabile. Epilogo tragico il suicidio dell’allora direttore Domenico Ragozzino, incontrastato dominus del manicomio. Oggi, a distanza di quarant’anni, nell’anno in cui gli Opg dovrebbero finalmente chiudere (ma già se ne preannuncia un’ulteriore proroga), Cronache da un manicomio criminale prova a recuperare la memoria di vite rinchiuse, internate. "Vite - scriveva Michel Foucault - che sono come se non fossero mai esistite, che sopravvivono solo per il fatto di essersi scontrate con un potere determinato ad annientarle o cancellarle, vite che non ci vengono restituite se non per una serie di casi". Le denunce del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e della Commissione di inchiesta presieduta da Ignazio Marino dimostrano l’attualità di questa storia. I manicomi non possono essere altro che luoghi di violenza e sopraffazione. La storia insegna non solo la necessità di chiuderli, ma anche di superare ogni dispositivo di internamento psichiatrico e le forme di violenza che trasformano i medici in custodi e i sofferenti psichici in eterni prigionieri. Libri: "Poggioreale, oltre il muro di uno dei più antichi penitenziari", di Pino Rampolla recensione di Paolo De Luca La Repubblica, 19 gennaio 2014 Carcere di Poggioreale le luci e le ombre. Un muro come una cortina di ferro e sbarre. Che separa un mondo dall’altro. Fuori, la vita, la città, la libertà. Dentro, la detenzione e la reclusione, spesso durissima, per oltre duemila detenuti, tra celle sovraffollate e condizioni precarie. Nel periodo in cui si riaccende la questione delle condizioni disperate di molte carceri italiane (non ultima, la disperata richiesta di eutanasia, di Vincenzo Di Sarno, detenuto napoletano 35enne malato di cancro al midollo osseo), Pino Rampolla, fotoreporter salernitano da anni residente a Roma, dedica un intero volume a "Poggioreale, oltre il muro di uno dei più antichi penitenziari". Il libro, edito da "Co. art", rientra in un progetto più ampio, intitolato "Le mie prigioni", in cui si raccontano le case circondariali italiane, da Milano a Palermo, tra luci e ombre, redenzioni e sconfitte. Il testo, con prefazione del Presidente Napolitano, è stato presentato a Napoli, a via Diocleziano nella sede del teatro di Contrabbando. "Nella mia vita ho avuto la fortuna di raccontare molti luoghi - spiega Rampolla - il Sudafrica, l’Armenia, la guerra Iraq. Ma avere l’occasione di descrivere un penitenziario, le personalità di chi vi lavora, le speranze, le colpe e la quotidianità di chi vi soggiorna, credo sia una delle più grandi sfide per un fotografo". In questo volume su Poggioreale, risultato di tre giorni di cento scatti in bianco e nero nei vari padiglioni, la macchina fotografica passa in rassegna i luoghi, le antiche sale, gli sguardi disillusi ma mai spenti dei detenuti, le guardie carcerarie, i luoghi di ricreazione "Impossibile tacere sui drammi vissuti dalla struttura: sovraffollamento, disperazione, addirittura 49 suicidi solo lo scorso anno - prosegue Rampolla. Ma nel mio reportage ho voluto soffermarmi soprattutto sugli episodi di umanità che quotidianamente vi si ripetono ogni giorno, e sull’idea, che ancora resiste, del carcere come recupero, reinserimento". Parole che spesso cozzano con la realtà cupa delle celle "tra le più scure che abbia mai visitato". Ma non c’è solo il buio. Ecco quindi, accanto alle immagini di dura quotidianità, anche quelle dei corsi teatrali per detenuti, i lavoratori in falegnameria, i carpentieri, il piccolo laboratorio di ceramica, la scuola d’italiano per detenuti stranieri, la figura del cappellano don Franco Esposito che segue il cammino spirituale e di riscatto di molti ospiti della struttura. Il volume, che gode del patrocinio della Presidenza della Repubblica, oltre alla prefazione di Napolitano, include un testo del cardinale Crescenzio Sepe e di Teresa Abate, direttrice della struttura, nonché una breve storia dello stabile, curata da Susy Borzachiello. Libri: "Io, numero 1211", di Dagmar Šimková recensione di Simona Franzè www.milanotoday.it, 19 gennaio 2014 Giovedì 13 febbraio alle ore 19, presso la sala del Centro Ceco in Via Morgagni 20, il prof. Vitale dell’Università degli studi di Milano e la docente Tiziana Menotti dell’Università di Udine presenteranno il libro "Io ,numero 1211" di Dagmar Šimková, testimone e vittima delle brutalità e della follia umana ai tempi del regime comunista dell’Europa dell’Est: una storia cruda, ma anche ricca di poesia e speranza. Il libro - autobiografico - racconta l’agghiacciante vicenda di Dagmar, giovane infermiera cattolica che, in un pomeriggio autunnale, è prelevata dalla sua abitazione da sei uomini, portata a Praga e poi incarcerata. Trascorrerà in carcere 14 anni. Carcere preventivo a Budejovice in Boemia, dove la ciotola di cibo era introdotta nella cella dall’inserviente con la spinta del piede; carcere boemo di Pardubice, penitenziario di Písek, senza bagno; Železnovce; carcere praghese di Pakrác; Opava... Fame, freddo, maltrattamenti, insulti, celle di correzione, anche solo per essersi rifiutati di lavorare di domenica; filo spinato, isolamento, baracche buie e scalcinate, sconforto. I prigionieri sono privati della propria personalità, senza un attimo di riservatezza, sempre sull’orlo della pazzia. Quella di Dagmar è una storia intrisa di episodi d i cruda violenza, da cui emerge la sofferenza della protagonista e di quanti sono stati come lei imprigionati, in quanto ritenuti dal regime comunista dell’Europa dell’Est dissidenti politici o rivoluzionari. Una storia narrata con realismo ma anche con accenti di vera poesia, tanto da trasmettere emozioni e speranza. Scrive Alessandro Vitale nell’introduzione: "Se la testimonianza di Dagmar Šimková presenta una peculiarità di estrema importanza, è proprio la recisa negazione del carattere "umanitario" e "di giustizia sociale" di sistemi politici come quello nel quale si è trovata a vivere, che si sono ammantati per decenni di un umanitarismo infondato, ideologico e pretestuoso, negato alla radice, nella realtà della politica e fin dall’inizio, dal loro inscindibile legame (ed essendone l’espressione più compiuta e coerente) con lo statalismo integrale del Novecento. […] Il valore di questo libro sta proprio qui: mette il dito impietosamente e con impressionante crudezza, come non mai, in una piaga inguaribile, in una contraddizione insolubile, e formula un’accusa senza appello, quella del carattere anti-umano di quel regime". Radio: "Jailhouse rock. Suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni" di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014 Un poliziotto in borghese, convinto che Frank Zappa usasse il suo studio di registrazione per girare film porno, gli commissionò un video piccante. Era il 1965. Lui, povero in canna e attirato dai cento dollari promessi, improvvisò una registrazione audio, il massimo che riusciva a fare con i propri strumenti. Al momento della consegna, fu arrestato. "C’erano quarantacinque uomini nella cella", racconterà. "Il gabinetto e la doccia non erano mai stati puliti. La temperatura era di centodieci gradi, così non riuscivi a dormire né di notte né di giorno. C’erano scarafaggi nei fiocchi d’avena, guardie sadiche e tutto il meglio". Ozzy Osbourne nel febbraio del 1982 finì dietro le sbarre per aver fatto una pipì nel posto sbagliato. Quello non era un sasso qualsiasi bensì era parte dell’Alamo, il monumento simbolo della rivoluzione texana. Per espletare il suo bisogno si era dovuto alzare la sottana: era vestito da donna perché l’amata moglie gli aveva nascosto gli abiti al fine di impedirgli di uscire a comprare alcol. Johnny Cash in galera da detenuto ci è finito sette volte. E due volte ci è andato a tenere memorabili concerti, scaturiti nei due incredibili dischi live delle prigioni di Folsom e San Quentin. David Bowie, sorpreso nella sua lussuosa suite dell’Americana Hotel di Rochester il 21 marzo 1976 con 182 grammi di marijuana, dichiarerà elegantemente ai margini del processo che i quattro poliziotti "sono stati molto cortesi e gentili". Di più: "sono stati super", affermerà. Con lui c’era il ventottenne James Newell Osterberg jr., meglio noto come Iggy Pop. Due Beatles su quattro sono stati ammanettati dal detective Norman Clement Pilcher della squadra narcotici di Sua Maestà britannica. Oltre a quelli di George Harrison e John Lennon, l’inflessibile detective conta nella sua carriera gli arresti di Donovan, Brian Jones, Keith Richards, Eric Clapton, Mick Jagger. Non amava i ragazzi con i capelli lunghi che si drogavano, e così iniziò ad arrestare i miti del rock a uno a uno. Prima di finire anche lui al fresco per aver testimoniato il falso. E poi c’è Billy Holiday, addirittura morta in stato di arresto in un ospedale presidiato dalla polizia, i grandi bluesmen condannati senza troppe garanzie perché poveri e neri (si racconta che Leadbelly fu graziato due volte di seguito da due governatori diversi rapiti dalle sue musiche strazianti), Joan Baez in galera per la sua opposizione alla guerra del Vietnam, Victor Jara morto imprigionato nello stadio di Santiago a pochi giorni dal golpe di Pinochet, Roberto Murolo la cui carriera è stata stroncata da un’infamante quanto infondata accusa di pedofilia. E tante, tantissime altre storie. Non c’è mestiere più rischioso di quello del musicista. Queste storie raccontano lo spaccato di mezzo secolo da un punto di vista inconsueto, quello dell’utilizzo dello strumento penale nei confronti dell’ambiente più trasgressivo del nostro mondo. È quel che facciamo nella trasmissione radiofonica "Jailhouse rock. Suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni". Raccontiamo storie e ascoltiamo musica. E da queste storie e da questa musica prendiamo spunto per raccontare delle galere nostrane, quelle italiane ormai allo sfascio. Ma non vogliamo farlo da soli. Sono anni ormai che abbiamo dato la parola anche a loro, ai detenuti che queste galere vivono in prima persona. Nostro inviato specialissimo è poi da anni Carmelo Cantone, un tempo direttore di Rebibbia e oggi provveditore alle carceri toscane, ogni settimana in collegamento diretto. All’interno di "Jailhouse rock", va in onda il Grc, il Giornale Radio dal Carcere, interamente curato da due redazioni di detenuti che lavorano dentro Roma Rebibbia e dentro Milano Bollate. Da Bollate ci arriva anche una preziosa collaborazione musicale. I bravissimi musicisti del gruppo Freedom Sounds mandano in onda dentro "Jailhouse rock" le loro cover degli artisti trattati in trasmissione. Due settimane fa Patty Pravo ha ascoltato in diretta la loro interpretazione di E dimmi che non vuoi morire ed è rimasta impressionata. Il carcere è un pezzo di società e piaccia o non piaccia ha diritto di parola. La reclusione, come tutte le fonti di diritto internazionale spiegano, deve consistere solamente nella limitazione della libertà di movimento. Il resto è una pena aggiuntiva che una società democratica non può permettersi di infliggere. Vivere ammassati, stare al freddo, non avere cure, mangiare da schifo: tutto questo non c’entra niente con la pena del carcere. Così come non c’entra niente il mettere a tacere. "Jailhouse rock", con il suo Giornale Radio dal Carcere, dà voce a chi è recluso. E in questi anni di trasmissioni settimanali, vista la qualità del Grc dei detenuti di Rebibbia e di Bollate, ha dimostrato che ne valeva davvero la pena. India: la storia di Angelo Falcone, tre anni in carcere e poi riconosciuto innocente di Francesca Pisolante Il Tempo, 19 gennaio 2014 "Sono stato per tre anni in un carcere nel distretto del Mandi, nel Nord dell’India. Sono stato torturato. I poliziotti mi hanno picchiato, bastonato e flagellato con le canne di bambù. Mi hanno rotto i menischi e spezzato i polsi. Sono rimasto per settimane livido a terra, senza che nessuno si preoccupasse di me. Ho contratto l’epatite virale, ho avuto i pidocchi e le zecche. Ho sofferto la fame e il freddo. Ho dormito e mangiato per terra. Mi hanno lavato come si usa fare con le bestie: in un cortile insieme agli altri, anche d’inverno, quando le temperature sfiorano lo zero. Ho bevuto acqua sporca, perché avevo sete. Ho lottato per avere del cibo. In quel carcere mi sono sentito solo, abbandonato e dimenticato. Ho perso la dignità". Questo è il lager in cui ha vissuto e che oggi ci racconta Angelo Falcone, che insieme all’amico Simone Nobili, è stato ingiustamente accusato e spedito, dal 2007 al 2010, in una cella putrida piena di insetti e letame. Tre anni che nessuno mai potrà restituire. "Danni fisici e psicologici permanenti - dice l’avvocato della famiglia Falcone, Claudio De Filippi. Angelo è giovane, ha 34 anni, ma è come se ne avesse cinquanta. Soffre di artrosi, ha subito diversi interventi chirurgici per recuperare la funzionalità del polso. Angelo e Simone sono uomini che oggi hanno perso tutto: fidanzata, lavoro e soprattutto la dignità. Non possiamo permettere che altri due connazionali finiscano in questi posti, difficile definire prigioni per umani, bensì per bestie. Lo Stato Italiano faccia leva sul precedente Nobili-Falcone, su quello che hanno subito nelle prigioni, per impedire che i marò Latorre e Girone marciscano in India". Degli anni trascorsi in India Angelo ricorda "le interminabili torture. Mi hanno bastonato per una notte incuranti delle mie suppliche. Ho pianto tanto, anche con mio padre quando mi chiedeva come stessi o com’era la cella. Uno stanzone pieno di pidocchi e zecche con centinaia di altri detenuti". Falcone e Nobili sono stati prelevati nel cuore della notte dalla stanza del B&B dove soggiornavano. "La polizia ha chiesto di vedere i passaporti per un controllo, poi invece ci ha detto che per riaverli dovevamo pagare 10 mila euro, mi sono opposto perché non era giusto. Ci hanno trasportati in una caserma dove, dopo numerose percosse, ci hanno obbligato a firmare un documento in lingua hindi. Non capivo cosa ci fosse scritto - dice Angelo - poi, in seguito, quando è stato tradotto in inglese era una confessione per aver commesso dei reati". Falcone ha venduto tutto ciò che gli era rimasto. Il mese prossimo lascerà l’Italia per cercare lavoro in Belgio. Da quattro anni la famiglia Falcone attende che la Corte Internazionale di Giustizia si esprima sul ricorso che cita per danni l’Italia e in particolare l’India, per aver violato i diritti umani contenuti nella convenzione internazionale e per aver eseguito delle torture sul corpo di Angelo. Francia: sei mesi di terrore e isolamento, ecco le prigioni di Ablyazov di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2014 Mukhtar Ablyazov è un uomo allo stremo fisico e nervoso. Comunque lo si voglia considerare, se un dissidente coraggioso che ha sfidato l’autocrate Nazarbaev, il padre-padrone del Kazakhstan, oppure un furbo oligarca che ha saputo approfittare della caduta del comunismo e poi è scappato con la cassa, Mukhtar è pur sempre un uomo rincorso dal regime kazako da troppi anni e che dal 31 luglio scorso è rinchiuso in una cella francese. Quasi sei mesi d’isolamento stroncherebbero i nervi a chiunque. Figurarsi uno che si vede minacciato di estradizione verso la Russia, a un passo dalle grinfie dell’arcinemico. E da quelle parti non si scherza. la cella del carcere di Aix-en-Provence va raccontata. Troppo pericoloso lasciarlo nell’area dei detenuti comuni dove si circola molto liberamente, per raggiungere Mukhtar Ablyazov si attraversano dieci cancelli diversi fino all’area più estrema del carcere. Là dove sono rinchiusi i condannati più pericolosi. E siccome Aix-en-Provence dista pochi chilometri da Marsiglia, qui s’incontrano i campioni della mala marsigliese. "Sono scene degne di un film tutte le volte che vado a trovarlo", racconta Peter Sahlas, l’avvocato che tutela la famiglia. Per motivi di sicurezza, quando va a visitare il suo assistito, Sahlas deve arrivare fino alla cella, incrociando carcerati dall’aria cupa, carichi di tatuaggi, in pantaloncini e canottiera, che urlano e danno manate alle grate. Per i detenuti di questa sezione di massima sicurezza, non ci sono telefoni o computer. Nessun contatto con l’esterno. Solo la televisione, ma in francese, e lui non conosce la lingua. Per l’ora d’aria, poi, c’è un cortile in terra battuta, circondato da alte mura e ricoperto da una rete metallica. L’orizzonte non si vede mai. Mukhtar s’impegna molto nella ginnastica. Ma si lamenta del vitto. "Mi danno due volte al giorno un pranzo che nell’insieme non vale un vassoio d’aereo". E per chi è passato dalle ville di Londra a quelle di Roma, e in ultimo della Provenza, lo choc dev’essere forte. Per diversi mesi gli avevano negato perfino di vedere i figli. "Troppo impressionante il carcere per un bambino", la giustificazione del pubblico ministero. Eppure era pieno di figli di detenuti nel parlatorio. E quando i suoi hanno minacciato di rivolgersi per l’ennesima volta alla stampa, il permesso di visita è stato concesso. Chiuso in cella, intanto, Ablyazov passa le ore leggendo, aspettando notizie (gli avvocati hanno appena fatto ricorso in Cassazione contro l’estradizione decisa dal giudice di primo grado) e masticando amaro. L’avvocato osserva: "Se non mi fossi ribellato alla corruzione di Nazarbaev, sarebbe un uomo libero e miliardario. Sul serio". Inutile dire che Mukhtar nega assolutamente di avere rubato i famosi 6 miliardi di dollari come l’accusano in Kazakhstan. Di sicuro, però, povero non era. È una partita a scacchi, quella di Mukhtar, che lo vede scivolare sempre più verso lo sconfitta. Tutte le volte che ha avuto a che fare con la giustizia in Occidente, gli è andata malissimo. E anche se i suoi avvocati non si permettono di dirlo, pensano fortemente che i tentacoli del Kazakhstan siano lunghi e robusti. In Gran Bretagna, dove aveva ottenuto l’asilo politico, nel 2011 l’hanno condannato a 22 mesi di carcere per oltraggio alla corte. "È stata una condanna pesantissima per un reato come l’oltraggio alla corte", dice Sahlas. "Mukthar si chiede se c’entra il fatto che il giudice che ha congelato i suoi beni fosse il fratello dell’ex premier Tony Blair, il quale oggi lavora da lobbista per il governo del Kazakhstan". Come sono andate le cose in Italia, è arcinoto: moglie e figlia sono state espulse in base a un procedimento amministrativo nel giro di 72 ore, poi annullato dal nostro governo. Nel frattempo, grazie anche all’impegno di Emma Bonino, la signora Shalabayeva è tornata in Occidente e Mukhtar l’ha potuta incontrare già una volta. "Adesso sono molto più tranquillo", disse quando seppe del rientro in Italia. "Stavo male al pensiero che per la mia battaglia dovessero pagare Alma e mia figlia Alua". Si dice "costernato", oggi, per come è andato il suo processo anche in Francia. Intanto per le forme: nel giorno dell’udienza, il giudice della corte di appello di Aix-en-Provence ha fatto leggere con calcolata lentezza, cinque volte durante la giornata, il capo di imputazione, poi ha messo una fretta indiavolata all’accusato che cercava di spiegare le sue ragioni tramite l’interprete. E poi c’è la sostanza: negando che ci siano problemi di diritti umani nelle carceri e nella giustizia russa, la sentenza di estradizione ricalca la posizione della procura generale che l’accusava di essersi "costruito uno status di vittima". E ciò l’offende: "Io sono una vittima".